**Ellen Meiksins Wood (1942-2016), studiosa del pensiero politico e storica marxista, si è occupata di temi che spaziano dalla democrazia ateniese alle origini del capitalismo, sino all’imperialismo contemporaneo
Vedi anche: http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-laccumulazione-originaria.html
Ciò che spiega lo sviluppo del capitalismo in
occidente, secondo questo punto di vista, è l’autonomia delle sue città e della
loro classe per eccellenza: la borghesia. In altre parole, il capitalismo è
emerso in occidente non tanto a causa di ciò che era presente bensì
a causa di ciò che era assente: i vincoli alle pratiche economiche
urbane. In tali condizioni è stata sufficiente una più o meno naturale
espansione del commercio per innescare lo sviluppo del capitalismo sino alla
sua piena maturità. Unico fattore assolutamente necessario la crescita quantitativa,
la quale si è verificata inevitabilmente col passare del tempo (in alcune
versioni, ovviamente, agevolata ma non causata originariamente
dall’etica protestante).
Ci sarebbero numerose obbiezioni che si potrebbero rivolgere
alle ipotesi di una naturale connessione tra città e capitalismo. Tra le tante,
il fatto che esse tendano a naturalizzare il capitalismo, così
da occultarne il carattere distintivo come specifica forma sociale storicamente
determinata, con un inizio e (senza alcun dubbio) una fine. La propensione a
identificare il capitalismo con la città, e il commercio urbano, è stata
generalmente accompagnata dall’inclinazione a considerarlo, più o meno
automaticamente, come una conseguenza di pratiche antiche come l’umanità; se
non, addirittura, un’automatica conseguenza della natura umana, la “naturale”
inclinazione, nelle parole di Adam Smith, a “trafficare, barattare e
scambiare”.
Probabilmente il più salutare correttivo a simili assunzioni
– nonché alle loro implicazioni ideologiche – consiste nel riconoscere che il
capitalismo, con le sue particolari forme di accumulazione e massimizzazione
dei profitti, è nato non nelle città ma nelle campagne, in un luogo specifico,
e molto tardi nella storia umana. Esso non richiede una semplice estensione o
espansione dei traffici e degli scambi, ma una completa trasformazione delle
più basilari pratiche e relazioni umane, una rottura con secolari modelli
d’interazione umana con la natura, finalizzati alla produzione di fondamentali
necessità della vita. Se la tendenza a assimilare il capitalismo con la città è
associata con quella a oscurare la specificità del
capitalismo, allora il modo migliore per mettere in luce quest’ultima e quello
di considerare le origini agrarie del capitalismo.
Che cos’è il “capitalismo agrario”
Per millenni l’umanità ha provveduto ai propri bisogni
materiali lavorando la terra. E quasi certamente sin da quando è stata
impegnata nell’agricoltura essa ha conosciuto la divisione in classi, tra
coloro che lavorano la terra e coloro che si appropriano il prodotto del lavoro
altrui. Divisione tra appropriatori e produttori che ha assunto molteplici
forme in tempi e luoghi diversi, ma con una comune caratteristica, ossia che i
produttori sono sempre stati contadini. Produttori contadini che sono rimasti
in possesso dei loro mezzi di produzione, in particolare la terra. Come in
tutte le società pre-capitaliste tali produttori avevano accesso diretto
ai mezzi necessari alla propria riproduzione. Il che significa che nel momento
in cui il loro pluslavoro gli è stato sottratto dagli sfruttatori , ciò è stato
fatto tramite quelli che Marx chiama mezzi “extra-economici” – vale a dire, con
forme di coercizione dirette, esercitate dai proprietari terrieri e/o stati
dotati di forza superiore, accesso privilegiato alla potere militare,
giudiziario e politico.
Questa è, dunque, la fondamentale differenza tra le società
pre-capitaliste e il capitalismo. Essa non ha niente a che vedere col fatto che
la produzione sia urbana o rurale, quanto invece con i particolari
rapporti di proprietà tra produttori e appropriatori, che si tratti di
industria o agricoltura. Solo nel capitalismo la forma dominante di
appropriazione del surplus è basata sulla espropriazione dei produttori
diretti, il pluslavoro dei quali viene sottratto con metodi puramente
“economici”. Poiché i produttori diretti in un capitalismo pienamente
sviluppato sono privi di proprietà, è perché il loro unico accesso ai mezzi di
produzione, utili alla loro riproduzione, e perfino ai mezzi del loro lavoro,
consiste nella vendita della loro forza-lavoro in cambio di un salario,
i capitalisti possono appropriarsi del pluslavoro senza coercizione
diretta.
Questa relazione tra produttori e appropriatori è,
naturalmente, mediata dal “mercato”. nel corso della storia sono esistite
svariate tipologie di mercati, avendo gli uomini scambiato e venduto le loro
eccedenze in modi differenti e per i più diversi scopi. Ma nel capitalismo il
mercato ricopre una funzione distintiva e senza precedenti. In una società
capitalistica praticamente tutto è una merce prodotta per il mercato. Ancora
più importante, sia il capitale che il lavoro sono totalmente dipendenti dal
mercato per quanto riguarda le più elementari condizioni della loro
riproduzione. Esattamente come i lavoratori dipendono dal mercato per vendere
la propria forza-lavoro come merce, i capitalisti ne dipendono per l’acquisto
della forza-lavoro, così come dei mezzi di produzione, oltreché per realizzare
i loro profitti con la vendita dei beni o servizi prodotti dai lavoratori. Una
simile dipendenza dal mercato conferisce a quest’ultimo un ruolo inedito nelle
società capitaliste, non solo come meccanismo di scambio o distribuzione ma
come principale determinante e regolatore della riproduzione sociale.
L’assurgere del mercato a un tale ruolo presuppone la sua penetrazione nella
produzione del più basilare dei beni, il cibo.
Un sistema dipendente a tal punto dal mercato comporta
alcune particolari “leggi di movimento”, specifici requisiti sistemici e regolarità
sconosciute a ogni altro modo di produzione: gli imperativi della competizione,
accumulazione e massimizzazione dei profitti. Imperativi, che a loro volta,
indicano come il capitalismo possa, e debba, costantemente espandersi in modi e
gradi assenti in altre forme sociali – accumulare costantemente, cercare
continuamente nuovi mercati, imporre i propri imperativi a nuovi territori
e nuovi ambiti della vita, agli esseri umani e all’ambiente naturale.
Una volta che riconosciamo quanto siano caratteristici
queste relazioni e processi sociali, quanto siano differenti da altre forme
sociali le quali hanno dominato per buona parte della storia dell’umanità,
diventa chiara la necessità di uno sforzo maggiore per comprendere questa
distintiva forma sociale, uno sforzo che vada al di là del triviale assunto che
essa è sempre esistita in embrione, in attesa di essere liberata da innaturali
costrizioni. La questione circa le sue origini può, allora, essere così
formulata: dato che i produttori sono stati sfruttati dagli espropriatori per
millenni, attraverso modalità non capitalistiche, prima dell’avvento del
capitalismo, e dato che i mercati sono esistiti “da tempi immemori” e
praticamente ovunque, come è potuto accadere che i produttori e gli
appropriatori, e i loro rapporti, siano divenuti così dipendenti dal mercato?
Ovviamente, i lunghi e complessi processi storici, che
da ultimo hanno condotto a simili condizioni di dipendenza dal mercato, possono
essere tracciati indietro nel tempo all’infinito. Il quesito, tuttavia, può
essere reso più abbordabile identificando l’epoca e il luogo nei quali, per la
prima volta, una nuova dinamica sociale è chiaramente discernibile, una
dinamica derivante dalla dipendenza dal mercato dei principali attori
economici. In tal modo possiamo esplorare le condizioni specifiche nelle quali
è inscritta questa situazione unica.
Nel XVIII secolo, e anche molto più tardi, la maggior parte
del mondo, Europa compresa, era libera dagli imperativi del mercato che abbiamo
elencati. Esisteva certamente un vasto sistema di commerci, ormai esteso a
tutto il globo. Ma in alcun luogo, né nei grandi snodi commerciali
dell’Europa, né nelle grandi reti commerciali del mondo islamico o dell’Asia,
l’attività economica, e la produzione in particolare, erano guidate dagli
imperativi della competizione e dell’accumulazione. I principi dominanti del
mercato erano dappertutto “profitto tramite alienazione”, o “comprare al
prezzo più basso e vendere a quello più alto possibile” – in
particolare, comprare al prezzo più basso in un mercato e vendere a a quello
più alto in un altro.
Il commercio internazionale era essenzialmente un commercio
di “trasporto”, fatto da mercanti che acquistavano beni in un luogo vendendoli
in un altro così da ottenere un profitto. Ma anche in un singolo, potente, e
relativamente unificato regno europeo come la Francia, prevalevano praticamente
gli stessi principi di mercato non capitalistici. Non vi era un mercato singolo
e unificato, un mercato nel quale fare profitti non comprando a poco e vendendo
a tanto, o trasportando merci da un mercato all’altro, bensì producendo a costi
più vantaggiosi in diretta competizione con altri operanti nello stesso
mercato.
Il commercio era prevalentemente quello di beni di lusso,
tutt'al più merci destinate alle famiglie più ricche o a soddisfare le necessità
e i modelli di consumo delle classi dominanti. Non vi era un mercato di massa
per prodotti di consumo quotidiano a basso prezzo. I contadini erano soliti
produrre non solo il loro stesso cibo ma anche beni di uso quotidiano come i
vestiti. Essi potevano portare le loro eccedenze al mercato locale, nel quale
il ricavato della loro vendita poteva essere scambiato con altre merci non
prodotte in casa. I prodotti agricoli potevano anche essere venduti in
mercati più lontani. Ma ancora una volta i principi alla base del commercio
erano gli stessi della manifattura dei beni.
Principi del commercio non capitalistici che convivevano
fianco a fianco con metodi di sfruttamento anch’essi non capitalistici. In
particolare, in Europa occidentale, anche quando la servitù feudale era ormai
scomparsa, prevalevano comunque altre forme di sfruttamento “extra-economiche”.
In Francia, ad esempio, dove i contadini costituivano ancora la stragrande
maggioranza della popolazione e erano in possesso di buona parte della terra,
le cariche nello stato centrale costituivano una risorsa economica per molti
membri delle classi dominanti, un mezzo di estrazione del pluslavoro attraverso
le tasse imposte ai contadini. E anche i proprietari titolari di rendite
d’affitti, generalmente, dipendevano da una serie di poteri e privilegi
extra-economici per accrescere le loro ricchezze.
Dunque i contadini avevano accesso ai mezzi di produzione,
in primo luogo la terra, senza dover offrire la propria forza lavoro come
merce. Proprietari e detentori di cariche, con l’ausilio di svariati poteri e
privilegi “extra-economici”, estraevano il pluslavoro dai contadini in modo
diretto, in forma di fitti o tasse. In altre parole, nonostante ogni genere di
persone potesse comprare e vendere ogni tipo di cose sul mercato, né i
contadini-proprietari, né i padroni e i detentori di cariche, i quali si
appropriavano di ciò che altri producevano, dipendevano direttamente dal
mercato per le condizione della loro riproduzione, e le relazioni tra di loro
non erano mediate dal mercato.
C’era, tuttavia, un’importante eccezione a questa regola
generale. L’Inghilterra, già ne XVI secolo, si stava sviluppando verso
direzioni del tutto inedite. Pur essendovi altri stati monarchici relativamente
forti, più o meno unificati sotto una corona (come la Spagna e la Francia)
nessuno poteva vantare un’unificazione efficace come quella inglese (e qui
l’enfasi è proprio sull’Inghilterra e non su altre parti delle “isole britanniche”).
Nel XVI secolo l’Inghilterra – già più unita di quanto non fosse nel secolo XI,
quando la classe dominante normanna si stabilì nell’isola come una coesa entità
politico-militare – aveva intrapreso un lungo percorso verso l’eliminazione
della frammentazione dello stato, quella”sovranità parcellizzata” eredità del
feudalesimo. I poteri autonomi, detenuti dai signori, dai corpi municipali e da
altre entità corporative in altri stati europei erano, in Inghilterra, sempre
più concentrati nelle mani dello stato centrale. Tutto ciò era in contrasto con
altri stati europei, nei quali anche le monarchie più potenti continuarono a
vivere inquietamente a fianco a poteri militari post-feudali, sistemi legali
frammentati, privilegi corporativi i cui possessori sulla propria autonomia
contro il potere centralizzatore dello stato.
La caratteristica centralizzazione politica dello stato
inglese aveva basi e corollari di natura materiale. Innanzitutto, già nel XVI
secolo, l’Inghilterra vantava una rete impressionante di strade e trasporti via
acqua, i quali unificavano la nazione ad un livello inusuale per il periodo.
Londra, divenuta sproporzionatamente grande in relazione a altre città inglesi
e rispetto al totale della popolazione (e infine la più grande città d’Europa),
si stava anche trasformando nel fulcro di un mercato nazionale in via di
sviluppo.
La base materiale sulla quale questa emergente economia
nazionale poggiava era l’agricoltura inglese, le cui caratteristiche uniche
erano molteplici. La classe dominante inglese si distingueva per due aspetti
importanti e correlati: da un lato, come parte di uno stato sempre più
accentrato, in alleanza con una monarchia centralizzatrice, essa non disponeva
dello stesso grado di poteri “extra-economici”, più o meno autonomi”, sui
quali altre classi dominanti potevano contare per estrarre il pluslavoro dai
produttori diretti. Dall’altro, la terra in Inghilterra era stata a lungo
concentrata in maniera inusuale, con i grandi proprietari in possesso di
proporzioni di terreno insolitamente vaste. Una tale concentrazione della
proprietà terriera significava che i signori inglesi erano in grado di
sfruttare le loro proprietà in modi nuovi e differenti. Ciò che mancava loro
dal lato del potere “extra-economico” di estrazione del surplus era compensato
dai loro crescenti poteri “economici”.
Questa particolare combinazione ha avuto conseguenze
significative. Da una parte, la concentrazione della proprietà terriera
significava che buona parte della terra non era lavorata da contadini
proprietari ma da contadini fittavoli. Questo anche prima delle ondate di
espropriazioni, specialmente ne XVI e XVIII secolo, convenzionalmente associate
alle “enclosures”, in contrasto, per esempio, con la Francia, nella quale ampie
proporzioni di terra rimasero a lungo in mano ai contadini.
D’altra parte, i deboli poteri “extra-economici” dei
proprietari significavano minore dipendenza dall’abilità di
estrarre rendite dai loro fittavoli attraverso mezzi coercitivi, anziché
dalla loro produttività. I proprietari avevano dunque un forte incentivo a
incoraggiare – e laddove possibile, anche costringere – i loro fittavoli a
trovare modalità per accrescere la loro produzione. A questo proposito, essi
erano fondamentalmente differenti dagli aristocratici rantier, la cui
ricchezza, nel corso della storia, è sempre dipesa dallo spremere le eccedenze
dai contadini tramite la coercizione, aumentando la propria facoltà di
estrazione del surplus non accrescendo la produttività, bensì incrementando i
loro poteri coercitivi – fossero questi di natura militare, giudiziaria o
politica.
Per quanto riguarda i fittavoli stessi, erano sempre più
soggetti non solo alle pressioni dei proprietari ma anche agli imperativi del
mercato che li obbligavano a incrementare la produttività. I contratti di
locazione inglesi presero varie forme, con numerose varianti regionali, ma un
numero crescente era assoggettato a criteri economici, ossia, i fitti non
venivano fissati sulla base di standard legali o consuetudinari ma erano sempre
più legati alle condizione di mercato. Già dagli inizi dell’epoca moderna molti
contratti di locazione consuetudinari erano diventati, di fatto, contratti
economici di questo tipo.
L’effetto di un simile sistema di relazioni di
proprietà fu che molti produttori agricoli (compresi i
benestanti “yeoman”) dipendevano dal mercato, non solo perché costretti a
vendervi i prodotti, quanto nel senso più fondamentale che il loro accesso alla
terra stessa, ai mezzi di produzione, era mediato dal mercato. In effetti esisteva
un mercato dei contratti nel quale i futuri fittavoli dovevano competere. La
sicurezza di questi ultimi dipendeva dalla capacità di pagare il canone di
locazione, e una produzione non sufficientemente competitiva poteva significare
la perdita definitiva della terra. Per far fronte ai canoni, in una situazione
nella quale altri potenziali fittavoli concorrevano per gli stessi
contratti, i fittavoli erano costretti a produrre in modi più efficaci, pena
l’espropriazione.
Anche i fittavoli che godevano di un qualche contratto
consuetudinario che garantisse loro maggior sicurezza, ma comunque obbligati a
vendere i propri prodotti negli stessi mercati, potevano trovarsi in
difficoltà, laddove gli standard competitivi di produttività venivano fissati
da contadini sottoposti più direttamente alle pressioni del mercato. Tutto ciò
valeva sempre più anche per i proprietari che lavoravano la loro terra. In un
ambiente così competitivo, gli agricoltori più produttivi prosperavano e le
loro proprietà crescevano, mentre i produttori meno competitivi affondavano e
raggiungevano le classi non possidenti.
In ogni caso, l’effetto degli imperativi di mercato fu
quello di intensificare lo sfruttamento al fine di incrementare la produttività
– sia che si trattasse dello sfruttamento del lavoro altrui o di
auto-sfruttamento dal parte del contadino e della sua famiglia. Un modello
riprodotto nelle colonie e nell’America post-indipendenza, dove i piccoli
agricoltori indipendenti, i quali si supponeva dovessero costituire la spina
dorsale di una repubblica libera, dovettero, sin dall’inizio, affrontare la
difficile scelta imposta dal capitalismo agrario: nel migliore dei casi, un
intenso auto-sfruttamento, nel peggiore l’espropriazione da parte di aziende
più grandi e produttive.
L’ascesa della proprietà capitalistica
Così dal XVI secolo l’agricoltura inglese è stata
caratterizzata da una combinazione unica di condizioni, perlomeno in alcune
regioni, la quale ha gradualmente fissato la direzione dell’intera economia. Il
risultato è stato un settore agrario produttivo come mai nessun’altro nella
storia. Proprietari e fittavoli iniziavano a preoccuparsi di ciò che chiamavano
“miglioramento”, l’incremento della produttività della terra ai fini del
profitto.
Vale la pena soffermarsi sul concetto di “miglioramento”,
poiché ci dice molto sull’agricoltura inglese e sullo sviluppo del capitalismo.
Il vocabolo inglese “improve” stesso, nel suo senso originario, non significa
solo “fare meglio” in generale, ma letteralmente (sulla base dell’antico
francese per “into”, en, e “profit”, pros, o
il suo caso obliquo, preu) fare qualcosa per un profitto monetario
e specificamente coltivare la terra per profitto. A partire dal XVII secolo la
parola “improver” si fissa chiaramente nel linguaggio in riferimento a qualcuno
che rende la terra produttiva e redditizia, in particolare recintandola e
bonificandola. Il “miglioramento” agricolo diventa da allora una prassi
consolidata, e nel XVIII secolo, l’età d’oro del capitalismo agricolo, da il
meglio di sé.
Il termine stava, contemporaneamente, acquisendo un
significato più generale, nel senso che gli attribuiamo oggi (si pensi alle
implicazioni di una cultura nella quale il vocabolo per “fare meglio” e
radicato nella parola per “profitto monetario”). Anche se nel suo essere
associato all’agricoltura , eventualmente, ha perso un po’ della sua
specificità – per esempio, alcuni pensatori radicali nel Novecento usano
“miglioramento” nel senso di agricoltura scientifica, slegato dalla
connotazione di profitto commerciale. Tuttavia agli albori dell’epoca moderna,
produttività e profitto erano connessi inestricabilmente nel concetto di
“miglioramento”, il quale ben riassume l’ideologia del nascente
capitalismo agrario.
Nel XVII secolo, dunque, emerge un intero nuovo corpus
letterario, il quale illustra con una precisione senza precedenti le tecniche e
i benefici del miglioramento. Che è poi anche una delle principali
preoccupazioni della Royal Society, che riunisce alcuni dei più eminenti
scienziati inglesi (Isaac Newton e Robert Boyle ne sono entrambi membri) con
alcuni dei più lungimiranti esponenti della classe dirigente inglese – come il
filosofo John Locke e il suo mentore, il primo conte di Shaftesbury, ambedue
vivamente interessati al miglioramento dell’agricoltura.
Miglioramento che, in primo luogo, non dipendeva da
significative innovazioni tecnologiche – sebbene si ricorresse a nuove
attrezzature. In generale, era più una questione di sviluppo delle tecniche
agronomiche: l’alternanza tra coltivazione e periodi di riposo, la rotazione
delle colture, il drenaggio delle paludi e così via.
Ma miglioramento significava qualcosa di più che nuovi
metodi o tecniche di coltivazione. Significava, infatti, nuove forme e
concezioni di proprietà. Il “miglioramento” agrario, per il proprietario
imprenditore e per il suo prospero fittavolo capitalista, richiedeva un
proprietà terriera più vasta e concentrata. Nonché – e forse ancor più –
l’eliminazione di vecchi costumi e pratiche i quali interferivano con un uso
più produttivo della terra.
Le comunità contadine avevano, da tempo immemorabile, impiegato
diversi metodi di regolazione dell’uso della terra nell’interesse della
comunità di villaggio. Avevano ristretto determinate pratiche e garantiti
alcuni diritti, non allo scopo di incrementare la ricchezza del proprietario o
dello stato, bensì in modo da preservare l’esistenza della comunità stessa,
magari conservare la terra o distribuirne i frutti in modo più equo, e anche
provvedere ai membri meno fortunati della comunità. Perfino il diritto di
proprietà “privata” era tipicamente condizionato da simili pratiche
consuetudinarie, concedendo ai non-proprietari una serie di diritti d’uso sule
proprietà “possedute” da altri. In Inghilterra questo genere di pratiche e
costumi erano molto diffusi. Esistevano terre comuni, nelle quali i membri
della comunità potevano avere diritti di pascolo o di raccogliere la legna da
ardere, oltre a una serie di diritti d’uso sulle terre private – come
quello di cogliere i resti di un raccolto in determinate stagioni.
Dal punto di vista dei proprietari terrieri e degli agricoltori
capitalisti, la terra doveva essere liberata da tutti questi ostacoli all’uso
produttivo e redditizio della proprietà. Tra il XVI secolo e il XVIII secolo,
si verificò una crescente pressione per abolire i diritti consuetudinari che
interferivano con l’accumulazione capitalista. Ciò poteva significare varie
cose: contestazione della proprietà comune delle terre e rivendicazione della
proprietà privata; eliminazione di numerosi diritti d’uso sulle terre private;
o ancora, sfidare le consuetudini che fornivano ai piccoli proprietari diritti
di possesso senza un titolo giuridico inequivocabile. In tutti questi casi, le
tradizionali concezioni della proprietà dovevano essere rimpiazzate dalle nuove
concezioni capitaliste della proprietà – la proprietà intesa non solo come
“privata” ma anche come esclusiva, ossia che letteralmente escludeva gli altri
individui della comunità, eliminando i regolamenti di villaggio e le
restrizioni sull’uso del suolo, estinguendo diritti d’uso consuetudinari, e via
dicendo.
Tali pressioni per trasformare la natura della proprietà si
sono manifestate in molti modi, sia nella teoria che nella pratica. Sono emerse
nelle cause legali, nei conflitti su specifici diritti di proprietà, su
porzioni di terra comune o privata sulle quali diverse persone reclamavano
diritti d’uso sovrapponentisi. In questi casi, le pratiche e le rivendicazioni
consuetudinarie si trovavano direttamente poste a confronto con i principi
del “miglioramento” – e i giudici non di rado riconoscevano le ragioni di
quest’ultimo come legittime pretese contro i diritti consuetudinari, pur
essendo questi in vigore da tempo immemorabile.
Nuove concezioni della proprietà venivano teorizzate in
maniera sistematica, tra le più note quella contenuta nel Secondo
trattato sul governo di John Locke. Il capitolo quinto di quest’opera
è la classica affermazione di una teoria della proprietà basata sui principi
del miglioramento. In questo contesto, la proprietà come diritto “naturale” è
fondata su quella che Locke considera l’ingiunzione divina a rendere la terra
produttiva e redditizia, appunto migliorarla. L’interpretazione
convenzionale della teoria Lockiana della proprietà suggerisce che sia il lavoro a
stabilire il diritto di proprietà, ma un’accurata lettura del capitolo di
Locke sull’argomento chiarisce come ciò che è veramente in questione non è il
lavoro, ma l’utilizzo produttivo e redditizio della proprietà, il suo
miglioramento. Un proprietario intraprendente, dedito alle migliorie stabilisce
il proprio diritto alla proprietà non grazie al suo lavoro diretto, bensì allo
sfruttamento produttivo della sua terra e del lavoro di altri su di essa. La
terra non sottoposta a migliorie, non resa produttiva e redditizia (come le
terre degli indigeni delle Americhe), è considerata uno “spreco”, da cui il
diritto, e anzi il dovere, di migliorarla e di appropriarsene.
La stessa etica del miglioramento potrebbe essere utilizzata
per giustificare certi tipi di spossessamento non solo nelle colonie ma
anche in Inghilterra. Questo ci porta alla più nota ridefinizione dei diritti
di proprietà: le enclosures. Spesso considerate una semplice
privatizzazione e recinzione di terre prima comuni o dei “campi aperti”
caratteristici di alcune zone della campagna inglese; enclosure significa, più
precisamente, l’estinzione (con o senza la recinzione fisica dei terreni) dei
diritti d’uso, comuni e consuetudinari, dai quali numerose persone dipendevano
per la loro sopravvivenza.
La prima ondata di enclosures avvenne nel XVI secolo, quando
i grandi proprietari terrieri cercarono di espellere i popolani da quelle terre
che potevano essere proficuamente adibite al sempre più redditizio pascolo
ovino. I commentatori contemporanei ritenevano le enclosures, più di ogni altro
fattore, responsabili per la crescente piaga dei vagabondi, uomini
dispossessati e “senza padrone”, i quali vagavano per la campagna e
minacciavano l’ordine sociale. Il più noto di questi commentatori, Tommaso
Moro, sebbene coinvolto egli stesso nelle enclosures, descrisse la pratica come
“le pecore che mangiano gli uomini”. Questi critici sociali, come molti storici
in seguito, potrebbero aver sovrastimato gli effetti delle enclosures a scapito
di altri fattori determinanti per la trasformazione delle relazioni di proprietà
inglesi. Tuttavia rimangono l’espressione più vivida dell’inesorabile processo
che stava cambiando non solo l’Inghilterra ma il mondo intero: la nascita del
capitalismo.
Le enclosures hanno continuato a lungo a rappresentare una
delle principali fonti di conflitto della nascente Inghilterra moderna, sia che
avessero come scopo l’allevamento degli ovini o la sempre più redditizia
coltura dei campi. Le rivolte contro le enclosures hanno punteggiate i secoli
XVI e XVII, oltre a costituire uno dei principali motivi di risentimento nel
corso della Guerra civile inglese. Nelle sue prime fasi la pratica trovo una
qualche resistenza da parte dello stato monarchico, se non altro in quanto
minaccia per l’ordine pubblico. Ma nel momento in cui le classi fondiarie
riuscirono a plasmare lo stato secondo le loro esigenze – un successo
consolidatosi grosso modo nel 1688, con la cosiddetta “Glorious revolution” –
ogni interferenza statale cessò, e un nuovo tipo di Enclosures stava emergendo
nel XVIII secolo, le cosiddette enclosures parlamentari. In quest’ultime
l’estinzione di quei fastidiosi diritti di proprietà, che interferivano col
potere di accumulazione dei proprietari, avvenne con un atto del parlamento.
Niente può testimoniare altrettanto nettamente il trionfo del capitalismo
agrario.
Per tanto, in Inghilterra, una società nella quale la
ricchezza ancora derivava in larga parte dalla produzione agricola, la
riproduzione dei due principali attori economici del settore agricolo – i
produttori diretti e coloro che si appropriavano del loro surplus – erano,
almeno da XVI secolo, sempre più dipendenti da pratiche capitalistiche: la
massimizzazione del valore di scambio tramite riduzione dei costi e
l’incremento della produttività, la specializzazione, l’accumulazione e
l’innovazione.
Questo modo di provvedere ai bisogni materiali di base della
società inglese portava con sé una nuova dinamica di crescita autosufficiente,
un processo di accumulazione e espansione del tutto differenti dai secolari
modelli ciclici che hanno dominato la vita materiale di altre società. E si è
anche accompagnato ai tipici processi capitalistici di espropriazione e
creazione di una massa di spossessati. In questo possiamo parlare di
“capitalismo agrario” riguardo agli inizi della modernità in Inghilterra.
Il capitalismo agrario era realmente capitalista?
Ora è necessario fermarsi per sottolineare due punti di
grande importanza. In primo luogo, a guidare il processo di cui abbiamo parlato
non sono stati ne dei mercanti nei dei produttori manifatturieri. La
trasformazione delle relazioni sociali di proprietà è stata saldamente radicata
nella campagna inglese, e la trasformazione del commercio e dell’industria
inglesi sono stati più una conseguenza che una causa della transizione al
capitalismo. Essi, per esempio, prosperarono nel contesto del feudalesimo
europeo, dove approfittarono non solo dell’autonomia delle città ma anche della
frammentazione dei mercati, nonché dell’opportunità di effettuare transazioni
tra un mercato e l’altro.
In secondo luogo, fatto ancora più rilevante, i lettori
avranno notato che la locuzione “capitalismo agrario” è stata finora utilizzata
senza riferimento al lavoro salariato, che tutti abbiamo imparato a considerare
come l’essenza del capitalismo. Tutto ciò richiede una spiegazione.
Per prima cosa va detto che molti fittavoli ricorrevano al
lavoro salariato, tanto è vero che la “triade” identificata da Marx e altri
– la triade di proprietari terrieri che vivono della rendita fondiaria
capitalista, fittavoli capitalisti che vivono del profitto, e lavoratori che
vivono del salario – è stata considerata da molti la più prominente caratteristica
delle relazioni agrarie in Inghilterra. E cosi, effettivamente, è stato –
almeno in quelle aree del paese, in particolare quelle dell’est e del sudest,
note per la loro produttività agricola. Di fatto, le inedite pressioni economiche,
le pressioni competitive che lasciarono fuori gli agricoltori improduttivi,
furono un fattore determinante di polarizzazione della popolazione agraria fra
grandi proprietari e lavoratori salariati privi di proprietà. E ovviamente, le
pressioni all’incremento della produttività si fecero sentire
nell’intensificato sfruttamento del lavoro salariato.
Non sarebbe irragionevole definire il capitalismo
agrario inglese nei termini di una sorta di triade. Ma bisogna tenere a mente
che le pressioni competitive, e le nuove “leggi di movimento” che vi si
accompagnavano, non dipendevano in prima istanza dall’esistenza di un
proletariato di massa bensì dall’esistenza di produttori fittavoli dipendenti
dal mercato. I lavoratori salariati, e specialmente quelli che vivevano
solamente del loro salario, dipendendo da esso per la loro sopravvivenza e non
solo stagionalmente (il tipo di lavoro salariato stagionale e supplementare
presente nelle società contadine sin dai tempi più antichi) erano una minoranza
nell’Inghilterra del XVII secolo.
Inoltre, questo genere di pressioni funzionavano non solo
sui fittavoli che impiegavano lavoratori salariati ma anche su contadini, i
quali – insieme con le loro famiglie – erano produttori diretti che lavoravano
senza l’apporto di salariati. Si può essere dipendenti dal mercato – per le
condizioni basilare della propria riproduzione – senza necessariamente
essere del tutto spossessati. L’essere dipendenti dal mercato richiede soltanto
la perdita dell’accesso diretto, e appunto non mediato dal mercato, ai mezzi di
produzione. Una volta ben stabilitisi gli imperativi del mercato, persino la
proprietà assoluta non pone al riparo da essi. E tale dipendenza, tra l’altro,
è una causa, non una conseguenza, della proletarizzazione di massa.
Ciò è rilevante per diverse ragioni – e diremo di più
in seguito delle implicazioni più ampie. Al momento, il punto
importante è che le specifiche dinamiche del capitalismo erano già in atto,
nell’agricoltura inglese, prima della proletarizzazione della forza lavoro. In
realtà, tali dinamiche sono state un fattore fondamentale nel determinare la
proletarizzazione del lavoro in Inghilterra. Il fattore cruciale è stata la
dipendenza dal mercato dei produttori, così come degli espropriatori, e i nuovi
imperativi sociali da essa creati.
Certo si potrebbe essere riluttanti a descrivere questa
formazione sociale come “capitalista”, proprio sulla base del fatto che il
capitalismo è, per definizione, fondato sullo sfruttamento del lavoro
salariato. Riluttanza corretta – finché ci si rende conto che, comunque la si
chiami, l’economia inglese della prima modernità, guidata dalla logica del suo
settore produttivo base, l’agricoltura, stava già operando secondo principi e
“leggi di movimento” diverse da quelle prevalenti in ogni altra società sin
dagli albori della storia. Leggi di movimento che costituivano la precondizione
– inesistente in qualsiasi altro luogo – per lo sviluppo di un
capitalismo maturo il quale, in seguito, si sarebbe basato sullo sfruttamento
di massa del lavoro salariato.
Quale è stato, dunque, il risultato di tutto ciò? In primo
luogo, l’agricoltura inglese vantava una produttività unica. Dalla fine del
XVII secolo, per esempio, la produzione di grano e cereali era aumentata così
drasticamente da fare dell’Inghilterra uno dei principali esportatori di tali
merci. Questi progressi nella produzione vennero raggiunti grazie a una forza
lavoro agricola relativamente esigua. Questo per dare un’idea di casa significa
parlare della singolare produttività dell’agricoltura inglese.
Alcuni storici hanno tentato di sfidare l’idea stessa di
capitalismo agrario suggerendo che la “produttività” dell’agricoltura francese
nel XVIII secolo era più o meno uguale a quella inglese. Ciò che essi intendono
realmente, però, è che la produzione agricola totale nei due
paesi era più o meno la stessa. Quello che non riescono a cogliere è che in un
paese tale livello di produzione venne raggiunto da una popolazione costituita
, ancora in larga parte, di produttori contadini, mentre nell’altro paese, la
stessa produzione totale venne ottenuta da una forza lavoro molto più
contenuta, con una popolazione rurale in declino. In altre parole, il problema
non è il totale della produzione bensì la produttività nel
senso del prodotto per singola unità di lavoro.
Le evidenze demografiche da sole sono eloquenti. Tra il 1500
e il 1700, l’Inghilterra ha sperimentato una sostanziale crescita della
popolazione – così come altre regioni europee. Ma la crescita della popolazione
inglese si distingue per un significativo aspetto: la percentuale della
popolazione urbana è più che raddoppiata nel periodo in esame (alcuni storici
fissano la cifra a poco meno di un quarto della popolazione già nel tardo
XVII secolo). Il contrasto con la Francia è evidente: qui la popolazione rurale
è rimasta piuttosto stabile, ancora tra 85 e 90 per cento al momento della
Rivoluzione francese nel 1789 e anche oltre. Nel 1850, quando la popolazione
urbana dell’Inghilterra e del Galles era circa il 40,8 per cento, in Francia
era ancora solo il 14,4 per cento (in Germania il 10,8 per cento).
L’agricoltura in Inghilterra, già nella prima età moderna,
era sufficientemente produttiva da sostenere un numero insolitamente elevato di
persone non impegnate in essa. Un fatto che, ovviamente, testimonia circa
qualcosa di più di semplici tecniche agricole, per quanto particolarmente
efficienti. Esso è anche rivelatore di nuovi rapporti sociali di proprietà.
Mentre la Francia rimaneva un paese di contadini proprietari, la terra in
Inghilterra era concentrata in poche mani, e la massa dei non possidenti
cresceva rapidamente. Laddove la produzione agricola in Francia seguiva
pratiche contadine tradizionali (non esisteva niente di paragonabile alla
letteratura inglese sulle migliorie, e la comunità di villaggio imponeva ancora
i propri regolamenti e restrizioni alla produzione, colpendo anche i grandi
proprietari terrieri) quella inglese rispondeva agli imperativi della
competizione e del miglioramento.
Vale la pena aggiungere un altro punto a proposito del
caratteristico quadro demografico dell’Inghilterra. l’inconsueta crescita della
popolazione non era distribuita uniformemente tra le città inglesi. Altrove in
Europa il modello tipico era quello di una popolazione urbana sparsa per un
certo numero di città importanti – di modo che, per esempio, Lione non era
sminuita da Parigi. In Inghilterra Londra divenne sproporzionatamente grande,
passando d circa 60.000 abitanti nel 1520 a 575.000 nel 1700, divenendo la più
grande città d’Europa mentre altre città inglesi rimanevano moto più
piccole.
Questo modello significa più di quanto non sembri a prima
vista. Attesta, tra le altre cose, della trasformazione delle relazioni sociali
di proprietà nel cuore del capitalismo agrario, il sud e il sudest,
dell’espropriazione dei piccoli produttori, dello sradicamento e della
migrazione di una parte della popolazione la cui destinazione sarebbe stata
tipicamente Londra. La crescita di quest’ultima rappresentava la crescente
unificazione non solo dello stato inglese ma anche di un mercato nazionale. Una
enorme città che era lo snodo del commercio inglese – non solo come principale
punto di transito per i traffici nazionali e internazionali m anche in quanto
enorme centro di consumo dei prodotti inglesi, non d ultimi i prodotti
agricoli. La crescita di Londra, in altre parole, sotto tutti i punti di vista
simboleggia l’emergente capitalismo inglese, il suo mercato integrato – sempre
più un unico, unificato e competitivo mercato; la sua agricoltura produttiva; e
la sua popolazione priva di proprietà.
Le conseguenze di lungo termine di tutto ciò dovrebbero
essere abbastanza ovvie. Pur non essendo questo il contesto per approfondire le
connessioni tra il capitalismo agrario e il successivo sviluppo
dell’Inghilterra nella prima economia “industrializzata”, alcuni punti sono
evidenti. Senza un settore agricolo produttivo in grado di sostenere una vasta
forza lavoro non agricola, il primo capitalismo industriale al mondo non
sarebbe emerso. Senza il capitalismo agrario inglese non ci sarebbe stata una
massa di spossessati costretti a vendere la propria forza lavoro per un
salario. In assenza di questa forza lavoro non agraria e priva di proprietà non
ci sarebbe stato un mercato di massa per beni d’uso quotidiano a basso costo –
come cibo e prodotti tessili – i quali hanno spinto il processo di
industrializzazione in Inghilterra. E senza la sua crescente ricchezza, insieme
a nuove motivazioni per l’espansione coloniale – motivazioni diverse dalle
vecchie forme di acquisizione territoriale – l’imperialismo britannico sarebbe
stato una cosa del tutto differente dal motore del capitalismo industriale che
è effettivamente stato. Inoltre (questione certamente più controversa) senza il
capitalismo inglese non ci sarebbe stato nessun tipo di sistema capitalistico: è
stata la pressione competitiva proveniente dall’Inghilterra, specialmente
un’Inghilterra industrializzata, che ha obbligato gli altri paesi a promuovere
il loro sviluppo economica in direzione del capitalismo.
La lezione del capitalismo agrario
Cosa ci dice tutto questo circa la natura del capitalismo?
In primo luogo, ci ricorda che il capitalismo non è una conseguenza “naturale”
e inevitabile della natura umana, o di antiche pratiche come “trafficare,
barattare e scambiare”. Viceversa, si tratta di un prodotto, tardo e
localizzato, di condizioni storiche molto specifiche. L’espansione del
capitalismo, giunta oggi praticamente all’universalità, non è la conseguenza
della sua conformità alla natura umana o ad alcune leggi naturali transtoriche
ma il prodotto delle proprie storicamente specifiche leggi di movimento. Leggi
che richiedono vaste trasformazioni e sconvolgimenti sociali per essere messe
in moto. Richiedono una trasformazione del metabolismo umano con la natura, nel
soddisfacimento delle necessità di base della vita umana.
In secondo luogo, il capitalismo è stato sin dall’inizio una
forza profondamente contraddittoria. Basti solo considerare il più ovvio degli
effetti dl capitalismo agrario: da un lato, le condizioni per la prosperità
materiale erano presenti nell’Inghilterra della prima modernità come mai da
nessun’altra parte; ma dall’altro lato, queste condizioni erano state ottenute
a costo di vaste espropriazioni e di un intenso sfruttamento. È appena il caso
di aggiungere che tali nuove condizioni hanno gettato le basi di nuove, e più
efficaci, forme di espansione coloniale e imperialismo, così come la necessità
stessa di tale espansione, alla ricerca di nuovi mercati e nuove risorse.
Vi è il corollario del “miglioramento”: da una parte, la
produttività e la capacità di nutrire un’ampia popolazione; dall’altra, la
subordinazione di ogni altra considerazione agli imperativi del profitto. Ciò
significava, tra le altre cose, che persone le quali potevano essere nutrite
venivano spesso abbandonate ala fame. Di fatto, c’era una enorme disparità tra
le capacità produttive del capitalismo e la qualità della vita che offriva.
L’etica del “miglioramento” nel suo significato originale, nel quale la
produzione è inseparabile dal profitto, è anche l’etica dello sfruttamento,
della povertà e del vagabondaggio.
L’etica del “miglioramento”, della produttività per il
profitto, è anche, naturalmente, l’etica di un uso irresponsabile della terra
oltreché della devastazione ambientale. Il capitalismo è nato nel
nucleo stesso della vita umana, nell’interazione con la natura dalla quale
la vita dipende. La trasformazione di questa interazione da parte del
capitalismo agrario rivela gli impulsi intrinsecamente distruttivi di un
sistema nel quale i fondamenti dell’esistenza sono assoggettati al profitto.
Detto altrimenti, rivela l’essenza segreta del capitalismo.
L’espansione mondiale degli imperativi capitalisti ha
costantemente riprodotto alcuni degli effetti che avevano già segnato il suo
luogo d’origine. Il processo di espropriazione, l’estinzione dei diritti di
proprietà consuetudinari, l’imposizione degli imperativi di mercato e la
distruzione dell’ambiente sono proseguiti. Un processo che ha esteso l propria
portata dalle relazioni tra classe sfruttatrice e sfruttata a quella tra paesi
imperialisti e paesi subordinati. Più di recente, l’estendersi degli imperativi
di mercato, ha preso la forma, per esempio, dell’imporre (con l’aiuto di
agenzie capitaliste internazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario
internazionale) ai contadini del terzo mondo di sostituire le strategie di
autosufficienza agricola con la specializzazione in colture per il mercato
globale.
Tuttavia, se gli effetti distruttivi del capitalismo si sono
continuamente riprodotti, i suoi effetti positivi non sono stati altrettanto
coerenti. Una volta stabilitosi in un paese, e una volta iniziato a imporre i
suoi imperativi al resto d’Europa e infine al mondo intero, lo sviluppo del capitalismo
in altri paesi non segue mai il corso intrapreso nel suo paese d’origine.
L’esistenza di una società capitalista ha quindi trasformato tutte le altre,
e la successiva espansione degli imperativi capitalisti ha costantemente
modificato le condizioni dello sviluppo economico.
Ormai siamo arrivati al punto in cui gli effetti distruttivi
del capitalismo superano i suoi guadagni materiali. Nessun paese del terzo
mondo, ad esempio, può oggi sperare di raggiungere anche solo lo sviluppo
contraddittorio sperimentato dall’Inghilterra. Con le pressioni della
competizione, dell’accumulazione, e dello sfruttamento imposti da altri sistemi
capitalistici più avanzati, il tentativo di ottenere la prosperità materiale
seguendo i principi capitalisti, rischia sempre più di portare con sé solo il
lato negativo della contraddizione capitalista, la spoliazione e la distruzione
senza i benefici materiali, quantomeno per una vasta maggioranza.
Vi è anche una lezione più generale che può essere tratta
dall’esperienza del capitalismo agrario inglese. Nel momento in cui gli
imperativi del mercato iniziano a stabilire i termini della riproduzione
sociale, tutti gli agenti economici – sia gli appropriatori che i produttori,
anche se mantengono il possesso, o addirittura la proprietà assoluta, dei
mezzi di produzione – sono soggetti alle esigenze della competizione,
dell’incremento della produttività, dell’accumulazione del capitale e dello
sfruttamento intensivo del lavoro.
Del resto, persino l’assenza della divisione tra appropriatori
e produttori non è una garanzia d’immunità (e questo, tra l’altro, è il
motivo per cui il cosiddetto “socialismo di mercato” è una contraddizione in
termini). Una volta che il mercato si è affermato come “disciplina” economica o
“regolatore”, nel momento in cui gli agenti economici divengono dipendenti dal
mercato per la loro stessa riproduzione, anche i lavoratori in possesso dei
loro mezzi di produzione, individualmente o collettivamente, saranno obbligati
a rispondere agli imperativi del mercato – e dunque a competere e accumulare, a
lasciar fallire le aziende “non competitive” e i loro lavoratori, nonché a
sfruttare se stessi.
La storia del capitalismo agrario e di tutto ciò che ne è
derivato, dovrebbe rendere chiaro che ovunque gli imperativi del mercato
regolano l’economia, e governano la riproduzione sociale, non ci sarà via di
scampo dallo sfruttamento.
Nessun commento:
Posta un commento