mercoledì 25 maggio 2016

“Manifesto per la libertà del pensiero economico contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica”. Una adesione critica.* - Riccardo Bellofiore



Aderisco al Manifesto per la libertà del pensiero economico, perché segna una importante messa in discussione del modo con cui viene condotta la ricerca economica oggi. Credo però giusto aggiungere alla firma alcuni commenti e anche alcune critiche, visto che non pochi sono i punti di dissenso con il Manifesto. 

1.  Non credo che gli ultimi 30 anni abbiano visto la rinascita di un "fondamentalismo liberista". Questa è stata l'apparenza ideologica. Abbiamo vissuto una fase niente affatto caratterizzata dal laisser faire. Il pensiero dominante si è piuttosto teoricamente diviso tra ripresa dell'approccio in ultima istanza walrasiano, sempre meno rilevante, e imperfezionismo dei dissenzienti dal mainstream neoclassico puro e duro. Corrispettivamente si è avuta la spaccatura tra neoliberismo (liberista sul mercato del lavoro, ma non sul mercato dei beni e dei servizi; tutto meno che ostile davvero ai disavanzi di bilancio; favorevole ai monopoli, come testimoniano le figure stesse di Berlusconi o di Bush;  etc.) e social­liberismo (che oppone mercato a capitale, che vuole "liberalizzare per ri­regolamentare";  che   favorisce il bilancio dello stato in pareggio, e  però vagheggia   una   qualche redistribuzione del reddito;   che concentra   la   critica   alla   finanza   nella domanda di una mera regolamentazione). Il social­liberismo, si badi, è cosa ben diversa dal liberalsocialismo (la tradizione di Ernesto Rossi, Paolo Sylos Labini, o di Norberto Bobbio), ben più radicale nella sua critica al capitalismo. Neoliberismo e social­liberismo sono approcci irriducibili l'uno all'altro. La critica al pensiero dominante non può stare sotto il cappello della opposizione a un presunto pensiero unico. La critica in economia deve essere aggiornata, ma deve dunque essere molto più radicale, andando all'origine della debolezza, non solo dei filoni (tra loro conflittuali) del mainstream, ma anche delle varie eterodossie. E' un fatto che a uscire con le ossa rotte è stato più il social­liberismo che il neoliberismo, che ha saputo cambiare pelle; e che l'eterodossia ha saputo opporre poco più che diverse forme del "ritorno a".

2.  Non credo peraltro neppure che la critica dei rami tra loro antagonisti dell'economia dominante possa partire dai "fondamenti etici" della riflessione economica e sociale.  Il tema  è  senz'altro importante, ma una rinnovata vitalità del pensiero economico sta non solo nel ripensarsi come scienza sociale, ma piuttosto e in primo luogo nella capacità di legarsi alle contraddizioni della società, quindi al conflitto di classe, prendendo finalmente sul serio le questioni del genere e della natura. Su questo il Manifesto è reticente, impiegando una terminologia discutibile come quella che fa riferimento vago a "gruppi sociali", "persone", e simili.

3.  L'elencazione   delle   teorie   alternative   nel   Manifesto   è   povera   e   inaccettabile. L'approccio marxiano  è in continuità, ma altrettanto e ancor più in discontinuità, con l'approccio classicoricardiano. L'etichetta "keynesiano" del Manifesto è poi troppo vaga. E' semmai compito urgente aggiornare la critica al keynesismo "bastardo", una categoria che oggi include al suo interno anche gran parte dell'approccio "new Keynesian", e in larga parte contamina approcci una volta eterodossi come la scuola della regolazione di origine francese. Tutti filoni che non a caso confluiscono in larga parte nel social­liberismo.

4.  L'assunzione dell'analisi di genere è ormai merce corrente anche nella riflessione dominante. Lo stesso (soprattutto se si fa riferimento all' imperfezionismo) si deve dire di molti dei punti richiamati nel Manifesto: sensibilità  ambientale, lotta alla diseguaglianza, regolamentazione della finanza, controllo della globalizzazione, e così via. Il punto è che l'economia alternativa ai due corni attuali del  mainstream  non può non essere, insieme, critica del capitalismo (dunque del mercato), che distrugge le fonti primarie della ricchezza (l'essere umano e la natura), e critica del patriarcato.

5.  La richiesta di un "diritto di tribuna" per tutti a me pare debolissima. Non si tratta di chiedere che vi sia "pluralismo": questo il pensiero dominante lo concede con facilità. Ad esempio nella forma di una   stanza   ogni   100   nei   convegni   delle   associazioni   internazionali   più   prestigiose;   o   della considerazione delle riviste eterodosse, ma come pubblicazioni di serie C o D. Non è sufficiente chiedere   più   attenzione   o   spazio:   la   risposta   è   pronta,   visto   che   i  mainstream, neoclassico   e imperfezionista,  includono al loro interno ogni questione e si pretendono come sempre neutrali. Occorre invece affermare con forza la natura plurale della ricerca, un tema trascurato e vitale persino all'interno della eterodossia. Occorre rivendicare che la pluralità delle teorie, come anche, la storia dell'economia politica, facciano parte integrante della formazione di base nell'università (e nella scuola superiore), e che ne sia richiesta obbligatoriamente la conoscenza nelle procedure concorsuali per accedere alla professione dell'economista, fino alla nuova definizione di quelli che devono   essere   i   saperi   minimali   necessari.  Così  come   occorre   riconoscere   che,   per   dire,   uno sraffiano non è un buon  referee  di un marxista, e viceversa, un keynesiano di un neoclassico, e viceversa, e così via. Lo stesso sistema del referaggio in parte penalizza la ricerca originale e innovativa. Mi rendo conto di enunciare un problema e non ancora una soluzione: ma il problema è serio e urgente, e va riconosciuto come tale. Si deve contrastare alla radice la selezione solo tramite metodi  quantitativi­bibliometrici, così come l'idea che sia insensata una riproduzione delle "scuole" di pensiero (pur nel loro necessario e aperto rinnovamento). Bisogna evitare di limitarsi a invocare una generica "libertà" e il "libero confronto", e va invece valorizzato il conflitto delle idee a partire dal riconoscimento della natura problematica in cui si trova oggi la riflessione contemporanea sull'economia tutta intera, una vera nuova "crisi della teoria economica".

6.  In effetti, la crisi sistemica del capitalismo che stiamo vivendo si accompagna ­ per riprendere Joan Robinson ­ad una "terza" crisi della teoria economica (la prima del nuovo millennio), che certo   non   lascia   indenni   le   eterodossie.   Basti   vedere   la   loro   analisi   della   crisi.   Andando necessariamente con l'accetta, si può dire che esse partono dall'idea che dagli anni 1979­/80 il capitalismo sia stato sostanzialmente stagnazionistico e la sua crescita asfittica, e che le politiche economiche   siano   state   monetariste   o   liberiste   tout   court.   Magari   poi   ci   si   divide   tra   chi, sottolineando   le   cause   "reali",   privilegia   il   deterioramento   distributivo   (i  "bassi  salari"),   o   chi piuttosto   insiste   sulla   caduta   tendenziale   del   saggio   del   profitto.  Chi   ragiona   così  ritiene   che basterebbero le categorie degli anni Sessanta e Settanta, e magari un ritorno alla Golden Age (età di ferro per i lavoratori per buona parte della sua durata). In realtà, gli anni Novanta hanno visto emergere un "nuovo" capitalismo spesso dinamico, e una "nuova" politica economica certamente interventista. Il "nuovo" capitalismo è vissuto, nel capitalismo anglosassone, sulla terna lavoratore traumatizzato,   risparmiatore   maniacale­depressivo,   consumatore   indebitato;   e   altrove,   come   in Europa, Asia etc., su quel neomercantilismo che si sostiene sulle esportazioni nette, in ultima istanza   verso   lo   stesso   capitalismo   anglosassone.   Il   "nuovo"   capitalismo   non   avrebbe   potuto decollare se non grazie ad una politica economica molto attiva, di cui parte essenziale era una espansione endogena dell'offerta di moneta (la Banca Centrale come prestatore "di prima istanza", per riprendere la felice espressione di De Cecco) che consentiva la inflazione dei  capital asset. Siamo  ben  oltre  qualsiasi  monetarismo,  in  una sorta  di  paradossale  keynesismo  privatizzato  e "finanziario", costretto a produrre e riprodurre bolle per sostenere il consumo "autonomo" come traino   ultimo   della   domanda.   Dinamiche   finanziarie   che   si   traducevano,   attraverso   la   nuova governance delle imprese e le politiche industriali, in una drammatica destrutturazione del mondo del lavoro per il tramite di una inedita "centralizzazione senza concentrazione". La compressione dei disavanzi pubblici si è necessariamente tradotta in una espansione del debito privato, che ha nutrito   l'instabilità   repressa,   alla   fine   insostenibile,   del   capitalismo   dell'era   della   Grande Moderazione.   E'  un  money  manager   capitalism  (altrove  l'ho   chiamato   il  capitalismo   dei  fondi pensione) che ha di fatto incluso in modo subalterno le "famiglie" e il mondo del lavoro: una vera e propria "sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito".

7.  In sintesi: ci vorrebbe non un manifesto per la "libertà" del pensiero economico, ma un manifesto che inviti il pensiero economico a tornare ad essere "economia politica", e l'economia politica ad essere economia politica "critica".  Perché   la  libertà   non viene mai  concessa:  è   l'esito,  sempre temporaneo, di una lotta. La libertà e la criticità del pensiero economico richiedono di intervenire non solo andando oltre la rivendicazione del mero pluralismo, ma anche affrontando di petto i nodi della didattica dell'economia e della selezione degli economisti.

8.  Giusto   quanto   precede   è   chiaro   che   un   approccio   plurale   al   pensiero   economico   non   può approdare ad una unica "agenda". Gli interessanti stimoli che contiene il Manifesto mi paiono da questo punto di vista non soltanto ancora troppo generici (e in questo condivisibili da larga parte degli stessi autori, non solo imperfezionisti, ma anche strettamente neoclassici), ma anche troppo segnati dall'umanesimo (globalizzazione dal volto umano, umanesimo del lavoro etc.; il dubbio richiamo al "bene comune" e alle "persone"). Del tutto illusoria poi la pretesa volontà di separare il mercato dalla relazione sociale capitalistica: è possibile che col primo si debba convivere a lungo, ma allora anche con la seconda, e quel poco di buono che ne può uscire dipende anche qui dal conflitto.

9.  Per mio conto, non solo si può, ma si deve partire dal lavoro. Il Manifesto lo definisce innanzi tutto come fonte di reddito, e poi come "strumento" di formazione ed emancipazione sociale e civile. Mi pare davvero troppo poco. E poi, lungi dall'essere fonte di conoscenza e relazioni sociali, il lavoro è oggi il luogo dell'espropriazione della conoscenza e dell'isolamento, che si mascherano per l'opposto: e dove nuovi saperi e socialità emergono, è perché essi sono controllabili su scala sistemica. Non è una perversione, ma è un dato costitutivo della relazione sociale capitalistica. Si dovrebbe partire dal dato più eclatante e scandaloso della società presente. Diciamolo una buona volta.  Il  "lavoro"   non   esiste.   Esistono   le   lavoratrici  e   i  lavoratori,   che   vendono   forza­lavoro   e prestano   lavoro   vivo sotto   il   comando   capitalistico.  La   loro   socialità   e   la   loro   conoscenza   si ricostruiscono dentro un conflitto per la trasformazione della realtà sociale. Per questo, il punto di vista del lavoro deve essere autonomo, e rivendicato come tale.

10.  Tutte le altre questioni si dovrebbero fare ruotare attorno a questa contraddizione di base, evitando di concentrarsi solo sugli effetti a valle ("globalizzazione", "bassi salari", etc.), su cui molti sono gli equivoci.
La crisi recente segnala un punto su cui tutte le teorie economiche, incluse quelle eterodosse,   sono   in   grave  ritardo:   l'indagine   del  rapporto   tra  finanza  e  produzione;   cioè   della relazione   stretta   che   si   dà   tra   comando   sul   denaro,   precarizzazione   del   lavoro,   inclusione nell'orizzonte capitalistico delle condizioni della riproduzione dei soggetti umani (dove cruciale è l'aspetto del genere come quello della natura). Esistono buone analisi parziali dei singoli snodi, ma non un approccio che integri le varie dimensioni. Questa è una sfida per tutte le eterodossie, e richiede una autentica innovazione teorica.

11.  La lotta per il controllo dei soggetti umani sul loro destino passa da una scienza sociale che sappia di nuovo partire senza vergogna dal conflitto sociale, e che sappia ad un tempo ripensare l'intervento pubblico (e statale) all'insegna della socializzazione dell'investimento (in senso lato), della socializzazione della banca (e della finanza), e della socializzazione dell'occupazione (non come mero sostegno di ultima istanza all'impiego, ma come autentica creazione di lavoro interna a un "piano del lavoro"; e come costituzione di un "esercito del lavoro"). Una "agenda" che trova nella riflessione di Hyman Minsky un punto di riferimento ineludibile, che va ben oltre il mero "ritorno a Keynes" (è anzi, in un certo senso, una critica del keynesismo), e che privilegia teoricamente una ricostruzione analitica che deve includere la moneta all'interno dell'astrazione di base per analizzare le economie in cui viviamo (a differenza, si deve sottolineare, di alcuni filoni dell'eterodossia). Che sappia perciò porre di nuovo la questione di "cosa", "quanto" e "come" produrre. Facendo uscire la rivendicazione di uno sviluppo di qualità, e la critica di una crescita meramente quantitativa, fuori dal limbo delle buone intenzioni e di una presunta indipendenza dal nodo del conflitto tra le classi.

Riccardo Bellofiore                                                                                                                                                                     
Dipartimento di Scienze Economiche "Hyman P. Minsky" Università di Bergamo 
                                         

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