domenica 8 dicembre 2019

Quattro ore a Chatila - Jean Genet

Da: https://www.ossin.org - Jean_Genet è stato uno scrittore, drammaturgo e poeta francese, fra i più discussi del Novecento.


Nel settembre 1982, Jean Genet (nella foto) accompagna a Beirut Layla Shahid, eletta presidente dell’Unione degli studenti palestinesi. Il 16 settembre si consuma il massacro di Sabra e Chatila da parte delle milizie libanesi, con l’attiva complicità dell’esercito israeliano che aveva invaso e occupato il Libano. Il 19 settembre Genet è il primo europeo a entrare nel campo di Chatila. Nei mesi successivi scrive “Quattro ore a Chatila”, pubblicata nel gennaio 1983 nella Revue d’études palestiniens.

Questo magnifico testo, requisitoria implacabile contro i responsabili dell’atroce atto di barbarie, non comincia con la descrizione del massacro. Comincia col ricordo dei sei mesi passati nei campi palestinesi coi fedayn, dieci anni prima del massacro di Sabra e Chatila

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“A Chatila, a Sabra, dei non-ebrei hanno ucciso dei non-ebrei, 
                                                                                       la cosa non ci riguarda”. Menahem Begin alla Knesset

Nessuno e niente, nessuna tecnica del racconto, potrà dire cosa furono i sei mesi passati dai fedayn sulle montagne di Jerash e di Ajloun in Giordania, e soprattutto le prime settimane. Altri hanno scritto un resoconto degli avvenimenti, la cronologia, i successi e gli errori dell’OLP. L’aria del tempo, il colore del cielo, della terra e degli alberi, lo si potrà anche descrivere, ma non si potrà far sentire la leggera ebrezza, il camminare sulla polvere, lo sfavillio degli occhi, la lealtà dei rapporti, non solo tra fedayn ma anche tra loro e i capi. Tutti, tutti, sotto gli alberi erano frementi, scherzosi, stupiti da una vita così nuova per tutti, e in questi fremiti qualcosa di stranamente fisso, in agguato, protetto, riservato come qualcuno che prega senza parlare. Tutto era di tutti. Ognuno in sé stesso era solo. E forse no. Insomma sorridente e stralunato. La regione giordana dove avevano ripiegato, per scelta politica, era un perimetro che si allungava dalla frontiera siriana fino a Sait, delimitata dal Giordano e dalla strada da Jerash a Irbid. Una striscia lunga circa sessanta chilometri, profonda venti, in una regione assai montagnosa ricoperta di querce verdi, disseminata di piccoli villaggi giordani e una terra poco fertile.  Nei boschi e sotto le tende mimetizzate, i fedayn avevano  allocato alcune unità di combattenti e delle armi leggere e semi pesanti. Appena arrivati, dispiegata l’artiglieria soprattutto contro eventuali operazioni giordane, i giovani soldati si occupavano delle armi, le smontavano per pulirle, le ingrassavano e le rimontavano in modo velocissimo. Qualcuno riusciva perfino a smontare e rimontarle con gli occhi bendati, così avrebbe potuto farlo anche di notte. Tra ciascun soldato e la sua arma si era stabilito un rapporto amorevole e magico, e siccome i fedayn erano poco più che adolescenti, il fucile era il segno della virilità trionfante, e dava loro certezza. L’aggressività cedeva il posto ai sorrisi.

Tutto il resto del tempo i fedayn bevevano il tè, criticavano i loro capi e le persone ricche, palestinesi e altro, insultavano Israele, ma parlavano soprattutto della rivoluzione, di quella che facevano e quella che avrebbero fatto.

Per me, ogni volta che vedo la parola “palestinese”, che sia in un titolo, nel corpo di un articolo, su un volantino, esso evoca immediatamente i fedayn in un luogo preciso – la Giordania – e un tempo che si può facilmente datare ottobre, novembre, dicembre 1970, gennaio, febbraio, marzo, aprile 1971. E’ stato allora che io ho conosciuto la Rivoluzione palestinese. La straordinaria evidenza di quanto accadeva, la forza di questo benessere hanno anche un altro nome: bellezza.

Sono passati dieci anni e non ho saputo più niente di loro, salvo che i fedayn erano in Libano. La stampa europea parlava con disinvoltura del popolo palestinese, anche con disprezzo. E improvvisamente, Beirut ovest.

sabato 7 dicembre 2019

NAZIONALFASCISTI E COMUNISTI SONO UGUALI? - Luciano Canfora

Da: Ruben Gasparini - Luciano Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 
Vedi anche: Comunisti, fascisti e questione nazionale 
                        "IL RITORNO DELLA RAZZA - ARGINI E ANTIDOTI DALLA CONOSCENZA" 
Leggi anche:  Il socialismo e la guerra - Vladimir Lenin (1915)  
                          "Totalitarismo", triste storia di un non-concetto* - Vladimiro Giacché 

                                                                         
IL BUCO NERO DI AUSCHWITZ
di Primo Levi. («La Stampa», 22 gennaio 1987)

La polemica in corso in Germania fra chi tende a banalizzare la strage nazista (Nolte, Hillgrüber) e chi ne sostiene l'unicità (Habermas e molti altri) non può lasciare indifferenti. La tesi dei primi non è nuova: stragi ci sono state in tutti i secoli, in specie agli inizi del nostro, e soprattutto contro gli «avversari di classe» in Unione Sovietica, quindi presso i confini germanici. Noi Tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale, non abbiamo fatto che adeguarci a una prassi orrenda, ma ormai invalsa: una prassi «asiatica», fatta di stragi, di deportazioni in massa, di relegazioni spietate in regioni ostili, di torture, di separazioni delle famiglie. La nostra unica innovazione è stata tecnologica: abbiamo inventato le camere a gas. Sia detto di passata: è proprio questa innovazione quella che è stata negata dalla scuola dei «revisionisti» seguaci di Faurisson, quindi le due tesi si completano a vicenda in un sistema d'interpretazione della storia che non può non allarmare.

venerdì 6 dicembre 2019

Le quattro fasi del declino italiano - Ettore Gotti Tedeschi

Da: Centro Machiavelli - Ettore_Gotti_Tedeschi è un economista, banchiere e accademico italiano.
Leggi anche: "Venga subito requisito tutto il patrimonio pubblico concesso ad Atlantia-Benetton e a Gavio" - Paolo Maddalena

Interessante esposizione dei motivi che hanno portato all'attuale profonda crisi dell'economia italiana fatta da chi, di questa situazione, ne è stato un attore protagonista consapevole e (quindi) consenziente. Un bell'esempio della lotta interclassista capitalista da tener presente.
Una domanda sorge poi spontanea: se la riduzione demografica è tanto rilevante nello scadere delle potenzialità del paese, come mai la gran parte dei giovani italiani, nonostante un bagaglio di studi qualificato e importante e la (a questo punto) favorevole situazione demografica, è costretta ad emigrare per trovare uno straccio di lavoro oppure arrendersi alla disoccupazione? (il collettivo)

                                                                             

«L'economia è una tecnica, avanzata e sofisticata, ma neutrale, che per essere vantaggiosa per l'uomo deve trovarlo consenziente a considerarsi importante, centrale. 

[...] Il capitalismo indubbiamente ha fatto molto per l'uomo e può fare ancora molto, ma perché gli uomini non subiscano i condizionamenti del mondo globale devono esser «forti» e formati.»

(Ettore Gotti Tedeschi. «Il capitalismo morale». Fondazione liberal)


giovedì 5 dicembre 2019

Il cosiddetto problema ambientale - Carla Filosa

Da: https://www.lacittafutura.it - Carla Filosa insegna dialettica hegeliana e marxismo. (https://rivistacontraddizione.wordpress.com)
Leggi anche: Marxismo e cambiamento climatico - Carla Filosa



Trattare le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate impedisce l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere.

Nella misura in cui l’interessamento generale ai problemi ambientali è diventato di moda, non si può fare a meno di affrontare l’argomento mentre si è stupiti, eufemisticamente, per le variegate forme ideologiche in cui questo viene isolato da ogni altro condizionamento storico, sociale, politico, economico, ecc. 

Per privilegiare gli aspetti di fondo del cambiamento climatico, e cosa si deve intendere per ambiente, si è costretti a dare per scontato, almeno parzialmente, l’innumerevole elenco delle modalità e degli effetti registrati ormai da tempo da questi scienziati di tutto il mondo. Non solo loro, infatti, in antitesi agli interessi dei negazionisti alla Trump o alla Bolsonaro, si preoccupano per l’equilibrio del pianeta a causa del riscaldamento climatico e lanciano un allarme ai paesi e alle classi più povere del pianeta, da sempre più esposti a disastri ambientali di ogni tipo (innalzamento dei mari, uragani, tsunami, ecc.). 

In questo breve excursus si dà credito quindi alle numerose analisi e relazioni degli scienziati del clima e dell’ambiente in generale, non tralasciando denunce di autorevoli politici o magistrati sui danni localizzati determinati da interessi oggettivamente criminali, mentre nel contempo si verifica che l’analisi scientifica marxiana è ancora la sola in grado di individuare le cause reali e complesse del degrado crescente degli assetti sociali e territoriali, estesi ormai a livello globale. La mistificante “autonomia” delle devastazioni presenti e future relative all’“ambiente”, da parte di un dominio economico che al contrario ne determina un progressivo accadimento in forme per lo più irreversibili, dev’essere pienamente smentita unitamente a tutte le legittimazioni e palliativi ideologici, escogitati per far fronte agli effetti senza intaccarne le cause, libere così di continuare a distruggere risorse naturali e esseri umani, inquinare aria, acqua e terreni. 

mercoledì 4 dicembre 2019

Sullo "Statuto dei diritti dei lavoratori" - Ilaria Romeo

Da: https://fortebraccionews.wordpress.com/ - ilaria-romeo è responsabile dell'Archivio storico CGIL nazionale.



“Il lavoratore non è una macchina acquistata dal padrone”, così Giuseppe Di Vittorio propose lo Statuto   


Il 26 novembre 1952 inizia a Napoli il III Congresso nazionale della Cgil che terminerà i lavori il 3 dicembre.

Giuseppe Di Vittorio lancia a livello confederale l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. 

Prendendo la parola nel corso dei lavori del Congresso del Sindacato dei chimici dell’ottobre precedente Di Vittorio formulava, un mese prima, una proposta destinata ad assumere una grandissima importanza nella storia del Paese affermando: 

“I lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica italiana anche nelle fabbriche, anche quando lavorano […] – scrive il segretario su l’Unità dell’11 ottobre 1952 – Nell’interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni, nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle fabbriche […] Io voglio proporre a questo Congresso una idea che avevo deciso di presentare al prossimo Congresso della Cgil […] facciamo lo Statuto dei diritti dei lavoratori all’interno dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo Statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i padroni all’interno dell’azienda […]”.

“La proposta di uno Statuto che precisi e ribadisca i diritti democratici dei lavoratori anche nell’interno dell’azienda – preciserà qualche giorno più tardi il segretario all’Inso (Agenzia «Informazioni Sociali») – , è stata resa necessaria dal fatto che numerosi datori di lavoro (non tutti, in verità) giungono addirittura a pretendere che i lavoratori appartengano a una piuttosto che a un’altra organizzazione sindacale o politica; a proibire ai lavoratori di leggere, o di offrire ai propri colleghi, giornali invisi al datore di lavoro anche nelle ore della mensa o comunque fuori dell’orario di lavoro […] La Costituzione della Repubblica garantisce a tutti i cittadini, anche all’interno dei luoghi di lavoro, la libertà di pensiero e di espressione, la libertà di associazione e di organizzazione, la libertà di propaganda e stampa, ecc. ecc. La nostra proposta tende a richiamare i datori di lavoro al rispetto di questi principi fondamentali della nostra società nazionale […]”. 

martedì 3 dicembre 2019

A letto col Terzo Reich: L'alleanza nascosta degli USA con la Germania nazista contro l'Unione Sovietica. - Michel_Chossudovsky

Da: www.resistenze.org - Traduzione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare. -
Michel_Chossudovsky è un economista canadese (globalresearch.ca).


La Germania nazista dipendeva in larga misura dalle forniture di petrolio della statunitense Standard Oil.



Prescott Bush era un socio della Brown Brothers Harriman & Co e direttore della Union Banking Corporation, che aveva stretti rapporti con gli interessi delle imprese tedesche, come la Thyssen Steel, grande compagnia coinvolta nell'industria degli armamenti del Terzo Reich.

"… Nuovi documenti, declassificati [nel 2003], dimostrano che, anche dopo che l'America era entrata in guerra [8 dicembre 1941] e quando già esistevano significative informazioni sui piani e sulle politiche dei nazisti, egli [Prescott Bush] lavorò e fece guadagni con società strettamente legate alla finanza tedesca, la quale supportò economicamente l'ascesa al potere di Hitler. E' stato anche evidenziato come il denaro ricavato da queste transazioni avesse aiutato a costruire la ricchezza e la fortuna della famiglia Bush, nonché a fondare la sua dinastia politica" (The Guardian, September 25, 2004).

Senza il sostegno degli USA alla Germania nazista, il Terzo Reich non sarebbe stato capace di dichiarare guerra all'Unione Sovietica. La produzione di petrolio della Germania era insufficiente per poter scatenare una grande offensiva militare. Durante tutto il conflitto, il Terzo Reich fece affidamento su regolari forniture di greggio da parte della Standard Oil, nelle mani della famiglia Rockfeller.

I principali produttori di greggio nei primi anni quaranta erano: gli Stati Uniti (50% della produzione globale di petrolio), l'Unione Sovietica, il Venezuela, l'Iran, l'Indonesia e la Romania. 

Senza una regolare fornitura di petrolio, la Germania non sarebbe stata in grado di porre in essere l'Operazione Barbarossa, che venne lanciata il 22 giugno 1941. L'invasione dell'Unione Sovietica aveva la finalità di conquistare e prendere il controllo delle risorse petrolifere dell'Unione Sovietica nel Caucaso e nelle regioni del Mar Caspio: il petrolio di Baku.

lunedì 2 dicembre 2019

D’Alema e l’involuzione del PCI - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: Brzezinski e la futurologia. (America in the Technetronic Age)* - Alessandra Ciattini 
                       Sul compromesso storico - Aldo Natoli



Una recente intervista a D’Alema offre lo spunto alla riflessione sul complesso processo di involuzione del PCI, che l’ha condotto ad abbandonare la politica di classe in nome di un irrealistico liberal-riformismo democratico.


Si potrebbe affermare che non vale più la pena di commentare le uscite del grande Massimo D’Alema, che per un certo tempo sembra abbia aspirato addirittura alla Presidenza della Repubblica, ma forse può essere preso ad esempio della triste parabola del PCI. Una prima cosa che potremmo chiederci è perché – sarebbe certo troppo umiliante – egli non si annovera tra quei politici, che fanno parte integrante di quella che chiama kakistocrazia, ossia il governo dei peggiori [1], personaggi squalificati e improvvisati che oscurano il panorama mondiale. Certo questa sua inclusione potrebbe sembrare eccessiva per un uomo politico di tanta abilità ed esperienza. Ma andiamo avanti.
Siamo nel 1976 e Giorgio Amendola, uomo da rispettare pur non condividendone le idee liberal-riformiste, dichiarava in un’intervista: 
Oggi vediamo la fioritura di un tipo di democrazia diretta, in cui il cittadino è chiamato ad intervenire sulle questioni che lo interessano, non col votare una delega una volta ogni cinque anni, ma partecipando: dai consigli di fabbrica ai consigli di scuola, ai consigli di quartiere. Questa è una struttura democratica perfettamente compatibile con la moderna società industriale. Noi siamo per una pianificazione che non sia centralizzata, ma che tenga conto delle articolazioni regionali, locali e che tenga conto quindi di una partecipazione diretta delle masse lavoratrici. Sono queste le forze democratiche cui affidiamo l’avvenire della società nella transizione dall’attuale fase del tardo-capitalismo al socialismo…”. 

E più avanti aggiungeva: “Quando io vado in una sezione del mio partito e in maniera provocatoria affermo: gli italiani non sono mai stati bene come adesso, mai così liberi, mai hanno mangiato tanto quanto adesso, mai hanno studiato come adesso, trovo dei giovani che dicono: no” (Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, 1976: 187-188, 190). 

La risposta negativa dei suoi giovani interlocutori non faceva sorgere in lui un qualche dubbio sulla giustezza della sua analisi, convinto che quelle forme di democrazia diretta conquistate in Italia fossero praticabili in un mondo che si avviava verso il neoliberismo, scambiandolo per modernizzazione. 

domenica 1 dicembre 2019

"Venga subito requisito tutto il patrimonio pubblico concesso ad Atlantia-Benetton e a Gavio" - Paolo Maddalena

Da: https://www.lantidiplomatico.it/ - Professor Paolo Maddalena. Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale e Presidente dell’associazione “Attuare la Costituzione”.

Sfugge ai nostri governanti che le concessioni autostradali, come quelle aeree, non costituiscono trasferimento di potestà o facoltà pubbliche, ma uso di beni demaniali, i cui frutti dovrebbero tornare al Popolo, cui spetta la proprietà collettiva dei beni in questione.

Intendiamo dire che quando si parla di concessioni di autostrade si intende parlare di concessioni di uso di suolo publico, facente parte del patrimonio pubblico del Popolo italiano.

Allo stesso modo, quando si parla di concessioni di rotte aeree si parla di concessione di uso dell’atmosfera, la quale appartiene strutturalmente alla Comunità politica italiana, e il cui corrispettivo dovrebbe rientrare nel bilancio dello Stato.

Altrettanto si può dire delle frequenze televisive, che attraversano l’etere, che è proprietà collettiva del Popolo sovrano e, in genere, per tutte le vie di comunicazione, terrestri, marittime e aeree. E invece si parla di concessioni come di un servizio reso da privati alla generalità dei cittadini. Sono stati semplicemente capovolti i termini della questione.

Se si pensa, ad esempio, che le autostrade sono state costruite con mezzi finanziari dello Stato, proprio non si capisce con quale tipo di ragionamento le cospicue somme riscosse per i pedaggi autostradali, che ben ricoprono i costi di gestione e manutenzione, come dimostrano i conti effettuati a carico della Benetton (se si considerano i conti da quando, nel 1999, è stata privatizzata la gestione della grande rete stradale, la società ha guadagnato oltre 10 miliardi), non debbano entrare nelle casse dello Stato.

Altrettanto si può dire per Alitalia, che, in base a recenti statistiche, ha visto aumentare a dismisura la richiesta di voli e che potrebbe, se ben guidata, dare un forte guadagno per l’economia italiana.

I nostri governanti, invece, pregano gli stranieri di entrare nella compagnia aerea e sono titubanti nel ritirare le concessioni autostradali ad Atlantia della famiglia Benetton, dopo il rovinoso crollo del ponte di Genova, che è costato 43 vite umane.

Oggi questo problema si pone in termini di tragica necessità. Infatti sono stati dichiarati in pericolo di crollo altri due ponti su autostrade che collegano la Liguria al Piemonte, le quali sono state chiuse al traffico con immensi danni economici per gli utenti e per la collettività.

Questi danni sono stati causati in modo certo e inconfutabile dalla cattiva gestione di Atlantia-Benetton e di Gavio, due società fortemente ciniche e inaffidabili, che sono venute meno ai loro doveri di manutenzione, intascando fraudolentemente le ingenti somme riscosse con i pedaggi autostradali.

L’inerzia del nostro governo è intollerabile.

Lo invitiamo a utilizzare l’articolo 7 dell’allegato E della legge del 1865, secondo il quale lo Stato (ma anche i prefetti e i sindaci) può requisire mobili e immobili, gli uni in proprietà, gli altri in uso, quando esigenze straordinarie lo richiedano.

Che venga subito requisito tutto il patrimonio pubblico concesso ad Atlantia-Benetton e a Gavio, nonché tutto il patrimonio pubblico nelle mani degli ultimi proprietari di Alitalia.

In tal modo i beni mobili di queste due società saranno immediatamente in proprietà del Popolo sovrano (si pensi agli aerei in pericolo di svendita) e i beni immobili (si pensi agli aeroporti) potranno subito essere oggetto di trasferimento nella proprietà collettiva del Popolo italiano mediante le necessarie nazionalizzazioni (le quali, ripetiamo per l’ennesima volta non sono vietate dai trattati europei, che impediscono soltanto gli aiuti di Stato).

Ovviamente questo processo può essere usato anche per l’Ilva e altre numerose situazioni di questo tipo.

Sia ben chiaro che con le concessioni, le privatizzazioni, le delocalizzazioni, le svendite l’Italia perde solo ingentissimi guadagni, che vanno a persone immeritevoli e che è una pura favola pensare che lo Stato italiano non sia in grado di gestire direttamente i propri beni. Lo sarebbe, se continuasse a utilizzare persone incompetenti e voraci, ma certamente non lo sarebbe, se affidasse la gestione di questi beni medesimi a manager pubblici, scelti con accuratezza e capaci di agire nel modo economicamente più fruttuoso, nella consapevolezza che i loro errori potrebbero essere fatali per la loro carriera.

È questo il momento della svolta. I fatti dimostrano che è impossibile andare avanti con le “privatizzazioni”, utilizzando il “diritto privato” nei casi in cui è indispensabile invece usare il “diritto pubblico”.

Si ricordi, che ai sensi dell’articolo 54 della Costituzione, i nostri politici hanno il dovere ineludibile di osservare la Costituzione e di agire in ogni caso con disciplina ed onore.

sabato 30 novembre 2019

Democrazia e Filosofia | After Democracy - Remo Bodei

Da: Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci - Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.
Vedi anche: L'algoritmo sovrano - Renato Curcio 


"I due mali contro cui la ragione filosofica ha sempre combattuto e deve combattere ora più che mai, sono, da un lato, il non credere a nulla; dall'altro, la fede cieca. Insomma tener viva la fede nella ragione contro coloro che non credono neppure nella ragione, che io chiamo i meno che credenti, e contro coloro che credono senza ragionare, cioè i più che credenti. Questo è il compito umile, molto umile ma necessario, della filosofia: un compito da sentinella, più che presuntuosamente da 'guida'. La sentinella che deve stare ad ascoltare l'avvicinarsi del nemico, da qualunque parte provenga, e dare l'allarme prima che sia troppo tardi". (Norberto Bobbio) 

                                                                            


venerdì 29 novembre 2019

Miseria del sovranismo. Smarrimento della dialettica e proliferazione dell'ideologia - Emiliano Alessandroni

Da: https://www.marxismo-oggi.it - Il presente saggio è stato pubblicato nel sito “Dialettica e filosofia” (http://dialetticaefilosofia.it) - 
Emiliano AlessandroniDottore di ricerca presso Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo', redattore della rivista scientifica "Materialismo storico". 



 Questioni teoriche preliminari 

Nella Scienza della Logica Hegel descrive in questi termini la natura ontologicamente relazionale di ogni contenuto determinato:
    Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell'esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è[1].
Si tratta di un aspetto successivamente ben compreso e metabolizzato dalla filosofia di Marx: «un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo, non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo». Questo riferirsi ad altro, ossia essere in rapporto con altro, costituisce la naturale essenza di ogni ente in quanto ente:
    Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure esser noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto, al di fuori, per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e alla espressione del suo essere. Il sole è oggetto della pianta, un oggetto indispensabile, che ne conferma la vita, come la pianta è oggetto del sole, dell'oggettiva forza essenziale del sole. 
Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura[2].
L'avere fuori di sé la propria natura significa che nessun ente naturale finito, ma a ben vedere anche nessun contenuto determinato, sia autosufficiente. È infatti nel rapporto in cui sussiste con l'altro da sé che esso rivela la propria specificità. Questo altro da sé, tuttavia, che permette in primissimo luogo di manifestare la specificità del contenuto determinato del sé, è il proprio opposto. La relazione tra gli opposti, nondimeno, non sempre si determina in modo antagonista: certo, nel bocciolo che dilegua al dischiudersi del fiore e nel dileguare di questo alla formazione del frutto di cui ci parla la Fenomenologia dello Spirito, il fiore per apparire deve annientare il bocciolo, così come il frutto deve annientare il fiore. E tuttavia il fiore, se costituisce un essere determinato, costituisce altresì il nulla del bocciolo e dunque costituisce a un tempo un essere determinato e un nulla determinato. Lo stesso dicasi del frutto e di qualunque ente finito che contiene simultaneamente tanto l'essere quanto il nulla.

giovedì 28 novembre 2019

Hegel: "Fenomenologia dello spirito" - Antonio Gargano

Da: AccademiaIISF - Antonio Gargano è un filosofo italiano. Docente presso l'Università degli studi "Suor Orsola Benincasa", Scienze della Formazione.
Leggi anche: Hegel - La Fenomenologia dello spirito - Antonio Gargano 
                         Alexandre Kojéve, Introduzione alla lettura di Hegel (Fenomenologia dello Spirito) - Silvio Vitellaro
    Vedi anche: G. W. F. Hegel: La fenomenologia dello Spirito*- Lucio Cortella  
                            SULLA VORREDE HEGELIANA - Stefano Garroni 
"La fenomenologia dello spirito nel pensiero si Hegel" - Francesco Valentini (https://www.teche.rai.it/1990/06/la-fenomenologia-dello-spirito-nel-pensiero-hegel/)

                                                                      


                                                    Testo letto dal prof. Gargano durante la lezione: http://www.iisf.it/pdfsito/Gargano_Hegel.pdf

martedì 26 novembre 2019

Accumulazione di capitale e ruolo dell’innovazione - Maurizio Donato

Da: https://www.economiaepolitica.it - Maurizio DonatoUniversità di Teramo, è un economista italiano - https://mrzodonato.wordpress.com/



Accumulazione Capitale Marx | Nel primo trimestre del 2019 il ‘valore’ mondiale delle obbligazioni a tassi negativi è tornato ad avvicinarsi ai livelli massimi toccati nell’estate del 2016. Da allora, a riportare in alto i tassi nominali spingendo al rialzo anche i rendimenti delle obbligazioni è stata unicamente la ripresa nelle aspettative di inflazione. Questo obiettivo, una maggiore inflazione, è stato al centro dell’impegno delle banche centrali che dal 2009 hanno iniettato quasi 20mila miliardi di dollari attraverso numerose politiche espansive. Ma evidentemente una politica monetaria pure ultra-accomodante non serve o non basta: i problemi dell’economia sono ‘reali’

Fig. 1 Rendimento dei BUND tedeschi a 10 anni
Secondo gli economisti del periodo classico, affinché possa ripartire il meccanismo di accumulazione, una parte significativa del capitale in eccesso sulle possibilità medie di valorizzazione deve essere svalutato o distrutto, non solo capitale nella sua forma monetaria, ma capitale costante, merci nella loro duplice natura di valori d’uso e valore tout-court, e capitale variabile, la forza-lavoro pagata al suo valore, la cui svalutazione continua sta comportando conseguenze almeno altrettanto paradossali e ben più tragiche dei tassi di interesse negativi.

Non performing capital

lunedì 25 novembre 2019

PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz

Da: http://nena-news.it -
Leggi anche: Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera  
                      Chiarezza - Shlomo Sand 

 


 Nel 1994 l’Olp e Israele firmarono il “Protocollo di Parigi” che formalizzava le relazioni economiche per cinque anni tra Tel Aviv e la nascente Autorità Palestinese. L’intesa è però ancora operativa e sancisce di fatto il controllo totale israeliano dell’economia palestinese 



Roma, 18 novembre 2019, Nena News

Che ogni forma di controllo e repressione, e che ogni forma di colonialismo, aldilà della forza e della violenza, veda la sua espressione più fondamentale negli strumenti di controllo economico, è cosa quanto mai risaputa nonché banale. Questo principio vale ovviamente anche per l’occupazione israeliana della Palestina. Per capire con maggiore consapevolezza quelle che sono le strategie economiche sulla quale si basa questo rapporto tra colonizzati e colonizzatori, e soprattutto per non ricadere nel solito luogo comune secondo il quale gli israeliani sono riusciti a fare miracoli in una terra in cui invece i palestinesi non avevano fatto nulla, bisogna partire dalla morsa mortale del Protocollo di Parigi.

domenica 24 novembre 2019

Geraldina Colotti intervista Alessandra Ciattini

Da: Le Monde Diplomatique, il manifesto, 2019 -
DALLA MAGIA ALLA STREGONERIA Cambiamenti sociali e culturali e la caccia alle streghe, Alessandra Ciattini (a cura di), LA CITTA' DEL SOLE, 15 euro.



L'ultimo lavoro curato dalla studiosa Alessandra Ciattini s'intitola Dalla magia alla stregoneria. Cambiamenti sociali e culturali e la caccia alle streghe. Una raccolta di saggi che, in prospettiva marxista e con taglio multidisciplinare, analizza il rapporto fra credenze e strutture sociali, aggiungendo altri spunti di riflessione a un filone di studi sempre stimolante. Ne abbiamo parlato con la curatrice, docente di Antropologia culturale alla Sapienza.



Come è nato questo lavoro? 

Il libro è nato per mettere insieme studiosi con competenze diverse che hanno indagato i vari aspetti della magia-stregoneria: storia, antropologia, diritto, arte, scienza. In questo senso, costituisce probabilmente una novità, i cui obiettivi sono mettere in evidenza la complessità dei processi storici, la non linearità del rapporto fra struttura e sovrastruttura, l'idea della storia come continuo progresso. Infatti come si può ricavare dal libro, in particolare dal saggio di Federico Martino, se la storia faticosamente avanza, fa anche dei clamorosi passi indietro, come stiamo sperimentando oggi. Per questa ragione mi piace la metafora, utilizzata da Luciano Canfora, che descrive il processo storico come una spirale.

In che termini avete indagato la relazione fra credenza e politica? 

sabato 23 novembre 2019

MES, l'intervento di Vladimiro Giacché in audizione alla Commissione Bilancio.

Da: https://www.lantidiplomatico.it - Vladimiro+Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche (CER), è un filosofo ed economista italiano.
Leggi anche: https://www.ilsussidiario.net/news/caso-mes-cosi-leuropa-grazie-a-conte-fara-fuori-le-nostre-banche
Vedi anche: https://www.byoblu.com/2019/11/21/la-lezione-che-la-germania-non-ha-imparato-vladimiro-giacche/

Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche (Cer), in audizione alla Camera davanti alle commissioni Bilancio e Politiche Ue sul funzionamento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e sulle sue prospettive di riforma (https://webtv.camera.it/evento/15445#) ha dichiarato come sia forse venuto il momento 

"di prendere atto che la soluzione - consistente nell'avviare un processo di generalizzazione del modello export driven tedesco, considerato tale da poter rendere simili tutti i Paesi dell'Eurozona e scongiurare l'eventualità si shock asimmetrici - non ha dato i frutti sperati. Né si può pensare di procedere introducendo, quasi per inerzia, sempre nuovi elementi di rigidità e sempre nuove condizionalità nelle politiche economiche e di bilancio. Occorrerebbe uscire da una trappola evoluzionista che, nonostante gli evidenti fallimenti, continua a incentrare ogni innovazione istituzionale dell'area sul principio originario dell'assimilazione ad un presunto modello migliore. Un modello che, peraltro, sta proprio in questi mesi incontrando i propri limiti strutturali"

Sul caso specifico dell'Italia e prendendo a riferimento anche le parole recenti del Governatore Visco ha aggiunto come: 

"l'Italia appartiene al novero di Paesi che non sono mai incorsi in un default del debito pubblico in tempi di pace, mentre non altrettanto può dirisi di altre economia dell'Eurozona, quali in primis la Germania, ma anche l'Austria, il Portogallo, la Spagna e la Grecia. Il default del debito di Paesi economicamente avanzati è un fenomeno estremamente raro, e anzi mai verificatosi, con la sola eccezione della Grecia, negli ultimi 65 anni. E' importante tenere a mente questi dati di base, perchè nella proposta di riforma del Mes l'attenzione appare concentrata soprattutto sull'eventualità di un rischio sistemico generato all'interno dell'Eurozona dal default del debito pubblico di uno dei Paesi membri".

"La proposta di riforma del Mes va in direzione di accentuare, anzichè ridurre, questa inefficienza caratterizzata dal rallentamento del Pil nominale in proporzione più accentuato del miglioramento del saldo di bilancio. In questi anni, nell'Eurozona, è aumentata la dipendenza dalla crescita della domanda estera. A tale dipendenza si fa riferimento, almeno indirettamente, nella proposta di riforma del Mes. Si tratta tuttavia di un richiamo nettamente sottodimensionato rispetto all'attenzione prestata agli indicatori di finanza pubblica. Sebbene questa sproporzione possa sembrare ovvia, dal momento che si vuole associare il Mes a rischi inerenti il debito pubblico, essa rappresenta invece un ennesimo errore di prospettiva nell'impostazione della politica economica europea".

"Il Mes costituisce un ulteriore rafforzamento delle regole che disciplinano la politica di bilancio dei Paesi dell'Eurozona, muovendosi in perfetta linea di continuità con le modifiche apportate al Patto di stabilità nel 2012. Riguardo agli aspetti più tecnici della riforma, posso anticipare di condividere le argomentate perplessità già espresse in questa sede dal professor Giampaolo Galli. Occorre porsi due domande di fondo: il Mes è utile all'Eurozona? è utile all'Italia? Riguardo alla prima domanda, per rispondere occorre verificare in quale misura il debito pubblico - e in generale i problemi inerenti alla disciplina di bilancio - costituiscano oggi un fattore di rischio per la moneta unica. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l'Eurozona si sia tenuta nel suo insieme ai precetti della disciplina di bilancio, e questo si è riflesso sulle dinamiche del debito, che sono più favorevoli nell'Eurozona rispetto a Stati Uniti e Regno Unito. Ciononostante, il debito è aumentato anche nell'Eurozona, e questo fatto sta spingendo verso l'adozione di meccanismi di controllo ancora più stringenti. Obiettivo a cui mira la riforma del Mes. In sostanza, si ritiene che, non essendo stato conseguito l'obiettivo di riduzione del debito, debba essere rafforzata la disciplina dei Paesi membri. Si compie, a nostro giudizio, un errore di analisi che non dovrebbe essere avallato".

"La discussione sulla riforma del Mes non può prescindere dalla possibile evoluzione" negativa "degli scambi mondiali e del ciclo di crescita, per un motivo molto semplice: si tratta di fattori che incidono direttamente anche sulle prospettive delle finanze pubbliche. Ci troviamo nuovamente di fronte al tipico problema di uno shock simmetrico - una contrazione degli scambi mondiali - che può generare effetti asimmetrici sulle singole economie. Di fronte ad un indebolimento delle previsioni di crescita, i mercati potrebbero adottare un comportamento di 'flight to quality', e penalizzare quindi i Paesi con maggiore livello di debito pubblico come l'Italia. Questo, indipendentemente dall'effettiva capacità del sistema economico di contrastare lo shock di origine. Capacità che, al momento, appare essere maggiore in Italia che in Germania".

E la conclusione di Giacchè è chiara: 

"Per l'Italia è prioritaria l'esigenza di ritornare su un sentiero di rientro del debito pubblico ma deve essere chiaro che la riforma del Mes non è un meccanismo facilitatore in tal senso. Al contrario, così come sono stati predisposti, gli strumenti di assistenza finanziaria sembrano perfetti per innescare una nuova crisi del debito, perseverando in tal modo nei gravi errori del 2011-12" 


venerdì 22 novembre 2019

Verso la rottura dell’unità nazionale? -  Guglielmo Forges Davanzati

Da: "La gazzetta del Mezzogiorno", 20 novembre 2019 - https://www.facebook.com/guglielmo.davanzati
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.

La cosiddetta secessione dei ricchi – ovvero la richiesta di maggiore autonomia da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – è un segnale lampante della rottura di quello che si potrebbe definire il ‘patto implicito’ che ha tenuto insieme Nord e Sud del Paese, ovvero un patto basato su una divisione del lavoro che ha storicamente visto le imprese del Nord produrre e vendere a beneficio dei consumatori residenti nelle regioni meridionali. Questo patto, al netto degli aspetti formali e della Costituzione vigente, ha consentito all’intero Paese di mantenere la sua unità formale e, al tempo stesso, di percorrere un sentiero di crescita trainato da investimenti pubblici e privati a sostegno della domanda interna.

La divergenza, in termini di Pil pro-capite, fra Nord e Sud del Paese comincia ad assumere dimensioni rilevanti a partire dalla seconda metà degli anni settanta: sono anni caratterizzati dalla crescita pervasiva della criminalità organizzata (che dal Sud comincia a mettere radici nelle principali città settentrionali), dallo smantellamento progressivo della Cassa per il Mezzogiorno e dalla contrazione degli investimenti pubblici al Sud. Sono anche anni caratterizzati da consistenti aumenti di spesa pubblica, nella gran parte dei casi improduttiva: quello che l’economista Marcello De Cecco ebbe a definire ‘keynesismo criminale’. Sia sufficiente a riguardo considerare che la spesa pubblica in rapporto al Pil sale dal 34% del 1974 (a fronte della media della Comunità europea del 38%) a oltre il 50% della fine degli anni ottanta. La pressione fiscale, pari al 25% in rapporto al Pil nel 1973 (inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto alla media OCSE), raggiunge il 40% alla fine degli anni ottanta. Un incremento significativo e mal distribuito: la crescita dell’evasione fiscale spinge i governi di quegli anni a provare a recuperare gettito soprattutto attraverso l’aumento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, generando crescenti diseguaglianze distributive.

L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accentua questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale recupera margini di profitto e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che si incammina verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, ristorazione, intrattenimento). Il Veneto - una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale - comincia la sua traiettoria di crescita, beneficiando delle politiche di decentramento produttivo messe in atto dalla grande impresa del Nord-Ovest. Politiche che trovano la loro ragione nel tentativo (riuscito) di sedare i conflitti interni alla fabbrica che caratterizzano gli anni settanta e che si realizzano nella nascita di piccole unità produttive nel Nord-Est. A partire dalla fine degli anni ottanta, il Veneto trova la sua rappresentanza politica nella Lega Nord. La quota dei salari sul Pil comincia a contrarsi in modo rilevante.

La richiesta di autonomia differenziata - di cui si parlerà venerdì pomeriggio al museo Castromediano durante un seminario organizzato dalla Flc Cgil - è il compimento, ad oggi, di questa tendenza. Si tratta della richiesta di trattenere in quei territori la massima parte delle tasse lì pagate, oltre che di trasferire alle regioni competenze fin qui proprie dello Stato: istruzione in primis, ed è stata ratificata in prima battuta dal Governo Gentiloni – per poi essere rilanciata, soprattutto su impulso della Lega, dal primo Governo Conte.

La ‘secessione dei ricchi’ viene fondamentalmente motivata con due argomenti:

1. Le aree più ricche del Paese non possono più permettersi di concedere alle aree più povere trasferimenti perequativi, che non farebbero altro che finire nel calderone della spesa improduttiva, della corruzione, del clientelismo. D’altra parte – si sostiene – le stesse regioni meridionali avrebbero tutto da guadagnare dalla loro maggiore autonomia – e quindi da minori risorse pubbliche – dal momento che sarebbero maggiormente incentivate a fare uso produttivo di queste ultime.

2. L’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri) parte, la ricchezza lì prodotta ‘sgocciola’ nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.

Per comprendere perché rischia di prodursi la rottura del ‘patto implicito’ che ha tenuto coesa l’Italia occorre far sintetico riferimento ai cambiamenti dello scenario macroeconomico, in particolare a far data dalla prima crisi, nel 2007. Il cambiamento al quale ci si riferisce attiene alla crescita delle interconnessioni su scala globale: le cosiddette catene globali del valore. Fuori dai tecnicismi, ci si riferisce al fatto che ogni prodotto finito contiene parti componenti realizzate in altri Paesi o altre regioni dello stesso Stato. Le nostre principali imprese – le più grandi e più innovative – hanno risposto alla caduta della domanda a seguito della crisi provando ad agganciarsi, attraverso catene di subfornitura (si pensi alla componentistica per le automobili), al capitale tedesco e dei Paesi satelliti della Germania. Nell’attuale gioco neo-mercantilista, dove ciò che conta è esportare più di quanto esportino i concorrenti (e importare meno), il Sud conta sempre meno come mercato di sbocco. E’ un processo ancora embrionale, che riguarda (su fonte Banca d’Italia) un numero non molto grande di imprese del Nord, stimate in circa 180mila su 4.5 milioni di imprese lì localizzate.

Almeno per questi casi, due fattori sono da considerare:

a. Le imprese del Nord producono sempre meno beni finali e sempre più produzioni intermedie, non vendibili nel Mezzogiorno per la sostanziale inesistenza in loco di un tessuto industriale;

b. I residenti nel Mezzogiorno – per la caduta dei redditi, l’aumento delle emigrazioni, l’invecchiamento della popolazione – consumano sempre meno. SVIMEZ calcola, a riguardo, che il calo cumulato dei consumi dei meridionali dal 2008 al 2017 è stato nell’ordine del -11%.

A ciò vanno aggiunte le politiche economiche attuate nel Mezzogiorno negli ultimi decenni, caratterizzate – come ci informa SVIMEZ – da una costante riduzione degli investimenti pubblici (riduzione che va avanti dall’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno), che ha contribuito a frenare la crescita delle aree più deboli del Paese.

A ciò si può aggiungere la scomparsa della stessa idea di delegare allo Stato ciò che, nel caso italiano, la gran parte del nostro settore privato non fa: ovvero finanziare le innovazioni tecnologiche. 


giovedì 21 novembre 2019

Il capitale: forme e funzioni - Karl Marx

Da: https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/il-capitale-forme-e-funzioni-karl-marx -
Leggi anche: http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_3/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_III_-_27.htm -


   "In periodi di depressione la domanda del capitale da prestito è domanda di mezzi di pagamento e niente altro; in nessun caso è domanda di denaro come mezzo di acquisto. La domanda di mezzi di pagamento è una semplice domanda di convertibilità in denaro, quando i commercianti e i produttori possono offrire delle garanzie sufficienti; è una domanda di capitale monetario quando ciò non si verifica, cioè un anticipo di mezzi di pagamento dà loro la forma monetaria equivalente che loro manca.

   Coloro che dicono che esiste semplicemente una carenza di mezzi di pagamento hanno soltanto in mente quelle persone che posseggono garanzie bona fide (effetti garantiti da merce), o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà di una banca trasformare, con pezzi di carta, tutti gli speculatori falliti in capitalisti solidi e solvibili. Coloro che dicono che esiste una semplice carenza di capitale, fanno puramente un gioco di parole, oppure si riferiscono esclusivamente a quegli avventurieri del credito che ora sono di fatto messi in condizioni di non poter più a lungo ottenere capitale altrui con il quale portare avanti i loro affari e pretendono che la banca non soltanto li aiuti a restituire il capitale perduto, ma li metta per di più in grado di continuare le loro speculazioni fraudolente, poiché in tali periodi vi è una massa di capitale inconvertibile in seguito alla sovraimportazione e alla sovraproduzione.

   È un principio fondamentale della produzione capitalistica che il denaro si contrappone alla merce quale forma autonoma del valore, cosicché diventa la merce universale in contrapposizione a tutte le altre merci. In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma puramente fantastica.

   In secondo luogo, la moneta di credito stessa è denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto, nel suo valore nominale, il denaro effettivo. Di qui misure coercitive, aumento del tasso d’interesse ecc. al fine di assicurare le condizioni di convertibilità nell’interesse di trafficanti di denaro. Ma la causa prima si trova nel fondamento stesso del sistema di produzione. Una svalorizzazione della moneta di credito scuoterebbe tutti i rapporti esistenti. Il valore delle merci viene quindi sacrificato al fine di salvaguardare l’esistenza immaginaria e indipendente di questo valore nel denaro.

   (Karl Marx, Il capitale. Libro III, Sezione V, Cap. 32)

mercoledì 20 novembre 2019

Marc Bloch - Alessandro Barbero

Da: Rinascimento Culturale - Alessandro_Barbero è uno storico, scrittore e accademico italiano, specializzato in storia del Medioevo e in storia militare.

                                                                           

" ... La concezione dialettica della storia di Marc Bloch si legava all’idea della sua utilità civile e quindi del ruolo militante dello studioso. Uomo di grande cultura e di grande passione civile, Bloch era convinto che scopo ultimo della conoscenza del passato è la comprensione delle condizioni storiche, sociali ed economiche che hanno portato al nostro presente, rendendo così possibile la sua trasformazione. Questo atteggiamento fortemente critico e propositivo spinse Bloch verso la militanza politica, non solo come intellettuale impegnato nella diffusione della cultura storica; ma anche come uomo, che ha dato il suo contributo alla lotta contro il nazismo, aderendo in ultimo alla Resistenza francese. Come ha scritto Maurice Aymard, la riflessione storiografica prende nel caso di Bloch «una dimensione del tutto personale, e nello stesso tempo emblematica, che fonda l'unità della sua opera e della sua vita. La storia del passato non può essere scritta se non da chi assume il ruolo di testimone, attivo e impegnato, del presente».

L’attività storiografica di Bloch si fondava sul tentativo di legare strettamente il presente al passato e «di applicare nell’interpretazione delle manifestazioni sociali dei nostri tempi le facoltà di analisi che lo storico ha esercitato nella critica dei documenti dei tempi lontani». Studiare criticamente i fenomeni storici, saper coglierne le differenze e le analogie, le continue interrelazioni con l’ambiente materiale e le condizioni culturali che caratterizzano una società significava per il grande storico francese tentare di penetrare l’avvenire: «Esaminando come e perché l’ieri è stato diverso dall’altro ieri, essa [la storia] trova, in questo accostamento, il modo di prevedere in che senso il domani, a sua volta, si opporrà all’ieri».

In armonia con le posizioni dello storico francese, lo studioso inglese Edward H. Carr ha scritto: «la storia […] è un processo di carattere sociale, a cui gli individui partecipano in quanto esseri sociali; e l’immaginaria antitesi tra società e individuo non è altro che un cartello sviante messo lì apposta per confonderci». E aggiunge, sottolineando il rapporto che la storia intrattiene con la cultura e le esigenze delle società presenti: «Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere pienamente il presente unicamente alla luce del passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa la duplice funzione della storia».

Studiare oggi, per esempio, le opere di Marc Bloch non significa soltanto riscoprire le intenzioni originarie dell’innovazione metodologica della storia e, più in generale delle scienze umane, che fu elaborata nel corso del Novecento. Ma, soprattutto, significa dare nuovo risalto ad una concezione dialettica della storia e dell’attività umana, propria di Bloch e di tanti altri studiosi a lui contemporanei, che sottolinei i rapporti reciproci e ambivalenti tra la dimensione materiale e la dimensione ideologica e culturale, che individui le condizioni concrete in cui determinate società e mentalità si sono sviluppate, superando quei limiti temporali e geografici tanto comodi nello studio, ma fuorvianti nell’analisi della realtà. È questa concezione della storia che ci insegna a vedere uno sviluppo continuo, seppur contraddittorio, nell’attività umana e ci permette di comprendere le ragioni d’essere della società attuale per migliorarla. Perché solo l’impegno civile può dar significato all’attività conoscitiva dello studioso." 
(Adriana Garroni - Marc Bloch oltre la nouvelle histoire: prospettive teoriche da riscoprire*- Adriana Garroni