**Isabelle Garo è una filosofa marxista, ha pubblicato L’idéologie ou la pensée embarquée(La fabrique, 2009), Foucault, Deleuze, Althusser. La politique dans la philosophie (Demopolis, 2011) e L’or des
images. Art – Monnaie – Capital (La ville brûle, 2013).
Quest’ultimo postula, proprio in ragione
dell’internazionalizzazione del capitale, che sarebbero state risolte le
questioni strategiche dell’articolazione degli spazi – locali, nazionali e
internazionali – nella definizione di un progetto di rottura anticapitalista, e
dell’appartenenza nazionale del proletariato. È a quest’ultimo problema, in
particolare, che tenta di rispondere Isabelle Garo nel
testo seguente, discutendo il concetto di popolo in Marx e le sue prese di
posizione riguardo ai movimenti di liberazione nazionale.
La questione del popolo in Marx è complessa, a
dispetto delle tesi troppo nette che spesso gli vengono attribuite in
proposito. A una prima lettura, in effetti, si è portati a pensare che Marx
costruisca la categoria politica di proletariato proprio in contrapposizione a
quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante,
la quale, inoltre, occulterebbe i conflitti di classe. In tal senso, la nozione
di popolo sarebbe chimerica, foriera di pericolose illusioni laddove
politicamente strumentalizzata.
Tuttavia, se Marx diffida di qualsiasi concezione organica
di popolo, riprende comunque il termine in svariate occasioni e, in
particolare, quando si occupa delle lotte nazionali del suo tempo, in specie se
mirano a conquistare l’indipendenza dalle potenze colonizzatrici. E vi ricorre
ugualmente se si tratta di definire le specificità nazionali, caratterizzanti i
rapporti di forza sociali e politici costantemente singolari, i quali, a suo
modo di vedere, vanno sempre analizzati in un tale quadro nazionale.
Infine, la
parola popolo designa un certo tipo di alleanza di classe in un contesto di
conflitti sociali e politici di grande ampiezza.
In queste tre occorrenze, Marx non separa mai il termine
«popolo» dalle divergenze sociali, quali che siano, al contrario. Va tenuto a
mente come egli lo erediti direttamente dalla Rivoluzione francese e dalle
opere politiche che le fanno da cornice, da Rousseau sino a Babeuf e
Buonarrotti: secondo questa tradizione, il concetto di popolo indica i gruppi
sociali opposti all’aristocrazia, niente a che fare, dunque, col
sostantivo indifferenziato valorizzato dagli usi posteriori.
Affronterò questi tre diversi usi marxiani del
termine, confrontandoli alla questione del proletariato elaborata da Marx
contemporaneamente. Elaborazione nel corso della quale Marx si interessa, in
modo specifico, alle lotte di emancipazione e alla colonizzazione, per quanto
riguarda India e Cina, impegnandosi attivamente nel sostegno all’Irlanda e alla
Polonia.
I. Popolo e proletariato, concetti antagonisti?
Non bisogna dimenticare che la nozione di proletariato ha
origini lontane nel tempo. inizialmente essa non indica il popolo, ma una sua
frazione, caratterizzata dalla condizione sociale. Condizione definibile
secondo due modalità distinte: sia come deprivazione e povertà; sia come
situazione di sfruttamento e dominazione, qualora ci si concentri su un modo di
produzione, e quindi una funzione sociale attiva, e non esclusivamente su uno
statuto economico subalterno. Schematicamente, è corretto affermare che in Marx
tale concetto transita, irreversibilmente, dal primo al secondo significato.
Riprendiamo, brevemente, il corso di questa storia: nel
diritto romano i proletari, dal latino «proles», «lignaggio», costituiscono
l’ultima classe dei cittadini, sprovvisti di qualsiasi proprietà e considerati
utili solo per la loro discendenza. A questo titolo essi sono esentati dal
pagamento delle imposte. Recuperato dal francese medio, il termine sperimenta
un rinnovato interesse nel XIX secolo, allorché si sviluppa la critica sociale,
politica economica del nascente mondo industriale.
In tale contesto, il sostantivo «proletariato» appare nel
1832 a indicare l’insieme dei lavoratori poveri, la cui miseria viene percepita
come risultato dell’egoismo delle classi dirigenti. È la tesi difesa da colui
che lo utilizza per primo, Antoine Vidal, nel primo giornale operaio Francese,
L’écho d la fabrique (1). È in riferimento diretto alla rivolta dei canut
[operai tessitori della seta, n.t.d.] lionesi del 1831 che egli inventa il
termine nel 1832. A detta di Vidal, «la classe proletaria» è al contempo la più
utile alla società e la più disprezzata. Colpisce anche il fatto che egli
rivendichi come essa sia «qualcosa», rifacendosi, in tal modo, alle parole e
alla tematica di Sieyès in Che cos’è il Terzo stato? (1789),
ridefinendo, allo stesso tempo, i confini sociali di una classe popolare che
non coincide più con in contorni giuridici del terzo stato dell’antico regime.
In un secondo tempo viene trasposto in tedesco, nel 1842,
dall’economista Lorenz von Stein, studioso delle correnti socialiste, in
particolare quelle francesi, pur essendo ostile al comunismo. In seguito viene
ripreso dal giovane hegeliano Moses Hess, all’epoca vicino a Engels e Marx,
tutti e tre comunisti dichiarati. Lo si ritrova nel 1843, negli scritti di
Marx, nei quali acquisisce un senso nuovo e un’importanza teorica centrale. Una
ridefinizione, quella marxiana, che si articola in tre tappe.
1 / Dapprima il termine compare alla fine del 1843, in
conclusione della critica apportata dal giovane Marx alla filosofia hegeliana
del diritto. Nell’introduzione da lui redatta per il manoscritto di Kreuznach,
nel quale viene affrontata la critica della concezione hegeliana dello stato,
viene designato il soggetto sociale protagonista dell’emancipazione generale
della società civile moderna. Il proletariato, in quanto classe che «subisce
l’ingiustizia di per sé», non può che «conquistare nuovamente se stessa
soltanto riconquistando completamente l’uomo» (2).
2 / Ne L’ideologia tedesca (1845) e in
seguito nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx e
Engels affermano il ruolo di motore della storia giocato dalle lotte di classe
e definiscono l’antagonismo moderno che contrappone il proletariato e la
borghesia. Si precisa in tal modo un’analisi nella quale si era inizialmente
impegnato Engels nel suo studio La situazione della classe operaia in
Inghilterra. Il proletariato si distingue per il posto occupato in un modo di
produzione e nei rapporti sociali corrispondenti. Esso costituisce, allo stesso
tempo, la classe che produce la ricchezza senza possedere i mezzi di
produzione, e quella chiamata, proprio in ragione di questo fatto, alla
trasformazione radicale del capitalismo.
3 / Infine, nel Capitale e nel vasto insieme dei manoscritti
preparatori, la scoperta del plusvalore e della sua origine: la frazione di
tempo di lavoro non pagata della quale si appropria il capitalista, consente a
Marx di precisare tale nozione e di esporne la dimensione dialettica.
Il proletariato in senso marxiano è una nozione che si vuole
socialmente descrittiva ma allo stesso tempo presenta una dimensione
politica e filosofica costitutive. Vorrei insistere sopratutto sul primo
momento di tale costruzione.
In effetti, nell’introduzione a Per la critica della
filosofia del di ritto di Hegel, scritta a partire dalla fine del 1843,
Marx sviluppa la tesi concernente il ruolo storico del proletariato moderno, e
più specificamente del proletariato tedesco. Ora, lungi dal proporre la
sostituzione del proletariato al popolo, vi si mettono in relazione dialettica
i due concetti. Da una parte, Marx distingue due storie nazionali e due scenari
di emancipazione: «Noi infatti abbiamo condiviso le restaurazioni dei popoli
moderni senza condividerne le rivoluzioni. Abbiamo subito la restaurazione, in
primo luogo perché altri popoli osarono una rivoluzione, e poi perché altri
popoli subirono una controrivoluzione» (3).
Qui le nozioni di popolo e di rivoluzione (o di
controrivoluzione) si richiamano l’un l’altra. Esistono delle culture politiche
popolari, e tali politiche conducono a porsi a favore o contro la rivoluzione,
quest’ultima avente come modello la «grande» rivoluzione antifeudale francese.
In rapporto a questa prospettiva, la quale coniuga popolo e rivoluzione, Marx
utilizza il concetto di proletariato collegandolo a un nuovo tipo di
rivoluzione, più avanzata, che può essere qualificata come anticapitalista o
comunista, e che radicalizza quella precedente. Ne deriva, da una parte, che le
lotte tedesche, per quanto arretrate, presentano comunque una portata
universale, allo stesso titolo della Rivoluzione francese a suo tempo.
Successivamente si ritroverà, ben più sviluppata, l’idea per
cui le lotte di emancipazione di un popolo sono importanti per la sorte di
tutti gli altri. Da tale punto di vista, la solidarietà con i popoli oppressi è
molto più della filantropia. Detto in altri termini, essa non è solo di natura
morale, bensì di ordine fondamentalmente politico: «E anche per i popoli
moderni questa lotta contro la meschinità dello status quo tedesco non può
essere priva d’interesse; lo status quo tedesco costituisce infatti l’aperto
compimento dell’ancien régime, e l’ancien régime è la tara occulta dello stato
moderno» (4).
Così la nozione di popolo conserva la propria validità, a
dispetto dei suoi limiti, a causa del persistere dell’ancien régime, ivi
compreso nelle nazioni che hanno realizzato la loro rivoluzione antifeudale.
Ossia, questa rivoluzione parziale e incompiuta si fa matrice di rivoluzioni
ben più radicali, nello stesso modo in cui i popoli si determinano come classi
popolari, esse stesse, più o meno radicali, essendo il proletariato il nome di
una tale radicalizzazione, allo stesso tempo sociale e politica.
È a questo punto che ci si imbatte in una definizione del
proletariato estremamente originale: frazione del popolo, lo rappresenta nella
sua interezza così come, tendenzialmente, l’umanità stessa, a causa della
condizione che subisce e delle esigenze politiche e sociali delle quali è portatrice.
Si è, dunque, ben lontani dal proporre una secessione sociale, che isolerebbe
il proletariato dalle altre componenti, facendone un’avanguardia sociale e
politica; viceversa, è come rappresentante universale, rappresentante di fatto
della sofferenza, dello sfruttamento e della volontà di emancipazione, che il
proletariato si distingue in quanto classe offensiva capace di organizzarsi
politicamente.
Tuttavia, è necessario precisare che esattamente in virtù di
questa dimensione universale la rivoluzione a venire non è, e non sarà, una
semplice rivoluzione politica. «Dov’è dunque la possibilità positiva
dell’emancipazione tedesca?» è l’interrogativo posto da Marx. Interrogativo al
quale così risponde: «nella formazione di una classe con catene radicali, una
classe della società civile che non sia una classe della società civile, una
classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua
sofferenza universale, possieda un carattere universale (…) che non possa più
appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano (…), una sfera, infine,
che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere
della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la
perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa
soltanto riconquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della
società, in quanto classe particolare, è il proletariato» (5).
Marx non cambierà idea riguardo al carattere umano, vale a
dire universalmente umanizzante, dell’emancipazione sociale. Ciononostante,
dopo essere entrato in quello che definisce il «laboratorio della produzione»,
ossia dopo essersi impegnato nella critica dell’economia politica, svilupperà
una concezione più complessa e meno ottimista del proletariato come classe
offensiva, lasciando sempre maggior spazio alle contraddizione che lo dividono.
La concorrenza operaia è inscritta nei rapporti di produzione capitalisti e
sistematicamente strumentalizzata dalla borghesia, in particolare dalla sua
componente industriale. Ma Marx insisterà ugualmente sull’emergere, nel quadro
della nascente grande industria, del lavoratore combinato complessivo,
portatore di una cultura e di facoltà umane sviluppate, lontano da ogni
miserabilismo e da qualsiasi «vittimizzazione». Infine, lascerà posto alla
complessità del processo politico che dovrebbe condurre all’abolizione
dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, e dunque al
comunismo.
Ad ogni modo, la concezione del rapporto tra proletariato e
popolo si rivela sin dall’inizio contraddittoria, o più esattamente:
eminentemente dialettica, il che è assai differente. Poiché Marx, che si occupi
di politica o economia, non cessa mai di essere filosofo. Qui la singolarità è
il luogo nel quale emerge l’universale, e non il luogo della formazione di
un’identità separata e chiusa in se stessa. Lo stesso vale per le nazionalità:
suddivisione dell’umanità in entità politiche mai completamente isolate, le
nazioni sono in alcuni casi, e in determinati momenti, espressione di una
storia emancipatrice che le rende universali.
II. Popoli in lotta e liberazione nazionale
Così, parallelamente alla specificazione sociale e politica
delle classi nel quadro del modo di produzione capitalista, la nozione di popolo
continua essere utilizzata da Marx per pensare delle realtà nazionali diverse,
irriducibili, nelle quali si specificano singolarmente i rapporti di classe.
Anche su tale punto, spesso viene imputata a Marx una sottovalutazione profonda
della questione delle nazionalità e delle differenze nazionali, in previsione
di un proletariato mondializzato, costituito di operai che «non hanno patria»,
come proclama il Manifesto del partito comunista (6) nel 1848,
alla vigilia della «primavera dei popoli», nel momento in cui si risvegliano le
coscienze nazionali. Ancora una volta, l’analisi marxiana è ben più complessa
di quanto si pensi abitualmente.
Da un lato, Marx e Engels, riconoscono questa dimensione
nazionale, costitutiva della costruzione di distinti movimenti operai, funzione
di un grado di sviluppo economico e sociale determinato, così come di un
livello di cultura politica determinata: «sebbene non sia tale per il
contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per
la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve
naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia» (7)
Qui l’idea di nazione tende a rimpiazzare quella anteriore
di popolo, definita in base al suo antagonismo con l’aristocrazia. La nazione è
il quadro di un rapporto sociale che coinvolge tutte le classi, che siano
dominanti o dominate. Ma l’analisi prosegue anche su un altro livello: da una
parte si sofferma sulla capacità uniformante del mercato mondiale, la quale
entra in contraddizione, dall’altra parte, col mantenimento, e il
rafforzamento, delle specificità nazionali. In tal modo, Marx e Engels, per un
certo tempo, continuano a pensare che la rivoluzione tedesca, prima antifeudale
e poi borghese, «non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione
proletaria» (8). Uno scenario, quest’ultimo, che verrà profondamente modificato
in seguito, e ripetutamente.
Se la dimensione nazionale viene presa infatti in
considerazione, Marx e Engels affermano, contemporaneamente, la forza di espansione
mondiale del capitalismo, forza ritenuta, inizialmente, omogeneizzante, tesi
corretta da Marx in seguito. Si potrebbe supporre che in un testo pensato quale
manifesto politico, Marx e Engels, si impegnino a far valere una prospettiva
che in seguito verrà qualificata come «internazionalista», della stessa
ampiezza del mercato mondiale in via di formazione, ma latrice di tutt’altra
prospettiva. Di fatto, il testo che segue alla celebre affermazione «Gli operai
non hanno patria» aggiunge: «Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima
il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è
anch’esso nazionale, benché non certo nel senso della borghesia» (9).
Evidentemente si potrebbe chiosare : in alcun modo nel senso inteso in seguito
dai nazionalismi sciovinisti.
Marx e Engels così proseguono: «L’isolamento e gli
antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo
della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con
l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa
rispondenti. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più». E
poche righe dopo leggiamo: «Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi
nell’interno della nazione scompare l’ostilità fra le nazioni stesse» (10).
Internazionali, sebbene anticipatamente, le lotte dei proletari nazionali hanno
la nazione come quadro ma non come obiettivo.
Il proletariato rappresenta qui, seppur temporaneamente, la
figura del popolo, o più esattamente: la sua riconfigurazione sociale e politica?
Sì e no. No riguardo all’argomentazione da me chiarite, si invece, nel quadro
delle lotte nazionali miranti all’emancipazione. In questo caso, un
parallelismo emerge tra la lotta del proletariato, in un contesto nazionale
quale che esso sia, e quella di alcuni popoli, ai quali l’oppressione subita
conferisce un ruolo storico di primo piano, e ancora una volta, una portata
universale.
La parola «popolo» vede allora coincidere i suoi due
significati, fusi in un’inedita definizione. Il popolo è un’entità politica
delimitata nazionalmente, ma allo stesso tempo è quell’entità sociale in lotta
con e contro altri sul piano internazionale: possiamo affermare che la valenza
descrittiva o analitica del termine recupera di nuovo la propria dimensione
politica, aperta alla radicalizzazione. Se la nozione di «popolo» non diviene
occasione di una teorizzazione separata, essa non scompare dal dizionario
marxiano poiché è la sola a consentire di comprendere i movimenti di
indipendenza nazionale in quanto lotte anch’esse universali, e ciò anche al di
là della loro componente proletaria. È il caso, beninteso, dei contadini in
lotta contro una potenza coloniale.
Questa ripresa apre a una riflessione nuova e assolutamente
essenziale circa le prospettive di rivoluzione comunista. Infatti, da questo
momento in poi, Marx si orienta verso scenari che sfuggono a qualsiasi
linearità, i quali non fanno della costituzione di un proletariato nazionale la
condizione sine qua non dell’emancipazione. Altrimenti detto,
diviene possibile la possibilità di pensare l’approdo al comunismo senza
passare necessariamente per la via capitalista. E la nozione di popolo
appare di nuovo come la più adeguata al fine di pensare tali processi
differenziati.
In effetti, Marx inizia a abbandonare, nel corso degli anni
Cinquanta del XIX secolo, la tesi della portata civilizzatrice della
colonizzazione, della quale si trova traccia nei suoi scritti precedenti. Alla
luce, in particolare, delle situazioni indiana e cinese, che egli studia in
quel periodo, Marx ritiene che la peggiore barbarie si trovi dalla parte dei
britannici. Parallelamente, cresce l’interesse, e il l’impegno, per la Polonia
e l’Irlanda, nonché a favore degli antischiavisti americani, prima di
rivolgersi alla Russia.
Il caso dell’Irlanda è particolarmente interessante, per ciò
che concerne il rapporto tra popolo, classe operaia e nazione così come Marx
cerca di concepirli, modificando nel corso del tempo il proprio punto di vista
iniziale. Mi appoggio in proposito alla notevole opera di Kevin Anderson: Marx
a the margins (11). Nei suoi articoli e dichiarazioni sull’Irlanda, in
questo periodo, Marx lavora per combinare le questione di classe, identità
etnica e delle realtà nazionali, già affrontate precedentemente.
In Irlanda il proletariato si presenta come frazione del
proletariato britannico, frazione super sfruttata e dominata.
Contemporaneamente, l’Irlanda si presenta come colonia britannica in lotta per
la propria indipendenza nazionale. A fronte di tale complessa situazione, Marx
e Engels consigliano ai rivoluzionari irlandesi di attribuire alle questioni di
classe tutta la loro importanza, rimproverando loro il ricorso alla violenza
come la fissazione religioso identitaria.
D’altra parte, Marx giunge gradualmente a considerare il
movimento irlandese come punto d’appoggio delle lotte operaie inglesi, e non
viceversa. In una lettera a Engels del 10 dicembre 1869 scrive: «Per lungo
tempo ho pensato che fosse possibile abbattere il regime irlandese mediante
l’ascendancy della English working class (…) uno studio più approfondito mi ha
convinto ora del contrario. La
working class inglese non farà mai nulla, before it has got rid of ireland. Dall’Irlanda
si deve far leva. Per questo motivo la questione irlandese è così importante
per il movimento sociale in genere» (12).
Presente anche su suolo inglese, la classe operaia irlandese
è occasione di dissensi interni al movimento operaio, i quali paralizzano
quest’ultimo e vengono scientemente favoriti dal padronato inglese, sul modello
del razzismo e dello schiavismo nord-americani. Su questo punto, Marx riconosce
una coscienza ben superiore alla classe capitalista, infatti, laddove la classe
lavoratrice, sia essa inglese o irlandese, non perviene a superare i propri
antagonismi, la lotta delle razze, la xenofobia, hanno la meglio sulla lotta di
classe, la quale dovrebbe logicamente federare proletariato britannico e
sottoproletariato irlandese.
Per concludere, in merito alla considerevole rilevanza
politica di tali riflessioni, due osservazioni sulla questione del popolo mi
sembrano importanti.
La prima riguarda il famoso dibattito che vedrà contrapporsi
Marx a Bakunin in seno alla Prima internazionale. È nota l’accusa di
autoritarismo e statalismo rivolta da Bakunin a Marx. Meno noto è il
fatto che tale contrasto concerne anche la situazione in Irlanda. Del tutto
diversiva, a detta dei bakuniniani, la causa irlandese nuocerebbe a quella
rivoluzionaria. Secondo Marx, essa ne è invece una componente, l’emancipazione
dei popoli oppressi contribuendo a quella operaia, e più largamente,
all’emancipazione umana.
La seconda concerne la specificità della società irlandese:
l’Irlanda è innanzitutto una colonia agricola dell’Inghilterra, il che spinge
gli indipendentisti a fare dell’insurrezione contadina il punto di partenza
della rivoluzione nazionale. È prima di tutto contro l’oligarchia agraria
inglese che lotta il popolo irlandese, il che porta Marx a attribuire alla
questione della proprietà della terra un ruolo politico chiave, come base di
partenza di una rivoluzione sociale nella stessa Inghilterra.
Questo pone, a sua volta, il problema delle alleanze di
classe, in particolare quello dell’alleanza tra la classe operaia e i
contadini, assi lontano dall’idea che il proletariato sarà la sola classe a
condurre la storia e le rivoluzioni. Per altro, una tale analisi si inscrive
nella riflessione, sempre più raffinata, intrapresa da Marx sui percorsi di
sviluppo non capitalisti. In questi casi, riguardanti numerose società nel
mondo, e che egli analizza più o meno precisamente (Cina, India, Russia,
Messico, Perù, Algeria ecc.), la rivoluzione comunista non ha come precursore
necessario l’industrializzazione comunista e la formazione di una classe
operaia.
Sparisce, dunque, qualsiasi linearità storica, e la
successione obbligata dei modi di produzione cede il posto all’attenzione
portata alle forme di proprietà tradizionali, comunitarie. Secondo Marx, tali
forme persistenti potrebbero fornire un punto di partenza concreto per una
riorganizzazione economica e sociale egalitaria, risparmiando o attenuando per
certe popolazioni il passaggio attraverso il capitalismo e le sofferenze da
esso implicate.
Conclusione
Come si può vedere, la figura del proletariato è complessa.
Al fine di afferrarla, è necessario prendere in considerazione la specificità
della sua formazione nazionale e, dunque, porla in relazione con l’idea di
popolo. Ma, per Marx, è necessario anche, in ultima analisi, mirare verso
un’emancipazione in grado di oltrepassare le barriere nazionali e gli antagonismi,
senza per ciò, unificare le vie politiche, e le culture, in uno scenario
unitario, prescritto, di superamento del capitalismo.
L’attenzione alla
periferia non occidentale del capitalismo, la cui posta in gioco si rivelerà a
pieno nel quadro della decolonizzazione del XX secolo, si trova già in Marx
stesso, il quale non esclude che delle società possano transitare al comunismo
senza passare per il capitalismo, evitando in tal modo la sua violenza sociale
e la sua barbarie coloniale.
Nel complesso, se ne può trarre la conclusione che il
proletariato non è una categoria sociologica stabile, tanto meno il nome di un
soggetto della storia unificato, bensì una costruzione dinamica, continuamente
definita dal suo antagonismo rispetto a certe classi sociali e alle sue
alleanze con altre. Un antagonismo, così come delle alleanze, da concepire
innanzitutto come costruzioni politiche, secondo una prospettiva strategica
che, a volte, difetterà nel marxismo successivo ma che sarà ripresa da alcune
sue componenti.
E proprio in ragione della plasticità di tale nozione, la
categoria di popolo si mantiene, in vista di pensare il carattere sempre
nazionale di una simile costruzione. Tuttavia, il popolo non costituisce mai
un’entità sostanzialistica o fissa. Dunque, è sempre la dialettica
proletariato-popolo, sottoposta all’esame di ciò che essa è in ogni situazione
storica, a contare, poiché apre (o chiude) le prospettive politiche di
emancipazione, le quali, in fin dei conti, riguardano l’umanità tutta.
Note
- Jacques Guilhaumou, «De peuple à prolétaire(s): Antoine Vidal, porte-parole des ouvriers dans L’Echo de la Fabrique en 1831-1832», Semen, n° 25, 2008, p. 101-115
- Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in Karl marx e Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1971, p. 70, oppure in marxist.org.
- Ibid., p. 59.
- Ibid., p. 61.
- Ibid., p. 70.
- Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, in Karl marx e Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1971, p. 310, oppure in marxist.org.
- Ibid., p. 303.
- Ibid., p. 326.
- Ibid., p. 310.
- Ibid., pp. 310-311.
- Kevin B. Anderson, Marx
at the Margins– On Nationalism, Ethnicity and Non-Western Societies,
Chicago, The University of Chicago Press, 2010.
- In Renato Monteleone (a cura di.), Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, 1982, p. 51.
Nessun commento:
Posta un commento