Si parla assai spesso e a ragione di “pensiero unico”, per
sottolineare come la cultura mass-mediatica, in tutte le sue forme, comprese le
sue rozze espressioni politiche, sia dominata da un'unica concezione del mondo,
scaturita dalla cosiddetta fine delle ideologie, improntata ad un facile
pragmatismo che incanta l'uomo pratico e concreto, e talvolta intrisa di un
buonismo ipocrita auspice del rispetto dell'altro e pronto ad agitare la
“cultura dell'accoglienza”.
Tale concezione del mondo si incarna nel neoliberismo,
affermatosi negli ultimi decenni del Novecento a causa di un complesso di
fattori, i quali hanno contribuito al consolidarsi di quello che Ernest Mandel
definisce “tardo capitalismo” (Der Spätkapitalismus, Francoforte 1972).
Naturalmente il richiamo al buonismo e alla “cultura dell'accoglienza” non sono
elementi costitutivi del neoliberismo, che si presenta limpido nella sua spietatezza,
ma che taluni amano rivestire di tali pietosi veli per non fa sobbalzare i
ricettori del suo messaggio.
L'emergere del neoliberalismo coincide con l'attacco
condotto allo Stato sociale, e quindi con l'assalto ai diritti sociali
dell'individuo che facevano di esso un membro della comunità, nel cui seno
avrebbe dovuto trovare tutti quegli strumenti idonei a trasformarlo in un
cittadino a tutti gli effetti. Con Margaret Thatcher abbiamo imparato che la
società non esiste e che ognuno deve farsi carico individualmente del proprio
“successo” sociale [1], anche nel caso in cui ciò significa il raggiungimento
stento della mera sopravvivenza.
Esso ha rappresentato l'abbandono del keynesismo postguerra
e il ritorno al monetarismo, ma al tempo stesso in esso si è coagulata la
reazione alle vittorie conseguite dai lavoratori sul piano sociale, dovute
anche allo scenario internazionale, in cui il “capitalismo puro” aveva dovuto
moderarsi per l'esistenza di un modello alternativo, pur con tutti i suoi problemi.
La ristrutturazione socio-economica neoliberale,
concretatasi nell'antistatalismo e nello anticollettivismo, ha partorito regimi
populisti autoritari, che hanno rimaneggiato la democrazia formale, per
esempio, con le leggi elettorali maggioritarie, e che fanno appello
direttamente al “popolo” o alle “persone” [2], mettendo tra parentesi la
collocazione di classe e fomentando le divisioni etniche e religiose.
Tali processi sono stati accompagnati dall'indebolimento
degli Stati, non dotati di un significativo apparato militare, dovuto alla
sempre più capillare internazionalizzazione del mercato e al rilancio
dell'imperialismo; fenomeni che hanno reso sempre più aspri i conflitti tra le
potenze che controllano le diverse regioni del mondo e che spesso si combattono
in maniera indiretta, fomentando contrasti e divisioni.
La frammentazione del tessuto sociale e l'accento posto
sull'individuo, presentato come l'autentico attore sociale, hanno
comportato la dissoluzione delle grandi organizzazioni di massa (partiti e
sindacati); il loro ruolo è stato ridimensionato anche dall'impossibilità di
offrire ai loro seguaci una scelta tra sistemi sociali diversi, oltre che dalle
relazioni collusive che i loro leader hanno intessuto con i detentori del
potere economico e politico.
Tutto ciò ha generato la perdita di identità
politiche e sociali, che erano state costruite nel corso di esperienze
storiche problematiche e dolorose, ma coagulanti e coinvolgenti, e la ricerca
di elementi di identificazione in entità sempre più ripiegate su se stesse e
volte a ribadire la loro peculiarità e specificità, rifiutando anche l'ipotesi
dell'esistenza di prospettive comuni, che potrebbero orientare le varie forme
di protesta. Un esempio tra tutti potrebbe essere il femminismo differenzialista,
che rifiuta l'emancipazione della donna, così come era stata tradizionalmente
intesa, rinunciando alla parità dei diritti dei sessi, non comprendendo che
quest'ultima non deve esser abbandonata, ma coniugata con il rispetto per la
specificità femminile [3].
È interessante osservare che già nel 1968 l'antico
consigliere del presidente Carter,Zbigniew Brzezinski,
descriveva questi processi, riflettendo su quello che sarebbe stato il ruolo
degli Stati Uniti (lui dice America) nella cosiddetta era tecnotronica,
nella quale a partire dal 2000 – secondo la sua opinione - si sarebbero
realizzati cambiamenti così radicali che avrebbero fatto impallidire
Robespierre e Lenin (America in the Technetronic Age,
“Encounter” 1968) [4].
Nell'opinione di Brzezinski l'espressione “tecnotronica”
indica la rivoluzione scientifica e tecnologica, che caratterizza il periodo
storico, iniziato verso la fine del Novecento, e che si fonda sullo
straordinario sviluppo delle telecomunicazioni, dell'informatica e sull'uso
sempre più esteso dei computer; periodo verso il quale, quando Brzezinski
scriveva, gli Stati Uniti, primi tra tutti, si stavano avviando. A suo parere,
in questa fase, il processo industriale non costituisce più la determinate
principale delle trasformazioni, il cui impatto avrebbe prodotto il cambiamento
dei costumi, della struttura e dei valori della società. Questo mutamento
avrebbe generato la separazione degli Stati Uniti dal resto del mondo,
promuovendo un'ulteriore frammentazione in un'umanità già profondamente
differenziata, e avrebbe imposto a questi ultimi lo speciale compito di
alleviare i dolori scaturiti da questo scontro (Ibidem, p. 16).
D'altra parte, tali trasformazioni – sempre nell'ottica di
Brzezinski – inducono a un ripensamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo
– ovviamente sempre egemonico [5] -, non più orientato a combattere il
comunismo o a favorire lo sviluppo delle differenze, ma a diffondere in
modo capillare le conoscenze tecnologiche e scientifiche. E questo è
facilitato dalla costituzione di vaste corporazioni internazionali,
principalmente radicate negli Stati Uniti, le quali rendono agevole il
trasferimento delle abilità, delle tecniche di management, delle
procedure di marketing e delle innovazioni tecnologiche e
scientifiche.
Questo ampio e capillare programma ideologico,
nel quale si palesa quel pensiero unico su menzionato e che vuol imporre a
tutti gli spazi culturali la logica del mercato, sarà realizzato per mezzo del
sistema universitario dei vari Paesi, modificato per l'influenza di quello
statunitense (come è di fatto avvenuto anche nel nostro Paese). Quando esso si
sarà realizzato – scrive Brzezinski - sarà possibile che gli studenti della
Columbia University e quelli dell'Università di Teheran ascoltino allo stesso
tempo la lezione di uno stesso docente (immagino statunitense e non iraniano)
(Ibidem, p. 26).
La riflessione di Brzezinski si richiama a un noto sociologo
statunitense, Daniel Bell, il quale in un articolo del 1967 (Notes
on the Postindustrial Society, “The Public Interest, n.5 e 7) introduce
appunto il termine postindustriale, che tanta fortuna ha avuto e
che è stato coniugato con quello di postmoderno, la cui
utilizzazione propone di intendere il passaggio dalla società moderna a quella
successiva nei termini di una rottura e di un cambiamento radicale.
Su tale complicato problema interpretativo mi limito a
citare la riflessione di Fredric Jameson, il quale, riproponendo la
tesi del già menzionato Mandel, sostiene che la postmodernità costituisce una
fase, la terza del capitalismo (tardo capitalismo)e che scivoleremmo in una
“celebrazione pseudoutopica della nostra epoca ‘internettiana’, se al contempo
non affermassimo la continuità tra la soggiacente dinamica economica della
postmodernità e della globalizzazione con le strutture analizzate da Marx nelle
prime epoche del capitalismo”.
Sempre seguendo Mandel, Jameson afferma che “il nostro è un
capitalismo più puro, in piena sintonia con le analisi di Marx… [in questo
senso] la modernità è l'espressione di una modernizzazione incompiuta e la
postmodernità di una modernizzazione e di una mercificazione tendenzialmente
molto più compiute rispetto a quanto finora si è visto nella storia” (Postmodernismo,
ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi Editore, Roma 2007,
edizione digitale, pp. 5-8).
C'è un libro sovietico che mi preme menzionare, perché
sicuramente non molto conosciuto, nel quale si pone lo stesso problema su cui
riflette Brzezinski: studiare i mutamenti prodotti dalla rivoluzione
tecnico-scientifica del Novecento e ipotizzare il percorso che essi intraprenderanno
nel futuro. Sto parlano del libro di Edvard A.Arab-Ogly Nel
labirinto dei vaticini, uscito in Italia per le Edizioni Progress (Mosca
1977), nel quale si analizza, tuttavia, anche un altro aspetto importante:
nelle trasformazioni, che si sono realizzate nella società
postindustriale, secondo l'autore sovietico si concretano i progetti di
cambiamento auspicati e messi in opera dai grandi centri di ricerca
sociologica, legati al capitale transnazionale impiantato in gran misura negli
Stati Uniti. Tali progetti sarebbero stati, dunque, una sorta di vaticini e di
profezie, che si sono auto-relizzati, e nei quali si manifestava ciò che i
centri di potere desideravano di realizzasse.
A questo punto mi sembra di aver indicato una serie di
elementi sufficienti che ci permettono di stabilire una serie di collegamenti
con il cosiddetto pensiero postmodernista, che sicuramente
costituisce una galassia di tendenze, ma che presenta un insieme di tratti in
profonda sintonia con il pensiero neoliberale; tratti che d'altra
parte scaturiscono dalle dinamiche stesse della società postindustriale, come
sostiene il già menzionato Jameson.
Mi sembra che sia individuabile un parallelismo tra la messa
in crisi degli Stati, delle grandi organizzazioni di massa, il cui
dissolvimento però, secondo Brzezinski, produce individui senza scopo e
motivazione ad agire, alla cosiddetta crisi della razionalità moderna, intesa
come dimensione che si propone indebitamente di inglobare e di dar conto le
razionalità locali; e questa crisi viene descritta dai postmodernisti come un'acquisizione
emancipatoria, giacché come scrive Gianni Vattino, fautore del pensiero
debole, “caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il
mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di
razionalità ‘locali’ - minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o
estetiche - che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse
dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di
tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere,
contingenti” (La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p.
17).
Tale posizione di Vattimo ci fa immediatamente pensare al
tema del frammento e a quello dell'alterità, così
rilevanti nel pensiero postmoderno; puntelli di una visione dell'universo in
cui le singole entità – in realtà mai stabili e consistenti, siano esse di
natura sociale o individuale - non si muovono secondo una logica comune, ma
secondo le loro specifiche prospettive; e proprio per questo esse costituiscono
brandelli che possono casualmente intersecarsi o anche entrare in conflitto;
per taluni non possono nemmeno comunicare e comprendersi, perché dipendenti da
logiche profondamente diverse, e in questo senso reciprocamente “altre” e
incommensurabili.
Questo sarebbe il mondo nel quale esplodono le differenze,
veicolate attraverso le immagini dai mass-media, che offrono ai
singoli modalità differenti di autorealizzazione, consentendo loro –
nell'interpretazione postmoderna - una maggiore valorizzazione delle loro
potenzialità personali. Il mondo del multiculturalismo, delle differenze e
delle specificità, è descritto però in un solo suo aspetto, e cioè senza tenere
conto che tale deflagrazione delle diversità, che si manifesta anche in
conflitti sanguinosi nel caso dei conflitti etnici o intereligiosi [6], sorge e
si sviluppa come risultato di un progetto soggiacente; progetto che, come si è
visto, mira a frantumare tutte quelle entità collettive a vario livello che
possono ostacolare l'espansione del tardo capitalismo con le sue istituzioni
transnazionali, facendolo ipocritamente in nome della valorizzazione
dell'individuo. Entità, inoltre, cui non si attribuisce nessuna stabilità
identitaria, giacché sono continuamente attraversate da flussi mentali e
culturali di segno diverso, diffusi dai continui input mass-mediatici e suscitati
in ultima analisi dalle sollecitazioni cangianti e variabili del mercato dei
consumi.
Questo tema è sviluppato, in particolare, da altri due
pensatori (Richard Sennett e Zygmunt Bauman) che
riflettono sull'instabilità identitaria dell'uomo postmoderno, costretto a
vivere in un eterno presente, in uno stato di continua precarietà (in primis lavorativa),
impossibilitato a pianificare il suo futuro e anche solo ad immaginare una
prospettiva di emancipazione.
Bisogna osservare che tale homo novus,
proprio per i suoi tratti caratteriali, non è più dotato di una forte tempra
morale, di reale capacità di opposizione e di resistenza, giacché si trova ad
essere quotidianamente irretito nella continua ricerca della soddisfazione di
bisogni contingenti ed effimeri, sempre nuovi e sempre più artificiali. Egli è
stato stroncato nella sua stessa fibra psicologica e ridotto ad apparato
passivo di ricezione degli infiniti impulsi derivanti dalla spaventosa
complessità del mondo esterno, che producono solo un senso di spaesamento e disorientamento,
dal quale secondo il pensiero postmoderno dovrebbe derivare uno stato di euforia.
Se così stanno le cose, mi pare si è realizzata – già da
tempo - una bizzarra alleanza tra i neoliberisti, che vogliono tornare al laissez
faire e all'enfasi sull'individuo come agente sociale, e quegli
anti-modernisti - tali si dichiarano - che invece desiderano sbarazzarsi delle
istituzioni fondative della modernità e del suo pensiero generalizzante e
omologante, in nome del multiculturalismo e della molteplicità infinita dei
processi, nei quali costantemente si dissolvono tutte quelle entità, cui
inopinatamente attribuiamo una qualche permanenza e che, invece, debbono essere
aperte ai multiformi influssi provenienti dall'esterno.
E questa alleanza si basa sul legame
stretto che c'è tra razionalità e socialità, nel senso che entrambe propongono
una forma di organizzazione, sia pure di distinte sfere della realtà, le quali
- a differenza di quanto pensano i postmoderni - non sono necessariamente omologanti
e insensibili alle diversità, né possono esser tout courtidentificate
con la forma storica da esse assunta nella società capitalistica. E, d'altra
parte, abbiamo visto che il mondo diviso, che prorompe nelle numerose
diversità, costituisce solo una dimensione sia pure importante e significativa
di processi, che si stanno sviluppando secondo un disegno, un piano, come
possiamo ricavare dalle riflessioni di Brzezinski e degli autori statunitensi
che scrivono negli anni '70 opere futurologiche.
Disegno e piano che, tuttavia, non può esser condiviso
perché - come può comprendere l'analista critico del pensiero unico - porta con
sé una sempre più accentuata polarizzazione della ricchezza e del
potere, dalla quale scaturiscono conflitti sempre più diffusi e insanabili,
che possono sfociare in una deflagrazione mondiale, in cui la stessa
sopravvivenza del genere umano diventa assai problematica.
Concludendo, mi sembra opportuno tornare alla riflessione di
Jameson, che ci invita a riprendere un'osservazione dialettica presente nel Manifesto
del Partito comunista, nella quale si sottolinea che “il capitalismo è la
cosa migliore che sia mai capitata alla razza umana, e la peggiore” (op. cit.
p. 78). Da questa osservazione Jameson ricava che bisogna attribuire un valore
positivo all'instaurazione dello “spazio sempre più globale e totalizzante del
nuovo sistema-mondo”, dal quale bisogna partire, tuttavia, per elaborare “una
nuova arte politica”, il cui compito è quello di rappresentarlo, fornendoci di
esso una cartografia cognitiva su scala sociale e spaziale. Con il suo aiuto
“potremo ricominciare a intendere la nostra posizione [nello spazio mondiale
del capitalismo multinazionale] in quanto soggetti individuali e collettivi e a
riconquistare una capacità di agire e di lottare, che al presente è
neutralizzata dalla nostra confusione spaziale e sociale” (op. cit. p. 85).
Confusione che, a mio parere, con l'enfasi sul frammento,
sull'alterità e sulle specificità irriducibili degli individui e delle diverse
forme culturali i postmodernisti hanno certamente contribuito ad alimentare,
occultando in maniera consapevole o inconsapevole quel disegno soggiacente e
frantumante, i cui effetti drammatici e devastanti sperimentiamo tutti i
giorni.
Note
[1] Questa è la frase completa della Thatcher, pronunciata
in un'intervista del 1987: “La vera società non esiste. Ci sono uomini e donne,
e le famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone. La
gente deve guardare prima a se stessa. È nostro dovere badare a noi stessi e
poi prendersi cura del prossimo” (D. Keay,Woman's Own, 31 ottobre 1987,
pp. 8-10).
[2] Come fa spesso Susanna Camusso.
[3] Per esempio, rifiutando che le donne vadano in pensione
alla stessa età degli uomini, perché hanno compiti riproduttivi e assistenziali
differenti rispetto a questi ultimi.
[5] Come è noto, stiamo vivendo nel “secolo americano”.
[6] Nei quali prendono corpo conflitti di altra natura e di
altra origine, anche se ciò non significa che i primi siano una mera apparenza.
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