Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base
dell'analisi
marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del
valore
La tesi che nell'economia capitalistica il lavoro salariato sia
"sfruttato" costituisce il nodo centrale della teoria marxiana: talmente
essenziale che abbandonarlo implica approdare alla costruzione di un marxismo
senza Marx.
Chi propone un'affermazione del genere ha però l'obbligo di
affrontare la sfida degli attacchi a quella teoria. Attacchi sempre più
efficaci, tanto che difficilmente qualcuno osa richiamarvisi al giorno d'oggi.
Le ragioni delle critiche più diffuse sono presto dette. Sul terreno dei
principi, non terrebbe il fondamento su cui Marx costruisce la teoria del
valore, ovvero la riconduzione di quest'ultimo a nient'altro che lavoro. Sul
terreno dei fatti, si sarebbero esaurite le basi materiali del discorso marxiano.
Per un verso, assisteremmo ad una tendenziale "fine del
lavoro", e non ad una sua sempre più pervasiva centralità. Per l'altro,
sarebbe ormai scomparsa quella figura del lavoratore omogeneo perché
dequalificato in cui si tradurrebbe empiricamente la nozione marxiana di
"lavoro astratto".
Vale la pena di partire da una rilettura delle basi
categoriali della critica dell'economia politica. Il ragionamento di Marx è il
seguente. Nel processo capitalistico i lavoratori salariati riproducono il
valore dei mezzi di produzione impiegati (trasferendo in avanti il lavoro morto
storicamente ereditato dal passato) e aggiungono un neovalore. Quest'ultimo
rappresenta sul mercato in forma monetaria il lavoro "vivo" speso nel
periodo corrente e oggettivato nel reddito nazionale. Il valore di tutta la
forza-lavoro occupata è dato dal lavoro contenuto nella "sussistenza"
merceologicamente definita, il "lavoro necessario".