Vedi anche; http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/i-marxismi-in-italia-roberto-finelli.html
“È
preferibile ‘pensare’ senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e
occasionale […] o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo
consapevolmente e criticamente? […] Si è conformisti di un qualche conformismo,
si è sempre uomini-massa […] Criticare la propria concezione del mondo
significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto in cui
è giunto il pensiero mondiale più progredito pensare coerentemente e in modo
unitario”
A. Gramsci, Quaderni del
carcere
1. Una rivoluzione
passiva.
Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali
italiani hanno abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il
fenomeno non è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga
storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel congedo
significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di una comunanza di
idee, di linguaggio, di confronti e di scontri. “Nell’arco di quattro o cinque
anni, fra il 1976 e il 1981, sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli
di pensiero, criteri di valutazione morale e psicologica, forme della
sensibilità. E con le ‘cose’ cambiarono le ‘parole’. A sottolineare il
carattere radicale di questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di
tutto un ceto sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più
tardi la metafora della mutazione antropologica e genetica”1 .
Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato
profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata insieme ad
altri fattori, quella rivoluzione passiva che i ceti popolari e i gruppi
sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante l’ultimo quarantennio, e continuano
tuttora dolorosamente e drammaticamente a subire. Perché a me sembra che quanto
sia venuto accadendo negli ultimi decenni, sul piano storico-sociale, nel mondo
occidentale, e particolarmente in Italia, sia definibile appunto come una rivoluzione
passiva nel senso più rigorosamente gramsciano di questa espressione, quale
rivoluzione-restaurazione: cioè quale realizzazione reazionaria e regressiva di
un programma di rivoluzione etico-politica originariamente avanzato dai ceti
subalterni2 .
Infatti non rientra, nel canone, appunto, di una rivoluzione
passiva l’assunzione e la trasformazione/svuotamento dei valori più positivi ed
innovativi del ’68 nella realtà di un’«autorealizzazione amministrata»3 , ossia
di un’affermazione e di una valorizzazione del Sé ricondotte a funzione della
tecnologia e delle macchine dell’informazione di cui s’è avvalsa l’ultima
rivoluzione industriale?
Quello che di più significativo la generazione del ’68 aveva
fatto avanzare sulla scena della storia contemporanea, al di là dei mille
infantilismi ed estremismi, era stara - almeno a mio avviso - la denuncia dei
limiti di un’antropologia comunista troppo univocamente consegnata ai soli
valori dell’eguaglianza e della solidarietà. La celebrazione e la diffusione
della critica antiautoritaria significava infatti la messa in campo, accanto ed
oltre il tema tradizionale dell’eguaglianza, del diritto d’ognuno, di accedere,
coll’esposizione al minor grado possibile di repressione, alla realizzazione
del più proprio e personale progetto di vita. Ma ciò che, poi, è venuta
storicamente a mancare, a partire dal ’68 e per tutto il decennio degli anni
’70, è stata la mediazione e la fecondazione reciproca del vecchio paradigma di
una socializzazione attraverso eguaglianza con il nuovo paradigma possibile di
un’individuazione antiautoritaria. La cultura del comunismo della prima metà
del Novecento, per diverse ragioni, non s’è incontrata con la cultura del
desiderio e del riconoscimento del Sé della seconda metà del Novecento. Ma
appunto tale fallimento storico è stato il principio della rivoluzione passiva
che n’è conseguita e del processo paradossale per il quale, a muovere dagli
anni ’80 e da quella dilagazione dell’americanismo che in Italia ha coinciso
con il craxismo-berlusconismo, gli ideali dell’individuazione emancipatrice e
rivoluzionaria, sono divenuti, assunti e tradotti nel linguaggio delle classi
dominanti, i valori della gestione imprenditoriale e
quantitativo-concorrenziale del proprio Sé. Esito paradossale che connota
strutturalmente una rivoluzione passiva e a cui, nella vicenda italiana, si
aggiunge l’ulteriore paradosso storico di essere stato proprio il gruppo
dirigente della tradizione comunista dell’eguaglianza a trasformarsi nel ceto
politico, che entrato in concorrenza con il craxismo-berlusconismo, ha
programmato e curato con maggior cura il transito alla pratica e alla cultura
dell’amministrazione americano-calcolante del proprio Sé.
Dunque quello che s’ha veramente da comprendere è l’assenza
d’incontro, a muovere dal ’68 e durante gli anni ’70, tra il marxismo della
tradizione e le filosofie della liberazione individualizzante. Nella necessità
d’intendere perché quegli anni che si sono voluti interpretare come egemonici
della cultura della sinistra, tanto da essere suffragati in tal senso dai
successi elettorali del maggior partito comunista d’Occidente, siano stati
invece segnati e deformati da una radicale insufficienza, da un deficit teorico
che ha impedito che si generasse una reale egemonia: tale da cedere poi la
scena necessariamente e da rovesciarsi in una rivoluzione passiva. Perché come
ha insegnato Gramsci, nel suo riflettere su egemonie e ideologie, non da
supposto pensatore democratico come taluni ancora vorrebbero, ma da sistematico
e persistente intellettuale rivoluzionario, una ideologia che aspira ad
esercitare egemonia deve essere “totalitaria”: cioè deve proporre una visione e un’interpretazione del mondo capaci di un
elevato grado di universalizzazione e di coerenza. Di universalizzazione, in
quanto l’ideologia egemonica deve implicare e riflettere dentro di sé la
totalità della struttura economica con la sua logica contraddittoria. Di
coerenza e di unitarietà in quanto l’ideologia che tende all’egemonia deve
esser capace della “elaborazione unitaria di una coscienza collettiva
omogenea”, cioè in grado di superare, nel gruppo sociale in questione, la
compresenza di forme disparate ed eteroclite di rappresentazione e di sapere,
che testimoniano della presenza colonizzante e subordinante, in quella medesima
coscienza sociale, di visioni del mondo estranee e proprie di altre classi
sociali.
Ed è proprio da qui, dal paradigma gramsciano dell’ideologia
e dalla possibile mancanza di soddisfacimento del suo criterio totalitaristico
di realizzazione, che è necessario partire, per spiegare il perché ’68 e anni
’70 hanno rappresentato un’occasione mancata di egemonia e di rivoluzione
sociale. Con l’obbligo d’iniziare a tal fine con un rapido quanto
indispensabile resumé della storia teorica e filosofica del marxismo italiano
che precede il ’68 e che può essere sintetizzata, a mio avviso, sia nella
versione del marxismo storicistico che nella versione del marxismo scientista,
attraverso la formula sintetica di un marxismo senza Capitale. Perché tali sono
stati, a mio avviso, sia il marxismo gramscianotogliattiano da un lato che il
marxismo dellavolpiano-collettiano dall’altro: entrambi espressioni, proprio
perchè senza Capitale - ovviamente secondo rilevanza storica e piani di gioco
profondamente diversi – di una strutturale insufficienza quanto a un reale
progetto di egemonia sociale e culturale.
2. Marxismi senza
“Capitale”.
Il marxismo di
Antonio Gramsci, per quello che s’è appena detto, è stato attraversato da una
potentissima passione per la totalità, che non ha esitato a coniugarsi come una
pratica, che io definirei psicoanalitica, di formazione di una soggettività
collettiva. La prassi per eccellenza della filosofia della prassi di Gramsci,
della sua teoria della storia, com’è noto, non è infatti quella della
produzione economica, secondo la lezione dei classici del marxismo, bensì
quella etico-politica di conduzione all’egemonia di una soggettività
collettiva4 . La storia, prima che succedersi di modi di produzione, è per
Gramsci alternarsi di egemonie e di soggettività collettive. E funzione
fondamentale del darsi di un’egemonia è la produzione di una coscienza
ideologica omogenea e “totalitaria”5 che possa diffondersi come un nuovo
conformismo in tutto il complesso sociale. In tal senso l’ideologia deve essere
formazione di coscienza adeguata e distruzione di falsa coscienza: deve cioè
elaborare l’inconscio del proprio gruppo sociale, quale deposito di
colonizzazione simbolica derivato dalle classi dominanti, trasformandolo da
inconscio a coscienza autonoma e critica. E deve avere la funzione
gnoseologico-conoscitiva e insieme etico-politica, di tradurre la necessità
naturalistica e passiva della vita economica e del sistema dei bisogni
materiali sotto la quale gli individui vengono atomisticamente sussunti, nella
coscienza attiva e collettiva di una progettualità storico-sociale. Per Gramsci
non esistono concezioni individuali del mondo. Si è sempre partecipi di
coscienze collettive. Ma la questione è appunto quello del modo in cui una
coscienza individuale vive e partecipa ad una coscienza collettiva. O in modo
frammentato e autocontraddittorio6, dove spesso c’è scissione tra la coscienza
implicita nell’operare e la coscienza verbale, o, al contrario, attraverso una
consapevolezza unitaria ed omogenea? Fare questione di egemonia implica dunque
che, contrastando l’acquisizione e l’assimilazione ideologica dall’esterno, ciò
che venga messo a tema è l’esistenza di un inconscio ideologico e le pratiche
della sua elaborazione.
Il limite di Gramsci, a fronte di tale profondissima
innovazione dei concetti di prassi e di ideologia, è consistito, a mio avviso
in una simmetrica e speculare sottovalutazione della capacità della struttura
di costruire di per sé storia e società, in una troppo rapida riduzione
gentiliana dell’economico a mera sfera del fatto di contro alla dimensione
propriamente ideologico-politica dell’atto. Perché anche quando nelle pagine
audacissime di Americanismo e fordismo il pensatore comunista raggiungeva il
massimo della penetrazione conoscitiva del presente, riuscendo a vedere
l’economico capitalistico come capace di generare da sé medesimo anche il
simbolico e il culturale, la mancanza di una lettura del capitale come funzione
più produttiva di valore astratto che non fattore di sviluppo di forze
produttive e di valori d’uso l’obbligava a leggere la classe lavoratrice
fordista, anche qui gentilianamente, come capace di automatizzare e di rendere
mero corpo i meccanismi della fabbrica fordista e di liberare così la propria mente7
. Ed è appunto questo deficit strutturale riguardo ad una teoria critica del
processo di lavoro capitalistico in quanto contemporaneamente processo di
valorizzazione della ricchezza astratta nonché di produzione delle forme della
coscienza collettiva, questa mancanza di una sociologia critica del processo
lavorativo – insomma un’appartenenza a un marxismo iscritto ancora nel mito
positivistico del progresso come sviluppo delle forze produttive – che il
gramscismo consegna al togliattismo. Di qui, si potrebbe aggiungere en passant,
la genesi teorica, per contrapposizione e per riempimento di quel vuoto
teorico, del marxismo dei Quaderni Rossi, volti, soprattutto con R. Panzieri, a
ricostituire appunto una sociologia critica dei processi di lavoro adeguati
all’industrializzazione e alle innovazioni produttive del nostro paese.
Ma s’iscrive nella cornice teorica di un marxismo senza
Capitale anche quel cosidetto marxismo della scienza, di G. della Volpe e, tra
gli altri, L.Colletti, che s’è contrapposto per tutti gli anni ’50 e ’60 al
cosidetto marxismo della storia, e la cui considerazione non può essere evitata
per una comprensione adeguata delle ideologie degli anni ’70. Marxismo senza
Capitale anche qui, s’è detto, perché, a ben vedere, anche tale marxismo che ha
preteso di opporre la concretezza dei fatti empirici e di un procedimento
scientifico, purificato da ogni contraddizione, alle astruserie della
tradizione dialettica, si è occupato assai poco del Capitale e della
modernizzazione capitalistica. Ossessionato dallo scopo di espungere la
dialettica dalla dignità del pensare, la sostanza di quel marxismo si è infatti
risolta nella necessità costante di ricondurre il Marx del Capitale ai
manoscritti del giovane Marx e al loro sedicente superamento critico della
filosofia di Hegel. Gli studiosi dellavolpiani e L. Colletti in primis -
inadeguati a comprendere quanto la vicenda del primo materialismo marxiano
nascondessero implicazioni di comunitarismo essenzialistico e spiritualistico,
e quanto l’intera vicenda dello Junghegelianismus si attestasse un livello
teorico assai meno elevato della capacità hegeliana di porre problemi e
soluzioni - hanno voluto leggere le strutture e le legalità del capitale alla
luce di una categoria ancora pesantemente antropocentrica come quella di lavoro
alienato, senza riuscire anch’essi di mettere a tema un’analisi dei processi di
astrazione capitalistica sottratta a presupposti antropomorfi e capaci di
essere all’altezza dell’astrazione impersonale di ricchezza che si pone oggi al
centro dell’accumulazione contemporanea. Salvo accorgersi solo alla fine che
l’intero discorso di Marx si collocava, non all’interno di un orizzonte
scientifico-empiristico bensì di totalizzazione dialettica: con la conseguenza,
a quel punto, di dichiarare il pensiero di Marx e l’intero marxismo al di fuori
di ogni possibile pretesa di legittimità scientifica e di verità. Senza alcuna
possibilità d’intendere come la dialettica marxiana del Capitale, costruita sul
dualismo ontologico di astratto e concreto, sia, sί prossima nell’analogia, ma
lontanissima nella sostanza da una dialettica come quella hegeliana costruita
invece sulle categorie arcaiche della metafisica come Essere e Nulla.
Ma ciò che qui preme maggiormente sottolineare non è tanto
lo scarso controllo concettuale di quella apostasia che ebbe comunque l’effetto
di espellere definitivamente il marxismo dall’ambito della tradizione e dei
progetti di studio accademico-universitari. Quanto il fatto che per buona parte
dei quadri intellettuali dell’estrema sinistra, critici del togliattismo
gramsciano del PCI e già destinati ad essere i futuri quadri del ’68, il
dellavolpismo e sempre più il pensiero di L. Colletti abbia costituito
l’interpretazione del marxismo, la disamina teoretica, più originale, da
accogliere e da valorizzare, in senso
radicale-rivoluzionario, di contro all’accettazione di fondo del modo
capitalistico di produrre e di consumare.
In tal modo l’influenza culturale più significativa, nel
senso negativo, che ha avuto la scuola dellavolpiana e L. Colletti in
particolare è stata quella di scindere buona parte dell’intellettualità più
attiva e impegnata nei movimenti di contestazione del ’68 e degli anni ’70 da
una consuetudine di studio e di riflessione sulle tematizzazioni dialettiche
della totalità e delle sue mediazioni - specificamente sul nesso
dialettica-totalità nel verso hegelo-marxiano - e in tal modo di consegnare
quella generazione, sul piano della filosofia e di una generale visione del
mondo, verso altre ispirazioni e verso altre scuole. Si potrebbe dire, per
semplificare, un’operazione di cultura antidialettica che, certo
inconsapevolmente e senza intenzione, concorreva in modo determinante a
spostare la sensibilità filosofica dall’area di cultura tedesca all’area di
cultura francese.
Non perché i marxismi degli anni ’70 non abbiano guardato e
tratto alimento, com’è ben noto, anche dagli autori della Scuola di
Francoforte, soprattutto per il rilievo che trovavano alla tematiche
dell’antiautoritarismo: basti pensare in tal senso alla diffusione di un
pensatore come il Marcuse di Eros e civiltà. Ma anche qui, va aggiunto,
frequentando pensatori che certo non avevano rinunziato a pensare secondo
l’orizzonte della totalità e della dialettica, ma tra i quali pure stentava a
darsi, per non dire che di fondo era assente, la definizione precisa e rigorosa
di un vettore di totalizzazione e integrazione che valesse ad esplicare
organicamente la complessità della vita sociale all’altezza dei termini
richiesti dalla contemporaneità capitalistica. Giacchè i vari autori francofortesi
hanno messo a tema la dialettica della merce e 10 del denaro, i rovesciamenti
del feticismo, la totalizzazione pubblicitaria e mass-mediatica, il dominio di
una società pervasiva e totalmente amministrata fin nelle scelte e nelle
psicologie individuali. Ma sono rimasti nel loro complesso, a mio avviso,
sempre limitati alla rappresentazione di una società più monetaria e mercantile
che non propriamente capitalistica, rinunciando anche loro per tal verso ad
un’analisi del variare delle composizioni organiche e delle trasformazioni
tecnologiche che ne derivano, ossia ogni volta a quello studio, propriamente
marxiano, delle innovazioni di quel rapporto inscindibile costituito dal nesso
sistematico macchina-forza-lavoro, che potesse valere come principio direttivo
e primario di un’analisi sociale estensibile dal piano delle strutture a quello
delle sovrastrutture.
3.Dalla “dialettica”
tedesca alla “differenza” francese.
E’ stata dunque l’estenuazione progressiva del marxismo
teorico, sia di tradizione storicistica che di tradizione scientisticoempirica,
– a muovere dal suo originario vulnus di non pensare il Capitale come soggetto
sistemico della modernità e di non porre, di conseguenza, all’ordine del giorno
la totalizzazione dell’essere sociale che il capitalismo, anche in Italia,
veniva gradualmente realizzando - a dissodare il campo perché la cultura
dell’emancipazione radicale degli anni ’70 si volgesse dall’area d’ispirazione
tedesca a quella d’ispirazione francese. La conseguenza fu che il marxismo filosofico,
abbandonati sia i paradigmi storicistici che quelli dell’empirismo scientifico
dell’alienazione, non potesse che cedere all’accoglimento dell’althusserismo: a
un teorizzare cioè che, senza mezze misure, dislocava il pensiero di Marx dalla cornice
dialettica nella quale era nato, e nella quale anche se polemicamente s’era
sempre trattenuto, ad una cornice concettuale profondamente diversavera e
propria μετάβασις εις άλλο γένος – quale quella costituita dallo strutturalismo
(con condimento lacaniano), quale visione del mondo istituita non più sulla
filosofia ma sulla linguistica. Con la conseguenza primaria, per quel che ci
riguarda, che lo strutturalismo althusseriano segnava, malgrado le
dichiarazioni in contrario, una radicale e definitiva rinuncia alla prospettiva
della totalità quale chiave di volta di ogni prospettiva di ontologia ed
epistemologia storica.
Se totalità nella prospettiva del marxismo di frequentazione
dialettica aveva significato la possibilità di pensare la molteplicità dei piani
del reale nel loro rimando strutturale ad un dominante vettore di sintesi e di
unificazione, se cioè la migliore tradizione dialettica aveva significato poter
pensare la differenza e il divenire senza rinunziare al valore irrinunciabile
dell’identità e della permanenza, in Althusser la teoria della molteplicità
delle pratiche, ciascuna con uno statuto proprio, apriva a una dissoluzione di
qualsivoglia configurazione sociale unitaria, cui la categoria della
“surdeterminazione”, presa in prestito dalla psicoanalisi, non bastava a
garantire un grado sufficiente di sintesi e sistematicità. Trasportata di sana
pianta dai giochi dell’inconscio freudiano, per i quali un sintomo o un sogno
rimanderebbero a più catene ideative e causali, nell’ambito del gioco sociale
la categoria della surdeterminazione rimandava infatti in Althusser solo a una
genericissima teoria della correlazione dei diversi ambiti, al ritrovar cioè in
ciascuno degli spazi del reale l’effetto della causalità dei molti altri:
insomma all’annacquamento delle problematiche dialettiche dell’uno e dei molti,
del nesso dei distinti e degli opposti, della connessione e dissimulazione di
essenza ed apparenza, in una
generalizzata e semplificata teoria della compresenza e della reciprocità.
Del resto non a caso tale strutturale insensibilità del
pensiero di Althusser verso il valore della sintesi, e di ogni vertice teorico
prominente e determinante, si riproponeva quando aveva da riflettere sulla
natura e la funzione della soggettività individuale. Perché anche qui il
soggetto, con il meccanismo dello specchio preso a prestito da J. Lacan, veniva
teorizzato come impossibilità strutturale di ogni riconoscimento autonomo ed
identitario, in quanto in effetti solo relazione all’altro ed esteriorità a se
stesso: ossia dipendenza dall’Altro che lo riconosce solo in quanto lo pervade
e lo assoggetta con la sua legge e il suo dispositivo simbolico. Cosicché gli
Apparati Ideologici di Stato, che tanta prossimità si è detto mostrassero con
il funzionamento dell’ideologia in Gramsci, rimandano in effetti a una funzione
antropologica e sociale profondamente diversa da quella assegnata dal comunista
sardo alle sovrastrutture ideologiche. Perché mentre in questi l’ideologico,
nel verso positivo, è ciò che sottrae una classe o un gruppo sociale
all’ideologico in senso negativo, ossia all’identificazione-introiezione con
l’altro da sé costituito da un’altra classe o gruppo sociale, in una conquista
terapeutica e progressiva del proprio, in Althusser mi sembra che non sia
affatto questione di “proprio”. Giacché nel pensatore francese interviene
l’Altro in quanto tale, nella sua assolutezza di funzione antropogenetica, a
dar vita all’essere umano in quanto tale. Per cui non è questione di
colonizzazione di classe ma di genesi alla vita sociale in quanto tale. Ed è a
muovere da tale scelta iniziale a favore del composito strutturalistico e del
multiversum che Althusser ha poi concluso coerentemente il percorso del suo
pensare con l’esaltazione del cosidetto “materialismo aleatorio”.
L’althusserismo, coniugando l’ispirazione di fondo di tutto
lo strutturalismo, radicalizza dunque in Italia il convincimento di coloro che
ormai pensano che la dialettica sia sinonimo solo di mediazione e sintesi: sia
insomma solo strumento di conservazione e di legittimazione dell’esistente, sia
sul piano filosofico che su quello politico. Cosicché l’althusserismo, con una
lettura incredibilmente miope e semplificatrice della filosofia di Hegel,
diventa la testa di ponte dell’accoglimento di un pensiero francese della
differenza, o come si dirà più tardi della “differance”, nel quale ogni
concezione di fondamenti primi della realtà, come di una possibile tassonomia
gerarchica dei suoi diversi ambiti, viene criticata e data per superata.
4. Dal Desiderio come
legge a sé stesso al sapere-potere.
In tale prospettiva sono G. Deleuze e M. Foucault ad essere
accolti come i più seduttivi protagonisti di una rivoluzione del desiderio che
possa affermarsi contro la norma repressiva di ogni principio di realtà e di
ogni sistema istituzionale. Perché se Nietzsche era stato l’eroe eponimo del
differenzialismo moderno - avendo posto a principio della sua decostruzione dei
valori dell’Occidente la valorizzazione estremistica del corpo, come unica
fonte del senso, quale luogo di confronto e di pólemos, costantemente nuovo, di
pulsioni e desideri – Deleuze, raccogliendone l’eredità, insieme a quella del
creazionismo vitale di Bergson, si faceva massimo protagonista di una cultura
rizomatica che vedeva nelle strutture e nelle legalità della permanenza il
massimo del disvalore e della inautenticità. Né a caso accadeva che la vittima
più celebre di tale estenuazione della differenza fosse proprio, con
l’Antiedipo di Deleuze e Guattari, la psicoanalisi di Freud. Perché anch’essa
criticata e denunciata come affetta dall’esigenza della “mediazione”: della
mediazione cioè tra ordine degli affetti e ordine simbolico, come della
mediazione tra pulsione e linguaggio; della mediazione tra i tre ordini del
rappresentare, emozionale, di cosa e di parola, tra lo spazio intrapsichico e
intrasoggettivo e quello sociale e intersoggettivo. Laddove appunto la pretesa
deleuziana che il desiderio fosse, di per sé, legge a se stesso e fattore
totale di senso denunciava l’intera impresa freudiana di essere, sia come
teoria che come clinica, parte di un generale impianto repressivo e
conformista. Aprendo in tal modo la strada a quella svalutazione della
psicoanalisi freudiana, o meglio a quel passaggio di vertice teorico da Vienna
a Parigi, che non poco ha contribuito poi a fare di quel dandy8 surrealista
della psicoanalisi e impareggiabile e geniale sofista, che è stato Jacques
Lacan, l’unico supposto teorico in grado di coniugare psicoanalisi e
innovazione teorica, inconscio e apparati sociali e simbolici.
Con Michael Foucault, alla valorizzazione deleuziana del
moltiplicarsi vitale dei rizomi di contro ad ogni autoritarismo unitario, si è
assommata la messa in scena di una microfisica del potere che, attraverso uno
studio originale e inedito di universi disciplinari mai sufficientemente
considerati, ha ulteriormente radicalizzato un paradigma dissolutorio di ogni
cornice di sintesi e di logica sistemica. Nel solco della svolta linguistica
che ha connotato larga parte del pensiero del ‘900 e nell’orizzonte
immediatamente futuro di un postmoderno pronto a risolvere ogni livello
dell’Essere nel linguaggio, Foucault ha rifiutato infatti ogni referente
extralinguistico dei logoi, teorizzando che i discorsi né partono dalle
intenzioni di esseri umani né rimandano a piani del significato altri dal segno
linguistico: perché i logoi sono invece pratiche autosufficienti che producono
esse medesime i propri oggetti e i propri significati, senza far ricorso ad
alcuna causalità esterna, presuntivamente mossa o da un supposto soggetto
umano, mai realmente esistito, o da presunti fattori economici e
storicosociali, assunti come fonte primarie. Perché muovendo dal principio che,
come scrive in Le parole e le cose, “solamente entro il vuoto dell’uomo
scomparso” si possa oggi realmente pensare che “chi parla non è propriamente
l’uomo, ma è la parola stessa”, Foucault assolutizzava l’unico paradigma della
relazione oppositiva, secondo la quale ogni pratica discorsiva, ogni forma del
sapere, è attraversata e costituita da rapporti di potere, di affermazione del
vero contro il falso, del superiore contro l’inferiore, di forze dominanti le
contrarie. Concludendo che sapere e potere sono intrinsecamente connessi e che
le relazioni di forza che generano il sapere-potere sono distribuite
localmente, secondo una microfisica che non è mai riducibile ad una logica
unitaria9 .
5. Tecnica
heideggeriana e tecnologia marxiana.
E’ dunque il pensiero francese, da Althusser a Foucault, a
spostare il vertice del pensare dalla dialettica alla differenza, sottraendo
centralità al concetto marxiano di prassi e moltiplicandone il senso in una
congerie di pratiche eterogenee. Ed è in tale radicalizzarsi di una
concettualizzazione antidialettica che si svolge l’ultimo episodio del marxismo
italiano teorico-politico che qui vogliamo considerare, qual’è il
traghettamento di buona parte dell’intellettualità italiana di massa alla
metafisica della differenza ontologica di Martin Heidegger, compiuta dagli
enfantes terribles dell’operaismo italiano.
A me sembra che l’ispirazione dell’operaismo italiano, fin
dalla prima versione di M.Tronti e A. Negri, sia sempre stata assai più
prossima alla filosofia dell’atto e della primazia del soggetto sull’oggetto di
Giovanni Gentile che non alla dialettica hegelomarxiana della totalizzazione e
del nesso essenza-apparenza. Tanto da concepire la modernità capitalistica come
inaugurata e scandita, di volta in volta, dall’iniziativa della soggettività
operaia, cui il capitale avrebbe fatto sempre seguito, adattandovisi e
rispondendo con le diverse fasi di razionalizzazione tecnologica e
burocraticopolitica: in una anticipazione di prassi sovversiva e rivoluzionaria
che esprimerebbe il primato strutturale della composizione politica di classe
sulla composizione organica del capitale. Ora quello che qui preme più
sottolineare, riguardo al nostro tema, è che da tale esaltazione ed
estremizzazione fichtiana dell’Io sul Non-Io, lontana dalla lezione hegeliana
della ragione dialettica come mediazione di opposti, da tale irrazionalismo
volto a valorizzare in modo univoco un estremo contro l’altro, da tale retorica
e assolutizzazione della negazione, era quasi obbligato che derivasse, in un
proposito più o meno inconscio di abbandonare qualsiasi dialogo con il marxismo
delle tradizioni, una glorificazione del pensiero maledetto e negativo: cioè di
quei pensatori, primi fra tutti Heidegger, che il Lukács ortodosso e in obbligo
di obbedienza al materialismo di Stato, il Lukács della Distruzione della
ragione aveva condannato, come pensatori dell’oscurantismo e dell’irrazionale.
Così molti degli intellettuali aderenti ai movimenti della radicalizzazione
sociale, tra cui all’avanguardia quelli del versante operaista, non hanno avuto
troppe perplessità nel lasciare un Marx, forse mai troppo profondamente
frequentato, per assumere il pensatore della Foresta Nera come massimo
interprete della modernità e come nuovo vertice teorico a cui fedelmente
ispirarsi per interpretare e trasformare autenticamente la realtà. Qui non è
certamente il luogo per aprire un discorso su Heidegger e sull’arcaismo del suo
filosofare legato alla riproposizione di una categoria vieta e superata come
quella di «Essere»: per altro, va detto, genialmente riutilizzata dal pensatore
di Messkirch per una critica radicale quanto irresoluta della modernità. E’
solo da sottolineare che con il traghettamento da Marx ad Heidegger ciò che s’è
venuto perdendo è stata sopratutto la serietà e la complessità della lezione
marxiana sulla tecnologia e sul processo capitalistico di produzione a favore
di una leggendaria e mitologica teoria della tecnica, che il filosofo
dell’Essere, del tutto estraneo ad una teoria del Capitale, ha avuto l’abilità
di dedurre dall’estremizzazione etimologica dei suoi filosofemi. Giacchè
proprio in questo transito dal paradigma marxiano della critica dell’economia
politica al paradigma heideggeriano della critica della tecnica s’è consumato,
io credo, il passaggio decisivo dell’intellighenzia radicale degli anni ’70 ad
una discontinuità, non più componibile, con l’orizzonte del marxismo
novecentesco. In Marx la tecnologia non è riducibile a tecnica, nel significato
di un complesso di strumenti e dispositivi a disposizione dell’essere umano,
perché l’Altro del processo produttivo è il processo di valorizzazione del
Capitale, con l’obbligo da parte della ricchezza astratta in accumulazione di
esercitare comando e dominio sulla forza-lavoro in un sistema macchina-forza
lavoro che produce lavoro astratto10. Ed è appunto quel nesso, di volta in
volta tecnologicamente diverso, tra macchina e forza lavoro ad articolare con
le sue esigenze specifiche le diverse età della società moderna.
Laddove in Heidegger l’Altro che alberga nella tecnica, e
che non la consente di ridurla a una definizione antropologica e strumentale, è
l’Essere, quale principio ontologico che si sottrae ad ogni identità, e che si
manifesta, di epoca in epoca, secondo i modi diversi del disvelamento,
dell’alétheia. Per cui l’essere umano sarebbe governato nella storia, di volta
in volta, non dalle configurazioni dei rapporti di classe, ma dalle diverse
modalità e destini del disvelamento, dalle diverse epoche della storia
dell’Essere. Riguardo alla disvelatezza, entro cui l’Essere di volta in volta
si mostra sottraendosi, l’uomo infatti non ha alcun potere. Così la tecnica
moderna non “è un operare puramente umano”, perché la sua caratteristica è
quella di un “disvelare impiegante”, che risponde alla modalità specifica del
disvelamento come provocazione: cioè come un continuo pretendere dalla natura
che essa, come fondo, fornisca energia da accumulare e da impiegare. E la
tecnica moderna come Gestell, come “im-posizione”, è la risposta attraverso la
quale l’essere umano risponde alla provocazione di mettere allo scoperto le
energie della natura. “Ge-stell, imposizione, indica la riunione (das
Versammelnde) di quel ri-chiedere (Stellen) che richiede, cioè pro-voca, l’uomo
a disvelare il reale, nel modo dell’impiego, come «fondo»”11.
La differenza dei due paradigmi, quello marxiano e quello
heideggeriano, non potrebbe essere stata più radicale, con la ben diversa identità
assegnata nelle due diverse visioni al Grande Altro che governa e comanda
l’umano – la categoria metafisica dell’Essere nel pensatore della Foresta Nera
e il Capitale con la sua accumulazione nella concettualizzazione del Moro - ed
è stato, a mio avviso, appunto lo slittamento dal paradigma della critica
marxiana della tecnologia capitalistica al paradigma heideggeriano sulla
tecnica come invio destinale dell’Essere a valere come porta girevole, come
commutatore teorico di maggior effetto nel produrre l’abbandono definitivo
della visione di Marx del moderno come società del Capitale strutturata su
relazioni di classi e vederla invece come conseguenza ultima di un abissale
oblio dell’Essere che avrebbe investito l’umanità europea a partire dalla
Grecia classica di Socrate e Platone.
Ma era anche una nuova teorizzazione della totalità che ora
subentrava nella mente dell’intellettualità radicale tra la fine degli anni ’70
e gli inizi degli anni ’80 con la sovrapposizione e sostituzione della tecnica
di Martin Heidegger alla critica della tecnologia capitalistica di Karl Marx.
Era infatti l’adozione di un nuovo vertice teorico alla luce del quale
ridisegnare una nuova metafisica, una nuova e integrale concezione della
realtà: con l’esito paradossale di aprire l’accesso alle nuove ideologie del
postmoderno attraverso la riproposizione anacronistica di una categoria vieta
ed arcaica come quella di Essere, pure riletta modernamente non come principio
ontologico ab-solutus ed autosufficiente, al mo’ dell’antico, ma come Essere
(Sein) che, nel suo sottrarsi mentre si disvela, è sempre in relazione e
bisognevole dell’Esserci (Dasein) 12. Una totalizzazione del reale, quella
proposta da Heidegger, dunque definitivamente lontana dalle categorie e dalle
opposizioni della dialettica, e fondata invece sulla differenza: sulla
differenza abissale ed ontologica tra Essere ed Esserci, e sulla fondazione
sfondata, perché senza fondamento dell’Essere, il cui sottrarsi ad ogni
definizione identificante, consegna il reale al pensiero debole, a proporsi
cioè come un mondo di epifanie e segni da interpretare, in un’ermeneutica
semiologica infinita, attraverso segni.
La metafisica heideggeriana della tecnica appare così
configurare l’atto finale dell’autoestenuazione dei marxismi durante gli anni
’70. A partire dalla tecnica come Gestell infatti non si potrà più comprendere
adeguatamente la nuova era tecnologica del capitalismo fondata sulla macchina
informatica nel suo nesso con il lavoro mentale, né il passaggio epocale dalla
tipologia rigida e fordista dell’accumulazione all’accumulazione flessibile e
globalizzata. Ma in particolare non si potrà per nulla mettere a tema e
comprendere la dialettica di essenza ed apparenza che costituirà il cuore di
questa nuova fase del capitalismo per la quale la subordinazione del lavoro
mentale alla macchina dell’informazione, con la riduzione delle prestazioni
lavorative a competenze solo linguistico-combinatorie, apparirà alla superficie
della vita sociale come esaltazione, invece, e valorizzazione di una presunta
autonomia e creatività di un’umanità intellettiva e comunicativa, ormai
affrancata dalla servitù del lavoro manuale e capace, per tale affrancamento,
di essere imprenditrice flessibile di se medesima.
Per concludere, io vorrei dire che al totalitarismo della
vita sociale promossa e unificata dal capitalismo globalizzato dei nostri
giorni può opporsi solo un’ideologia parimenti “totalitaria”, nel senso
gramsciano di cui si diceva all’inizio. Aver disatteso quell’imperativo è stata
la mancanza più grave delle generazioni, pure generose e radicali, degli anni
’70 e in particolare dei loro maîtres à penser . Ma la lezione della storia non
concede mai remissioni o perdoni.
Così, se è vero che alla fine degli anni ottanta gli
intellettuali italiani hanno preso definitivamente congedo dal marxismo, la
mutazione genetica che ne è seguita è andata assai più verso un’antropologia
dell’anaffettività culturale e del vuoto esistenziale che non verso una
rinnovata stagione delle passioni e delle idee. Ma appunto la rivoluzione passiva
di cui quegli intellettuali sono stati, prima per pulsione suicidaria e poi per
ilare e trasformistica compensazione, paradossalmente e insieme oggetto e
soggetto, attende - ormai per impotenza estrema di fronte alla forza
dell’Universale Economico che da ogni luogo ci pervade - di produrre, io credo,
una nuova frequentazione degli universali dell’emancipazione, e, con essi, di
tornare a frequentare una rinnovata ideologia totalitaria.
Note.
1 D. Ferreri, L’ideologia
italiana, in «La ragione possibile», anno 1, n. 1, maggio 1990, p. 11.
2 Cfr. P. Voza, «Rivoluzione passiva», in Dizionario gramsciano. 1926-1937, a cura
di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009, pp. 724-728.
3 Cfr. A. Honneth, Autorealizzazione
organizzata. Paradossi dell’individuazione, trad. it. di V. Santoro, in
«post filosofie», anno 1, n. 1, 2005, pp. 27-44.
4 Mi permetto di rinviare ai miei due saggi, Antonio Labriola e Antonio Gramsci:
variazioni sul tema della «prassi», in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia e nella
cultura della nuova Italia, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 329-341; Antonio
Gramsci, La rifondazione di un marxismo
«senza corpo», in P.P. Poggio (a cura di), L’ALTRONOVECENTO. Comunismo eretico e pensiero critico, Jaca Book,
Milano 2010, vol. 1, pp. 321-334.
5 “[…] solo un sistema di ideologie totalitario riflette
razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle
condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo
sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le
premesse per questo rovesciamento, cioè che il ‘razionale’ è reale attuosamente
e attualmente” (A. Gramsci, Quaderni del
carcere, ediz, critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2007, Quad.
8, p. 1051).
6 “È preferibile ‘pensare’ senza averne consapevolezza
critica, in modo disgregato e occasionale […] o è preferibile elaborare la
propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente? […] Si è
conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa […] Criticare
la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e
innalzarla fino al punto in cui è giunto il pensiero mondiale più progredito
pensare coerentemente e in modo unitario” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., Quad. 11, pp. 1375-1376).
7 A proposito della meccanizzazione fordista Gramsci può scrivere:
“Quando il processo di adattamento è avvenuto si verifica in realtà che il
cervello dell’operaio, invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di
completa libertà” (A. Gramsci, Quaderni
del carcere, op. cit., Quad. 22, p. 2170).
8 Cfr. S. Benvenuto, A. Leucci, Lacan, oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 28.
9 Per un’adeguata esposizione del pensiero di M. Foucault si
rinvia a M. Bertani, Lavoro del pensiero
ed esperienza della libertà. Ipotesi su Foucault, in P. P. Poggio, L’ALTRONOVECENTO, op. cit., vol. II, pp.
589- 611.
10 Anche qui mi permetto di rinviare al mio Un parricidio
compiuto, Il confronto finale di Marx con
Hegel, Jaca Book, Milano 2014, pp. 173-200. Sulla distinzione, concettuale
e storico-filologica, tra tecnica e tecnologia, è imprescindibile non tener
conto della riflessione che ormai da molti anni svolge su questa tematica G.
Frison. Della sua ampia
produzione qui basti citare: Linnaeus,
Beckmann, Marx and the foundation of Technology. Between natural and social
sciences: a hypothesis of an ideal type. First Part: Linnaeus and Beckmann, Cameralism, Oeconomia and Technologie, in
History and Technology, 1993, vol. 10, pp. 139-160 - Second and Third Parts, Beckmann, Marx, Technology and Classical
Economics, in «History and Technology», 1993, vol. 10, pp. 161-173. Ma
si guardi dello stesso autore anche Technical
and technological innovation in Marx, in «History and Technology», 1988,
vol. 6, pp. 299-324.
11 M. Heidegger, La
questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo,
Mursia, Milano 1991, p. 15.
12 Un’ottima esposizione di questo nesso nel pensiero di
Heidegger, particolarmente dopo la Kehre,
si trova in M. Ruggenini, L’essenza della
tecnica e il nichilismo, in F. Volpi (a cura), Heidegger, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 225-264.
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