*In: Società natura
storia, Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di Andrea Civello , Pisa,
Ed.ETS 2015, pp.269-284 **Da: www.academia.edu
In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza
McKinsey si legge: "nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era
grosso modo equivalente al pil mondiale; a fine 2007, il grado di intensità
finanziaria a livello mondiale (world
financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al pil, era del 356 per cento". Questi dati,
già di per sé, sono sufficienti a dare l'idea delle proporzioni assunte negli
ultimi decenni dal credito e dalla finanza.
Si tratta di un processo decisivo per i paesi a capitalismo
maturo dagli anni Ottanta in poi. La cosiddetta "finanziarizzazione"
ha avuto una triplice, importantissima funzione:
1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei
lavoratori;
2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione
nell'industria;
3) fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel
settore industriale alternative d'investimento a elevata redditività. In questo
modo essa ha rallentato - e per alcuni versi invertito - la tendenza alla
caduta del saggio del profitto.
Consideriamo più da vicino le tre funzioni menzionate.
1) Credito alle
famiglie.
La caratteristica più
notevole dell'era della disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata
negli anni Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche reazioni
alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte
dell'economia del mondo sviluppato.
Così John Plender commentava anni fa sul "Financial
Times" i dati sul calo dei redditi da lavoro negli ultimi decenni. Ma
subito spiegava l'arcano: il motivo dell'assenza di reazioni va ricercato nel
fatto che il tenore di vita delle persone
con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere in parte sganciato
dall'andamento del reddito da lavoro. La politica monetaria espansiva della
Federal Reserve ha alimentato il
credito al consumo e la bolla azionaria e immobiliare, creando un effetto
ricchezza e consentendo anche a famiglie a basso reddito di contrarre debiti
relativamente a buon mercato. Fenomeni simili si sono prodotti in molti altri
Paesi a capitalismo maturo. La quadratura del cerchio, il sogno di ogni
capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario e però consuma
come e più di prima. Un solo problema: l'insostenibilità di questo modello nel
lungo periodo.
2)Credito alle
imprese.
Ma il credito non dava respiro soltanto alle famiglie
americane. Lo dava anche, e in misura non minore, alle imprese di tutto il
mondo. Soprattutto a quelle di settori maturi. Pensiamo a quello
automobilistico, nel quale già a inizio degli anni 2000 la sovrapproduzione
ammontava alla cifra già esorbitante di 20 milioni di automobili all'anno.
Prima dello scoppio della crisi, le case automobilistiche hanno fatto un
massiccio utilizzo del credito al consumo (con finanziamenti a tasso zero per
l'acquisto di automobili e simili)3. Hanno inoltre potuto riscadenzare i propri
debiti, grazie alla possibilità di usufruire di prestiti a condizioni di tasso
eccezionalmente favorevoli. In terzo luogo, hanno emesso azioni a costi
decrescenti, grazie all'afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari
proveniente dai fondi pensione e dai fondi istituzionali: in tal modo "la
stessa capital asset inflation tipica
del capitalismo dei fondi è stata per lungo tempo un elemento stabilizzante
della posizione debitoria delle imprese non finanziarie". Infine hanno
fatto profitti da operazioni finanziarie. Ed è questa la strada maestra per la
redditività imboccata negli anni precedenti la crisi da molte imprese
manifatturiere.
3) La speculazione
come mezzo per la valorizzazione del capitale.
La possibilità di effettuare attività speculative per
ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili: questa terza grande
funzione del credito e della finanza in questi anni. Intendiamoci, nulla di
nuovo sotto il sole, se non forse nelle dimensioni del fenomeno: si tratta di
un fenomeno descritto, poco prima della crisi del 1929, anche dal marxista
Henryk Grossmann, il quale considerava la speculazione di borsa come una sorta
di "esportazione di capitale all'interno", del tutto parallela alla
esportazione dei capitali all'estero, e con al fondo lo stesso motivo: la
crisi di valorizzazione del capitale nei settori originari di attività. Nel
Regno Unito tra il 1987 e il 2008 l'acquisto di assets finanziari da parte di imprese non finanziarie è stato del
20% più elevato rispetto all'acquisto di attivi fissi (macchinari ecc.).
In effetti , se si esamina l'andamento dei profitti in gran
parte dei paesi capitalistici avanzati si osserva che a partire dalla fine
degli anni Novanta quelli da attività finanziarie cominciano a crescere
vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con l'andamento del Pil quanto
con i profitti totali, proporzione salita al 40% nel 2007, e ancora di più
quello del Regno Unito, dove tale proporzione nel 2008 aveva raggiunto addirittura
l'80%.
In base alla ricostruzione che si è proposta, la stessa
ampiezza e gravità della crisi scoppiata nel 2007 non è affatto sorprendente.
Essa rappresenta infatti il precipitato di oltre
un trentennio in cui il saggio di profitto è stato alimentato dalla
finanziarizzazione su larga scala, ossia da un ruolo sempre più preponderante
del capitale produttivo di interesse.
Se si interpreta, con Riccardo Bellofiore, la caduta del
saggio di profitto come una "meta-teoria delle crisi", una sorta di
cornice concettuale comprensiva entro la quale vanno ricostruite le forze e i
fattori volta per volta scatenanti delle singole crisi, è facile vedere come la
crisi del 2007 sia stata innescata proprio da quel capitale produttivo
d'interesse la cui crescente importanza aveva rappresentato nei decenni
precedenti il principale fattore di controtendenza alla caduta del saggio di
profitto. Il detonatore della crisi è stato infatti rappresentato dallo scoppio
della bolla finanziaria che si era creata grazie all'accumulo di debito
privato.
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