Il frammento: http://www.doppiozero.com/materiali/marxiana/frammento-sulle-macchine
“Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione ai lavoratori, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero, e si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale. L’arricchimento di forza produttiva sociale da parte del lavoratore collettivo, e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive individuali di ciascun lavoratore” [K.Marx, Il Capitale, I.12,5].
“Le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che l’officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini”, scriveva il maestro di Smith, Adam Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, già nel 1767. E quelle parti “umane” della macchina non contengono più neppure un briciolo di “intelligenza generale” del processo. Tutt’al più conservano, per poco tempo ancora, alcuni segreti e astuzie. La separazione del lavoro dal sapere, anziché essere superata col cosiddetto postfordismo (come alcuni vorrebbero far credere), e tuttavia neppure creata da esso, rimanda alla divisione del lavoro storicamente rilevante nelle società classiste, ai fini dell’affermazione del dominio di una classe (casta, ordine, ecc.), che è quella tra lavoro mentale e lavoro fisico. Con lo sviluppo della grande industria, il lavoro mentale e quello intellettuale (o meramente fisico cerebrale) vengono sottomessi realmente al capitale per la sua autovalorizzazione, nella produzione di plusvalore e poi nella sua circolazione. Non solo, ma i loro stessi risultati, derivanti dalla combinazione del lavoro sociale, sono continuamente incorporati come scienza e tecnica nel corpo materiale delle macchine del capitale.
L’ossificazione della moderna divisione classista del lavoro
si ha perciò col passaggio dalla manifattura alla grande industria. Qui viene
infatti riprodotta artificialmente la divisione del lavoro, attraverso la
divisione delle funzioni ormai incorporate nelle macchine. Dal lato delle
condizioni soggettive della produzione, l’intero processo si presenta perciò
come scomposizione del lavoro, che era del singolo, ricombinato socialmente nel
“lavoratore collettivo”. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero,
replicata dalla grande industria, è caratterizzata dal fatto che il lavoratore
parziale, col lavoro individuale, non produce più nessuna merce, ma prodotti
anch’essi parziali. Solo il prodotto comune del lavoro collettivo dei
lavoratori parziali - la cui connessione è mediata dalla vendita di diverse
forze-lavoro allo stesso capitalista - si trasforma in merce. La sua
compravendita avviene solo all’interno della società. La divisione sociale del
lavoro si manifesta come divisione particolare, grazie alla divisione in
dettaglio che accompagna quella a tipo manifatturiero (tecnica). A seguire la
grande fabbrica fordista, l’organizzazione di tipo toyotista razionalizza e
amplifica ulteriormente tali caratteri, in un processo che semplifica e
“astrattizza” sempre di più il lavoro di massa, dequalificandolo e potendolo
rendere per ciò stesso “multifunzionale”.
Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel
complesso il modo di lavorare del singolo, prima la manifattura e poi la grande
industria lo rivoluzionano da cima a fondo. E le procedure e le tecniche di
postfordismo e qualità totale sono tutte assolutamente inscritte nella forma
della grande industria. Prendendo così alla radice la forza-lavoro individuale,
anche la forza-lavoro combinata del lavoratore collettivo passa, con tutto il
suo sapere e le sue conoscenze, sotto il controllo e la proprietà del capitale
nella forma di macchina, di automa e di autocrate. Le cognizioni,
l’intelligenza e la volontà che il lavoratore indipendente esercitava e
sviluppava, anche se su piccola scala, ormai sono richieste soltanto per il
complesso dell’officina, della fabbrica o dell’ufficio. Le potenze
intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché
scompaiono da molte parti. Quel che i lavoratori parziali perdono si concentra
nel capitale, di contro a loro. Marx non poteva essere più chiaro circa le
conoscenze sviluppate e assorbite dal capitale e dalle sue macchine, senza
bisogno di inventarsi suoi attributi cognitivi o quant’altro. “Questa
contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di
produzione ai lavoratori, come proprietà non loro e come potere che li domina,
è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero, e si completa
nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva
indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale.
L’arricchimento di forza produttiva sociale da parte del lavoratore collettivo,
e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze
produttive individuali di ciascun lavoratore” [K.Marx, Il Capitale, I.12,5].
Il lavoro si spoglia della sua qualità umana impossessata
dal capitale, e poiché l’astrazione ricopre la dialettica che la fonda, la
verità della scienza prende l’apparenza paradossale di una negazione della vita
stessa. Senza incantarsi sul mito del “general intellect” (letto assai male dai
fanatici dei Lineamenti) bastano le precedenti osservazioni di Marx stesso per
comprenderne più pienamente il significato in atto di spoliazione dei
lavoratori da parte del capitale. Il capitale fisso quale depositario dell’intelligenza
generale, quest’ultimo punto d’approdo, è dunque il punto di partenza
nuovamente posto nello svolgimento del processo di accumulazione. Cause e
conseguenze della seconda grande rivoluzione dell’automazione del controllo,
dunque, sono da esaminare nell’àmbito dello svolgimento del processo che
conduce storicamente al sapere sociale generale: conoscenza, scienza,
coscienza, e loro negazione dialettica, nella forma del capitale. Questa
contraddizione specifica cui all’inizio si è fatto cenno, tuttora pienamente
operante nelle mutate spoglie del posfordismo, è la contraddizione della
scienza, delle molteplici forme del sapere materialmente date in quanto
appropriate unilateralmente dal capitale, come apparenza reale e mistificazione
storica a un tempo. L’ulteriore sviluppo del lavoro mentale progettuale e
creativo separato dalla figura del capitalista, da un lato, di contro alla
meccanizzazione anche del lavoro fisico cerebrale ordinativo ed esecutivo,
dall’altro, ne costituisce la specifica moderna antinomia.
Il famoso “frammento” dei Lineamenti fondamentali marxiani
sulle macchine, appena ora ricordato, in cui trova spazio l’altrettanto famoso
e altrettanto citato a sproposito passo sul “general intellect”, merita dunque
una ben più seria considerazione: per un verso, conferendogli quello spessore
contestuale di prospettiva, che la sua frammentarietà gli ha tolto; per un
altro verso, sottraendolo a quella quasi simbolica enfatizzazione, cui è stato
costretto da sconsiderate tendenze interpretative alla moda. Si tratta
piuttosto di comprendere le modalità in cui avviene l’incorporazione della
scienza nel capitale fisso, essendo tale processo assai significativo per la
concomitanza della rivoluzione industriale dell’automazione del controllo con le
procedure impropriamente dette “postfordiste”.
Non è male rammentare anzitutto una cosa che non è quasi mai
stata detta da quanti hanno mitizzato, in adorazione isolata, il “Marx
inedito”. Le pagine del cosiddetto “Frammento sulle macchine” costituiscono la
seconda parte del capitolo dei manoscritti del 1857-58 dedicati da Marx al
capitale fisso (il tema, prima del Capitale, torna anche nei manoscritti del
1862-63). Codesta forma del capitale è indicata come contraddizione specifica
del capitale stesso, come la più organica e tuttavia la meno idonea in cui esso
possa esistere. Nel momento in cui diventa fisso, infatti, il capitale entra in
contraddizione con se stesso: poiché, per essere compiutamente tale, esso deve
essere mobile al massimo grado possibile. L’illimitata brama proteiforme del
capitale tendente alla sua assoluta mobilità e completa liquidità è invece
ostacolata dalla sua crescente fissità. Senonché di tale fissità non può fare a
meno. In essa è infatti inscritta la sua capacità di incorporare le forze
produttive del lavoro sociale. Le accresce, appropriandosele, attraverso la
sottomissione reale del lavoro e la trasformazione del lavoro individuale nella
combinazione del lavoro collettivo.
Senza un tal processo il capitale non sopravvivrebbe a se
stesso: il capitale è la repulsione reciproca di molti capitali. L’immanente e
perenne contraddizione del capitale con se stesso si raffigura qui così, nel
rendere sempre più fisso ciò che deve essere sempre più mobile. Ma per muoversi
nella sfera della circolazione in espansione, come capitale-merce e come
capitale-denaro, con lo smisurato accrescersi del tempo a essa destinato, il
capitale si sottrae alla sua esigenza di valorizzazione nel tempo di
produzione. Qui sta la ragione dell’appropriazione della scienza da parte del
capitale, della spinta che esso dà allo sviluppo di quella, soprattutto nelle
forme delle tecniche produttive. L’altro aspetto dell’appropriazione
capitalistica della scienza è perciò l’espropriazione di essa ai danni dei
produttori immediati, dei lavoratori come classe e come singoli individui. Si
compie il passaggio dalla sottomissione del lavoro singolo alla sottomissione
reale del lavoro combinato del lavoratore collettivo. Questo passaggio non
esprime altro che la forma soggettiva di quella medesima oggettività per cui
l’incorporazione della scienza nel capitale fisso si rappresenta materialmente.
La “storia” dell’interpretazione distorta di quel
“frammento” marxiano (che frammento non era, per Marx, ma solo per i suoi
traduttori e interpreti) è abbastanza istruttiva. Negli anni ‘60 la parola
d’ordine andava contro la “neutralità della scienza”, confondendo questa giusta
esigenza con la pretesa indistricabilità di macchine e comando, senza
esaminarne la contraddittorietà dell’uso capitalistico. Negli anni ‘70, venuto
meno l’assalto alla fabbrica e all’organizzazione capitalistica del lavoro del
cosiddetto “operaio-massa”, si prospettava l’occasione di torcere la lettura
del testo verso i “nuovi soggetti”, con una strana chiave di vòlta contro il
lavorismo e il socialismo reale, in preparazione teorica di
forza-lavoro-non-più-merce. Con gli anni ‘80, dissoltosi il “nuovosoggettismo”
per mancanza di soggetti, gli acrobati dell’ermeneutica marxologica han pensato
bene di svoltare sull’interpretazione della sproporzione tra sapere oggettivato
e lavoro vivo, non come focolaio di crisi ma come una nuova forma di dominio,
da cui perciò, anziché una prospettiva per il comunismo, potessero ricavarsi
attrezzi per la sociologia del presente. Infine gli anni ‘90, annunciatori del
millennio, dovranno consolidare il delirio del postfordismo come potenzialità
della “capacità di godere”, il non-lavoro come fonte “interiorizzata” del
valore d’uso della forza-lavoro-mai-più-mercificata, e il mitico “general
intellect” non più incorporato nel capitale fisso bensì, in aperta “rottura”
con Marx, quale intellettualità di massa per cervelli smaterializzati. Va da sé
che, in tutta questa lunga deriva quarantennale, quella che i critici nuovisti
chiamano “la cosiddetta legge del valore” è considerata sgretolata e confutata:
naturalmente si tratta di un vieto luogo comune. In effetti, lo snodo di tutta
la questione della scienza e del capitale, della comunicazione (linguaggio) e
della società, ruota proprio intorno alla teoria del valore e del plusvalore.
Gettata alle ortiche la teoria fondamentale marxiana, prima per incomprensione
poi per convenienza intellettual-politico-salottiera, tutto il resto vien da
sé.
La base materiale della sovrastruttura sociale è abbandonata
insieme al suo divenire dialettico; l’immanenza delle contraddizioni del modo
di produzione capitalistico è ignorata e con essa la necessarietà sistematica
delle crisi; la contraddizione stessa del capitale in processo, tra sua forma
oggettiva (forze produttive del lavoro sociale) e sua forma storica alienata e
transeunte (rapporti sociali e di produzione), è rimossa se non apertamente
osteggiata; del resto, come si potrebbe altrimenti capire e spiegare
l’accumulazione di capitale, la crisi da sovraproduzione, lo sviluppo delle
forze produttive in antitesi ai rapporti di produzione, il nesso
contraddittorio nella forza-lavoro come merce tra lavoro vivo (pagato e,
pluslavoro, non pagato) e lavoro morto, rispetto alla forma di capitale fisso
di quest’ultimo - come si potrebbe capire e spiegare tutto ciò e altro ancora
senza la teoria del valore? Se non si capisce che sono le condizioni poste dal
capitale stesso a dare “socialità”, anche al sapere, ecc., ma come forma
antitetica e non certo come una qualche prefigurazione del comunismo, non si
capiscono neppure quali siano le contraddizioni per lo sviluppo reale
dell’intelligenza generale della società, entro e contro il dominio del
rapporto di capitale: “entro” e “contro”, non fuori e oltre.
Fin dall’inizio, avverte Marx, i rapporti di produzione, non
solo nella loro forma storica sociale ma anche nella loro forma oggettiva
materiale, e quindi anche l’insieme delle conoscenze sviluppate da essi e su di
essi - il sapere - sono indipendenti dall’individuo, dai lavoratori
singolarmente presi. La “socializzazione” posta dal capitale è oggettiva e
reale, in quanto lavoro combinato eterodiretto da intelligenza e volontà
estranea ai lavoratori; e non ha senso quel che dicono alcuni che non c’è
socializzazione sol perché non è “agìta” o “percepita” soggettivamente dai
lavoratori medesimi. Quella combinazione del lavoro è infatti esterna a essi, i
quali non si comportano come “operatori” della combinazione medesima (per usare
ancora le parole precise di Marx). I lavoratori non sanno di essere loro stessi
i soggetti dell’elaborazione compiuta per conto del capitale e da esso
appropriata. E finché questa consapevolezza - questa coscienza della
conoscenza, per così dire - non è pienamente sviluppata, non c’è “intelligenza
generale” che possa svilupparsi nel cervello del “capitale fisso umano”. Non
serve a niente proclamare simili clausole di sospirata autoemancipazione
consolatoria.
Per questi semplici motivi, sommariamente rammentati, una
volta collocato nella giusta ottica, lo stesso “Frammento”, con tanto di
“general intellect”, può e deve essere letto in modo affatto diverso da come
generalmente fatto. La parodia della lettura “operaistica”, generazione dopo
generazione, degenerazione dopo degenerazione, scivolando fino nel mito del
cosiddetto postindustriale (postfordismo e quant’altro) ha portato a insistere
su considerazioni del tipo seguente, qui testualmente riferite, traendole da un
coacervo di “autorevoli” fonti (di cui è irrilevante nominare i singoli “autori”,
risparmiando così, oltre che le virgolette delle citazioni, il riferimento al
futile narcisismo degli autori e all’inutile polemica con loro):
i) sarebbe finita la fase basata sull’industria e la
produzione di beni durevoli e dunque [sic!] sulla produzione di merci,
confondendo dapprima la produzione capitalistica con quella di merci; poi
quest’ultima con la produzione di beni durevoli, tangibile fisicamente,
dell’industria; quindi la base materiale con la forma sociale della produzione
capitalistica di valore; per cui il supposto superamento dell’industria
implicherebbe anche quello del capitale e della stessa merce!?
ii) il superamento dell’industria è riduttivamente
identificato con l’esaurimento della sua forma “fordista”; ciò implicherebbe la
fine del cosiddetto operaio-massa, la cui scomparsa prematura è altrettanto
arbitraria della sua improvvisa invenzione: una categoria di comodo inventata
dal nulla per spezzettare “operaisticamente” l’intera classe lavoratrice; non
bastando, evidentemente, la giusta classificazione marxiana tra lavoro in
generale (arbeit) e lavoro salariato (lohnarbeit), si è dapprima colpevolizzato
moralisticamente il proletariato improduttivo; poi si sono frammentati
ulteriormente i lavoratori produttivi, selezionando gli “operai” (abusando, con
speciosità italica, di un termine generico riferibile all’operare) e tra questi
il mitico “operaio-massa” (poi quello “diffuso”, e via sociologizzando in
subconscio antimaterialistico);
iii) sarebbe cominciata la fase dell’economia tendenzialmente
“smaterializzata”, volendo intendere che tanto la ricchezza prodotta, quanto le
modalità per produrla, si fonderebbero sulla prevalenza [sic!] di processi
cosiddetti simbolico-comunicativi, di attribuzione e di produzione di senso;
anche le classi dominanti non sarebbero all’altezza teorica e pratica per
affrontare un tale arduo tema della società detta postindustriale, fulcro del
“nuovo” lavoro per bisogni sociali e ambientali; sicché, con una tipica
acrobatica inversione di causa ed effetto, e con buona pace per i tentativi di
Marx di affidare un significato compiuto alle parole, si proclama che la
sovrastruttura ideologica farebbe parte della struttura della produzione della
ricchezza sociale, dichiarando che il fine dell’accumulazione capitalistica
sarebbe diventata la produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza, dove i
processi di valorizzazione e di accumulazione del capitale si attuerebbero in
forma [sic] di valorizzazione e di accumulazione del sapere e della conoscenza;
iv) la produzione di questa forma di capitale, che
raccoglierebbe in sé le conoscenze (come se un’altra forma non le contenesse!)
si compirebbe sulla base dell’interiorizzazione dei meccanismi della
valorizzazione, negli àmbiti psichici e cognitivi dei soggetti; benché ciò
avrebbe carattere praticamente costrittivo, interiorizzato attraverso
dissociazioni dell’attività psichica e mentale, si dice, il singolo soggetto,
divenuto cosciente di queste dinamiche psichiche e cognitive, sarebbe capace di
rovesciare, fin dall’interno di se stesso [sic!], lo sfruttamento cui è
sottoposto;
v) dunque, oggi più che il lavoro sarebbe il sapere a essere
diventato la principale forza produttiva; con il che si avvalora
l’ideologizzazione teorica borghese del cosiddetto “capitale umano”, in antitesi
alla compravendita della forza-lavoro come merce: volendo travisare Marx in
tutti i modi, è ovvio che si predichi la necessità del superamento
dell’ideologia [sic] del lavoro-merce, ignorando anche la peculiare identità
marxiana della forma di merce della forza-lavoro, facendone sparire la stessa
duplicità contraddittoria; lo scambio contro capitale sarebbe sostituito
semplicemente e direttamente da un rapporto di prestazione, un contratto
d’obbligo stabilito su basi istituzionali, sì da poter abolire il contratto di
lavoro salariato;
vi) la classe salariata sarebbe incapace a essere soggetto
storico della trasformazione sociale del modo di produzione (“intermodale”,
dicono): tanto da far decadere di fatto il concetto stesso di classe e di lotta
di classe; giacché non si comprende affatto la precisa indicazione dialettica
marxiana, secondo cui ogni processo di trasformazione rivoluzionaria supera
negandoli entrambi i termini che agiscono in tale processo: sicché, se si
conoscesse Marx, si saprebbe che proprio la classe rivoluzionaria, in quanto
tale e in questa sua funzione storica, nega se stessa come classe; d’altro
lato, ciò fa il paio con un’altra interpretazione adialettica incapace di
cogliere l’antinomia, potenzialmente antagonista critica e trasformatrice, del
lavoro mentale posto nella determinatezza salariale e viceversa; tale
interpretazione preferisce adagiarsi sulle teorie del “management”, in chiave
di abbandono della preminenza dei rapporti di proprietà, e di privilegiamento
del ruolo lavorativo del capitale stesso, appiattendosi sul sociologismo
industrialistico parsonsiano, sradicando quell’immanente contraddittorietà del
modo di produzione capitalistico che sta proprio nel doppiosenso del lavoro
mentale.
La falsa lettura tardo-operaista e husserlgrundrissista del
“frammento” e del “general intellect” - con tutti i corollari più o meno
espressamente voluti, qui appena accennati - è dunque condotta senza neppure
conoscere le categorie marxiane di forze produttive, capitale fisso, lavoro vivo,
ecc.: in una frase, rigettando i fondamenti della teoria del valore e del
plusvalore. E ciò vien fatto esplicitamente, per fortuna senza infingimenti. La
teoria del valore è fraintesa e accantonata indistintamente da tutti i
sedicenti neopostmarxisti. Il tempo di lavoro, dicono, “non è più la base per
la misura del valore”. C’è chi lo dice perché considera ormai praticamente
scomparso il lavoro vivo; chi perché torna a pensare direttamente in termini di
valore d’uso immediato, anziché di valore; chi perché mischia sistemicamente e
“sintomalmente” struttura e sovrastruttura, produzione e circolazione, forze
produttive e rapporti di produzione, smarrendone l’unità dialettica in una
piatta identità non contraddittoria; chi perché, in nome di una tal moderna
“complessità”, vagheggia di una presunta indeterminabilità di valore, e giunge
a considerare il capovolgimento contabile di grandezze di valore e tasso di
sfruttamento “negativi”. Tutti quanti, indistintamente, riducono
postricardianamante la “teoria del valore-lavoro” (questo pernicioso pleonasmo
di “-lavoro” inutilmente appiccicato) a una mera teoria contabile della misura,
della grandezza di valore. Sicché se ne possano disfare, liberando la loro
falsa coscienza, senza remore, in una assoluta incomprensione e ignoranza
dell’intera teoria marxiana e marxista. Da lì, teoria del denaro e dei prezzi,
dell’accumulazione e della crisi, della circolazione e della caduta tendenziale
del tasso di profitto, ecc., sono bruciate.
Non merita neppure spendere troppe altre parole per
replicare a simili luoghi comuni. Essi, una volta posti nel corretto contesto
teorico e individuati nella loro genesi, come qui fatto, si rispondono da sé. I
caratteri della realtà virtuale e dell’immaterialità restano misteriosi. Ma se
la produzione immateriale è quella dell’informazione e dell’intangibilità, con
i suoi lavori impalpabili, basterebbe che tanti “nuovi” pensatori riflettessero
su quali e quante erano le attività “immateriali” corrispondenti nel secolo
scorso: decine di dattilografe per un’operatrice al terminale, di contabili per
un “softwarista”, di disegnatori per un addetto “cad”, di insegnanti per classi
meno affollate; o, se si vuole scherzare con la burocrazia italica, quanti
“camminatori” ministeriali occorrevano per portar messaggi al posto di fax,
posta elettronica o internet? Verosimilmente, la percentuale delle attività
immateriali è diminuita nel mondo, non aumentata. Ma in attesa che qualcuno
sveli codesti misteri, ci si contenti di una “banale” asserzione di Marx: “La
ricchezza, considerata dal punto di vista materiale, consiste soltanto in una
varietà di bisogni”. Lo sviluppo della ricchezza sociale pone questi bisogni
storicamente come necessari, ed è la produzione materiale, appunto, a
soddisfarli, non la ... “produzione di senso”.
Meglio è tornare ai contenuti reali del tema in discussione,
proprio prendendo le mosse dalla questione del lavoro mentale. Certo, nella
misura in cui il lavoro mentale rimane monopolio della classe dominante, la
coscienza emancipata rimane espressione della conservazione e riproduzione dei
rapporti sociali di proprietà e di dominio esistenti. Nella costituzione del
capitale, il lavoro alienato è normalmente quello fisico. Così, quest’ultimo
urta contro quello che di fronte a esso è di fatto un monopolio, e sicuramente
un’egemonia pressoché assoluta. Perciò, di norma non riesce, in quanto tale, a
fuoriuscire dai limiti della coscienza immediata. Se la delega del lavoro
mentale, ideativo (progettuale e strategico), che la proprietà capitalistica ha
dato ai propri “intellettuali organici”, è stata finora storicamente
irrilevante, seppur quantitativamente crescente, è per evitare di rompere
praticamente quel monopolio. Sicché quei particolari “intellettuali” continuano
ancora ad apparire come agenti della borghesia, sia pure elementi subalterni di
quella stessa classe, e prevalentemente non ancora assimilati alla componente
cerebrale del lavoro fisico salariato.
L’intelligenza generale non è una prerogativa particolare
che possa appartenere, frazionata, a singoli individui. Tanto meno essa attiene
a presunte dinamiche cognitive, psichiche e comportamentali, ricomponibili
all’interno di ciascun lavoratore. Nella sua universalità, quel sapere generale
sociale è, sì, rappresentato dal lavoro collettivo. Ma appunto tale lavoro è
ormai organo delle macchine, di una scienza espressa dalla muta intelligenza
del capitale. Ogni lavoro fisico è esecutivo e applicativo. Esso stesso è
comprensivo anche di mansioni “intellettuali”, nell’àmbito della fissità
sociale della divisione del lavoro di tipo manifatturiero, determinata su basi
tecniche. La funzione meramente cerebrale preposta al controllo è
caratterizzata unicamente da puro calcolo logico e memoria. Essa stessa è
dunque forma di esistenza del lavoro fisico, in quanto forza-lavoro alienata.
Tutto questo lavoro fisico, manuale e intellettuale (in quanto cerebrale), è
sussunto all’intelligenza generale del capitale e demandato alle classi
subalterne. Nella determinazione di modo di produzione, pertanto, risulta
categoria fondamentale la divisione sociale del lavoro. L’attività mentale,
creativa e progettuale, in ogni epoca rimane prerogativa delle classi
dominanti.
In questa determinazione sociale il dominio si presenta come
appropriazione della volontà altrui. Il capitale, nella sua fissità di macchina
e automa, incorpora la scienza e rappresenta l’intelligenza generale della
società. Così assume la capacità di subordinare a sé il lavoro umano alienato,
costringendolo al pluslavoro capace di produrre plusvalore (sfruttamento), per
il tramite dell’espropriazione del sapere delle classi lavoratrici. Di contro
al lavoro fisico, di ogni tipo, connesso alla mancanza di proprietà, dunque
alla necessità della sua alienazione al capitale, si erge il lavoro mentale
connesso alla proprietà delle condizioni, generali e particolari, della
produzione. Se quest’ultima condizione è base della coscienza emancipata, la
prima rimane capace solo di coscienza immediata della prassi quotidiana. Da
parte degli apologeti di un general intellect, presuntivamente distaccatosi e
contrapposto al dominio del capitale, rimane da spiegare il percorso da seguire
per operare un tale distacco e una contrapposizione capace di emancipazione. E
ciò sarebbe tanto più interessante, in quanto tali interpreti affidano le loro
ipotesi all’idea che ciascun lavoratore possa riappropriarsi del sapere sociale
all’interno di se stesso, nel proprio cervello mutato in “capitale fisso”!
Ma la rivoluzione dell’automazione del controllo, che
accompagna il cosiddetto postfordismo, lungi dal restituire “intelligenza”
(neppure particolare) al lavoro, tende ad accentuare sempre più la separazione,
effettiva e generalizzata, del lavoro dalla scienza. Al contempo, essa accresce
e specifica ulteriormente la separazione del sapere produttivo anche dalla
proprietà immediata. Con delega della proprietà medesima, il lavoro tecnico e
dirigenziale viene duplicato, per così dire quasi “gemmato”, come porzione
“intellettuale” e mentale. Il rapporto di capitale, in quanto tale, e
particolarmente nella sua forma specifica, pone in misura sempre crescente la
scissione del proprio operare dalla sua stessa personificazione, la separazione
da sé del sapere da esso appropriato e incorporato. L’automazione del controllo
del sistema informatico di macchine è in grado di mettere in moto quel processo
di separazione del lavoro universale dalla proprietà del sistema medesimo,
seppure in forma antitetica.
Si instaura un circolo vizioso che tende a infrangere il
monopolio pratico della classe dominante. Il lavoro sottomesso al capitale e
alla sua muta intelligenza generale erompe in un doppiosenso reciproco del
distinto operare del lavoro mentale nelle due forme: esecutiva e creativa,
sottomessa e cosciente. Tuttavia, proprio codesto doppiosenso insito nel processo
lavorativo alienato richiede un lungo svolgimento di trasmutazione della prassi
e della coscienza di coloro che effettualmente operano. Quanti ritengano di
trovare una facile scorciatoia postoperaista per restituire ai singoli soggetti
un sapere sociale, virtuale e immateriale, in cervelli svuotati dal capitale,
sbagliano analisi e seminano illusioni. Costoro confondono la storia e i suoi
lunghi e tortuosi processi con rapidi e suadenti corsi aziendali a immersione
totale.
Senonché, ancora insufficiente appare oggi la trasformazione
delle condizioni oggettive del lavoro sociale e del modo di produzione che
corrisponde loro: sì che l’intelligenza generale della società sfugge alla
consapevolezza delle masse che lavorano. La coscienza emancipata ha potuto oggettivamente
esprimersi assai limitatamente, non sapendosi neppure essa mediarsi in senso
critico verso le condizioni di vita esistenti e l’ideologia dominante. Il
lavoro mentale postosi in antagonismo alla borghesia è ancora relativamente
irrilevante. Del resto, la coscienza immediata degli strati superiori del
proletariato ha fin qui mostrato l’insufficienza della propria
autoemancipazione critica. Ciò ha rabbassato a mera forma ideologica la prassi
antagonistica, e a falsa coscienza carismatica, volontaristica e fideistica,
l’opposizione politica.
Anche e soprattutto oggi, è bene non cedere a facili
suggestioni. Pretendere di “abolire” (quasi per editto) la divisione del
lavoro, fisico e mentale, o credere che il presunto sviluppo autoreferenziale
del “general intellect” si sia già sbarazzato di quella stessa divisione del
lavoro, per la supposta prematura scomparsa del primo termine, è un futile
vizio utopistico e infantile di vecchia data. Che vi sia la necessità storica
di porre la mente stessa nella fisicità umana cui appartiene e da cui è
inseparabile - e ne è scissa solo per la violenza di classe - è un fatto
epocale che è impossibile raggiungere attraverso una loro ricongiunzione
forzosa, accelerata: i tempi storici per l’elaborazione di una cultura che
sappia andare oltre l’erudizione, la professionalità tecnica, o
l’autoesaltazione delle differenze, di un gusto estetico che ignori le mode e
il sincretismo, ecc., non sopportano corsi rapidi a full immersion o altre
consimili amenità.
Ritenere, e predicare incoscientemente, che si sia già
raggiunto il punto in cui il lavoro nella sua forma generale - in quanto
presunto depositario nella sua “virtualità” e “immaterialità” dell’intero
sapere sociale, produttivo e non, supposto quindi quale detentore di un
indefinito “capitale fisso” altrettanto virtuale e immateriale nel proprio
cervello - possa sottrarsi al dominio del capitale, può sembrare gratificante
ma è solo autoconsolatorio (e politicamente assai grave dal punto di vista del
comunismo). Non basta “dichiarare solennemente” che il capitalismo non c’è più
affinché esso sparisca veramente. Né serve un’ermeneusi più sofisticata per
cercare di mostrare come il capitalismo “postfordista” si stia trasformando,
hic et nunc, nel sedicente “comunismo” in fieri dell’intelletto di massa.
Cosicché si possa addossare a Marx l’“errore” di aver ritenuto (ciò che invece
è esatto) che quell’intelligenza generale è necessariamente incorporata nella
duplice forma del capitale fisso e delle macchine da esso oggettivamente
prodotte e soggettivamente appropriate - una forma antitetica dell’unità
sociale, appunto, di cui quei critici ignorano il divenire dialettico - anziché
di aver volato con la fantasia, appunto, fuori dalla materialità delle macchine
verso quel “cyberspazio” in cui l’intelligenza della società e il processo
produttivo stesso sarebbero ormai direttamente ed esclusivamente depositati nei
cervelli dei soggetti viventi. ... Ma certo non in quelli di questi critici
oltremarxisti! - i quali arrivano a sostenere seriosamente, in assoluta
coerenza con le loro derive oniriche, che “se” la produzione non riguarda più
fatti materiali, economici e tecnologici, ma ha invece per “materia prima” il
sapere e la comunicazione linguistica, allora c’è da credere che alla sua
comprensione contribuiscano nel modo più diretto l’epistemologia e la filosofia
del linguaggio.
La considerazione analitica (riflessione e discussione) di
ciò che significa e implica oggi l’intelligenza generale della società, nelle
sue metamorfosi e manifestazioni contraddittorie, comincia proprio da qui: e
non è certo assecondando le tesi del “postfordismo”, sia pure in chiave
polemica, che si dà risposta ai quesiti della contemporaneità capitalistica.
Qui, viceversa, si è posta solo una premessa seguendo un iter di questo genere:
sussistenza, lavoro e sua divisione, merce, denaro, capitale e capovolgimento
in esso dello sviluppo universale come forma antitetica dell’unità sociale,
fino al capitale fisso quale depositario dell’intelligenza generale. Quest’ultimo
punto sta nello svolgimento del processo che conduce al sapere sociale
generale, dove sono da esaminare cause e conseguenze della seconda grande
rivoluzione dell’automazione del controllo, con l’ulteriore sviluppo del lavoro
mentale progettuale e creativo separato dalla figura del capitalista, da un
lato, di contro alla meccanizzazione anche del lavoro fisico cerebrale
ordinativo ed esecutivo, dall’altro: una moderna antinomia “servo-padrone” può
esperirsi a partire da queste basi.
Alla medesima falsificazione ideologica - seppure a un
livello un po’ più raffinato di teorismo, riprodotto nel brodo di coltura della
qualità totale - vanno ascritte le molte chiacchiere recentemente fatte intorno
al presunto recupero di “proprietà personale” del sapere lavorativo da parte
dei lavoratori stessi. A partire dall’equivoco che pretenderebbe di concepire i
nuovi processi di lavoro come espressione di una maggiore qualificazione del
cosiddetto operatore o conduttore di sistema - tali che si incentrerebbero sull’aumento
di applicazione dell’“intelligenza” del lavoratore - si può riscontrare una
sequela di formulazioni pseudo-teoriche affatto prive di fondamento. In una
stravagante accezione interpretativa post-operaista della tendenza, descritta
da Marx, relativa allo sviluppo storico contraddittorio dell’intelletto
generale della società, si presume che - immediatamente, senza cioè alcuna
mediazione della contraddizione medesima - l’erede moderno dell’operaio sarebbe
già, qui e ora, più cervello che mano, conferendo al soggetto una sorta di
pervasività totale.
L’equivoco del passaggio dalla fabbrica fordista alla
“fabbrica integrata” fa perdere di vista la conservazione dialettica del lavoro
di massa dequalificato e ripetitivo anche nella riorganizzazione “alla giapponese”
della produzione, preferendo vaneggiare su: intellettualità di massa; cervello
come forza produttiva immediata di proprietà del lavoratore (al di là di ciò
che è sempre stato, e quindi ancora è, in quanto forza-lavoro, unica proprietà
alienabile dei proletari); conseguente falsificazione del rapporto di lavoro
dipendente come prestazione professionale autonoma che ciascun lavoratore, in
lotta con le sue competenze professionali, “vende” quotidianamente al proprio
dirigente; capitalismo lavorativo, e quant’altro. Corollario di tutto ciò è
l’assurda concezione di un sindacato non conflittuale che sarebbe capace di
vendere il “sapere operaio”, in una forma di contratto sociale rappresentato
come “democrazia economica e industriale”, che trasformerebbe il contesto
produttivo in una “quasi-comunità”. Tutto ciò si chiama semplicemente
neocorporativismo, senza scivolare sulla mitizzazione di un falso modello di
“nuova” relazionalità sociale. Confondendo le forme di controllo del processo
lavorativo nel fordismo e nel toyotismo, senza esaminare convenientemente la
questione del consenso che era anche tra gli elementi che favorirono la nascita
del taylorismo, non si spiega l’adeguamento del comando sul lavoro: senza altri
equivoci, con flessibilità, intensificazione, precarietà e licenziamenti, nei
termini dell’automazione del controllo nella seconda grande rivoluzione
industriale, che è la sola realtà storica sociale che il supponente
postfordismo consegna alla storia della modernità.
Questo è il significato universale del postfordismo e della
qualità totale. La lotta, finora, procede a senso unico nel dispotismo assoluto
del capitale sull’organizzazione del processo sociale di produzione e di
lavoro. La pacifica collaborazione nazionalcorporativa, che appare alla
superficie, è ovunque il risultato di una fase terribile di lotta di classe
stravinta dalla borghesia. Il nodo neocorporativo da sciogliere è proprio
l’omologazione crescente di tutti i contratti di lavoro, al di là di settore o
comparto, di livello tecnologico e automazione, che, al riparo degli accordi
ipocritamente riferiti al costo del lavoro, sta diffondendo la nuova
organizzazione del lavoro “alla giapponese”. Unica constatazione oggettiva, per
ora, è che l’intero sistema - oltre che causa di conflitti tra capitali, per la
crisi - è intrinsecamente fragile, proprio per la flessibilità imposta al
lavoro con l’alibi di una millantata garanzia data da macchine vulnerabili.
Dietro il volto accattivante della “qualità totale” - capace di estorcere masse
crescenti di pluslavoro non pagato, appunto, nella quantità totale di
plusvalore che rimpiazza la falsa “qualità” - sta in agguato quella
contraddizione che è possibile svelare.
La classe operaia, per ora, è come un trucco: c’è ma non si
vede! Se l’antica divaricazione tra socialismo o barbarie si ripresenta alla
nostra preoccupazione, si può solo constatare che la barbarie è a buon punto! E
il socialismo?
Il falso nome di
“postfordismo”
Col nome di “postfordismo” (e con esso post-keynesismo,
post-taylorismo e post-industrialismo, ovvero fine e superamento dell’era
industriale del fordismo-taylorismo-keynesismo) si è andato perciò consolidando
quel peculiare processo, connesso al mito della cosiddetta “globalizzazione”,
che fa leva sul carattere passepartout della cosiddetta “flessibilità” (tanto
da far rappresentare il tutto come fase della “globalizzazione flessibile”, il
che non vuol dire doppiamente nulla). In effetti, è significativo invece
considerare la ristrutturazione dei cicli produttivi nella concatenazione
transnazionale dell’imperialismo contemporaneo, giacché il semplice porre
correttamente la connessione tra i temi in questione mette in evidenza,
confermandole, le circostanze fin qui illustrate, ossia come il cosiddetto
“postfordismo” che pervade la “globalizzazione” non abbia cause meramente
tecniche organizzative. Le nuove macchine e procedure, che necessariamente
accompagnano la ristrutturazione dei cicli produttivi, non sono altro che le
forme adeguate per configurare una nuova divisione internazionale del lavoro in
risposta alla crisi del mercato mondiale.
Si capisce allora come gli apologeti, ancorché a volte
ideologicamente critici, della supposta fine del taylorfordkeynesismo
accentuino il ruolo affidato al nuovo macchinismo, alla produzione definita
immateriale, all’ipotesi di un improbabile ridimensionamento della scala di
produzione, al consumo presuntivamente anteposto alla produzione stessa
(vecchia è la favola marginalistica della “sovranità del consumatore”!), e al
lavoro ritenuto intangibile e autoreferente, sottratto (o sottraibile) alla
forma salariale. Tutto, infatti, da costoro viene fatto discendere dal processo
di informatizzazione e robotizzazione: non a caso da essi considerata “terza”
rivoluzione industriale, avendo essi stessi (con la maggioranza dell’idealismo
dominante) chiamato “seconda” la fase del taylorismo alla luce dell’epifenomeno
fordista.
Per provare a puntualizzare la critica dell’ideologia del
postfordismo, può aiutare indirettamente ancora una volta un’osservazione assai
generale di Georg Wilhelm Friedrich Hegel: “Il capriccio del pensare fa
piuttosto il contrario di quel che vorrebbe fare; porta in mezzo, cioè, quel
che ha da venir poi, vale a dire altre categorie che non soltanto il principio.
Bisogna tuttavia saper distinguere quel più lento effetto che, un po’ alla
volta, rettifica l’attenzione cattivata da asserzioni roboanti: dopo il plauso
dell’attimo fuggente, non avranno posterità alcuna”. Le recenti mode del
post-qualcosa hanno così il ben servito. Se chi segua simili mode voglia dire
che alcunché cui si sia prefisso un “post” vien dopo di ciò che è rappresentato
dal termine usato come suffisso, avrà accolto l’ovvietà in casa propria. Dalla
banale ovvietà precipitano nell’errore e nella menzogna, sicché con quella
parolina “post” costoro saranno ignorati dai post/eri. Di contro alla grandezza
culturale di ciò che la storia degli ultimi due secoli ha tramandato sotto il
nome di modernità, son dunque stati mobilitati gli “architetti”
dell’indifferenza per dar corpo al nuovo mostruoso oggetto: e lo chiamarono
“post-moderno”. Dal postmoderno al postcapitalismo, passando per il
postindustriale e il postfordismo, si approda all’indifferente e agnostico
pluralismo che conduce al sincretismo eclettico. Caratteristica di ogni “post”
pensiero è dunque l’abilità casuale ed eclettica di classificare
descrittivamente, senza gerarchia e rango, i fatti e luoghi comuni di maggior
evidenza. Mancando qualsiasi spiegazione, genetica e causale, essa è per ciò
stesso ingannatrice, in quanto capace di mutuare pure “forme” e “nomi” da
qualsiasi altro sistema, al quale sia così tolta preventivamente ogni sua
propria coerenza, sia interna sia relativa al mondo reale rappresentato. Al
sapere scientifico in genere, e dunque anche al marxismo nel campo sociale, è
toccata la sventura di questa sorte, pericolosamente manipolato da chi ne imita
alcuni detti nella loro totale ignoranza.
L’ideologia del post-moderno rientra dunque a tutti gli
effetti nel quadro di una operazione di “polizia del pensiero”, tanto più
efficace quanto più essa ha trovato la collaborazione degli intellettuali
dell’“asinistra” che, in nome dell’inesistente pluralismo, hanno provocato i
maggiori guasti di codesta dominanza ideologica, approdando anche al post-comunismo
come segno diabolico del post-marxismo. Il cosiddetto postfordismo, in quanto
ultima veste del postindustriale, è sovente associato - soprattutto da parte
dei citati intellettuali progressisti dell’“asinistra”, “ammessi”
dall’ideologia borghese - al post-keynesismo nella politica economica statuale.
E ciò per la banale conseguenza di aver prima forzatamente posto, nel secondo
dopoguerra, il parallelo tra fordismo e keynesismo, come mera descrizione
fattuale di momenti obiettivamente coincidenti e sovrapposti del ciclo di
accumulazione del capitale nella sua fase ascendente. A séguito di codesta
forzatura - affatto immotivata quanto a determinazioni concettuali e
storicamente incurante delle vicende e delle vicissitudini del taylorismo
nell’epoca della prima guerra mondiale, del fordismo negli anni venti e del
keynesismo negli anni trenta - è ovvio che con l’attuale ultima crisi, a
partire dalla metà degli anni sessanta, rimangano perciò legati nella medesima
sciagurata sorte entrambi i cosiddetti “paradigmi”: ecco dunque donde viene la
supposta “fine del ciclo keynesiano-fordista”, e la simbiosi
postfordista-postkeynesiana che ne segue. Dal cappello esce sempre e solo il
coniglio che ci si è messo!
Occorre dunque considerare criticamente le presunte caratteristiche
“nuove” del postfordismo. Per fondare seriamente la critica è bene prendere le
mosse dall’invarianza della forma sociale del comando sul lavoro in vigenza del
modo di produzione capitalistico, nella sua prevalenza sulla forma materiale
dei rapporti di produzione. Si rammenti, anzitutto, che alla base di ogni
organizzazione specificamente capitalistica del lavoro rimangono ben saldi i
tre principî fondamentali indicati da Adam Smith: i. destrezza dovuta alla
ripetitività semplificata delle operazioni di lavoro; ii. intensificazione resa
possibile per la precedente disponibilità di lavoro semplice ripetitivo; iii.
produttività aumentata in conseguenza delle innovazioni delle macchine
(attribuibile al rapporto di lavoro mutato nelle due forme precedenti). Taylor
non ha fatto altro che razionalizzare statisticamente ciò che Ure aveva
studiato per la grande fabbrica, sulla primitiva traccia indicata da Smith.
Marx aveva semplicemente inquadrato tutto ciò con il concetto di “rendere
liquida” la maggior mole possibile di lavoro altrui, per usare al meglio la
forza-lavoro acquistata, aumentandone al massimo grado la tensione onde
ottenerne la massima quantità di pluslavoro altrui non pagato. Come si è già
rammentato, Ohno non ha fatto altro, a suo stesso dire, che portare il
taylorismo alle estreme conseguenze, rendendo più scorrevole il flusso
produttivo fordista, dentro la fabbrica e fuori di essa, nel ciclo di
subforniture e nella circolazione commerciale. La sua esigenza partiva, ancora
e sempre, non diversamente da quella dell’ormai mitico fabbricante di spilli
smithiano, dalla ricerca di eliminare tutti gli sprechi, spremendo al massimo
il lavoro, generalizzando il cottimo nella forma coercitiva consensuale
neocorporativa, sempre con l’obiettivo di minimizzare i costi di produzione.
Il toyotismo è perciò fordismo totale, un suo superamento
dialettico. Laddove il fordismo è parziale, limitatamente alla “catena di
montaggio” (concettualmente intesa, quindi pure, a es., per il lavoro
d’ufficio), il toyotismo è esteso al di là della “catena di montaggio”. Ma è
ovvio, innanzitutto, che quanto più ci si allontani dal “segreto laboratorio
della fattura del plusvalore”, tanto più si imponga la regolarità dei flussi
dell’intero ciclo produttivo. Anche se l’andamento della produzione stessa ha
una “crescita lenta”, come avverte Ohno stesso, esso deve essere continuo.
Altrimenti i rischi di interruzione del ciclo di metamorfosi del capitale
aumentano, anziché diminuire, come le ultime vicissitudini dell’industria
giapponese stessa stanno ampiamente a dimostrare. Pertanto, di fronte al
procedere “anarchico” del modo di produzione capitalistico, il toyotismo non è
affatto risolutivo: i problemi rimangono i medesimi di prima, peraltro
aumentando enormemente il grado di vulnerabilità del sistema (come le
vicissitudini giapponesi degli ultimi anni stanno a dimostrare). Il nodo non è
tecnico ma sociale, di classe. La reale portata della seconda grande
rivoluzione industriale dell’automazione del controllo non può certo essere
costretta nella pelle aderente del toyotismo e tanto meno in quella del
postfordismo. La reale automazione del controllo è appena iniziata, e tuttora
ha uno scarso peso sulle diverse fasi del ciclo produttivo (la cosiddetta
informatizzazione riguarda al massimo il 10% dell’intera produzione industriale
mondiale). Del resto, non si dimentichi come fosse limitata (e lo sia ancora)
l’incidenza specifica della catena di montaggio anche nel tradizionale
fordismo, decisamente minoritaria anche nelle sole fasi operative direttamente
produttive di un ciclo industriale moderno. Ciò che prevale, nell’un caso e
nell’altro, è perciò il carattere complessivo del processo nelle sue forme di
dominanza.
Racchiudendo oggi quegli antichi princìpî smithiani, ripresi
dal toyotismo, nell’unica categoria di flessibilità - di lavoro, salario e
macchine - si riesce forse a inquadrare meglio la faccenda, per criticare
l’ideologia del postfordismo. Quest’ultima pretenderebbe di ravvisare alcune
caratteristiche tecniche lavorative - elencate senza criterio, com’è tipico del
postmoderno - nella multifunzionalità del lavoro, nella presunta
smaterializzazione del processo di produzione, nella continuità del ciclo di
produzione e nella sua estensione al flusso esterno, nella conseguente
sincronizzazione dei microcicli di lavorazione, nel controllo di processo,
nella relativa autonomia decisionale dei “conduttori di sistema” (gli operai di
una volta!), in un conseguente rapporto non conflittuale della forza-lavoro,
entro una ritrovata “comunità di fabbrica” (a proposito: non è male ricordare
Adriano Olivetti, dal corporativismo di Bottai al comunitarismo di Ivrea).
Inoltre, proseguono i fautori della tesi del postfordismo, la prevalenza della
qualità sulla quantità, a causa della crescita lenta, col superamento della
produzione standardizzata tipica del fordismo, caratterizzerebbe il sistema
come “tirato” dal mercato, anziché “spinto” dalla produzione: ma sulla presunta
sovranità del consumo, e delle “tecniche” a esso connesse, si è già fatto il
fugace cenno che tale sciocchezza merita.
L’eventuale giustezza di alcune singole osservazioni qui
descritte fa parte di una “astuzia” dell’agnosticismo postmoderno, che,
ignorando l’intero quadro, sciorina le presunte “novità” postfordiste soltanto
come novità empiriche derivanti dal mero mutamento delle circostanze nel fluire
del tempo, ma nient’affatto categoriali. Senonché, nel quadro generale della
nuova organizzazione del lavoro, non si dànno novità nella sottomissione reale
del lavoro al capitale (su cui si tornerà in conclusione) a dispetto della
pretesa decisionalità e ritrovata individualità del “lavoratore postfordista”;
già alcuni sono arrivati a riconoscere che nell’eteronomia dell’organizzazione
del lavoro non c’è spazio per una vera autonomia. E allora non si capisce che
cosa ci sia di nuovo nella supposta riappropriazione da parte del lavoratore
del proprio “capitale fisso” - che sarebbe ormai tutto nel suo cervello! -
quando rimane sussunto al capitale anche quel po’ di lavoro solo in parte
riqualificato (e non è una novità anche se l’estensione è oggi maggiore), di
contro alla sterminata massa, crescente su scala mondiale, del proletariato
dequalificato. A fronte di un’espansione mondiale - ancorché in crisi di valore
e plusvalore (com’è ogni crisi capitalistica, del resto) - del volume della
produzione industriale, non si sa quale sia la ricchezza non più percepibile
materialmente, resa virtuale. E non si capisce in che consistano i rinnovati
fasti della teoria borghese della “sovranità del consumatore” sotto il dominio
mondiale del capitale transnazionale, se non che l’ideologia dominante provi a
risuscitare quel vecchio arnese dell’economia marginalistica per riproporre
l’occultamento di classe in nome di una società di consumatori e cittadini,
anziché di capitalisti e lavoratori.
Sicché, la nuova organizzazione del lavoro, che va sotto il
nome di postfordismo e, eventualmente, toyotismo, lungi dal costituire un
“nuovo” modo di produzione (giapponese o quant’altro), non rappresenta neppure
quella presunta fase conclusiva della grande produzione industriale su larga
scala basata sulla divisione scientifica del lavoro (della serie Smith, Ure,
Taylor, ecc.). Con la cosiddetta flessibilità il capitale configura solo la sua
risposta usuale alla perduta liquidità del lavoro (per dirla con Marx) da
comandare, per controbattere e governare la crisi. Si è già detto come il
comando sul lavoro, sulla forza-lavoro resa “flessibile”, ossia liquida,
fluida, implichi sempre una corrispondente flessibilità delle macchine
(condizioni oggettive della produzione) e del salario. E siccome il salario ha
significato solo in senso sociale generale, di classe, la sbandierata “fine”
del cosiddetto keynesismo-fordismo - una specie di “fine della preistoria” - va
a farsi benedire, prima nei suoi aspetti “costruttivi”, poi in quelli
organicamente distruttivi. Nella presente fase, allora, queste ultime
circostanze - sempre necessarie in ogni processo di ristrutturazione (come i
classici del capitalismo industriale, appena citati, insegnano) - sono
raffigurate nella rivoluzione dell’automazione del controllo. Senza insistere
qui sulla generalità del tema, l’interesse che riveste questo processo in
corso, dal punto di vista delle catene transnazionali imperialistiche, è
offerto appunto dalla capacità, già più che potenziale, di omologare le
procedure dei cicli produttivi sull’intero mercato mondiale.
La vasta scala di produzione rende il ciclo produttivo ancor
più standardizzato che nel taylorismo, giacché impone - nella cosiddetta
produzione a fungo - la necessità di una maggiore produzione delle componenti
base del ciclo del prodotto, differenziato solo nelle ultime rifiniture: nessun
piccolo o medio capitalista sarebbe in grado di seguire una simile forma di
mercato. Proprio la circostanza appena esposta mostra perché sia errato
ritenere, come fa il senso comune, che si vada dal mercato alla produzione, al
quale quest’ultima dovrebbe sottomettersi, nella già criticata presunta nuova
“sovranità del consumatore”. Il ruolo del consumo, viceversa, continua a
rimanere estremamente limitato, subalterno e secondario. Innanzitutto,
l’attenzione a esso riservata dalla strategia capitalistica è direttamente
proporzionale all’intensità della crisi da sovraproduzione - come è sempre
stato, in tutte le fasi di crisi che la storia del capitale ha conosciuto. In
secondo luogo, l’adattamento della produzione alle esigenze del consumatore può
essere appena significativa limitatamente alla richiesta di beni di consumo
durevole, peraltro soggetti a versioni opzionali e non a semplici requisiti
funzionali standardizzati (e in ogni caso non può operare quasi per niente per
i beni strumentali). Infine, come si è detto, non si può confondere la piccola
scala di produzione con la capacità di produrre e proporre un’ampia varietà di
modelli.
Anzi, la rammentata organizzazione a “fungo” esige proprio
il contrario, laddove l’agilità della produzione, appunto detta “snella”, sta
nella capacità di coordinamento centrale di unità produttive distinte entro una
crescente larga scala di produzione. Ovverosia, si va, per così dire, da valle
a monte solo quando è possibile programmare con regolarità continua, sia per la
dimensione finanziaria e operativa raggiunta dall’impresa, soprattutto intesa
come holding o gruppo transnazionale, sia per la capacità di questa di
procedere per fuoriuscire dalla crisi. Come si dirà più avanti, lo stesso
inserimento nella divisione del lavoro del “sapere” (know-how) da parte
dell’azienda capofila, dunque, ha molto poco a che vedere con ciò che la moda
“nuovista” definisce impropriamente come flusso di “merce immateriale” non
meglio identificata. Esso rimanda piuttosto a quel flusso in quanto procedura
strategica del controllo delle informazioni messa in atto dalla centralizzazione
finanziaria del capitale.
Tutto ciò che precede riporta l’analisi di dettaglio su un
punto dianzi appena indicato, a proposito della centralità della produzione in
rapporto alla minimizzazione dei suoi costi in termini di tempo e di spazio del
capitale (tempo di lavoro, di produzione e di circolazione, come pure di
materiali, di macchine e spazio di produzione, di accumulazione e di mercato),
azzerando tutti quei costi che derivino da sprechi capitalistici, cioè onerosi
direttamente o indirettamente per l’impresa, non per la società o la natura, di
uno qualunque di quei “fattori” posti nella loro forma economica. Di nuovo, è
l’oculata commisurazione del punto di vista della quantità - privo di
condizionamenti in una fase di abbondanza e di espansione del mercato - con
quello della qualità - caratteristico di una fase di penuria e di crisi.
La parsimonia di tempo e di spazio - intesi come elementi di
costo del capitale, quindi non dello spazio e del tempo altrui, ché anzi
vengono così sfruttati al massimo grado consentito dalla forza di cui il
capitale dispone - è il risultato della dialettica tra quantità superata e
qualità posta, però verso un nuovo fondamento, per così dire, di “quantità
qualitativa”. Sia lo spazio sia il tempo al contatto col capitale
apparentemente si restringono in una continuità di cui il capitale stesso è
garante nell’accumulazione di plusvalore; ma tale processo si rappresenta
semplicemente come composizione di fasi estrinseche tra loro, le cui modalità
organizzative e tecniche possono perciò riguardarsi unilateralmente come novità
assolutamente indipendenti. Tale unilateralità rappresentativa impedisce di
cogliere il nesso della totalità del processo unitario dello sfruttamento,
quale sostrato tendenzialmente sempre in aumento, nesso che non distacca
concettualmente il postfordismo dai suoi precedenti storici della sottomissione
reale del lavoro nel modo capitalistico di produzione. Sicché la dominanza del
capitale - mentre riduce a suo vantaggio lo spazio rappresentato nel just in
time, nell’architettura interna di fabbrica, ecc., e così il tempo nel kaizen,
nella saturazione dei tempi di lavoro, ecc., coerentemente all’aspirazione a
ridurre a zero il tempo di circolazione per aumentare la frequenza produttiva,
nelle rotazioni del capitale - è intenta in realtà a dilatare la globalità dei
tempi di lavoro moltiplicati per il numero di rotazioni stesse (tempi di
produzione più tempi di circolazione), oggi visibile solo nella spazialità del
mercato mondiale unificato. L’ideologizzazione che ne consegue punta, pertanto,
ad esaltare la rappresentazione dell’efficiente riduzione spazio-temporale
tecnica, in quanto immane potenza identificata col sistema, e per converso a
cancellare ogni riferimento all’unificazione della spazio-temporalità
produttiva sociale con i fini stessi del capitale.
Se si considera il processo nella sua totalità, dunque, si
capisce bene ora il perché si tratti di una elevazione “flessibile” del
taylorismo. Comunemente si ritiene, come sopra ricordato, che il segreto del
successo dell’esperienza che si basa sulla ristrutturazione “alla giapponese”
vada ricercato nelle nuove tecnologie delle macchine informatiche: ora è
evidente come non ci sia nulla di più inesatto o approssimativo. La nuova
organizzazione scientifica del lavoro - ché di ciò realmente si tratta, quando
si esaminino le procedure che Taiichi Ohno ha escogitato, mutuandole e
sviluppandole dal taylorismo - s’incentra essenzialmente nel pieno e
incondizionato recupero di comando sul lavoro da parte del capitale. Alla
centralità del lavoro, dunque, alla sua organizzazione e al suo rapporto di capitale,
è necessario riferirsi per considerare tutte le ricadute e le conseguenze che
ne hanno imposto l’esemplarità, fornendo la risposta, adeguata alla
contemporaneità, alla questione permanente dello sfruttamento del lavoro
salariato. La nuova organizzazione imperialistica del lavoro è proprio quella
che ormai ognuno ha sentito passare quasi quotidianamente sotto il nome insulso
di postfordismo o qualità totale. Ma essa è quella che si esprime, attraverso
la forma della doppia flessibilità di lavoro e macchine, nell’ulteriore
flessibilità del salario. Non si dimentichi che scopo ultimo dell’accumulazione
del capitale, infatti, è mettere in grado il capitalista di ottenere,
rendendola liquida - con il medesimo esborso di capitale variabile - una
maggiore quantità di lavoro, attraverso l’aumento di lavoro e la diminuzione di
salario, conseguibile anche con l’apparente riduzione dell’orario lavorativo.
La sintesi dell’intero processo, in tutte le sue tre componenti “flessibili”, è
una maggiore quantità di pluslavoro non pagato.
In ogni epoca del modo di produzione capitalistico, quella
adeguatezza è stata costantemente ricercata nella flessibilità del lavoro.
L’esperienza nipponica conferma, ancora una volta, che la ritrovata fluidità e
flessibilità sociale della forza-lavoro riesce ad affermarsi solo a séguito
dell’incondizionata vittoria del capitale, con la disgregazione di ogni forma
di opposizione proletaria: “il controllo dell’impresa sul sindacato”, sostiene
Ohno. Solo così si avvia quel processo neocorporativo che infine si mostra in
grado di trasporsi stabilmente in flessibilità lavorativa proprio grazie alla
mediazione della flessibilità del nuovo sistema di macchine, prodotto e messo
in produzione con la seconda grande rivoluzione industriale dell’automazione
del controllo. Senonché il principio generale della flessibilità caratterizza
l’operare del modo di produzione capitalistico, come sua legge immanente, e
dunque storicamente fin dalla sua nascita. Il primo presupposto invariante del
modo di produzione specificamente capitalistico - in qualsiasi sua forma, come
già rammentato, fin da Smith indicato nell’aumento di abilità o destrezza del
lavoratore, nell’intensificazione dei ritmi di lavoro e nel perfezionamento
delle macchine da adeguare a quei fini - è costituito proprio dalla
flessibilità del lavoro.
La doppia flessibilità qui in questione è ora in grado di
ricadere sul salario e sulla corrispondente estorsione di pluslavoro, in quanto
rappresenta il criterio portante per superare i vincoli presentati dalle
rigidità poste nella grande fabbrica dalla prima grande rivoluzione
dell’automazione del moto: alla quale taylorismo e fordismo non avevano potuto
aggiungere nulla di qualitativamente nuovo, se non le condizioni pratiche per
il raggiungimento della soglia estrema consentita da quel particolare sistema
di macchine. La rigidità del sistema di macchine della linea di montaggio
tayloristica, nel mondo intero, si è consumata in qualche decennio. D’altronde
- proprio a causa dell’incoerenza tra i limiti imposti dalla rigidità meccanica
e l’esigenza categorica della flessibilità lavorativa - la classe operaia
riuscì via via a esprimere una propria rigidità, bloccando la forzosa
flessibilità lavorativa corrispondente alla grande fabbrica. La significatività
e la portata “tecnica” del cosiddetto postfordismo è racchiusa tutta in questa
specificazione, chiaramente subordinata alla dinamica sociale.
Il cosiddetto “fattore lavoro”, e la sua efficienza,
costituisce pertanto il punto di massima attenzione indicato dagli esperti
giapponesi ai dirigenti capitalistici di tutto il mondo. I principali vantaggi
- traducibili in ultima analisi in termini di minori costi e quindi di maggiore
penetrazione nei mercati - sono stati ottenuti riorganizzando proprio il
processo lavorativo (con lavoro multifunzionale), precisamente in quei segmenti
interposti tra una macchina e l’altra. Come si è ricordato, l’osservazione è
stata concentrata sull’eliminazione di tutte le forme di spreco e sull’aumento
della scala di produzione. Ciò spiega largamente l’enorme processo di
centralizzazione nelle grandi imprese transnazionali al vertice di una piramide
di subfornitori via via più piccoli, fino al lavoro a domicilio, ma in rigida
subordinazione gerarchica.
Ora, è di fondamentale importanza capire che tutte le
procedure e tecniche adottate, in quanto tali, servono esclusivamente ad
aumentare l’intensità e la condensazione del lavoro, e non la sua produttività
(come dimostrano gli esperimenti pilota condotti alla Toyota su reparti attrezzati
con tecnologia tradizionale). Tale accorgimento ha permesso di studiare, come
in laboratorio, l’effetto specifico della riorganizzazione, in quanto distinta
dall’innovazione tecnologica. Ed è proprio quella riorganizzazione che ha
consentito risparmi di tempo di lavoro vivo dell’ordine del 40%, spingendolo a
coincidere col tempo di produzione. Dopo, e solo in conseguenza di tale
riorganizzazione, può procedere più speditamente il varo delle nuove tecnologie
informatizzate; cosicché, d’altra parte, si attui anche una costrizione
implicita all’aumento della durata del lavoro (con straordinari, turni,
cottimi), previamente reso più intenso. La struttura gerarchica, ben lungi
dall’affievolirsi, si razionalizza e si rafforza, eliminando proprio le
funzioni di gestione intermedia, e mettendo in diretto contatto la struttura
operativa con i “capi” superiori, sul modulo del cottimo, elevato anch’esso al
livello neocorporativo di gruppo.
Il comando sul lavoro da parte del capitale è dunque il
perno attorno al quale ruota la comprensione del processo di ristrutturazione
in atto: le “nuove libertà” del postfordismo non sono nient’altro che fumo! La
ripresa piena e incondizionata di tale comando - complessivamente racchiuso
sotto le insegne della flessibilità - è la forma integrata del controllo sul
salario, con l’ottenimento di un consenso in forme più o meno coercitive, e con
l’introduzione (eventuale, perché non rigorosamente necessaria) delle nuove
tecnologie del controllo automatico. Dunque, è così che il capitale tende a
creare condizioni di precarietà permanente per l’occupazione e la sua
retribuzione - aumentando lo sfruttamento attraverso la maggiore tensione della
forza-lavoro: con ritmi di lavoro a intensità crescente, con taglio dei tempi
morti per raggiungere una maggiore condensazione del lavoro effettivo sul tempo
di lavoro contrattuale, fino alla saturazione totale di esso, con la
possibilità del lavoro notturno e dei cicli continui di produzione, laddove
necessario, per poter usufruire anche di una più lunga durata della giornata
lavorativa. Quella precarietà si completa attraverso l’instabilità costitutiva
delle prestazioni lavorative e del corrispondente salario: non è certo per pura
coincidenza che proprio nella cosiddetta “epoca del postfordismo” si affermino
e si sviluppino, su scala mondiale, i contratti a tempo parziale, con la
formazione-lavoro o il salario d’ingresso, con le agenzie di lavoro a
“prestito” e con i contratti di solidarietà, ossia con la formale
“regolarizzazione” di tutte le forme di lavoro salariato prima ir/regolare e
precario, marginale “nero” o “sommerso”, ecc.: la componente attiva, e non
disoccupata ancorché stagnante, dell’esercito industriale di riserva.
Questo processo è ciò che fornisce la base strutturale e il
fondamento materiale del neocorporativismo, costruito intorno alla ricordata
parodia di consensualità, imbellettata come partecipazione: partecipazione a un
ricatto capitalistico che subordina il salario del lavoratore al risultato
dell’impresa, e il reddito del cittadino allo stato dell’economia “nazionale”.
La flessibilità del salario, commisurata al rendimento del lavoro, risponde al
classico concetto di cottimo - che i lavoratori combattono da sempre, non
appena ne scoprono le insidie. Non è un caso che - tranne che per la teoria
“pura” del marginalismo economico, araldo di una supponente armonia paritetica
ed egualitaria tra “proprietari”, tutti messi sullo stesso livello - ogni forma
di “pagamento su risultato” sia esorcizzato dai padroni e dai loro ideologi,
che evitano anche di pronunciare la sola parola “cottimo”; ovvero la ricoprono
di scuse non richieste, per dire che i loro sistemi di incentivazione, di premi
di produzione, di riconoscimento per gratifiche, ecc., fino alla più recente
“partecipazione” sono altra cosa.
Senonché le cose, nella realtà della crisi in cui è
necessario inquadrare le procedure “postfordiste”, stanno altrimenti. Pur senza
parlare del salario nella sua dimensione sociale di classe, il salario diretto
sicuro tende a fermarsi intorno alla metà della busta paga, in condizioni
normali di crescita economica; grazie all’ideologia della qualità totale, che
si fa quantità totale, l’altra metà salariale è subordinata all’obliterante
principio della partecipazione. Prevale quella logica “premiale” che già Marx -
nel cottimo come categoria generale - riferiva alla “parvenza” di lavoro già
oggettivato secondo la capacità di rendimento del lavoratore. Ma oggi il grande
innominato, assurto al più elevato rango di despota del lavoro salariato, è
diventato quello dianzi già indicato come cottimo corporativo, giacché la sua
misura non è più neppure rintracciabile direttamente nel “rendimento” del
lavoro stesso. Un incontrollabile risultato d’impresa - stabilito sulla base di
libri contabili arbitrariamente compilati dagli amministratori aziendali, e per
di più soggetto all’incertezza del mercato nazionale e mondiale, sul cui
andamento nulla può lo zelo lavorativo - diviene il principio regolatore della
quota salariale che integra la misera base contrattuale. E così pure, si diceva
poc’anzi, al medesimo cottimo corporativo sono vincolate le parti del
cosiddetto “salario indiretto”, a suo tempo garantito dallo stato attraverso la
prestazione di servizi sociali.
Con simili clausole contrattuali e salariali - lavoro a
tempo determinato e salario in base al risultato ottenuto - il posto di lavoro
fisso e lo stesso orario di lavoro cominciano a riguardare sempre meno
lavoratori (di cui solo una minoranza con prospettive di carriera). Per gli
altri la “qualità”, che impone flessibilità, si prospetta ormai già solo come
“quantità” - come sua misura sociale, cioè, non più vincolata, a particolari
condizioni tecnologiche della riorganizzazione - che implica precarietà,
attraverso la “messa in soprannumero” nella grande industria e nella grande
agricoltura, la rovina nell’artigianato, il lavoro stagionale o a tempo
parziale, le nuove forme di lavoro a domicilio, ecc. La forza-lavoro
precarizzata è resa così ulteriormente flessibile per perfezionarne la forma
liquida di pluslavoro.
L’esempio “giapponese” è il segnale che il capitale mondiale
dà della sua strategia, consistente nel dividere dalla classe lavoratrice una
nuova aristocrazia proletaria, nucleo forte delle regole neocorporative,
parzialmente garantita e gerarchicamente strutturata a protezione del
padronato, per imperare su una classe lavoratrice inferiore, serbatoio della
forza-lavoro comune. Su tale strategia punta il moderno capitale finanziario
transnazionale in tutto il mondo, in quanto essa lo rende capace di ottenere
lavoro sempre più ricattabile e asservibile, anche mediante l’esempio del
consenso coatto di quegli strati superiori di un proletariato mondiale diviso.
In ciò realmente risiede, dunque, il potere dell’imperialismo transnazionale, e
non nella inespressiva - ancorché empiricamente e fenomenologicamente rilevante
- divisione geopolitica tra nord (ricco) e sud (povero), che fa il paio con i
miti della “globalizzazione” e del “postfordismo”: con cui non si dà alcuna
spiegazione, ma solo la mera descrizione di dati di fatto, in maniera
fondamentalmente esterna alla struttura di classe del modo di produzione
capitalistico.
NOTA. Per quanti ritengono che il tema
dell’alienazione appartenga solo agli scritti giovanili di Marx, si precisa che
i riferimenti qui considerati - così come alcune locuzioni emblematiche, qui
ampiamente riportate senza ulteriori chiarificazioni - si trovano soprattutto
nella quarta sezione del primo libro del Capitale [la produzione del plusvalore
relativo: divisione del lavoro nella manifattura e nella società; il carattere
capitalistico della manifattura; la fabbrica], e in alcuni quaderni (I.23,
III.22, IV.47ss, V.28, VII.2ss, 44) dei Lineamenti fondamentali [il denaro come
rapporto sociale; plusvalore e tempo di pluslavoro; reale estraneità
dell’operaio rispetto al suo prodotto; forme che precedono la produzione
capitalistica; differenza del modo di produzione capitalistico da tutti quelli
precedenti; contraddizione tra la base della produzione
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