*Da: http://www.alternativeperilsocialismo.it/
Affronterò essenzialmente due questioni: la natura della crisi e i tempi, l’Europa.
Affronterò essenzialmente due questioni: la natura della crisi e i tempi, l’Europa.
Il quesito che cerco di pormi da qualche anno, in
riflessione congiunta con Joseph Halevi, è quale crisi di quale capitalismo
stiamo vivendo. L’ultima nasce come crisi finanziaria il 9 luglio 2007,
istantaneamente è anche crisi bancaria tradotta da settembre-ottobre scorsi in
maniera del tutto evidente in crisi reale.
Molti i luoghi comuni per
affrontarla, che hanno sempre un aspetto di verità ma anche un altro
distorcente. Si tratta di una crisi finanziaria che uccide un’economia reale?
Questa mi sembra una posizione discutibile perché quello che cercherò di
sottolineare è l’intreccio tra una finanza perversa e una economia reale
altrettanto perversa.
L’altra tesi è che sia la crisi di un mondo di bassi salari,
in cui c’è stata una redistribuzione a danno del lavoro che alla fine si
traduce in una crisi da domanda.
Di nuovo questo - come la perversione della finanza -
è un fatto reale ma spiega molto poco perché è esistente da molto tempo. Terzo luogo comune: è una crisi del neoliberismo - e anche qui c’è una verità - ma il neoliberismo viene inteso come sostanzialmente il ritorno dopo il 1980 a politiche di “lasciar fare”, mentre a mio parere siamo vissuti in un pieno di politiche economiche e si tratta di capirle.
La tendenza alla stagnazione
Come riportato dal Financial Times il 2 marzo 2009, si
tratta di una crisi più grave di quella del 1973 e della new economy - simile a
quella arrivata a metà della crisi del 1929 - dopo c’è stata una ripresa
azionistica e borsistica che si tratterebbe di commentare. Se ci collochiamo in
un’ottica di lungo periodo vediamo che questa nuova grande crisi dopo quella
del Trenta, in cui la crescita del Pil fu solo dell’1.3, sta dentro un
rallentamento dei tassi di crescita dagli anni Settanta in poi e
sostanzialmente il periodo dagli anni Ottanta a oggi vede prevalere una
tendenza alla stagnazione.
Questa considerazione nasconde però un fatto, che c’è una
modifica nel regime capitalistico dalla metà grosso modo degli anni Novanta per
cui il regime capitalistico, a suo modo, non in Giappone non in Europa, è stato
un regime particolarmente dinamico anche se non disegualitario. Il capitalismo
dopo l’80, ma in particolare dagli anni Novanta fino ad oggi, è stato
caratterizzato da una crescita dell’indebitamento privato. Questo indebitamento
si è costruito negli anni Ottanta ma il nuovo modello - che chiamiamo un po’
per scherzo e polemicamente il “nuovo capitalismo” - si è costituito pienamente
negli anni Novanta. Ma questo non dice ancora tutto perché il problema è capire
chi davvero si indebita nel settore privato. Sostanzialmente il periodo del
cosiddetto neoliberismo si divide in due: gli anni Ottanta-primi Novanta e il
periodo successivo.
Il primo periodo inizia con la cosiddetta controrivoluzione
monetarista in cui Volcker - nominato dal presidente Jimmy Carter nel 1979 come
governatore della Banca centrale americana - alza violentemente i tassi di
interesse nominali e reali. Reagan e la Thatcher vanno al governo all’insegna
di un attacco al lavoro e al welfare: aumenta l’incertezza e salgono i tassi di
interesse, dunque cadono gli investimenti. Viene attaccata la spesa pubblica,
soprattutto sociale, cade il salario come quota del reddito. Ora, visto che il
mondo è un’economia chiusa, la domanda è come mai la grande crisi come negli
anni Trenta non si è prodotta negli anni Ottanta?
In effetti noi pensiamo che si sia realizzata una sorta di
tendenza stagnazionistica, ma che si siano verificate delle controtendenze
politiche. La più rilevante è il cosiddetto doppio disavanzo di Reagan a metà
degli anni Ottanta, quindi una espansione della spesa pubblica soprattutto
militare che ha poi fornito domanda all’interno, ma anche al resto del mondo,
attraverso il secondo disavanzo nella bilancia commerciale che ha fornito
domanda ai neomercantilismi in giro per il mondo che allora erano
essenzialmente Giappone, Germania e qualche altro Paese europeo, ma anche a suo
modo un tipo di mercantilismo debole che era quello di parte dell’apparato
industriale italiano.
Se noi però ci concentriamo sulla dinamica degli Stati
Uniti, ci rendiamo conto che l’indebitamento non è stato delle imprese private
non finanziarie per un aumento degli investimenti ma sempre più delle imprese
finanziarie, cioè della finanza su se stessa, e poi sempre più delle famiglie
soprattutto dalla metà degli anni Novanta. Entrambi dentro un processo -
parafrasando Marx - di sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito e
di confinduzione di una terna che definisco: del lavoratore traumatizzato, del
risparmiatore maniacale depressivo e del consumatore indebitato.
Il lavoratore
traumatizzato
Dagli anni Sessanta in poi si verifica la crescita sempre
più rapida del debito nel settore finanziario - mentre la crescita
dell’indebitamento delle imprese non finanziarie dagli anni Ottanta in poi
rimane sostanzialmente invariato fino al 2003-2004 - e l’indebitamento delle
famiglie cresce dalla metà degli anni Ottanta per esplodere dalla metà degli
anni Novanta per cui i profitti vengono registrati essenzialmente dal settore
finanziario, la cui quota negli Usa sui profitti totali è crescente.
Perché questo risultato si è prodotto? Il lavoratore
traumatizzato - espressione di Greenspan - è un fenomeno che esprime la
precarizzazione in un senso generale del lavoro e dell’esito delle
ristrutturazioni dei quindici anni precedenti della lunga ondata del
neoliberismo - da Reagan e dalla Thatcher - ma è anche il risultato del raddoppio
dell’offerta mondiale di lavoro dopo il 1989. Il 1991 vede sul mercato
l’entrata dei lavoratori dell’Est Europa, della Cina e dell’India.
Dalla metà degli anni Novanta si determina una situazione
nuova che gli economisti definirebbero “l’appiattimento, l’orizzontalità della
curva di Philips”: quando si riduce l’occupazione i salari non aumentano.
Questa fu l’intuizione di Greenspan a metà degli anni Novanta. Si crea dunque
di nuovo la possibilità nel capitalismo di una piena occupazione, ma non con alti
salari progressivamente e lavoro stabile della cosiddetta età keynesiana, ma in
una situazione di piena sotto occupazione di una forza lavoro precaria.
Ma questo non risolve il problema: se sostanzialmente dagli
anni Ottanta in poi il capitalismo non è crollato, la domanda la si è trovata
da qualche parte.
Per capirne di più bisogna spostarsi dal lavoratore
traumatizzato alle altre figure: dal consumatore maniacale depressivo al
consumatore indebitato.
Una grande novità del capitalismo, particolarmente visibile
dagli anni dei fondi istituzionali, su cui Luciano Gallino ha pubblicato
ultimamente un libro, che autori francesi chiamano il “capitalismo
patrimoniale”, in cui è tornato il primato della finanza sull’industria ma è
paradossalmente il primato dei piccoli risparmiatori, dei piccoli azionisti in
forma alienata attraverso i gestori finanziari. Una situazione in cui la
valorizzazione delle imprese è in realtà la valorizzazione delle azioni.
Fondi e titoli
Si tratta di una vera e propria sussunzione reale dei
lavoratori alla finanza che ha effetti reali, influisce sul modo con cui le
imprese realmente operano, influisce sui processi di lavoro. I fondi
istituzionali, i gestori finanziari entrano a definire la corporate governance
delle imprese, gli stessi manager - che dovrebbero essere soggetti passivi - ne
sono ben contenti perché sono sostanzialmente cooptati in questo meccanismo:
vengono portate avanti delle ristrutturazioni che valorizzano i costi azionari
anche se deprimono occupazione e produzione.
Un punto significativo è che questo tipo di capitalismo -
che ha incluso in forma alienata le famiglie e il mondo del lavoro - ha un
risultato paradossale. Le imprese non finanziarie si trovano a offrire sul
mercato dei titoli, in particolare delle azioni, di fronte ad una domanda che
cresce molto perché negli Usa, in Inghilterra e poi in giro nel mondo, si
costituisce questo capitalismo dei fondi pensione. Le imprese riescono a
finanziarsi con azioni sostanzialmente a basso costo con i costi delle azioni
che vanno su e i tassi di interesse che vanno giù e tendono a
sovracapitalizzarsi.
Questo aspetto contribuisce a spiegare la non crescita
dell’indebitamento e spiega l’esplosione finanziaria. L’indebitamento arriva
alle imprese ma in forma forzata. Le imprese non sono indebitate perché
investono ma, eventualmente - in forza di questo processo in cui i finanzieri
riescono a comprare delle imprese a debito - poi alla fine le smontano, le
ristrutturano, le vendono caricandoci sopra il debito. Qualcuno dice che
l’ultima incarnazione di ciò sia Sergio Marchionne, amministratore delegato
della Fiat, ma in questo caso la situazione è probabilmente più complicata.
In tale universo le imprese non crescono in modo
verticalmente integrato ma crescono articolandosi in un sistema di unità
produttive più piccole messe in rete, in quella che si potrebbe chiamare una
situazione di centralizzazione, fusione e acquisizioni senza concentrazione,
senza crescita delle grandi imprese.
Il risparmiatore maniacale.
In questa situazione dalla metà degli anni Novanta in poi la corsa verso l’alto dei titoli aumenta la ricchezza delle famiglie che sentendosi più ricche possono consumare sempre di più e più del proprio reddito, e magari a debito. Il risparmiatore in fase maniacale gestita dai vari manager, scompare come risparmiatore ed esiste come consumatore indebitato. Questo è un processo che viene gestito da politiche monetarie sempre più espansive, non c’è paura dell’aumento dei prezzi e dei salari, l’aumento del costo dei titoli è ritenuto positivo, ma è però un processo non solo instabile ma anche insostenibile, infatti crolla nel 2000-2001.
Dal 2003 in poi il meccanismo è lo stesso della new economy,
solamente che al posto della crescita del valore delle azioni c’è la crescita
del valore immobiliare, e un progressivo indebolimento della solidità delle
banche legate anche all’innovazione finanziaria. C’è anche la necessità, per
tenere su il meccanismo, di inglobare le famiglie povere attraverso i subprime.
Quindi il meccanismo crolla di nuovo perché si basa sulle banche che sono
diventate intrinsecamente fragili - essendo dovute passare da debitori più
teoricamente “sani” ad un meccanismo speculativo che cresce su se stesso in cui
il rischio non si sa più dove sia andato a finire - e la debolezza dei debitori
ultimi. L’illusione che ci si potesse sganciare da questo meccanismo, perché
Brasile, Russia, India e Cina fino adesso erano indipendenti dagli Stati Uniti
e noi scappavamo lì, si è rivelata un’illusione, appunto. I neomercantilismi
sono crollati con ritardo ma tanto più violentemente in quanto legati alle esportazioni.
Segnali di speranza?
C’è luce in fondo al tunnel? C’è stata qualche ripresa da
marzo in poi? Non ci sono dati reali che a conforto, la piccola ripresa è
legata forse al ciclo delle scorte e al bisogno di una fiducia, però ci sono
delle ragioni. Le ragioni sono il Piano di Geithner-Summers che ha risolto - o
così spera la finanza - la questione dei titoli tossici, scaricandone però i
costi sostanzialmente sulla finanza pubblica e dunque sulle imposte, il che
vincola la risposta di Barack Obama perché riduce la quantità già di spesa
pubblica che può fare adesso e che potrà fare domani in termini di maggiore
domanda finalizzata. Seconda ragione della speranza: il G20 qualche risultato
l’aveva dato, in particolare con il rifinanziamento del Fondo monetario
internazionale, in particolare in un contesto in cui soprattutto nell’Europa
dell’Est ma anche altrove c’erano e ci sono ancora all’orizzonte possibilità di
crisi. La finanza era contenta del Piano Geithner-Summers ma non poteva non
essere contenta anche di questo perché in realtà se si crea un fallimento per
esempio all’Est e va in crisi l’Austria, i soldi del Fmi possono garantire di
stare sopra il pelo dell’acqua e comunque tornerebbero alla finanza.
L’altra ragione di fiducia è l’enorme iniezione di massa
monetaria che si poteva sperare facesse ripartire il credito. In realtà non è
così, ed è una cosa positiva perché significa che le banche non fanno il loro
lavoro. Lo fa la Federal Reserve per esempio, però il problema è che le banche
attualmente sono degli zombie. Il problema non è creare un aumento di offerta
di moneta ma creare le condizioni in cui ci sia qualcuno che questa domanda di
moneta la fa.
Veniamo all’Europa. Se si guarda alla situazione dei conti
correnti nella bilancia dei pagamenti, vediamo che questa è la storia degli
Stati Uniti dal 1997 in poi - negativa -, un’altra è la storia sempre più
crescente dei Paesi dell’Asia emergente, in cui c’è un cambiamento progressivo
di velocità dopo il 2000.
L’eurozona è in pareggio,ma per il fatto che è divisa in
Paesi esportatori e Paesi importatori. Germania, Olanda, la Svizzera e altri
Paesi stanno tra i grandi esportatori; Francia, Inghilterra, Spagna e Italia
tra i grandi importatori.
Ma tornando al 2005-2007, se togliessimo il petrolio, l’Italia
starebbe tra gli esportatori. Come uscirne? Qualcuno spera nella Cina come
nuova locomotiva.
In realtà, la Cina è in una situazione tale per cui la sua
crescita va sotto l’8% - che per le sue particolari condizioni equivale a una
specie di esplosione sociale - ma anche se riuscisse ad aumentare la domanda al
suo interno la risposta di produzione la farebbe sempre al suo interno, quindi
difficilmente può essere pensata come una locomotiva. L’Europa certo è nelle
condizioni migliori, in astratto, per costituire un’alternativa ma non può
farlo perché ci sono i neomercantilismi in conflitto e la Germania ragiona come
Paese nazionale e non come egemone.
Sostanzialmente tutti i neomercantilismi in giro per il
mondo ma anche in Europa, incluso il debole neomercantilismo italiano,
funzionano ragionando così: aspettiamo che passi la nottata, Obama farà
ripartire la crescita quindi il vecchio meccanismo, una finanza un po’ più
regolamentata, e noi potremo agganciarci di nuovo con le esportazioni. Ne
consegue che la crisi è valutata come meccanismo per ripulire ancora la
situazione del mondo del lavoro, per compiere una serie di riforme anche
strutturali che nella crisi si possono dispiegare meglio che altrove. È il caso
la riforma delle pensioni: adesso si riconosce che occorre aumentare la spesa
pubblica, ma a termine e per essere credibili bisogna abbattere la spesa
pensionistica.
Questa è la cartina di tornasole per capire il carattere
sociale della risposta alla crisi. Infine, è necessaria anche una revisione degli
ammortizzatori sociali ma questa va effettuata modificando il sistema degli
ammortizzatori sociali.
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