domenica 8 maggio 2016

CONCORRENZA, SAGGIO DEL PROFITTO E I PREZZI DI PRODUZIONE* - Ascanio Bernardeschi




Poniamo che per mettere in movimento un certo numero di lavoratori, che costano 100 di capitale variabile e producono 100 di plusvalore (saggio del plusvalore uguale al 100%), occorra una dotazione di capitale costante di 200. Se in un anno metto in atto un solo ciclo di produzione e vendita, il mio profitto annuo sarà di 100Pv/(200C+100V)=33,3% circa. Se il prodotto invece viene lavorato e venduto in un mese, al termine di quel mese ho riprodotto i fattori di produzione (mezzi di produzione e salari) senza dover ricorrere a una nuova anticipazione di capitale e ho ugualmente una produzione di 200C+100V+100Pv=400. Però con lo stesso capitale anticipato posso ripetere il ciclo produttivo 12 volte in un anno. Il plusvalore complessivo prodotto ogni anno è 100*12=1.200, e il saggio del profitto è 1.200/(200+100)=400% pur restando il 100% il saggio del plusvalore.


Quando nell'analisi si introducono i molti capitali in concorrenza fra di loro alla ricerca della massima valorizzazione, la legge del valore si afferma, redistribuendo fra i vari capitalisti, nella forma di profitto, il plusvalore prodotto. Cambiano i singoli prezzi, ma a livello aggregato si conservano le leggi formulate nel precedente livello di astrazione, quello del capitale in generale.



Il metodo di Marx consiste nel partire dai dati caotici della realtà fenomenica per scoprire i nessi tra di loro in una discesa verso rappresentazioni sempre più schematiche, semplici e astratte, fino a giungere al nocciolo analitico elementare, la merce. Da qui inizia la sua esposizione, un percorso a ritroso per risalire per gradi, introducendo sempre nuove complicazioni, verso la complessità del reale, verso la forma con cui si presentano le categorie economiche alla superficie della società, questa volta non come descrizione di un insieme caotico di dati, ma come un sistema ordinato secondo una determinata struttura logica, “come una totalità ricca di molte determinazioni e rapporti” [1].

Nei precedenti articoli si è riferito l'esposizione di Marx, dalla “cellula elementare” della nostra società, la merce, fino al capitale in generale (libro I della sua opera principale).

Nel libro III [2], pubblicato postumo da Engels, vengono introdotti i vari capitali in concorrenza fra di loro, che si muovono alla ricerca del massimo profitto. In questo nuovo quadro la legge del valore si afferma attraverso una mediazione complessa, e una procedura per derivare i prezzi di produzione da una trasformazione dei valori.

Per la coscienza del capitalista, il costo della merce prodotta corrisponde al valore del capitale consumato per la sua produzione. Cioè al valore del capitale costante consumato più quello del capitale variabile (C+V). Marx denomina prezzo di costotale importo. Nel prezzo di costo rientrano quindi il valore delle materie trasformate, la quota di strumenti di produzione consumati (per esempio il 10% del valore dei macchinari ecc. se ogni anno viene consumato un decimo del loro valore iniziale) [3] e il costo della forza-lavoro sotto forma di salario. Il plusvalore invece non vi figura, in quanto non costa niente al capitalista. Se poniamo il prezzo di costo K=C+V, allora il valore della merce sarà K+Pv. Il plusvalore appare quindi agli occhi del capitalista come l'incremento di valore del suo capitale che si verifica per effetto della produzione effettuata spendendo produttivamente K, a prescindere dalla distinzione tra capitale costante e capitale variabile.

In tale veste, il plusvalore assume la forma fenomenica di profitto, cioè di una crescita del valore del capitale anticipato. Se la merce viene venduta al suo valore, il profitto sarà pari a Pv, che scaturisce dal lavoro non pagato, ma tale circostanza non emerge nella coscienza del capitalista. Per poter mettere in atto il lavoro creatore di plusvalore, egli deve anche impiegare i necessari mezzi di produzione e il profitto è come se scaturisse dall'impiego di tutto il capitale e non solo dall'uso della forza-lavoro.

Non è il saggio del plusvalore Pv/v, ma il saggio del profitto, Pv/(C+V), che rappresenta l'indice di valorizzazione del suo capitale, l'eccedenza di valore del prodotto rapportata al valore del capitale impiegato.

“Poiché il capitalista può sfruttare il lavoro soltanto anticipando il capitale costante, e poiché può valorizzare quest'ultimo soltanto anticipando il capitale variabile, tutti questi elementi del capitale si presentano nella sua concezione come equivalenti, e ciò tanto più in quanto la misura reale del suo guadagno è determinata dal rapporto non con il capitale variabile, ma con il capitale complessivo, non dal saggio del plusvalore ma dal saggio del profitto”

Nella concorrenza fra capitali, inoltre si verifica che in generale i prezzi di mercato si differenziano dai valori, pur oscillando intorno ad essi. Al singolo, che può conseguire profitti anche acquistando sottocosto o vendendo a sovrapprezzo, appare che il profitto scaturisca dalla circolazione, perfino “dal vicendevole raggiro” fra capitalisti e non “dal diretto sfruttamento del lavoro”.

Viene offuscata quindi la sua natura di lavoro non pagato. Tanto più che concorre alla determinazione del saggio del profitto anche la velocità di circolazione del capitale [4].

Sappiamo invece che l'unica fonte del profitto dei capitalisti è il plusvalore, che dalla circolazione non può scaturire nessun valore ma tutt'al più una sua redistribuzione. I prezzi di mercato determinano questa redistribuzione fra capitalisti sulla base del movimento della concorrenza fra capitali e della legge della domanda e dell'offerta.

Supponiamo ora che due rami di industria, producenti rispettivamente smartphone e acciaio, abbiano una stessa dotazione complessiva di capitale, ma una diversa composizione: il settore dei telefonini un capitale costante pari a 600 e un capitale variabile pari a 400, e il settore dell'acciaio un capitale costante di 800 e uno variabile di 200. Entrambi i settori hanno quindi una dotazione di capitale di 1.000, nonostante che la composizione di tali capitali C/V sia rispettivamente pari a 1,5 e 4.

Se il saggio del plusvalore è uniforme, poniamo uguale al 100 per cento (cioè metà della giornata lavorativa serve a riprodurre i salari e l'altra metà a produrre plusvalore), il valore degli smart sarà 600C+400V+400Pv=1.400 e i capitalisti di quel ramo si vedranno ricompensati con un plusvalore di 400 e un saggio del profitto pari a 400/1000=40%, mentre il valore dell'acciaio sarà 800+200+200=1.200, il plusvalore in quel ramo 200 e il saggio del profitto del 20%.

Ma il saggio del profitto è l'elemento strategico per le scelte dei capitalisti. Le merci vengono scambiate come “prodotti di capitali” che “pretendono una partecipazione alla massa del plusvalore” in proporzione alla rispettiva grandezza, e si attendono un rendimento non inferiore a quello medio della società. Così un certo numero di produttori di acciaio, vista la maggiore redditività della produzione di telefonini, si sposterà verso quel settore, incrementandone l'offerta e determinandone una riduzione del prezzo di mercato e con essa dei profitti. Contemporaneamente diminuirà l'offerta di acciaio e quindi crescerà il suo prezzo di mercato. I capitalisti avranno interesse a proseguire tale movimento fintanto che i prezzi non raggiungeranno un livello tale da uniformare tendenzialmente il saggio del profitto. Anche se vi fossero degli ostacoli alla migrazione dei capitali da un ramo all'altro, è da supporre che le cessazioni di attività per fallimento o altro saranno maggiori nell'industria meno profittevole, mentre gli ingressi di nuovi capitali saranno maggiori in quella più redditizia, determinando ugualmente modifiche dell'offerta tali da avvicinare, sia pure più lentamente, i rispettivi saggi del profitto a un profitto medio. I prezzi di mercato tenderanno ad oscillare attorno a questi nuovi centri di gravità denominati prezzi di produzione, in grado di eguagliare i saggi settoriali del profitto.

La procedura indicata da Marx per la loro determinazione è la seguente.

In primo luogo si determina il saggio medio del profitto in tutto il sistema, rapportando il plusvalore complessivamente prodotto, nel nostro caso 400+200=600, al capitale complessivamente impiegato, 1.000+1.000=2.000. Il saggio medio nel nostro caso sarà pari a 600/2.000=30%.

Se questa è la retribuzione media del capitale, i capitalisti del primo settore riceveranno un profitto pari al 30% di 1.000, cioè 300. Ugualmente i capitalisti del secondo.

Il prezzo di produzione dei telefonini sarà quindi pari a 600+400+300=1.300. Analogamente il prezzo di produzione dell'acciaio sarà 800+200+3000=1.300. In questo modo il prezzo di costo resta invariato, mentre il plusvalore complessivo prodotto 400+200, pare ripartito fra i capitalisti in proporzione al capitale complessivo investito, come avverrebbe in una società per azioni. Alcuni capitalisti realizzeranno un profitto inferiore al plusvalore prodotto, mentre altri uno superiore, in un gioco a somma zero, nel senso che ciò che alcuni capitalisti guadagnano, è perduto da altri. Nel nostro caso da una parte si produce un plusvalore di 400, ma se ne realizza solo 300. La perdita di 100 va a favore dell'altra industria in cui si produce 200 ma si realizza 300.

Il saggio generale del profitto, e quindi anche il profitto medio dei singoli capitalisti, dipende perciò oltre che dalle condizioni specifiche di sfruttamento del lavoro nelle rispettive imprese, anche da quelle generali. Se un capitalista è più bravo della media a sfruttare i lavoratori o a imbrogliare gli altri capitalisti con cui è in relazione d'affari, realizzerà un extraprofitto, se è meno bravo realizzerà un profitto inferiore a quello medio. Anche le variazioni di prezzo del capitale costante, pur non incidendo sul plusvalore e sul saggio del plusvalore, incidono sul saggio del profitto.

Si eclissa così la circostanza che il plusvalore è prodotto solo dal lavoro non pagato, e si determina l'illusione che i profitti si spieghino con l'abilità dell'imprenditore o come un contributo del capitale investito, una sua retribuzione. “Il plusvalore, una volta assunta la sua nuova forma di profitto, rinnega la sua origine e diviene irriconoscibile”, pur essendo i profitti solo una forma fenomenica del plusvalore che, attraverso la mediazione del mercato, viene ripartito fra i capitalisti in proporzione al rispettivo capitale investito.

I manoscritti per il Libro III del Capitale vanno oltre, introducendo, oltre al capitale industriale, il capitale commerciale, quello finanziario e la proprietà fondiaria, quindi le relazioni fra capitalista e lavoratore e fra i vari tipi di capitalisti giungendo alla conclusione che anche i profitti dei commercianti, l'interesse e la rendita non sono altro che una redistribuzione del plusvalore fra i vari capitalisti.

Gli agenti economici ritengono che il profitto sia originato non dalla loro partecipazione al plusvalore complessivo, ma da un'aggiunta che essi fanno al prezzo di costo delle merci e percepiscono solo le categorie economiche a loro visibili (prezzi, profitti, salari, interessi, rendita), ignorando che tali categorie non sono altro che forme fenomeniche trasfigurate del valore e del plusvalore. La coscienza del capitalista volgare coincide con la coscienza dell'economista volgare il quale pertanto nega che il valore delle merci sia determinato dal tempo di lavoro.

La teoria del valore è uno strumento per svelare i rapporti sociali antagonisti e una formidabile arma contro l'economia politica borghese. Non c'è da stupirsi quindi se un enorme fuoco di fila è stato aperto per confutare questo scandaloso impianto, il cui l'aspetto più contestato, per mettere in questione la consistenza complessiva del sistema di analisi marxiano, è proprio la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Ma di questo parleremo nel prossimo numero.

Riferimenti:
[1] K. Marx, Introduzione alla critica dell'economia politica, a cura di Marcello Musto, trad. di Giorgio Backhaus, ed. Quodlibet, 2010.
[2] K. Marx, Il Capitale, libro III, ed Riuniti, Roma, 1965.
[3] Per semplicità di esposizione d'ora in poi non tratteremo il capitale fisso, quello cioè che viene utilizzato in più cicli produttivi e ogni volta cede solo una frazione del suo valore al prodotto. Presupporremo che tutto il capitale costante viene consumato e reintegrato in un processo produttivo. Marx mostra che ciò non altera i risultati dell'analisi.
[4] Per comprendere quanto asserito facciamo un esempio. Poniamo che per mettere in movimento un certo numero di lavoratori, che costano 100 di capitale variabile e producono 100 di plusvalore (saggio del plusvalore uguale al 100%), occorra una dotazione di capitale costante di 200. Se in un anno metto in atto un solo ciclo di produzione e vendita, il mio profitto annuo sarà di 100Pv/(200C+100V)=33,3% circa. Se il prodotto invece viene lavorato e venduto in un mese, al termine di quel mese ho riprodotto i fattori di produzione (mezzi di produzione e salari) senza dover ricorrere a una nuova anticipazione di capitale e ho ugualmente una produzione di 200C+100V+100Pv=400. Però con lo stesso capitale anticipato posso ripetere il ciclo produttivo 12 volte in un anno. Il plusvalore complessivo prodotto ogni anno è 100*12=1.200, e il saggio del profitto è 1.200/(200+100)=400% pur restando il 100% il saggio del plusvalore. Nell'illustrazione che segue, per semplicità, si prescinde dalla velocità di circolazione. 

Nessun commento:

Posta un commento