giovedì 21 aprile 2016

CRITICA DELLA RAGION SPURIA*- Riccardo Bellofiore





Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base dell'analisi
marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del valore




La tesi che nell'economia capitalistica il lavoro salariato sia "sfruttato" costituisce il nodo centrale della teoria marxiana: talmente essenziale che abbandonarlo implica approdare alla costruzione di un marxismo senza Marx.

Chi propone un'affermazione del genere ha però l'obbligo di affrontare la sfida degli attacchi a quella teoria. Attacchi sempre più efficaci, tanto che difficilmente qualcuno osa richiamarvisi al giorno d'oggi. Le ragioni delle critiche più diffuse sono presto dette. Sul terreno dei principi, non terrebbe il fondamento su cui Marx costruisce la teoria del valore, ovvero la riconduzione di quest'ultimo a nient'altro che lavoro. Sul terreno dei fatti, si sarebbero esaurite le basi materiali del discorso marxiano.

Per un verso, assisteremmo ad una tendenziale "fine del lavoro", e non ad una sua sempre più pervasiva centralità. Per l'altro, sarebbe ormai scomparsa quella figura del lavoratore omogeneo perché dequalificato in cui si tradurrebbe empiricamente la nozione marxiana di "lavoro astratto".

Vale la pena di partire da una rilettura delle basi categoriali della critica dell'economia politica. Il ragionamento di Marx è il seguente. Nel processo capitalistico i lavoratori salariati riproducono il valore dei mezzi di produzione impiegati (trasferendo in avanti il lavoro morto storicamente ereditato dal passato) e aggiungono un neovalore. Quest'ultimo rappresenta sul mercato in forma monetaria il lavoro "vivo" speso nel periodo corrente e oggettivato nel reddito nazionale. Il valore di tutta la forza-lavoro occupata è dato dal lavoro contenuto nella "sussistenza" merceologicamente definita, il "lavoro necessario".

Il plusvalore trova la sua origine in un pluslavoro, cioè nella differenza positiva tra l'intera giornata lavorativa sociale e la quota del lavoro vivo dedicata a produrre i beni resi disponibili ai salariati.

Lo sfruttamento del lavoro in Marx è legato alle due dimensioni dell'economia capitalistica per cui essa è economia di mercato ed economia monetaria: "circuito" attivato dal capitale denaro sul mercato del lavoro, che ingloba come sua fase intermedia la produzione immediata, e che sfocia nella realizzazione del prodotto contro denaro sul mercato dei beni. Ma quello sfruttamento ha la propria genesi, il "centro", nell'intreccio tra vendita della forza-lavoro e suo impiego nella produzione, in forza della determinazione sociale che assumono il comando sul lavoro e il sistema tecnologico.

Basta porre attenzione a come emerge il pluslavoro. La forza-lavoro ha un "valore di scambio" (il lavoro contenuto nei beni salario ottenuti in cambio della cessione della propria "potenza" di lavoro) e un "valore d'uso" (l'effettiva "messa al lavoro" del lavoratore). La classe dei capitalisti otterrà profitti soltanto qualora sia in grado di imporre un prolungamento del lavoro vivo oltre il lavoro necessario.
Incontriamo qui l'unicità della merce forza-lavoro, che ne fa la sola sorgente del (plus)valore.

Mentre per gli altri input il loro utilizzo e la loro interrelazione sono predeterminati dalla tecnica, nel caso degli esseri umani l'acquisto di una unità di forza-lavoro lascia del tutto indeterminate sia la quantità di altri input da acquistare sia la quantità di prodotto da ottenere, che si accresceranno in dipendenza del "successo" dei capitalisti nell'estorcere lavoro vivo. La peculiarità della forza-lavoro sta inoltre nel fatto che la classe dei lavoratori può resistere alla "manipolazione" da parte del capitale.

Per questo il capitale dà vita ad una struttura materiale e scientifica che configura un modo specificamente capitalistico di produzione dove la figura qualitativa del lavoro viene a dipendere da decisioni estranee ai soggetti: sicché le stesse caratteristiche concrete dell'attività finiscono col discendere dalla forma presa dalla valorizzazione. La visione dello sfruttamento che ne segue è chiara. Lo sfruttamento del lavoro è in realtà il suo utilizzo per fare profitti. Esso non va inteso tanto come l'appropriazione di un plusprodotto o come esaurentesi nel solo pluslavoro, cioè con una questione meramente distributiva, quanto come l'imposizione e il controllo che gravano sull'intero lavoro estorto, qualcosa che investe la natura del lavoro in quanto tale.

A ciò non si accompagna affatto l'idea che il lavoro capitalistico debba tendere linearmente ad una progressiva dequalificazione, quanto che la qualità del lavoro è subordinata al comando capitalistico, il che è compatibile con ondate di dequalificazione e con momenti di riqualificazione. Il lavoro è astratto in quanto nello scambio finale la "cosa" prodotta domina i produttori: ma anche perché sul mercato del lavoro il lavoratore in carne ed ossa conta soltanto come portatore della merce forza-lavoro, e perché più fondamentalmente nel processo di valorizzazione gli stessi lavoratori divengono appendici della struttura tecnica del capitale.

Il capitale, vera e propria astrazione in movimento, produce un Lavoro che fagocita i lavoratori: ma non può mai fare a meno della loro attività. Il lavoro "sfruttato" è perciò, sempre, lavoro forzato ed eterodiretto: e il nocciolo dell'antagonismo nella produzione è il controllo sul lavoro, qualificato o meno che esso sia.

E' ora possibile replicare alle due critiche cui si accennava all'inizio. La prima obiezione si fonda sulla considerazione che lo scambio capitalistico, al suo livello microeconomico, si effettua a prezzi (di produzione) diversi dai valori (di scambio). Ma a parte la circostanza che il rapporto di classe è adeguatamente "fotografato" in termini di valori quale che sia la deviazione dai prezzi, il punto chiave è un altro.

Se si riconosce che nella fase della subordinazione reale del lavoro al capitale il lavoro non soltanto "conta" ma "è" compiutamente lavoro "senza qualità" già quando produce, perché le qualità gli sopravvengono dall'esterno, si deve anche ammettere che tutta la ricchezza capitalistica discende da una attività che è stata resa omogenea non da una determinismo tecnologico ma da un comune processo sociale di espropriazione. Per questo il neovalore è lavoro, e lo sfruttamento è scientificamente e politicamente un "buon" argomento. E per questo il passaggio dai valori ai prezzi non può che redistribuire il neovalore oggettivato tra i capitalisti, come i contributi recenti alla "trasformazione" hanno mostrato.

La seconda obiezione si richiama ad una presunta riduzione quantitativa del lavoro; ad una sua rinnovata dispersione qualitativa; all'esaurirsi di una sua vigenza come criterio normativo. Ma in Marx non soltanto lo sfruttamento non dipende da un accrescimento quantitativo del lavoro dipendente dal capitale (che peraltro è di nuovo in atto, dopo essere stato interrotto proprio nell'epoca fordista): esso non si identifica neppure con una progressiva spoliazione dei contenuti professionali (che è una sua possibile tendenza, peraltro nient'affatto superata). Che poi il dominio ideologico del lavoro sia in via di estinzione suona un po' strano quando il tempo di lavoro "esplode" e l'intera articolazione di produzione e circolazione viene "tesa" all'esigenza della valorizzazione.

 Piuttosto, Marx è illuminante tanto più oggi quando la dimensione lavorativa diventa perversamente totalizzante, il comando sul lavoro è delegato alle forze impersonali del mercato e della tecnologia, e il capitalismo pretende di ridurre i soggetti a mera rotella "animata" del meccanismo.

In parte la tesi della "fine del lavoro" e la fuga da Marx nascono dalla sacrosanta critica al produttivismo e dall'esigenza di rompere con questa dinamica infernale. Il problema è che la centralità della produzione è un fatto, e non bastano gli scongiuri a disperderla. Per combatterla efficacemente occorrerebbe semmai riprendere, nella teoria come nella pratica, il filo di una lotta per la liberazione del lavoro e di un intervento sulla sua qualità.

Proprio per questo, si deve dire, sembra discutibile mettere in soffitta l'unico teorico che da due secoli ci interroga su questa questione. 


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