mercoledì 13 aprile 2016

Dispotismo* (di ieri, di oggi...) - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 



Marx rimproverò che “Hegel osserva in un punto delle sue opere che tutti i grandi fatti della storia del mondo e i loro personaggi compaiono, per così, a due riprese. Egli ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa”. Il dispotismo che si ripresenta puntualmente nel­l’involuzione della società borghese capitalistica è storia vecchia, che con lo scorrere del tempo sarà sempre più evidente e dura, ma anche drammaticamente ridicola – se si tiene conto che ormai si è giunti alla terza, quarta volta o più. Le gesta di Berlusconi hanno precedenti illustri, nella finzione letteraria e nell’analisi scien­tifica. Da Brecht a Benjamin, da Marx a Engels (per limitarsi agli autori qui parafrasati), ma senza dimenticare altri nomi del calibro di Vico, Lafargue, Lu Hsün, Kraus, han­no visitato ampiamente il tema, di cui qui si vuole offrire un sintetico campionario [repetita juvant].

L’ordinamento giuridico borghe­se e il delitto, secondo le regole del romanzo poliziesco, sono tra loro antagonisti. Nel romanzo poliziesco Il partito di Mackie Messer, il rapporto fra ordinamento giuridico bor­ghese e delitto è rappresentato in modo conforme alla realtà. L’ultimo si rivela come un caso particolare dello sfruttamento che è sancito dal primo. Nei manuali di criminologia i de­linquenti sono indicati come ele­menti asociali. Ma per alcuni la storia contemporanea ha confu­tato questa definizione. Facen­dosi delinquenti, secondo la nuova scuola, molti sono di­ventati modelli sociali. Chi segue tale scuola ha la na­tura di un capo. Le sue parole hanno un tono statale, le sue azioni un tono commerciale. I compiti di un capo non sono mai stati più difficili di oggi. Non basta usare la forza per la con­servazione dei rapporti di pro­prietà. Non basta obbligare gli stessi espropriati al proprio sfruttamento. Questi compiti pratici esigono di essere risolti. Ma come da una ballerina non si pretende solo che sappia danzare, ma anche che sia graziosa, così il fascismo non esige solo un salvatore del capi­tale, ma anche che egli “appaia” come un gentiluomo. È questo il motivo per cui un tipo così, in questi tempi, ha un valore inesti­mabile. Egli è capace di osten­tare ciò che il piccolo borghese intristito ritiene tipico di una per­sonalità. Nessuno vuole dargli spiegazioni, uno deve farlo. Ed egli lo può. Poiché questa è la dialettica della cosa: dato che egli vuole assumersi la respon­sabilità, i piccoli borghesi lo rin­graziano con la promessa di non chiedergli conto di nulla.

Lui – il Comediavolosichiama – non si lascia sfuggire nessuna occasione di farsi ve­dere. Egli dimostra “che si può dire tutto”, a es. quanto segue: “secondo la mia opinione, noi non abbiamo le persone giuste al vertice dello stato. Apparten­gono tutte a qualche partito, e i partiti sono egoisti. Abbiamo bi­sogno di persone che stiano al di sopra dei partiti. Noi vendia­mo la nostra merce ai poveri e ai ricchi. La direzione dello stato è un cómpito morale. Bisogna ottenere che gli imprenditori sia­no buoni imprenditori, gli impie­gati buoni impiegati, insomma i ricchi buoni ricchi e i poveri buo­ni poveri. Sono convinto che verrà il tempo in cui lo stato sa­rà guidato in questo modo. Un governo così mi conterà tra i suoi sostenitori”.

Il Comediavolosichiama fu d’un tratto sulle labbra di tutti. Que­st’uomo eminente già da anni aveva raccolto intorno a sé, in una città di provincia, una quan­tità di piccoli borghesi, assicu­rando loro, con una verbosità insolita, che stava per inaugura­re una grande epoca. Dopo es­sersi esibito qualche anno nel circo e nell'avanspettacolo, si guadagnò la fiducia del presidente. Chi, però, una grande epoca l’aveva già vissu­ta, si cercò in fretta un posto e lasciò il paese in quattro e quattr’otto. Sentì parlare per la prima volta del fascismo anni fa; e come di un movimento diretto contro l’e­terno ritardo dei treni italiani e smanioso di restaurare la gran­dezza dell’antico Impero Roma­no. Sentì dire che i suoi membri portavano camicie nere. [Però sembra un’i­dea sbagliata, que­sta, che sul nero lo sporco non si veda. Per questo le camicie brune sono molto più pratiche; ma questo movimento sorse dopo e poté perciò sfrut­tare l’esperienza del primo].

La cosa più importante sembra che il Coso promettesse al po­polo italiano una “vita pericolo­sa”. A sentire i giornali italiani, pare che questa promessa sol­levasse un’ondata di entusia­smo nella popolazione. Questi movimenti “fascisti” si autodefini­sco­no dappertutto movimenti popolari. Loro infatti dicono di andare verso il popolo, cioè ver­so i nullatenenti. Spesso usano un tono molto aspro contro i ric­chi. In contraccambio, però, de­vono pur fare qualcosa. In ge­nerale si pretende troppo dai grandi uomini. Non è meraviglia che non possano adeguarsi a queste tremende pretese.

Si pretende che siano disinte­ressati. Vorrei sapere come po­trebbero esserlo, e perché pro­prio loro. Ma loro devono conti­nuamente assicurare che non ne ricavano nulla, se non pene preoccupazioni e notti insonni, e il Comediavolosichiama deve pubblicamente versare litri di la­crime per dimostrare l’onestà delle sue intenzioni. Infatti il po­polo lo segue in guerra solo se il Comediavolosichiama la sca­tena per puro idealismo, e non per sete di guadagno. Qualche anno fa tenne addirittura un di­scorso per dire che lui non pos­siede né feudi né conto in ban­ca. È interessante vedere quan­ta pena si danno per dimostrare che il macello di milioni di esseri umani e l’oppressione e la muti­lazione spirituale di interi popoli lo fanno gratis, senza riscuotere nessun compenso.

Il fatto è che, se il proletariato non si è battuto in massa, vuol dire che era perfettamente consape­vole del suo rilassamento e del­la sua impotenza, e si è abban­donato con fatalistica rasse­gnazione nel rinnovato giro di repubblica, impero, restaurazio­ne, fin tanto che non avrà rac­colto nuove forze attraverso qualche anno di miseria sotto il dominio del maggior ordine pos­sibile. Sembra che questa sia stata l’istintiva posizione che ha dominato tra il popolo dopo il ri­stabilimento del suffragio “maggiori­tario”. Se il proletariato vuole aspettare fino a che il suo problema gli venga posto dal governo, può attende­re un pezzo. L’ultima occasione, in cui la questione tra proletaria­to e borghesia fu posta abba­stanza direttamente, fu per la legge elettorale, e allora il popo­lo preferì non battersi. Dopo l’a­bolizione del suffragio “pro­porzionale”, dopo la cacciata del pro­letariato dalla scena ufficiale, si è davvero pre­teso troppo attendendosi dai partiti ufficiali che ponessero la questione in modo che conve­nisse al proletariato. Se il “partito rivoluzionario” comincia a lasciar passare delle svolte decisive senza dire la sua parola, o, se vi si immischia, senza vincere, lo si può considerare con suffi­ciente certezza a terra per un certo periodo.

E non si può neanche negare che l’effetto del ristabilimento del suffragio “maggioritario” sulla borghesia, piccola borghesia e in fin dei conti anche su molti proletari (ciò risulta da tutte le informa­zioni) getti una strana luce. È palese che molti non hanno pensato affatto a quanto sia sciocca la questione posta da “Napo­leone” sul voto; la maggior parte però de­ve aver capito l’imbroglio e cio­nonostante deve essersi detta che ora le cose vanno benissi­mo, pur di avere un pretesto per non battersi. Tutta la farsa delle elezioni si risolve in nulla. (Cittadini timorosi votano per Lui, insieme a conta­dini stupidi; oltre a “sbagli di calcolo”). “Napo­leone” di­chiarerà la nazione in stato di alienazione mentale e si proclamerà l’unico salvatore del­la società, e poi la merda sarà chiaramente visibile e Lui starà nel bel mezzo di essa. Ma proprio con questa storia delle elezioni la cosa potrebbe diventare per Lui molto spiacevole, se dopo ci fosse ancora in generale da at­tendersi una seria resistenza. Ma non c’è più l’“informazio­ne”: nes­suno può verificarlo.

Il potere di stato centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti, con il governo posto sotto il controllo del parlamento, cioè sotto il controllo diretto del­le classi possidenti, non è diventato solamente una fabbrica di e­nor­mi debiti nazionali e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni es­so, non diventò solamente il pomo della discordia tra le fra­zioni rivali e gli avventurieri del­le classi dirigenti, ma anche il suo carattere politico cambiò insieme con le trasformazioni economiche della società.

A mi­sura che il progresso dell’in­du­stria moderna sviluppava, allar­gava, accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavo­ro, il potere dello stato assume­va sempre più il carattere di po­tere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica orga­nizzata per l’asservi­mento so­ciale, di uno strumento di dispo­tismo di classe – un regime di terrorismo di classe aperto e di deliberato insulto della “vile moltitudine” – e attribuiva all’ese­cutivo poteri di repressione sempre più vasti, in pari tempo spogliando la stessa fortezza parlamentare di tutti i suoi mezzi di difesa contro l’e­secutivo, l’uno dopo l’altro.

L’“impero”, col colpo di stato co­me certificato di nascita, il suf­fragio universale come sanzio­ne e la spada come scettro, pretendeva di salvare la classe operaia distruggendo il parla­mentarismo, e, insieme con es­so, l’aperta sottomissione del governo alle classi possidenti. Pretendeva di salvare le classi possidenti mantenendo la loro supremazia economica sulla classe operaia. Finalmente pre­tendeva unire tutte le classi ravvivando per tutte la chimera della gloria nazionale. La spe­culazione finanziaria celebrò delle orge cosmopolite; la mise­ria delle masse fu messa in rilie­vo da un’ostentazione sfacciata di un lusso esagerato, immora­le, delittuoso. Il potere dello sta­to, apparentemente librato al di sopra della società, era in pari tempo lo scandalo più grande di questa società e il vivaio di tutta la sua corruzione. La sua decomposizio­ne, e la decomposi­zione della società che esso aveva salvato, vennero messe a nudo. L’imperiali­smo è la più prostituita e l’ultima forma del potere di stato.

L’ironia della storia capovolge ogni cosa. I “partiti dell’ordine”, com’essi si chiamano, trovano la loro rovina nell’ordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperata­mente: la legalità è la nostra morte! Alla fine non rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale. Essi possono oppor­re solo la sovversione propria del “partito dell’ordine”, la quale non può vivere senza violare le leggi. Violazione della costitu­zione, dittatura, ritorno all’asso­lutismo, regis voluntas suprema lex! Il compromesso finisce col lasciare l’ammini­strazione nelle mani di una terza casta: la bu­rocrazia. L’autonomia di questa casta, che apparentemente sta al di fuori e per così dire al di sopra della società, dà allo stato il lustro dell’autonomia rispetto alla società.

Gli industriali hanno sinora tenu­to lontana la burocrazia con la corruzione. Ma questo mezzo li libera solo dalla metà meno pe­sante del gravame; prescinden­do dall’impossibilità di corrompe­re tutti i funzionari con cui un industriale viene a contatto, la corruzione non lo libera dal pa­gamento dei diritti d’ufficio, degli onorari degli avvocati, architetti, ingegneri e di tutte le altre spe­se causate dalla sorveglianza statale. E quanto più si sviluppa l’industria, tanto più spuntano fuori “funzionari coscienziosi”, i quali infliggono agli industriali le più gravi angherie. La burocra­zia disdegna sempre più di considerare l’ammanco di cassa come unico mezzo per migliora­re lo stipendio e dà la caccia ai posti ben più lucrosi che si hanno nell’amministra­zione del­le imprese industriali, con “inte­ressenze” nelle ferrovie, con la speculazione in borsa, ecc. Per non parlare di quei signori che hanno investito il loro “capitale di circolazione” in titoli, facendo ricorso al credito per rimpiazzare tale capitale nei loro affari “legittimi”. Tutto ciò, per lorsignori, si spiega con un “senso morale dell’accre­sciuto valore del proprio denaro”.

La borghesia è dunque posta nella necessità di spezzare il potere di questa burocrazia pe­tulante e vessatrice. Nel mo­mento stesso in cui l’ammini­strazione dello stato e la legisla­zione cadono sotto il controllo della borghesia, crolla l’indipen­denza della burocrazia; anzi, da questo momento i tormentatori dei borghesi si trasformano in servi sottomessi. La borghesia è costretta a compiere il più ra­pidamente possibile questi cam­bia­menti, a sottoporre a una re­visione radicale l’intero sistema legislativo, amministrativo e giu­diziario. I borghesi, per le cause riguardanti la proprietà e per i processi criminali abbisognano di una giuria, cioè di un control­lo permanente esercitato sulla giustizia. Nulla può caratterizzare l’idiozia della borghesia attuale meglio del rispetto con cui essa venera la “logica” dei miliardari, questi aristocratici da letamaio. 

[brani tratti da Walter Benjamin, “Il romanzo da tre soldi” di Brecht; Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi; Friedrich Engels, Lettera a Marx, 11 dicembre 1851; Karl Marx, Il Capitale, III.26; La guerra civile in Francia]. 


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