Leggi il Manifesto: http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2010/01/MANIFESTO4.pdf
Aderisco al Manifesto per la libertà del pensiero economico,
perché segna una importante messa in discussione del modo con cui viene
condotta la ricerca economica oggi. Credo però giusto aggiungere alla firma
alcuni commenti e anche alcune critiche, visto che non pochi sono i punti di
dissenso con il Manifesto.
1. Non credo che gli
ultimi 30 anni abbiano visto la rinascita di un "fondamentalismo
liberista". Questa è stata l'apparenza ideologica. Abbiamo vissuto una
fase niente affatto caratterizzata dal laisser faire. Il pensiero dominante si
è piuttosto teoricamente diviso tra ripresa dell'approccio in ultima istanza
walrasiano, sempre meno rilevante, e imperfezionismo dei dissenzienti dal
mainstream neoclassico puro e duro. Corrispettivamente si è avuta la spaccatura
tra neoliberismo (liberista sul mercato del lavoro, ma non sul mercato dei beni
e dei servizi; tutto meno che ostile davvero ai disavanzi di bilancio;
favorevole ai monopoli, come testimoniano le figure stesse di Berlusconi o di
Bush; etc.) e socialliberismo (che
oppone mercato a capitale, che vuole "liberalizzare per
riregolamentare"; che favorisce il bilancio dello stato in
pareggio, e però vagheggia una
qualche redistribuzione del reddito;
che concentra la critica
alla finanza nella domanda di una mera regolamentazione).
Il socialliberismo, si badi, è cosa ben diversa dal liberalsocialismo (la
tradizione di Ernesto Rossi, Paolo Sylos Labini, o di Norberto Bobbio), ben più
radicale nella sua critica al capitalismo. Neoliberismo e socialliberismo sono
approcci irriducibili l'uno all'altro. La critica al pensiero dominante non può
stare sotto il cappello della opposizione a un presunto pensiero unico. La
critica in economia deve essere aggiornata, ma deve dunque essere molto più
radicale, andando all'origine della debolezza, non solo dei filoni (tra loro
conflittuali) del mainstream, ma anche delle varie eterodossie. E' un fatto che
a uscire con le ossa rotte è stato più il socialliberismo che il neoliberismo,
che ha saputo cambiare pelle; e che l'eterodossia ha saputo opporre poco più
che diverse forme del "ritorno a".
2. Non credo peraltro
neppure che la critica dei rami tra loro antagonisti dell'economia dominante
possa partire dai "fondamenti etici" della riflessione economica e
sociale. Il tema è
senz'altro importante, ma una rinnovata vitalità del pensiero economico
sta non solo nel ripensarsi come scienza sociale, ma piuttosto e in primo luogo
nella capacità di legarsi alle contraddizioni della società, quindi al
conflitto di classe, prendendo finalmente sul serio le questioni del genere e
della natura. Su questo il Manifesto è reticente, impiegando una terminologia
discutibile come quella che fa riferimento vago a "gruppi sociali",
"persone", e simili.
3. L'elencazione delle teorie
alternative nel Manifesto
è povera
e inaccettabile. L'approccio
marxiano è in continuità, ma altrettanto
e ancor più in discontinuità, con l'approccio classicoricardiano. L'etichetta
"keynesiano" del Manifesto è poi troppo vaga. E' semmai compito
urgente aggiornare la critica al keynesismo "bastardo", una categoria
che oggi include al suo interno anche gran parte dell'approccio "new
Keynesian", e in larga parte contamina approcci una volta eterodossi come
la scuola della regolazione di origine francese. Tutti filoni che non a caso
confluiscono in larga parte nel socialliberismo.
4. L'assunzione
dell'analisi di genere è ormai merce corrente anche nella riflessione
dominante. Lo stesso (soprattutto se si fa riferimento all' imperfezionismo) si
deve dire di molti dei punti richiamati nel Manifesto: sensibilità ambientale, lotta alla diseguaglianza,
regolamentazione della finanza, controllo della globalizzazione, e così via. Il
punto è che l'economia alternativa ai due corni attuali del mainstream
non può non essere, insieme, critica del capitalismo (dunque del
mercato), che distrugge le fonti primarie della ricchezza (l'essere umano e la
natura), e critica del patriarcato.
5. La richiesta di un
"diritto di tribuna" per tutti a me pare debolissima. Non si tratta
di chiedere che vi sia "pluralismo": questo il pensiero dominante lo
concede con facilità. Ad esempio nella forma di una stanza
ogni 100 nei
convegni delle associazioni internazionali più
prestigiose; o della considerazione delle riviste
eterodosse, ma come pubblicazioni di serie C o D. Non è sufficiente
chiedere più attenzione
o spazio: la
risposta è pronta,
visto che i
mainstream, neoclassico e
imperfezionista, includono al loro
interno ogni questione e si pretendono come sempre neutrali. Occorre invece
affermare con forza la natura plurale della ricerca, un tema trascurato e
vitale persino all'interno della eterodossia. Occorre rivendicare che la
pluralità delle teorie, come anche, la storia dell'economia politica, facciano
parte integrante della formazione di base nell'università (e nella scuola
superiore), e che ne sia richiesta obbligatoriamente la conoscenza nelle
procedure concorsuali per accedere alla professione dell'economista, fino alla
nuova definizione di quelli che devono
essere i saperi
minimali necessari. Così
come occorre riconoscere
che, per dire,
uno sraffiano non è un buon
referee di un marxista, e
viceversa, un keynesiano di un neoclassico, e viceversa, e così via. Lo stesso
sistema del referaggio in parte penalizza la ricerca originale e innovativa. Mi
rendo conto di enunciare un problema e non ancora una soluzione: ma il problema
è serio e urgente, e va riconosciuto come tale. Si deve contrastare alla radice
la selezione solo tramite metodi quantitativibibliometrici,
così come l'idea che sia insensata una riproduzione delle "scuole" di
pensiero (pur nel loro necessario e aperto rinnovamento). Bisogna evitare di
limitarsi a invocare una generica "libertà" e il "libero confronto",
e va invece valorizzato il conflitto delle idee a partire dal riconoscimento
della natura problematica in cui si trova oggi la riflessione contemporanea
sull'economia tutta intera, una vera nuova "crisi della teoria
economica".
6. In effetti, la
crisi sistemica del capitalismo che stiamo vivendo si accompagna per
riprendere Joan Robinson ad una "terza" crisi della teoria economica
(la prima del nuovo millennio), che certo
non lascia indenni
le eterodossie. Basti
vedere la loro
analisi della crisi.
Andando necessariamente con l'accetta, si può dire che esse partono
dall'idea che dagli anni 1979/80 il capitalismo sia stato sostanzialmente
stagnazionistico e la sua crescita asfittica, e che le politiche
economiche siano state
monetariste o liberiste
tout court. Magari
poi ci si
divide tra chi, sottolineando le
cause "reali", privilegia
il deterioramento distributivo (i
"bassi salari"), o
chi piuttosto insiste sulla
caduta tendenziale del
saggio del profitto.
Chi ragiona così
ritiene che basterebbero le
categorie degli anni Sessanta e Settanta, e magari un ritorno alla Golden Age
(età di ferro per i lavoratori per buona parte della sua durata). In realtà,
gli anni Novanta hanno visto emergere un "nuovo" capitalismo spesso
dinamico, e una "nuova" politica economica certamente interventista. Il
"nuovo" capitalismo è vissuto, nel capitalismo anglosassone, sulla
terna lavoratore traumatizzato,
risparmiatore maniacaledepressivo, consumatore
indebitato; e altrove,
come in Europa, Asia etc., su
quel neomercantilismo che si sostiene sulle esportazioni nette, in ultima
istanza verso lo
stesso capitalismo anglosassone. Il
"nuovo"
capitalismo non avrebbe
potuto decollare se non grazie ad una politica economica molto attiva,
di cui parte essenziale era una espansione endogena dell'offerta di moneta (la
Banca Centrale come prestatore "di prima istanza", per riprendere la
felice espressione di De Cecco) che consentiva la inflazione dei capital asset. Siamo ben
oltre qualsiasi monetarismo,
in una sorta di
paradossale keynesismo privatizzato
e "finanziario", costretto a produrre e riprodurre bolle per
sostenere il consumo "autonomo" come traino ultimo
della domanda. Dinamiche
finanziarie che si
traducevano, attraverso la
nuova governance delle imprese e le politiche industriali, in una
drammatica destrutturazione del mondo del lavoro per il tramite di una inedita
"centralizzazione senza concentrazione". La compressione dei
disavanzi pubblici si è necessariamente tradotta in una espansione del debito
privato, che ha nutrito
l'instabilità repressa, alla
fine insostenibile, del
capitalismo dell'era della
Grande Moderazione. E' un
money manager capitalism
(altrove l'ho chiamato
il capitalismo dei
fondi pensione) che ha di fatto incluso in modo subalterno le "famiglie"
e il mondo del lavoro: una vera e propria "sussunzione reale del lavoro
alla finanza e al debito".
7. In sintesi: ci
vorrebbe non un manifesto per la "libertà" del pensiero economico, ma
un manifesto che inviti il pensiero economico a tornare ad essere
"economia politica", e l'economia politica ad essere economia
politica "critica". Perché la
libertà non viene mai concessa:
è l'esito, sempre temporaneo, di una lotta. La libertà e
la criticità del pensiero economico richiedono di intervenire non solo andando
oltre la rivendicazione del mero pluralismo, ma anche affrontando di petto i
nodi della didattica dell'economia e della selezione degli economisti.
8. Giusto quanto
precede è chiaro
che un approccio
plurale al pensiero
economico non può approdare ad una unica
"agenda". Gli interessanti stimoli che contiene il Manifesto mi
paiono da questo punto di vista non soltanto ancora troppo generici (e in
questo condivisibili da larga parte degli stessi autori, non solo
imperfezionisti, ma anche strettamente neoclassici), ma anche troppo segnati
dall'umanesimo (globalizzazione dal volto umano, umanesimo del lavoro etc.; il
dubbio richiamo al "bene comune" e alle "persone"). Del
tutto illusoria poi la pretesa volontà di separare il mercato dalla relazione
sociale capitalistica: è possibile che col primo si debba convivere a lungo, ma
allora anche con la seconda, e quel poco di buono che ne può uscire dipende
anche qui dal conflitto.
9. Per mio conto, non
solo si può, ma si deve partire dal lavoro. Il Manifesto lo definisce innanzi
tutto come fonte di reddito, e poi come "strumento" di formazione ed
emancipazione sociale e civile. Mi pare davvero troppo poco. E poi, lungi
dall'essere fonte di conoscenza e relazioni sociali, il lavoro è oggi il luogo
dell'espropriazione della conoscenza e dell'isolamento, che si mascherano per
l'opposto: e dove nuovi saperi e socialità emergono, è perché essi sono
controllabili su scala sistemica. Non è una perversione, ma è un dato
costitutivo della relazione sociale capitalistica. Si dovrebbe partire dal dato
più eclatante e scandaloso della società presente. Diciamolo una buona
volta. Il "lavoro" non
esiste. Esistono le
lavoratrici e i
lavoratori, che vendono
forzalavoro e prestano lavoro
vivo sotto il comando
capitalistico. La loro
socialità e la
loro conoscenza si ricostruiscono dentro un conflitto per la
trasformazione della realtà sociale. Per questo, il punto di vista del lavoro
deve essere autonomo, e rivendicato come tale.
10. Tutte le altre
questioni si dovrebbero fare ruotare attorno a questa contraddizione di base,
evitando di concentrarsi solo sugli effetti a valle
("globalizzazione", "bassi salari", etc.), su cui molti
sono gli equivoci.
La crisi recente segnala un punto su cui tutte le teorie
economiche, incluse quelle eterodosse,
sono in grave
ritardo: l'indagine del
rapporto tra finanza
e produzione; cioè
della relazione stretta che
si dà tra
comando sul denaro, precarizzazione del
lavoro, inclusione
nell'orizzonte capitalistico delle condizioni della riproduzione dei soggetti
umani (dove cruciale è l'aspetto del genere come quello della natura). Esistono
buone analisi parziali dei singoli snodi, ma non un approccio che integri le
varie dimensioni. Questa è una sfida per tutte le eterodossie, e richiede una
autentica innovazione teorica.
11. La lotta per il
controllo dei soggetti umani sul loro destino passa da una scienza sociale che
sappia di nuovo partire senza vergogna dal conflitto sociale, e che sappia ad
un tempo ripensare l'intervento pubblico (e statale) all'insegna della
socializzazione dell'investimento (in senso lato), della socializzazione della
banca (e della finanza), e della socializzazione dell'occupazione (non come
mero sostegno di ultima istanza all'impiego, ma come autentica creazione di
lavoro interna a un "piano del lavoro"; e come costituzione di un
"esercito del lavoro"). Una "agenda" che trova nella riflessione
di Hyman Minsky un punto di riferimento ineludibile, che va ben oltre il mero
"ritorno a Keynes" (è anzi, in un certo senso, una critica del
keynesismo), e che privilegia teoricamente una ricostruzione analitica che deve
includere la moneta all'interno dell'astrazione di base per analizzare le
economie in cui viviamo (a differenza, si deve sottolineare, di alcuni filoni
dell'eterodossia). Che sappia perciò porre di nuovo la questione di
"cosa", "quanto" e "come" produrre. Facendo
uscire la rivendicazione di uno sviluppo di qualità, e la critica di una
crescita meramente quantitativa, fuori dal limbo delle buone intenzioni e di
una presunta indipendenza dal nodo del conflitto tra le classi.
Riccardo Bellofiore
Dipartimento di Scienze Economiche "Hyman P.
Minsky" Università di Bergamo
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