"Chi è filosoficamente confuso è come un
uomo in una stanza, che vuole uscirne, ma
non sa come fare. Prova a passare dalla
finestra, ma è troppo alta. Prova a passare per
il comignolo, ma è troppo stretto. E se
soltanto si guardasse intorno, si accorgerebbe
che la porta è rimasta aperta."
Ludwig Wittgenstein
La strada che Putnam sta esplorando oggi consiste dunque nel recuperare un atteggiamento naturale rispetto alla percezione, «a second naiveté», che ci permetta di tornare a comprendere che «le cose ‘esterne’ – i cavoli, i re – possono essere esperite» (e non meramente causate). Se si rinuncia alla concezione tradizionale della percezione e si ammette che di norma noi percepiamo direttamente il mondo, i problemi dell’epistemologia tradizionale svaniscono. E’ importante notare, però, che la rinuncia agli intermediari mentali nella spiegazione della percezione non significa che Putnam postuli una sorta di ‘contatto immediato’ tra la mente e gli oggetti (in questo modo non farebbe che riproporre la ‘teoria magica del riferimento’).
Il punto, piuttosto, è che in questa prospettiva la stessa distinzione interno/esterno non ha più ragion d’essere: la mente, infatti, non viene più considerata come un organo, materiale o immateriale, che elabora informazioni che vengono dall’esterno; essa piuttosto è vista come un sistema di abilità cognitive, dipendente sia dagli eventi cerebrali sia dalla nostra interazione con il mondo e descrivibile soltanto per mezzo di un vocabolario intenzionale. In tale ottica anche la percezione è l’esercizio di un’abilità cognitiva. Percepire un oggetto, spiega Putnam, non è un processo bipartito, in cui a un’interazione non cognitiva tra oggetti e apparato percettivo faccia seguito l’elaborazione cognitiva da parte del cervello. Ad essere cognitivo è il processo percettivo nella sua interezza.
Una tesi di questo
genere si radica con evidenza nella tradizione pragmatista: «gli eventi
cerebrali sono una parte della mia attività cognitiva e percettiva solo perché
io sono una creatura con un certo tipo di ambiente normale, e con una certa
storia di interazioni individuali e di specie con quell’ambiente». In tal modo,
secondo Putnam, né gli eventi cerebrali né i fenomeni percettivi sono intrinsecamente
cognitivi: «[c]ome avrebbe detto John
Dewey, ciò che è cognitivo è l’interazione».
Con l'adesione al realismo naturale, Putnam dichiara
concluso il suo itinerario filosofico, «un lungo viaggio che dal realismo è
partito e che al realismo è tornato». Il rigore della sua riflessione e le
nuove prospettive che nel corso degli anni egli ha dischiuso stanno a
dimostrare che questo suo travagliato viaggio non è stato affatto infecondo.
Vedi anche: http://www.filosofia.rai.it/articoli/hilary-putnam-la-filosofia-ha-un-futuro/5090/default.aspx
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