mercoledì 8 giugno 2016

Lavoro digitale e imperialismo *- Christian Fuchs**

** Christian Fuchs è professore di Social Media al Communication and Media Research Institute dell’Univerità di Westminster, e co-editore della rivista tripleC: Communication, Capitalism & Critique. 


È trascorso ormai un secolo dalla pubblicazione di L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) di Lenin e L’economia mondiale e l’imperialismo (1915) di Bucharin, i quali, insieme a L’accumulazione del capitale (1913) di Rosa Luxemburg, identificavano l’imperialismo come una forza e uno strumento del capitalismo. Era l’epoca della guerra mondiale, dei monopoli, delle leggi antitrust, degli scioperi per gli aumenti salariali, dello sviluppo da parte di Ford della linea di assemblaggio, della Rivoluzione d’Ottobre, di quella messicana e di quella, fallita, tedesca, e tanto altro ancora. Un momento storico che ha registrato la diffusione e l’approfondirsi della sfida globale al capitalismo.

Questo articolo si pone l’obiettivo di esaminare la divisione internazionale del lavoro attraverso le classiche concezioni marxiste  dell’imperialismo, estendendo tali idee alla divisione internazionale del lavoro nell’ambito della produzione di informazioni e tecnologie dell’informazione odierne. Argomenterò la tesi secondo la quale il lavoro digitale, in quanto nuova frontiera dell’innovazione e dello sfruttamento capitalisti, ha un ruolo centrale nelle strutture dell’imperialismo contemporaneo. Attingendo a questi concetti classici la mia analisi mostra come, nel nuovo imperialismo, le industrie dell’informazione formino uno dei settori economici più concentrati; come iper-industrializzazione, finanza e informazionalismo vadano di pari passo; come le società multinazionali dell’informazione siano radicate negli stati-nazione ma operino globalmente; e infine, quanto le tecnologie dell’informazione siano divenute uno strumento di guerra.(1)

Definire l’imperialismo

Nel suo “Saggio Popolare”, così è sottotitolato il suo scritto del 1916, Lenin definisce l’imperialismo come
il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitali ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.(2)

martedì 7 giugno 2016

Dialoghi di profughi XV.* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DEL PENSARE COME DI UN PIACERE. – DEI PIACERI. – CRITICA DELLE PAROLE. – LA BORGHESIA NON HA IL SENSO DELLA STORIA.



KALLE    Mi interessa molto scoprire in lei, un intellettuale, tanta antipatia contro la necessità di pensare. Eppure lei non ha nulla contro la professione.

ZIFFEL    Tranne il fatto che è appunto una professione.

KALLE     Ecco i guai del progresso nell’epoca moderna: si è creata una vera e propria casta, appunto di intellettuali, che devono provvedere al pensiero e sono allenati a posta per questo. Devono dare in affitto agli imprenditori la loro testa, come noi le nostre braccia. Naturalmente lei ha l’impressione di pensare per la collettività; ma è come se noi credessimo di fabbricare automobili per la collettività – e invece non lo crediamo affatto, perché sappiamo benissimo che è solo per gli imprenditori, e la collettività può andare a farsi benedire!

ZIFFEL     Lei vuol dire che io penso a me stesso solo in quanto penso a come posso riuscire a vendere ciò che penso, e che ciò che penso non è per me, cioè per la collettività?

KALLE     Si.

ZIFFEL     Ho letto che in America, dove l’evoluzione è più progredita, i pensieri sono ormai equiparati a una qualunque merce. Uno dei giornali più influenti scrisse una volta: «Il compito principale del presidente consiste nel vendere la guerra al Congresso e al paese”. Voleva dire: affermare l’idea di entrare in guerra. In discussioni su problemi scientifici o artistici si dice spesso, per esprimere approvazione: «Senta, questa la compro”. La parola persuadere è semplicemente rimpiazzata da quella più calzante: vendere.

KALLE     In simili circostanze è chiaro perché ti viene l’avversione per il pensare. Non è un piacere.

domenica 5 giugno 2016

Le origini agrarie del capitalismo* - Ellen Meiksins Wood**

*Da:     Monthly Review        traduzioni marxiste        https://zeroconsensus.wordpress.com/
**Ellen Meiksins Wood (1942-2016), studiosa del pensiero politico e storica marxista, si è occupata di temi che spaziano dalla democrazia ateniese alle origini del capitalismo, sino all’imperialismo contemporaneo 
Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-laccumulazione-originaria.html 


Una delle più consolidate convenzioni della cultura occidentale è l’associazione del capitalismo con la città. É invalsa la supposizione che esso sia nato e cresciuto nelle città. Non solo, tutto ciò implica che qualsiasi città – con le sue caratteristiche attività di traffico e commercio – sia per natura, e sin dagli inizi, potenzialmente capitalista, e come solo ostacoli esterni abbiano impedito a ogni civiltà urbana di dare i natali al capitalismo. Solo la religione sbagliata, la forma di stato sbagliata, o ogni altro genere di catene ideologiche, politiche e culturali che abbiano frenato le classi urbane, hanno impedito al capitalismo di sorgere ovunque e comunque, sin da tempi immemorabili – o perlomeno da quando la tecnologia ha permesso un’adeguata produzione di eccedenze.

Ciò che spiega lo sviluppo del capitalismo in occidente, secondo questo punto di vista, è l’autonomia delle sue città e della loro classe per eccellenza: la borghesia. In altre parole, il capitalismo è emerso in occidente non tanto a causa di ciò che era presente bensì a causa di ciò che era assente: i vincoli alle pratiche economiche urbane. In tali condizioni è stata sufficiente una più o meno naturale espansione del commercio per innescare lo sviluppo del capitalismo sino alla sua piena maturità. Unico fattore assolutamente necessario la crescita quantitativa, la quale si è verificata inevitabilmente col passare del tempo (in alcune versioni, ovviamente, agevolata ma non causata originariamente dall’etica protestante).

Ci sarebbero numerose obbiezioni che si potrebbero rivolgere alle ipotesi di una naturale connessione tra città e capitalismo. Tra le tante, il fatto che esse tendano a naturalizzare il capitalismo, così da occultarne il carattere distintivo come specifica forma sociale storicamente determinata, con un inizio e (senza alcun dubbio) una fine. La propensione a identificare il capitalismo con la città, e il commercio urbano, è stata generalmente accompagnata dall’inclinazione a considerarlo, più o meno automaticamente, come una conseguenza di pratiche antiche come l’umanità; se non, addirittura, un’automatica conseguenza della natura umana, la “naturale” inclinazione, nelle parole di Adam Smith, a “trafficare, barattare e scambiare”.

Probabilmente il più salutare correttivo a simili assunzioni – nonché alle loro implicazioni ideologiche – consiste nel riconoscere che il capitalismo, con le sue particolari forme di accumulazione e massimizzazione dei profitti, è nato non nelle città ma nelle campagne, in un luogo specifico, e molto tardi nella storia umana. Esso non richiede una semplice estensione o espansione dei traffici e degli scambi, ma una completa trasformazione delle più basilari pratiche e relazioni umane, una rottura con secolari modelli d’interazione umana con la natura, finalizzati alla produzione di fondamentali necessità della vita. Se la tendenza a assimilare il capitalismo con la città è associata con quella a oscurare la specificità del capitalismo, allora il modo migliore per mettere in luce quest’ultima e quello di considerare le origini agrarie del capitalismo.

Che cos’è il “capitalismo agrario”

I FISIOCRATICI* - Stefano Garroni

Da:    https://www.facebook.com/notes/403334743874/
A questo link: (https://www.youtube.com/watch?v=y0EE0Uz9eYA&list=PL5E51A0A64CA57B81) è possibile ascoltare la registrazione audio di spiegazione e discussione di questo articolo.   


Storia del termine <economia > e simili.

“Il termine «economia» deriva da Aristotele. Essa significa scienza riguardante le leggi dell'economia domestica … L'espressione <economia politica> entrò in uso all'ínizio del XVII secolo; fu introdotta dal Montchrétien, che nel 1615 pubblicò un'opera intitolata Traité de l'économie politique. L'aggettivo <politica> doveva significare che si trattava delle leggi dell'economia pubblica; Montchrétien si occupava infatti nella sua opera, essenzialmente, di questioni di finanza pubblica. Col tempo il termine economia politica si generalizzò, finendo per significare lo studio dei problemi della attività economica della società... E’ solo 140 anni dopo il lavoro di Montchrétien, che compare un altro titolo economia politica: si tratta dell’articolo di J.J. Rousseau sull’Enciclopedia illuministica (Kramm, 5641: 21b).
Consideriamo le espressioni economia politica e economia sociale come sinonimi. 

Talvolta l' economia politica viene definita anche come la scienza dell’economia sociale... In Francia, in base alla tradizione iniziata nel 16I5 dal Montchrétien, il termine economia politica fu ed è ancor oggi universalmente adottato [1]...Il termine <economia sociale> era abbastanza diffusamente impiegato in Polonia alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo. Questo termine aveva anche sostenitori in altri paesi. In Italia, Luigi Cossa intitolò il suo saggio pubblicato nel 1891 Economia sociale. ... In Inghilterra entrò nell'uso -certamente sotto l'influsso della terminologia francese- il termine economia politica. Fu impiegato per la prima volta da James Steuart, che pubblicò nel 1767 un'opera intitolata Inquiry into the Principles of Political Economy. Secondo McCulloch, l’economia politica è la scienza di quelle leggi, che regolano la produzione, l’accumulazione, la distribuzione e il consumo dei beni necessari, utili e piacevoli. (Kremm, 5641: 23).

venerdì 3 giugno 2016

Dov'è il comunismo?* - Gianfranco Pala



                       Profitto, plusvalore, guadagno e ricchezza reale 


È il caso di rammentare sùbito – onde evitare tanti equivoci nati da una lettura troppo affezionatamente ammiratrice di Marx – che lui quando coniò il titolo del futuro iv libro storico del Capitale <“Teorie sul plusvalore”> lo pensò unicamente in quanto rivolto alla ricerca, del tutto tralasciata o ignorata dagli economisti borghesi (classici e volgari), dell’“origine sociale del profitto” —— ovvero del guadagno dell’imprenditore [proprietario privato] capitalista in sèguito allo scambio contro denaro di merci ottenute entro quello specifico modo di produzione. Ma devono essere chiare due questioni, sia che: 1) questa particolare analisi è circoscritta soltanto al modo di produzione e circolazione della merce capitalistica (dove c’è valore e plusvalore); 2) un qualsiasi proprietario privato, in altri modi di produzione (per ora solo precedenti, i <futuri> per la loro significazione sono ineffabili), può trasformare il mero denaro che possiede, in qualsiasi altro oggetto che desideri o trarne eventualmente un vantaggio monetario. Tuttavia unicamente la rappresentazione del capitale in denaro diviene tale solo e soltantose esso denaro\capitale è funzionalmente legato a comprare come merce la forza-lavoro altrui per valorizzarsi: ma un vantaggioso guadagno monetario [che gli agenti e i contabili del capitale denotano come “profitto” – e per Marx il tasso del profitto ha cause empiriche e forme diverse dal tasso di plusvalore che pure lo determina concettualmente] si può ottenere in tanti modi diversi dall’uso funzionale della forza-lavoro altrui non pagata, cioè dall’aver trasformato quel <denaro in quanto tale> in capitale per far produrre plusvaloremediante pluslavoro.

Di simili casi assai diversi tra loro e non capitalistici nel passato (mitico, reale o fantastico) ce ne sono a iosa: da Creso a Mida, da imperatori romani, egizi o cinesi, a molti re come Luigi xiv “re sole”, per non dire di uno stuolo di papi, nobili e via notabilando, fino ... a Paperon de’ Paperoni. Dunque la fine del plusvalore, alla prova della storia, può voler dire in via esclusivamente preliminare che il denaro guadagnato – o meglio arraffato rubato sottratto ingannevolmente ai più ingenui, miserabili o deboli – da parte di un gruppo sociale dominante con arroganza e violenza; la qual cosa non implica la cessazione di quella appropriazione indebita.

giovedì 2 giugno 2016

CONOSCENZA,SAPIENZA,SAGGEZZA: il triangolo che non c'è più - Silvano Tagliagambe


Dialoghi di profughi XIV.* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DI DEMOCRAZIA.  – PECULIARITA’ DELLA PAROLA «POPOLO». – LA MANCANZA DI LIBERTA’ SOTTO IL COMUNISMO. – LA PAURA DEL CAOS E LA PAURA DI PENSARE.

Quando di incontrarono di nuovo, Kalle propose di cambiare locale. Gli pareva che un ristorante automatico a meno di dieci minuti di distanza, servisse un caffè migliore. Il grasso fece la faccia scura e parve non aspettarsi niente di buono da un cambiamento di ambiente. Quindi restarono dov’erano.

ZIFFEL     La democrazia a due è molto difficile. Dovremmo determinare il voto in base ai chilogrammi, così potrei avere la maggioranza. Sarebbe un sistema plausibile, dato che il mio sedere dipende da me, e quindi possiamo supporre che potrei indirlo a votare per me.

KALLE     Nel complesso a giudicare dall’aspetto lei è senz’altro democratico, ciò che dà già di per sé un’impressione di giovialità. Per democratico si intende un atteggiamento amichevole, naturalmente in un signore; in un morto di fame è piuttosto spudoratezza. Conoscevo un tizio, un cameriere, che si lamentava molto di un ricco commerciante di grano che non gli dava mai una mancia decente, perché, come disse forte una volta a un altro cliente, era un vero democratico e non voleva umiliare i camerieri. «Io pure non accetterei mai una mancia, - disse, - e dovrei considerare loro inferiori a me?».

ZIFFEL     Non credo che si possa parlare dell’essere democratici come di una qualità.

KALLE     Perché no? Non trova che persino i cani, per fare un esempio, quando hanno pappato ben bene hanno un’aria più democratica di quando sono digiuni? L’aspetto esteriore deve avere un significato, penso anzi che sia la cosa principale. Prenda la Finlandia: ha un aspetto democratico, ma se lei leva via l’aspetto e dichiara di infischiarsene, che cosa resta? Certo non democrazia.

ZIFFEL     Ho idea che è meglio che ci andiamo, in quel suo bar automatico.

lunedì 30 maggio 2016

Nota sui limiti della prospettiva dialettica di Hegel e di Marx. - Stefano Garroni

Dal sito Dialegesthai (19 luglio 2002), https://mondodomani.org/dialegesthai - Ora in: Dialettica riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole a cura di Alessandra Ciattini - Stefano Garroni  è stato un filosofo italiano. 



    Indice:

Nota dell’editore
                                                                                                                                             
Stefano Garroni: Dialettica riproposta - Presentazione di Paolo Vinci 












                                        -----------------------------------------------


Negli anni Venti del nostro secolo, il neopositivista Moritz Schlick sottolineava come conoscere (erkennen) sia propriamente un ri-conoscere (wieder-erkennen).

Com’è noto, questo tema del conoscere come riconoscere già lo abbiamo incontrato in Hegel; dunque, può destare qualche meraviglia ritrovarlo in un ambiente (quello neo-positivista), che di solito considera Hegel il campione del pensiero speculativo e metafisico, contro cui si indirizza l’analisi linguistica, proposta, a partire dal Wienerkreis (Circolo di Vienna, 1929), quale strumento terapeutico contro gli abusi linguistici [1] e di pensiero.

La stessa puntualizzazione, che chiarisce come per Hegel non si tratti esattamente di erkennen/wiedererkennen (riconoscere), ma sì di erkennen/anerkennen (riconoscere, ma nel senso di legittimare), non ci toglie dall’imbarazzo, dato che M. Schlick usa wiedererkennen, intendendo dire che <conoscere X> equivale a ritrovare in X la possibilità di ricondurlo a una certa forma o regola, nella quale la ragione ritrova o riconosce se stessa; dunque, per Schlick, affermare che la ragione  conoscendo, riconosce X, significa dire che la ragione legittima X, testimonia della sua razionalità, lo accetta nel dominio del razionale. A questo punto wiedererkennen vale esattamente anerkennen. [2] 

sabato 28 maggio 2016

MODERNITÀ IN CHIAROSCURO. SPLENDORI E MISERIE DEI DIRITTI UMANI* - Alessandra Ciattini



In un'interessante lezione Federico Martino ha ricostruito la storia dei diritti umani, mostrando la stretta relazione che essi intrattengono con l'individualismo occidentale e con il costituirsi della borghesia. Tale legame di classe ostacola però la loro efficace applicazione.


Il passato 6 maggio Federico Martino, storico del diritto e professore emerito dell'Università di Messina, ha tenuto un'interessante lezione sui diritti umani, il cui titolo coincide con quello del presente articolo. La lezione è stata tenuta nell'ambito del corso di Antropologia culturale, disciplina il cui oggetto precipuo è rappresentato dallo studio delle differenze tra le forme di vita sociale che si sono succedute nella storia e che coesistono nella società contemporanea, sia pure ormai inserite in un unico sistema politico-economico profondamente conflittuale. In ambito antropologico l'indagine sulle differenze è sempre accompagnata dalla riflessione sulla possibilità di individuare un denominatore comune che possa fungere da elemento di raccordo tra le diversità che, in seguito ai processi migratori degli ultimi decenni, costellano la nostra vita quotidiana.
Federico Martino ha esordito indicando quali erano i presupposti metodologici a cui si richiamava per illustrare sia pure rapidamente la storia di tali principi fondativi della nostra forma di organizzazione sociale, rimarcando al contempo le criticità che sono strettamente connesse alla loro applicazione, assai spesso ispirata alla volontà di ingerenza ed espansione.

Tali presupposti metodologici sono stati individuati in questi tre assunti: 1) la storia è sempre storia contemporanea, nel senso che lo studioso parte dai problemi dell'oggi per riflettere sul passato, pur rifuggendo da una prospettiva riduzionistica che leggerebbe quest'ultimo come mera anticipazione dell'attuale; 2)  le idee scaturiscono dalle relazioni sociali tra gli uomini, le quali si fondando sui rapporti di produzione, e al tempo stesso le prime interagiscono dialetticamente con tale dimensione; 3) ogni forma di comprensione storica studia i fenomeni nella loro specificità e particolarità, ma si pone anche l'obiettivo di inquadrarli in categorie di carattere più generale; in questo senso lo studioso non si limita ad osservare il singolo albero strappandolo dalla foresta, ossia dal quadro generale nel quale esso si colloca.

Fatte queste premesse Martino ha letto un passo assai significativo della Dichiarazione di indipendenza dalla Gran Bretagna delle 13 colonie statunitensi scritta da Thomas Jefferson nel 1776, e che rappresenta un buon condensato del nucleo fondamentale dei diritti umani così come ancora oggi in larga parte sono intesi. Così scrive Jefferson: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini siano stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti sono creati fra gli uomini i Governi; che ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità” [1] (Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America).

venerdì 27 maggio 2016

Fortuna, caso, necessità, libertà - Remo Bodei


Dialoghi di profughi XIII.* - Bertolt Brecht

*Da:    https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-xiii-bertolt-brecht/10151315869518348?pnref=story 


LA LAPPONIA, OVVERO AUTODOMINIO E CORAGGIO. – PARASSITI.


Ziffel e Kalle perlustrarono il paese: Kalle mettendo il naso ora qui, ora lì, come piazzista di articoli da ufficio; Ziffel alla ricerca di impiego come chimico incontrando sempre dei rifiuti. Ogni tanto si ritrovavano nella capitale, al ristorante della stazione: un locale cui ambedue si erano affezionati proprio per il suo squallore. Lì si scambiavano le loro impressioni, davanti a un bicchiere di birra che non era birra e ad una tazza di caffè che non era caffè.

ZIFFEL     Cesare descrisse la Gallia, paese che conosceva perché vi aveva sconfitto i Galli. Ziffel, descrivi G., il paese che conosci perché vi sei stato sconfitto! Non riesco a trovare lavoro, qui.

KALLE     Questo è un bellissimo preambolo, come me l’aspetto da lei. E non occorre che aggiunga altro, si tranquillizzi pure, so già che non ha visto niente.

ZIFFEL     Ho visto abbastanza per sapere che in questo paese fioriscono notevoli virtù. Per esempio il dominio di se stessi. E’ un vero paradiso per gli Stoici, lei certo avrà sentito parlare di questi antichi filosofi e della stoica indifferenza con cui pare sopportassero ogni sorta di avversità. Si dice: chi vuole dominare gli altri deve imparare a dominare se stesso. Ma in realtà si dovrebbe dire: chi vuol dominare gli altri, deve insegnar loro a dominare se stessi. Insomma la gente qui è dominata da proprietari terrieri e da industriali, ma anche da se stessa, ciò che vien chiamato democrazia. Il primo comandamento del dominio di se stessi dice: tieni la bocca chiusa. In un regime democratico ci si aggiunge la libertà di parola, controbilanciata dal divieto di abusarne, cioè di parlare. E’ chiaro?

KALLE     No.

giovedì 26 maggio 2016

Sulla coscienza di classe nell'attuale fase del capitalismo* - VITTORIO RIESER

Che in questo momento la coscienza di classe del proletariato non sia particolarmente brillante ed antagonistica, è un dato del senso comune. Il problema è: per quali ragioni? Dalla risposta a questo interrogativo derivano anche previsioni e possibili indicazioni di azione.

Partiamo, estremizzandoli, da due possibili (e “classici”, perché si sono periodicamente riproposti) “poli di risposta”:

  - l’offuscamento della coscienza di classe è dovuto al fatto che le organizzazioni del movimento operaio hanno abbandonato una prospettiva di classe (è la classica ipotesi del complotto-tradimento);

  - l’offuscamento della coscienza di classe è la conseguenza inevitabile dei mutamenti strutturali (e non solo strutturali) del capitalismo: che fan sì (a seconda delle interpretazioni) che “la classe non c’è più” o “si è integrata nel sistema” o “si è atomizzata” (e via sproloquiando). (...)

La gamma di alternative oggi “percepibili” da un lavoratore è drasticamente limitata, anche rispetto a un passato non molto lontano: soprattutto, da questa gamma sono assenti ipotesi alternative complessive sull’economia e la società. In primo luogo, oggi le organizzazioni del movimento operaio (ci riferiamo sempre all’occidente capitalistico, e in primo luogo all’Italia) non propongono più alternative del genere. (Non ci riferiamo, ovviamente, ad alternative “rivoluzionarie classiche”, ma ai “nuovi modelli di sviluppo” o di democrazia proposti ad es. dai sindacati o dal PCI in Italia negli anni 60-70). Su questo si innesta l’efficacia (parziale) dei grandi mezzi di comunicazione di massa: parziale perché questi non riescono a far passare un’adesione e un consenso al modello di società da essi divulgato, ma riescono a farlo passare per l’unico possibile, in sostanza come “male inevitabile” (la crisi erode ulteriormente gli elementi di consenso, ma rafforza l’idea di inevitabilità).                                                                                                                                                                                                                             
Complessa è l’evoluzione dei sindacati. La CISL è la prima a “fare i conti” con la sconfitta dell’89, con una netta svolta a destra. La CGIL evita di fare esplicitamente un bilancio critico, e mantiene elementi di debole continuità con la fase precedente. Di fatto, i sindacati non possono assumere organicamente uno schema liberista che è in contraddizione con la loro stessa natura e funzione: approdano quindi a un’impostazione “concertativa”, che è la riproposta di un modello di relazioni industriali a suo tempo chiamato “neo-corporativo”, maturato nell’ultima fase del fordismo. Ma, se allora era un mix di concessioni e di contropartite, ora – nella situazione mutata – si ripresenta in una versione “debole”, in cui le concessioni e i vincoli superano nettamente le contropartite e i margini di iniziativa contrattuale autonoma. La CISL innesta su questo una sua ideologia della “partecipazione”, mentre la CGIL rilancia tardivamente un modello di “co-determinazione” (dove l’analisi “di classe” non scompare) quando non ci sono più le condizioni per realizzarlo, per cui rimane sulla carta. La conseguenza pratica di tutto questo è che i sindacati “gestiscono il riflusso”, in un’impostazione puramente difensiva anche quando le condizioni oggettive riaprirebbero possibilità di controffensiva.                                                                                                                                                                                                                                       
Alla fine degli anni 50-inizio anni 60, chi avesse fatto un’inchiesta sulla coscienza di classe si sarebbe trovato di fronte a “brandelli di coscienza” non dissimili da quelli riscontrati nell’inchiesta di Brescia: una lucida valutazione negativa della propria condizione e delle sue cause, accompagnate da una sfiducia nelle possibilità di cambiamento generale, e – quindi – da ricerca di soluzioni individuali, talvolta “opportunistiche”. E’ questo il materiale su cui hanno “lavorato” le organizzazioni che, negli anni successivi, hanno costruito una grande stagione di lotta e coscienza di classe. Ma vi erano due profondi elementi di differenza con la situazione attuale:
- esistevano organizzazioni o parti di esse (mi riferisco in particolare alla CGIL) che perseguivano lucidamente un disegno di “ricostruzione di classe” nella prospettiva di un cambiamento sociale;
- le condizioni dello sviluppo capitalistico (pensiamo ad es. agli anni del “miracolo economico”) favorivano lo sviluppo delle lotte operaie.
Tutto ciò ha permesso di innescare un “circolo virtuoso” tra comportamenti delle organizzazioni (via via estesi a organizzazioni prima più “arretrate”), esperienze di lotta, sviluppo di coscienza, che ha portato al grande decennio tra la fine degli anni 60 e la fine degli anni 70.

Oggi, come abbiamo visto, tali condizioni al momento non sussistono. E non ci sono le condizioni per una “scorciatoia” che, in tempi brevi, inverta il “circolo vizioso” oggi imperante. La domanda è: è possibile lavorarci per spezzarlo? questo lavoro è possibile nel puro ambito nazionale? chi (ovviamente non ci riferiamo a persone, ma ad organizzazioni) ha la volontà e la capacità di impegnarsi in questo lavoro? 

Leggi tutto:     http://www.sinistrainrete.info/analisi-di-classe/1004-vittorio-rieser-sulla-coscienza-di-classe-nellattuale-fase-del-capitalismo.html   
Leggi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/05/riflessioni-senili-ruota-libera-su.html  
  

mercoledì 25 maggio 2016

Marx e l'accumulazione originaria - Massimiliano Tomba



Leggi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/02/ermanno-sullaccumulazione-originaria-di.html
                                 http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/storiografia-degli-strati-di-tempouna.html

“Manifesto per la libertà del pensiero economico contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica”. Una adesione critica.* - Riccardo Bellofiore



Aderisco al Manifesto per la libertà del pensiero economico, perché segna una importante messa in discussione del modo con cui viene condotta la ricerca economica oggi. Credo però giusto aggiungere alla firma alcuni commenti e anche alcune critiche, visto che non pochi sono i punti di dissenso con il Manifesto. 

1.  Non credo che gli ultimi 30 anni abbiano visto la rinascita di un "fondamentalismo liberista". Questa è stata l'apparenza ideologica. Abbiamo vissuto una fase niente affatto caratterizzata dal laisser faire. Il pensiero dominante si è piuttosto teoricamente diviso tra ripresa dell'approccio in ultima istanza walrasiano, sempre meno rilevante, e imperfezionismo dei dissenzienti dal mainstream neoclassico puro e duro. Corrispettivamente si è avuta la spaccatura tra neoliberismo (liberista sul mercato del lavoro, ma non sul mercato dei beni e dei servizi; tutto meno che ostile davvero ai disavanzi di bilancio; favorevole ai monopoli, come testimoniano le figure stesse di Berlusconi o di Bush;  etc.) e social­liberismo (che oppone mercato a capitale, che vuole "liberalizzare per ri­regolamentare";  che   favorisce il bilancio dello stato in pareggio, e  però vagheggia   una   qualche redistribuzione del reddito;   che concentra   la   critica   alla   finanza   nella domanda di una mera regolamentazione). Il social­liberismo, si badi, è cosa ben diversa dal liberalsocialismo (la tradizione di Ernesto Rossi, Paolo Sylos Labini, o di Norberto Bobbio), ben più radicale nella sua critica al capitalismo. Neoliberismo e social­liberismo sono approcci irriducibili l'uno all'altro. La critica al pensiero dominante non può stare sotto il cappello della opposizione a un presunto pensiero unico. La critica in economia deve essere aggiornata, ma deve dunque essere molto più radicale, andando all'origine della debolezza, non solo dei filoni (tra loro conflittuali) del mainstream, ma anche delle varie eterodossie. E' un fatto che a uscire con le ossa rotte è stato più il social­liberismo che il neoliberismo, che ha saputo cambiare pelle; e che l'eterodossia ha saputo opporre poco più che diverse forme del "ritorno a".

martedì 24 maggio 2016

Leggere la crisi: stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto?* - Vladimiro Giacché**

*In: Società natura storia, Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di Andrea Civello , Pisa, Ed.ETS 2015, pp.269-284                                                                                                **Da:     www.academia.edu 

Capitale produttivo di interesse, finanza ed economia del debito.

In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: "nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al pil mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al pil, era del 356 per cento". Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l'idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza.

Si tratta di un processo decisivo per i paesi a capitalismo maturo dagli anni Ottanta in poi. La cosiddetta "finanziarizzazione" ha avuto una triplice, importantissima funzione:
1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori;
2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell'industria;
3) fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d'investimento a elevata redditività. In questo modo essa ha rallentato - e per alcuni versi invertito - la tendenza alla caduta del saggio del profitto.

Consideriamo più da vicino le tre funzioni menzionate.

1) Credito alle famiglie.

La caratteristica più notevole dell'era della disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell'economia del mondo sviluppato.
Così John Plender commentava anni fa sul "Financial Times" i dati sul calo dei redditi da lavoro negli ultimi decenni. Ma subito spiegava l'arcano: il motivo dell'assenza di reazioni va ricercato nel fatto che il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere in parte sganciato dall'andamento del reddito da lavoro. La politica monetaria espansiva della Federal Reserve ha alimentato il credito al consumo e la bolla azionaria e immobiliare, creando un effetto ricchezza e consentendo anche a famiglie a basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato. Fenomeni simili si sono prodotti in molti altri Paesi a capitalismo maturo. La quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario e però consuma come e più di prima. Un solo problema: l'insostenibilità di questo modello nel lungo periodo.

2)Credito alle imprese.

Ma il credito non dava respiro soltanto alle famiglie americane. Lo dava anche, e in misura non minore, alle imprese di tutto il mondo. Soprattutto a quelle di settori maturi. Pensiamo a quello automobilistico, nel quale già a inizio degli anni 2000 la sovrapproduzione ammontava alla cifra già esorbitante di 20 milioni di automobili all'anno. Prima dello scoppio della crisi, le case automobilistiche hanno fatto un massiccio utilizzo del credito al consumo (con finanziamenti a tasso zero per l'acquisto di automobili e simili)3. Hanno inoltre potuto riscadenzare i propri debiti, grazie alla possibilità di usufruire di prestiti a condizioni di tasso eccezionalmente favorevoli. In terzo luogo, hanno emesso azioni a costi decrescenti, grazie all'afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari proveniente dai fondi pensione e dai fondi istituzionali: in tal modo "la stessa capital asset inflation tipica del capitalismo dei fondi è stata per lungo tempo un elemento stabilizzante della posizione debitoria delle imprese non finanziarie". Infine hanno fatto profitti da operazioni finanziarie. Ed è questa la strada maestra per la redditività imboccata negli anni precedenti la crisi da molte imprese manifatturiere.

3) La speculazione come mezzo per la valorizzazione del capitale.

La possibilità di effettuare attività speculative per ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili: questa terza grande funzione del credito e della finanza in questi anni. Intendiamoci, nulla di nuovo sotto il sole, se non forse nelle dimensioni del fenomeno: si tratta di un fenomeno descritto, poco prima della crisi del 1929, anche dal marxista Henryk Grossmann, il quale considerava la speculazione di borsa come una sorta di "esportazione di capitale all'interno", del tutto parallela alla esportazione dei capitali all'estero, e con al fondo lo stesso motivo: la crisi di valorizzazione del capitale nei settori originari di attività. Nel Regno Unito tra il 1987 e il 2008 l'acquisto di assets finanziari da parte di imprese non finanziarie è stato del 20% più elevato rispetto all'acquisto di attivi fissi (macchinari ecc.).

In effetti , se si esamina l'andamento dei profitti in gran parte dei paesi capitalistici avanzati si osserva che a partire dalla fine degli anni Novanta quelli da attività finanziarie cominciano a crescere vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con l'andamento del Pil quanto con i profitti totali, proporzione salita al 40% nel 2007, e ancora di più quello del Regno Unito, dove tale proporzione nel 2008 aveva raggiunto addirittura l'80%.
In base alla ricostruzione che si è proposta, la stessa ampiezza e gravità della crisi scoppiata nel 2007 non è affatto sorprendente. Essa rappresenta infatti il precipitato di oltre un trentennio in cui il saggio di profitto è stato alimentato dalla finanziarizzazione su larga scala, ossia da un ruolo sempre più preponderante del capitale produttivo di interesse.

Se si interpreta, con Riccardo Bellofiore, la caduta del saggio di profitto come una "meta-teoria delle crisi", una sorta di cornice concettuale comprensiva entro la quale vanno ricostruite le forze e i fattori volta per volta scatenanti delle singole crisi, è facile vedere come la crisi del 2007 sia stata innescata proprio da quel capitale produttivo d'interesse la cui crescente importanza aveva rappresentato nei decenni precedenti il principale fattore di controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Il detonatore della crisi è stato infatti rappresentato dallo scoppio della bolla finanziaria che si era creata grazie all'accumulo di debito privato.

Leggi tutto: