Da qualche anno, le Banche centrali delle principali
economie mondiali (Stati
Uniti, Eurozona e Giappone)
stanno attuando politiche fortemente espansive. La base monetaria, sotto forma
di liquidità o di riserve detenute dalle banche commerciali, è aumentata
enormemente: negli Stati Uniti, all’inizio del 2016, era quattro volte quella
del 2008. La BCE ha adottato una serie di misure espansive, finanziando a basso
costo il sistema bancario e attuando un programma di acquisto di attività (quantitative
easing) di 80 miliardi di euro mensili per una durata prevista di due
anni.
Si tratta di un’iniezione di liquidità senza precedenti, che
ha fatto scendere i tassi d’interesse a breve e a lungo termine a valori
prossimi allo zero (e, in alcuni casi, negativi, come in Giappone o in Europa).
Ciò avrebbe dovuto stimolare gli investimenti e, dunque, i consumi e il
reddito. I risultati sono, però, largamente inferiori alle attese.
Nell’Eurozona, i dati sul Pil e sull’inflazione mostrano, infatti, come la
ripresa sia molto debole. Anche negli Stati Uniti, dove la crescita è più
elevata di quella europea, il Pil rimane al di sotto del potenziale (Fig. 1).
Figura 1. Pil potenziale e reale negli Stati Uniti,
1980-2015
Valori concatentati 2009. Fonte: FRED, Federal Reserve Bank
of St. Louis, https://research.stlouisfed.org/
A fronte del ristagno della domanda aggregata, la liquidità
immessa dalle Banche Centrali si è riversata sui mercati finanziari.
Nell’Eurozona, le banche che hanno ottenuto liquidità a bassissimo costo dalla
BCE hanno massicciamente acquistato titoli di Stato. I tassi sono diminuiti,
con benefici effetti sulle finanze pubbliche, mentre i prezzi delle attività,
inclusi quelli delle azioni e delle obbligazioni private, sono
considerevolmente aumentati. La politica monetaria non ha avuto, però, gli
effetti sperati sull’economia reale. Quali le ragioni?
2. Intrappolati in una stagnazione secolare?
Nel 2013, per spiegare l’andamento dell’economia
statunitense dopo la Grande recessione, Larry Summers, ripropose la tesi della stagnazione
secolare[i]. Una tesi avanzata da Alvin Hansen nel
1938, quando ancora il mondo era scosso dalla Grande Depressione[ii]. Hansen ipotizzò che con la crisi degli
anni ‘30 si fosse avviata un’era nuova per le economie avanzate. Un’era di
effimere riprese, durature recessioni, crescente sottoccupazione: una
stagnazione secolare, appunto. Secondo Hansen, alla base della stagnazione vi
erano tre cause: la fine dell’espansione geografica che aveva caratterizzato il
XIX secolo; il declino del tasso di crescita della popolazione; l’utilizzo di
nuove tecnologie a minore intensità di capitale rispetto a quelle impiegate
nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico. Riducendo il fabbisogno
d’investimenti, quelle forze avrebbero spinto l’economia verso un equilibrio di
bassa crescita ed elevata disoccupazione.
I “miracoli di crescita” degli anni ‘50 e ‘60 fecero
dimenticare la fosca profezia di Hansen. Nel decennio seguente, però, quando il
tasso di sviluppo cominciò a declinare, il concetto di stagnazione tornò
attuale. Furono i marxisti a riproporlo. Nell’economia capitalistica – scriveva
Paul Sweezy – il saggio di aumento del consumo è tendenzialmente inferiore a
quello dei mezzi di produzione, per cui il ristagno è la regola verso la quale
tende costantemente la produzione capitalistica[iii]. Le crisi erano, dunque, i sintomi di un
malessere strutturale, dovuto alla cronica insufficienza di domanda aggregata
rispetto alla capacità produttiva. Nelle economie avanzate – argomentarono i
marxisti – la spesa pubblica, il debito pubblico e privato e la
finanziarizzazione avevano consentito di sostenere la domanda e di sfuggire
alla trappola della stagnazione. Ma l’indebitamento eccessivo e la finanza
scollegata dalla produzione, nello stesso tempo, creavano instabilità e
ponevano le condizioni per le crisi.
Hansen aveva considerato la crisi degli anni ’30 come
l’esito del progressivo affievolimento dell’impeto di crescita dell’economia
statunitense. Anche la Grande recessione iniziata nel 2007 è stata considerata
il culmine di un fase in cui l’indebitamento pubblico e privato, e un abnorme
sviluppo finanziario, hanno sostenuto la crescita supplendo alla cronica
carenza di domanda aggregata[iv]. Il declino del tasso d’interesse
naturale (o whickselliano) e di quello reale (Fig. 2) sarebbe il sintomo acuto
della stagnazione da domanda, dell’eccesso di risparmio rispetto agli investimenti.
Nelle economie industrializzate – osserva L. Summers – coniugare crescita
adeguata, utilizzazione della capacità produttiva e stabilità finanziaria è
sempre più difficile. Dagli anni ’90, le fasi di ripresa economica sono state,
in larga misura, alimentate da bolle e condizioni d’insostenibilità
finanziaria.
Figura 2. Il declino del tasso d’interesse naturale
1961-2014
Fonte: T.
Laubach, J. C. Williams (2003), Measuring the Natural Rate of Interest, Review
of Economics and Statistics, 85, 4, 1063-1070 e aggiornamenti.
3. I “venti contrari” alla crescita
Alla base della stagnazione secolare vi sarebbero diverse
forze che agirebbero come “venti contrari alla crescita”. La prima forza è demografica.
Nei paesi industrializzati, il declino del tasso di crescita della popolazione
e il progressivo invecchiamento si rifletterebbero negativamente sulla domanda
per investimenti e per consumi. Nell’ultimo quinquennio, il tasso di fertilità
totale in Giappone è stato pari a 1,4, negli Stati Uniti a 1,9, in Europa a
circa 1,7 bambini per donna. Nel 2015, in Giappone e in Italia si contavano,
rispettivamente, 44 e 35 ultrasessantacinquenni ogni 100 persone in età da
lavoro. Nel 2030, si stima, In Italia si avranno dai 34 ai 45 anziani ogni 100
persone in età da lavoro, in Giappone 43. Si tratta dei valori più elevati al
mondo[v].
La seconda forza riguarda la distribuzione del
reddito. Dagli anni ’80, la diffusione del lavoro precario e a basso
salario si è accompagnata con un aumento
delle disuguaglianze. La quota dei salari sul reddito è diminuita. Tra il
1991 e il 2013 è calata di 4,8 punti percentuali negli Stati Uniti, di 5,9 in
Giappone e di 6,7 punti in Italia. Diversi studi indicano come il declino della
quota dei salari e le disuguaglianze distributive abbiano effetti depressivi
sulla domanda aggregata[vi].
Forze contrarie alla crescita deriverebbero anche dai cambiamenti
strutturali. Nelle economie avanzate, in cui l’attività economica è sempre
più basata sulle nuove tecnologie (l’economia di Google, Facebook o Wall Mart)
e sulla finanza, la quantità di capitale investito per unità di prodotto tende
a diminuire e, con esso, la domanda per investimenti.
La stagnazione avrebbe anche cause dal lato dell’offerta.
Tra queste, il rallentamento della produttività e dell’innovazione tecnologica[vii]. Ma sono le forze della domanda ad essere
decisive. Anche se, in futuro, il progresso tecnico crescesse allo stesso tasso
registrato finora, per effetto dei fattori demografici e della disuguaglianza,
la crescita rallenterebbe ugualmente.
Tra le diverse interpretazioni della stagnazione secolare –
quella mainstream e quella neomarxista – esistono aspetti
comuni ma anche fondamentali differenze. In entrambe, però, l’essenza della
stagnazione secolare consiste nello squilibrio tra capacità di produrre e
capacità di assorbire la produzione. Se la tendenza alla stagnazione è insita
nella dinamica delle economie avanzate, politiche monetarie espansive e bassi
tassi d’interesse non possono contrastarla. Possono, al più, alimentare
temporaneamente la domanda, ma a rischio di creare instabilità finanziaria.
*Università
Magna Graecia di Catanzaro
[i] L. H. Summers (2014), U.S.
Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound,
Business Economics, 49, 2, 65-73
[ii] A. Hansen (1939), Economic
Progress and Declining Population Growth, The American Economic Review, 29, 1,
1-15. Sull’ipotesi della stagnazione secolare, R. E. Backhouse, M. Boianovsky
(2015), Secular Stagnation: The History of a Macroeconomic Heresy, paper
prepared for the Blanqui, Rome, 14 May 2015. Per una rassegna: V.
Daniele (2015), Una stagnazione secolare? Italia, Giappone, Stati Uniti,
1950-2015, WP, Università Magna Graecia di Catanzaro,https://www.researchgate.net/publication/284693684_Una_stagnazione_secolare_Italia_Giappone_Stati_Uniti_1950-2015
[iii] P. M. Sweezy (1970), La teoria dello
sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino, p. 257. H. Magdoff, P. M. Sweezy (1987), Stagnation and
the Financial Explosion, Monthly Review Press, New York.
[iv] H. Summers, U.S. Economic
Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound, Business
Economics, 49, 2, 65-73.
[vi] E. Hein (2012), The
Macroeconomics of Finance-Dominated Capitalism – and its crisis, Edward Elgar
Publishing, Cheltenham, pp. 115-116.
[vii] Su questi aspetti, J. R.
Gordon (2012), Is US economic growth over? Faltering innovation confronts the
six headwinds, Centre for Economic Policy Research (CEPR), Policy Insight n.
63, September.
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