Leggi anche: http://www.lacittafutura.it/economia/la-teoria-marxiana-del-valore-parte-i-a-cosa-serve.html
http://www.lacittafutura.it/economia/la-teoria-marxiana-del-valore-parte-iii-capitale-e-plusvalore.html
http://www.lacittafutura.it/economia/la-teoria-marxiana-del-valore-le-confutazioni.html
http://www.lacittafutura.it/economia/la-teoria-marxiana-del-valore-le-confutazioni.html
Poniamo che per
mettere in movimento un certo numero di lavoratori, che costano 100 di capitale
variabile e producono 100 di plusvalore (saggio del plusvalore uguale al 100%),
occorra una dotazione di capitale costante di 200. Se in un anno metto in atto
un solo ciclo di produzione e vendita, il mio profitto annuo sarà di
100Pv/(200C+100V)=33,3% circa. Se il prodotto invece viene lavorato e venduto
in un mese, al termine di quel mese ho riprodotto i fattori di produzione
(mezzi di produzione e salari) senza dover ricorrere a una nuova anticipazione
di capitale e ho ugualmente una produzione di 200C+100V+100Pv=400. Però con lo
stesso capitale anticipato posso ripetere il ciclo produttivo 12 volte in un
anno. Il plusvalore complessivo prodotto ogni anno è 100*12=1.200, e il saggio
del profitto è 1.200/(200+100)=400% pur restando il 100% il saggio del
plusvalore.
Quando nell'analisi si introducono i molti capitali in
concorrenza fra di loro alla ricerca della massima valorizzazione, la legge del
valore si afferma, redistribuendo fra i vari capitalisti, nella forma di
profitto, il plusvalore prodotto. Cambiano i singoli prezzi, ma a livello
aggregato si conservano le leggi formulate nel precedente livello di
astrazione, quello del capitale in generale.
Il metodo di Marx consiste nel partire dai dati caotici
della realtà fenomenica per scoprire i nessi tra di loro in una discesa verso
rappresentazioni sempre più schematiche, semplici e astratte, fino a giungere
al nocciolo analitico elementare, la merce. Da qui inizia la sua esposizione,
un percorso a ritroso per risalire per gradi, introducendo sempre nuove
complicazioni, verso la complessità del reale, verso la forma con cui si
presentano le categorie economiche alla superficie della società, questa volta
non come descrizione di un insieme caotico di dati, ma come un sistema ordinato
secondo una determinata struttura logica, “come una totalità ricca di molte
determinazioni e rapporti” [1].
Nei precedenti articoli si è riferito l'esposizione di Marx,
dalla “cellula elementare” della nostra società, la merce, fino al capitale in
generale (libro I della sua opera principale).
Nel libro III [2], pubblicato postumo da Engels, vengono
introdotti i vari capitali in concorrenza fra di loro, che si muovono alla
ricerca del massimo profitto. In questo nuovo quadro la legge del valore si
afferma attraverso una mediazione complessa, e una procedura per derivare i
prezzi di produzione da una trasformazione dei valori.
Per la coscienza del capitalista, il costo della merce
prodotta corrisponde al valore del capitale consumato per la sua produzione.
Cioè al valore del capitale costante consumato più quello del capitale
variabile (C+V). Marx denomina prezzo di costotale importo. Nel
prezzo di costo rientrano quindi il valore delle materie trasformate, la quota
di strumenti di produzione consumati (per esempio il 10% del valore dei
macchinari ecc. se ogni anno viene consumato un decimo del loro valore
iniziale) [3] e il costo della forza-lavoro sotto forma di salario. Il
plusvalore invece non vi figura, in quanto non costa niente al capitalista. Se
poniamo il prezzo di costo K=C+V, allora il valore della merce sarà K+Pv. Il
plusvalore appare quindi agli occhi del capitalista come l'incremento di valore
del suo capitale che si verifica per effetto della produzione effettuata
spendendo produttivamente K, a prescindere dalla distinzione tra capitale
costante e capitale variabile.
In tale veste, il plusvalore assume la forma fenomenica di
profitto, cioè di una crescita del valore del capitale anticipato. Se la merce
viene venduta al suo valore, il profitto sarà pari a Pv, che scaturisce dal
lavoro non pagato, ma tale circostanza non emerge nella coscienza del
capitalista. Per poter mettere in atto il lavoro creatore di plusvalore, egli
deve anche impiegare i necessari mezzi di produzione e il profitto è come se
scaturisse dall'impiego di tutto il capitale e non solo dall'uso della
forza-lavoro.
Non è il saggio del plusvalore Pv/v, ma il saggio del
profitto, Pv/(C+V), che rappresenta l'indice di valorizzazione del suo
capitale, l'eccedenza di valore del prodotto rapportata al valore del capitale
impiegato.
“Poiché il capitalista può sfruttare il lavoro soltanto
anticipando il capitale costante, e poiché può valorizzare quest'ultimo
soltanto anticipando il capitale variabile, tutti questi elementi del capitale
si presentano nella sua concezione come equivalenti, e ciò tanto più in quanto
la misura reale del suo guadagno è determinata dal rapporto non con il capitale
variabile, ma con il capitale complessivo, non dal saggio del plusvalore ma dal
saggio del profitto”
Nella concorrenza fra capitali, inoltre si verifica che in
generale i prezzi di mercato si differenziano dai valori, pur
oscillando intorno ad essi. Al singolo, che può conseguire profitti anche
acquistando sottocosto o vendendo a sovrapprezzo, appare che il profitto
scaturisca dalla circolazione, perfino “dal vicendevole raggiro” fra
capitalisti e non “dal diretto sfruttamento del lavoro”.
Viene offuscata quindi la sua natura di lavoro non pagato.
Tanto più che concorre alla determinazione del saggio del profitto anche la
velocità di circolazione del capitale [4].
Sappiamo invece che l'unica fonte del profitto dei
capitalisti è il plusvalore, che dalla circolazione non può scaturire nessun
valore ma tutt'al più una sua redistribuzione. I prezzi di mercato determinano
questa redistribuzione fra capitalisti sulla base del movimento della
concorrenza fra capitali e della legge della domanda e dell'offerta.
Supponiamo ora che due rami di industria, producenti
rispettivamente smartphone e acciaio, abbiano una stessa dotazione complessiva
di capitale, ma una diversa composizione: il settore dei telefonini un capitale
costante pari a 600 e un capitale variabile pari a 400, e il settore
dell'acciaio un capitale costante di 800 e uno variabile di 200. Entrambi i
settori hanno quindi una dotazione di capitale di 1.000, nonostante che la
composizione di tali capitali C/V sia rispettivamente pari a 1,5 e 4.
Se il saggio del plusvalore è uniforme, poniamo uguale al
100 per cento (cioè metà della giornata lavorativa serve a riprodurre i salari
e l'altra metà a produrre plusvalore), il valore degli smart sarà
600C+400V+400Pv=1.400 e i capitalisti di quel ramo si vedranno ricompensati con
un plusvalore di 400 e un saggio del profitto pari a 400/1000=40%, mentre il
valore dell'acciaio sarà 800+200+200=1.200, il plusvalore in quel ramo 200 e il
saggio del profitto del 20%.
Ma il saggio del profitto è l'elemento strategico per le
scelte dei capitalisti. Le merci vengono scambiate come “prodotti di capitali”
che “pretendono una partecipazione alla massa del plusvalore” in proporzione
alla rispettiva grandezza, e si attendono un rendimento non inferiore a quello
medio della società. Così un certo numero di produttori di acciaio, vista la
maggiore redditività della produzione di telefonini, si sposterà verso quel
settore, incrementandone l'offerta e determinandone una riduzione del prezzo di
mercato e con essa dei profitti. Contemporaneamente diminuirà l'offerta di
acciaio e quindi crescerà il suo prezzo di mercato. I capitalisti avranno
interesse a proseguire tale movimento fintanto che i prezzi non raggiungeranno
un livello tale da uniformare tendenzialmente il saggio del profitto. Anche se
vi fossero degli ostacoli alla migrazione dei capitali da un ramo all'altro, è
da supporre che le cessazioni di attività per fallimento o altro saranno
maggiori nell'industria meno profittevole, mentre gli ingressi di nuovi
capitali saranno maggiori in quella più redditizia, determinando ugualmente
modifiche dell'offerta tali da avvicinare, sia pure più lentamente, i
rispettivi saggi del profitto a un profitto medio. I prezzi di mercato
tenderanno ad oscillare attorno a questi nuovi centri di gravità denominati prezzi
di produzione, in grado di eguagliare i saggi settoriali del profitto.
La procedura indicata da Marx per la loro determinazione è
la seguente.
In primo luogo si determina il saggio medio del profitto in
tutto il sistema, rapportando il plusvalore complessivamente prodotto, nel
nostro caso 400+200=600, al capitale complessivamente impiegato,
1.000+1.000=2.000. Il saggio medio nel nostro caso sarà pari a 600/2.000=30%.
Se questa è la retribuzione media del capitale, i
capitalisti del primo settore riceveranno un profitto pari al 30% di 1.000,
cioè 300. Ugualmente i capitalisti del secondo.
Il prezzo di produzione dei telefonini sarà quindi pari a
600+400+300=1.300. Analogamente il prezzo di produzione dell'acciaio sarà
800+200+3000=1.300. In questo modo il prezzo di costo resta invariato, mentre
il plusvalore complessivo prodotto 400+200, pare ripartito fra i capitalisti in
proporzione al capitale complessivo investito, come avverrebbe in una società
per azioni. Alcuni capitalisti realizzeranno un profitto inferiore al
plusvalore prodotto, mentre altri uno superiore, in un gioco a somma zero, nel
senso che ciò che alcuni capitalisti guadagnano, è perduto da altri. Nel nostro
caso da una parte si produce un plusvalore di 400, ma se ne realizza solo 300.
La perdita di 100 va a favore dell'altra industria in cui si produce 200 ma si
realizza 300.
Il saggio generale del profitto, e quindi anche il profitto
medio dei singoli capitalisti, dipende perciò oltre che dalle condizioni
specifiche di sfruttamento del lavoro nelle rispettive imprese, anche da quelle
generali. Se un capitalista è più bravo della media a sfruttare i lavoratori o
a imbrogliare gli altri capitalisti con cui è in relazione d'affari, realizzerà
un extraprofitto, se è meno bravo realizzerà un profitto inferiore a quello
medio. Anche le variazioni di prezzo del capitale costante, pur non incidendo
sul plusvalore e sul saggio del plusvalore, incidono sul saggio del profitto.
Si eclissa così la circostanza che il plusvalore è prodotto
solo dal lavoro non pagato, e si determina l'illusione che i profitti si
spieghino con l'abilità dell'imprenditore o come un contributo del capitale
investito, una sua retribuzione. “Il plusvalore, una volta assunta la sua nuova
forma di profitto, rinnega la sua origine e diviene irriconoscibile”, pur
essendo i profitti solo una forma fenomenica del plusvalore che, attraverso la
mediazione del mercato, viene ripartito fra i capitalisti in proporzione al
rispettivo capitale investito.
I manoscritti per il Libro III del Capitale vanno oltre,
introducendo, oltre al capitale industriale, il capitale commerciale, quello
finanziario e la proprietà fondiaria, quindi le relazioni fra capitalista e
lavoratore e fra i vari tipi di capitalisti giungendo alla conclusione che
anche i profitti dei commercianti, l'interesse e la rendita non sono altro che
una redistribuzione del plusvalore fra i vari capitalisti.
Gli agenti economici ritengono che il profitto sia originato
non dalla loro partecipazione al plusvalore complessivo, ma da un'aggiunta che
essi fanno al prezzo di costo delle merci e percepiscono solo le categorie
economiche a loro visibili (prezzi, profitti, salari, interessi, rendita),
ignorando che tali categorie non sono altro che forme fenomeniche trasfigurate
del valore e del plusvalore. La coscienza del capitalista volgare coincide con
la coscienza dell'economista volgare il quale pertanto nega che il valore delle
merci sia determinato dal tempo di lavoro.
La teoria del valore è uno strumento per svelare i rapporti
sociali antagonisti e una formidabile arma contro l'economia politica borghese.
Non c'è da stupirsi quindi se un enorme fuoco di fila è stato aperto per
confutare questo scandaloso impianto, il cui l'aspetto più contestato, per
mettere in questione la consistenza complessiva del sistema di analisi
marxiano, è proprio la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Ma di
questo parleremo nel prossimo numero.
Riferimenti:
[1] K. Marx, Introduzione alla critica dell'economia
politica, a cura di Marcello Musto, trad. di Giorgio Backhaus, ed.
Quodlibet, 2010.
[2] K. Marx, Il Capitale, libro III, ed Riuniti,
Roma, 1965.
[3] Per semplicità di esposizione d'ora in poi non tratteremo
il capitale fisso, quello cioè che viene utilizzato in più cicli produttivi e
ogni volta cede solo una frazione del suo valore al prodotto. Presupporremo che
tutto il capitale costante viene consumato e reintegrato in un processo
produttivo. Marx mostra che ciò non altera i risultati dell'analisi.
[4] Per comprendere quanto asserito facciamo un esempio.
Poniamo che per mettere in movimento un certo numero di lavoratori, che costano
100 di capitale variabile e producono 100 di plusvalore (saggio del plusvalore
uguale al 100%), occorra una dotazione di capitale costante di 200. Se in un
anno metto in atto un solo ciclo di produzione e vendita, il mio profitto annuo
sarà di 100Pv/(200C+100V)=33,3% circa. Se il prodotto invece viene lavorato e
venduto in un mese, al termine di quel mese ho riprodotto i fattori di
produzione (mezzi di produzione e salari) senza dover ricorrere a una nuova
anticipazione di capitale e ho ugualmente una produzione di
200C+100V+100Pv=400. Però con lo stesso capitale anticipato posso ripetere il
ciclo produttivo 12 volte in un anno. Il plusvalore complessivo prodotto ogni
anno è 100*12=1.200, e il saggio del profitto è 1.200/(200+100)=400% pur
restando il 100% il saggio del plusvalore. Nell'illustrazione che segue, per
semplicità, si prescinde dalla velocità di circolazione.
Nessun commento:
Posta un commento