In un'interessante
lezione Federico Martino ha ricostruito la storia dei diritti umani, mostrando
la stretta relazione che essi intrattengono con l'individualismo occidentale e
con il costituirsi della borghesia. Tale legame di classe ostacola però la loro
efficace applicazione.
Il passato 6 maggio Federico Martino, storico
del diritto e professore emerito dell'Università di Messina, ha tenuto
un'interessante lezione sui diritti umani, il cui titolo coincide
con quello del presente articolo. La lezione è stata tenuta nell'ambito del
corso di Antropologia culturale, disciplina il cui oggetto precipuo è
rappresentato dallo studio delle differenze tra le forme di vita sociale che si
sono succedute nella storia e che coesistono nella società contemporanea, sia
pure ormai inserite in un unico sistema politico-economico profondamente
conflittuale. In ambito antropologico l'indagine sulle differenze è sempre
accompagnata dalla riflessione sulla possibilità di individuare un denominatore
comune che possa fungere da elemento di raccordo tra le diversità che, in
seguito ai processi migratori degli ultimi decenni, costellano la nostra vita
quotidiana.
Federico Martino ha esordito indicando quali erano i
presupposti metodologici a cui si richiamava per illustrare sia pure rapidamente
la storia di tali principi fondativi della nostra forma di organizzazione
sociale, rimarcando al contempo le criticità che sono strettamente connesse
alla loro applicazione, assai spesso ispirata alla volontà di ingerenza ed
espansione.
Tali presupposti metodologici sono stati individuati in
questi tre assunti: 1) la storia è sempre storia contemporanea, nel senso che
lo studioso parte dai problemi dell'oggi per riflettere sul passato, pur
rifuggendo da una prospettiva riduzionistica che leggerebbe quest'ultimo come
mera anticipazione dell'attuale; 2) le idee scaturiscono dalle relazioni
sociali tra gli uomini, le quali si fondando sui rapporti di produzione, e al
tempo stesso le prime interagiscono dialetticamente con tale dimensione; 3) ogni
forma di comprensione storica studia i fenomeni nella loro specificità e
particolarità, ma si pone anche l'obiettivo di inquadrarli in categorie di
carattere più generale; in questo senso lo studioso non si limita ad osservare
il singolo albero strappandolo dalla foresta, ossia dal quadro generale nel
quale esso si colloca.
Fatte queste premesse Martino ha letto un passo assai
significativo della Dichiarazione di indipendenza dalla Gran Bretagna delle 13
colonie statunitensi scritta da Thomas Jefferson nel 1776, e che rappresenta un
buon condensato del nucleo fondamentale dei diritti umani così come ancora oggi
in larga parte sono intesi. Così scrive Jefferson: “Noi riteniamo che le
seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini siano stati
creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro creatore di alcuni diritti
inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della
Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti sono creati fra gli uomini
i Governi; che ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare
tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo
Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in
quella guisa che gli sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e
felicità” [1] (Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America).
Dopo tale citazione Martino ha ripercorso la storia dei
diritti umani, ribadendo che si tratta di una costruzione ideale che è sorta e
si è sviluppata nell'ambito della civiltà occidentale ed è connessa al tema
dell'individualismo, soffermandosi inizialmente sulla loro fase aurorale, che
deve esser fatta risalire al pensiero stoico e al diritto romano.
Nell'ambito del primo è possibile scoprire, infatti, l'idea
di un diritto naturale, quale dimensione che precede il diritto positivo e che
si fonda sulla convinzione che la natura sia governata da un'immanente legge
naturale, intesa come Logos. Questo tema, presente anche nel diritto romano,
viene riscoperto in Occidente, intorno al secolo XI-XII, quando si comincia a
studiare il Digesto giustinianeo, un'antologia delle opere dei giuristi romani,
la cui compilazione risale al VI sec. d. C.
Dalla articolata riflessione giuridica su questi testi
emerge la nozione di aequitas, cui i glossatori medioevali si
ispirano, intendendola come una serie norme di carattere morale e religioso,
quindi derivanti da Dio, che dovrebbero costituire il fondamento su cui
costruire le leggi, che ogni ordinamento storico concreto si dà, per regolare
una giusta convivenza tra gli uomini. In sostanza, ciò che scaturisce da
tale fase aurorale è l'idea che vi sia una dimensione fondativa, cui occorre
richiamarsi per l'elaborazione del diritto positivo, la quale lo precede e che
per tanto non può esser da esso stravolta.
Non potendo soffermarci sugli altri significativi momenti
della complessa storia dell'idea dei diritti umani, sempre seguendo l'accurata
riflessione di Martino, andiamo direttamente alla Riforma e all'insorgere delle
guerre di religione ad essa strettamente connesse, ambito nel quale si comincia
a discutere assai animatamente del tema della libertà religiosa e/o della
libertà di coscienza. In questo senso, non si può fare a meno di menzionare –
come sottolinea lo storico del diritto messinese - la figura di Michele
Serveto, il quale per le sue opinioni religiose (in particolare quelle relative
alla Trinità) fu perseguitato sia dai cattolici che dai protestanti, per essere
poi bruciato sul rogo a Ginevra nel 1553, in seguito alla sentenza pronunciata
contro di lui dai Sindaci della città e per intervento dello stesso Calvino.
Proprio la tragica vicenda di Serveto porterà alla luce il
cruciale tema della tolleranza in materia non esclusivamente di fede religiosa;
questione che - come è noto - sarà dibattuta da una serie di autori
centrali per l'individuazione e la fondazione di tutti quei principi, sui quali
si è sviluppata la modernità, come John Locke e Voltaire [2].
Sviluppando in parallelo alla storia delle idee la storia
delle trasformazioni politico-economiche, Martino ha ricordato che l'affermarsi
dei diritti umani è strettamente legato alla costituzione e al consolidamento
della borghesia, processi favoriti, per esempio, in Inghilterra dai cosiddetti enclosure
acts [3];con questi ultimi tra il XVI e il XIX secolo le terre
demaniali furono concesse ai privati, già proprietari terrieri o esponenti
della borghesia mercantile, ai danni dei piccoli contadini, accentuando così la
differenziazione sociale e creando quella massa di lavoratori senza mezzi, che
saranno impiegati nelle manifatture.
In seguito a una serie di grandi trasformazioni, innescate
anche dall'arrivo in Europa delle risorse depredate alle colonie, si dispiega
gradualmente e con grandi costi umani il passaggio ad una fase
economico-politica nuova, nella quale un ruolo economico determinante è
esercitato dalla borghesia, la quale vuole far corrispondere a tale preminenza
un'adeguata funzione politica.
Per raggiungere tale obiettivo la borghesia deve proclamare
il diritto alla libertà, all'uguaglianza e proporre un ideale di fratellanza
universale; ovviamente tale dichiarazione impegnativa mette in discussione
l'ordinamento politico proprio dell'Ancien Régime, il quale - come
è noto - era basato sulla monarchia ereditaria di diritto divino, su un
sistema di esenzioni fiscali e di privilegi a tutto vantaggio della nobiltà e
del clero, sull'ereditarietà degli uffici giudiziari e finanziari; esercizio
accompagnato da corruzione e favoritismi.
È contro questo sistema politico-sociale, segnato da
profonde ineguaglianze e inauditi privilegi, ancora legato in larga parte alle
attività agricole, che la borghesia insorge, proclamando con vigore ed
entusiasmo tutti quei diritti, che costituiscono il nucleo della Dichiarazione
dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789; diritti successivamente ripresi
e ampliati da documenti successivi, nei quali ai diritti civili sono stati
aggiunti quelli economico-sociali, culturali e collettivi [4].
Martino sottolinea come, in particolare, nel celebre
opuscolo dell'abate E. J. Sieyès (Qu'est-ce que le Tiers État?), si
palesi l'orientamento politico della borghesia, che ha preso piena coscienza
del suo ruolo e del suo peso e intende farli valere nello scontro con gli altri
stati, attribuendosi il compito di rappresentare l'intera nazione. Grazie a
tale identificazione con il “popolo” la borghesia mette in
second'ordine le differenziazioni presenti all'interno di esso e riesce a
trascinare nella lotta gran parte della popolazione francese per il
raggiungimento dei suoi propri obiettivi.
Ma a questo punto – si potrebbe dire – i conti non tornano e
cominciano ad apparire una serie di elementi oscuri o se vogliamo di
contraddizioni, ben espresse dal titolo balzacchiano della lezione (Splendori
e miserie dei diritti umani). Potremmo richiamare anche un altro celebre
romanzo di Balzac, Le illusioni perdute, nel quale ritorna il tema
delle promesse non mantenute da quel grande rivolgimento sociale che è stata la
Rivoluzione francese. Opera paradigmatica nella quale – come scrive G. Lukács -
“...gli stessi massimi prodotti della rivoluzione borghese – le idee sull'uomo,
sulla società, sull'arte - ...si rivelano come pure e semplici illusioni nel
confronto con la realtà dello sviluppo rivoluzionario borghese e dell'economia
capitalistica” (Scritti di sociologia della letteratura, Milano 1976, p.
260).
Tali elementi oscuri appaiono sin dal principio, quando
viene posto il problema dell'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi,
in cui gli schiavi africani condannati a lavorare nelle grandi piantagioni
erano in fermento ed esprimeranno tutta la loro rabbia con la Rivoluzione
guidata da Toussaint Louverture a Haiti e diventata vittoriosa nel 1804.
Ovviamente l'abolizione della schiavitù, approvata dalla Convenzione nel 1794,
è una logica conseguenza dei principi rivoluzionari che, giacché sanciscono una
serie di diritti inalienabili, debbono essere applicati a tutti gli uomini. Ma
tale decisione ledeva ovviamente interessi profondamente radicati, cui la
borghesia ormai giunta al potere non poteva rinunciare senza opporre una certa
resistenza, come si può ricavare dall'intenso dibattito che si sviluppò sul
tema. Nel corso di pochi anni tale decisione pericolosa, che metteva in
discussione il predominio di classe della borghesia e la stessa stratificazione
classista della società, fu annullata da Napoleone Bonaparte, il quale
ripristinò la schiavitù nel 1802.
Tale vicenda, che sconvolse con una serie di guerre
sanguinose le colonie francesi, illumina la contraddizione lacerante nella
quale si trovò attanagliata la borghesia: affermare i diritti umani in quanto
strumento della sua emancipazione dall'Ancien Régime, ma al tempo stesso
riconoscere la validità di questi ultimi anche agli strati popolari o
addirittura agli schiavi, minando così quei caratteri su cui si fonda la
specificità di classe della borghesia che, in quanto tale e per riprodursi, ha
bisogno della subordinazione dei lavoro salariato o schiavile.
Nell'analisi sviluppata da Martino tale angosciante dilemma
si ripresenta costantemente nella società capitalistica, nella quale il
riconoscimento dei diritti politici e sociali alle masse popolari è sempre
accompagnato da una serie di limitazioni al loro effettivo esercizio; basti
pensare al diritto di voto [5], il quale fino al secolo scorso è stato
limitato dal criterio del censo e non riconosciuto alle donne, e ciò perché la
prospettiva di elezioni generali rende poco controllabile il loro risultato,
mettendo a repentaglio la supremazia politica della classe dirigente. Tale
aspetto, d'altra parte, era stato messo in evidenza da Marx, il quale a proposito
della Costituzione francese promulgata nel novembre del 1848 scrive: “La
Costituzione continua a ripetere sempre la formula che la regolamentazione e la
limitazione dei diritti e delle libertà del popolo (come il diritto di
riunione, il diritto di voto, la libertà di stampa, di insegnamento etc.)
debbono essere fissate da una legge organica successiva – e queste 'leggi
organiche' 'determinano' la libertà promessa annientandola. […] Le eterne
contraddizioni di questa parodia di Costituzione mostrano con sufficiente
chiarezza che la borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti;
essa potrà riconoscere la verità di un principio, ma non la metterà mai in
pratica” [6].
Che questa del resto sia la prassi politica che ancora oggi
ispira la borghesia nella fase della globalizzazione, può esser dimostrato con
vari esempi – osserva Martino a conclusione del suo appassionato intervento –
tutti illustrativi della contraddizione su descritta. Possiamo citare, per
esempio, tutte le ingerenze politiche messe in atto dalle potenze occidentali
per annullare i risultati delle libere elezioni tanto auspicate in alcuni paesi
arabi o anche in America Latina, perché tali esiti non erano in sintonia con le
aspettative che queste ultime nutrivano e potevano danneggiare i loro
interessi. O l'utilizzazione dei diritti umani per giustificare interventi che
avevano e hanno solo lo scopo di mettere sotto il proprio controllo territori
ricchi di risorse, non rispettando così i diritti delle popolazioni ivi
stanziate.
Se, dunque, è la borghesia che proclama la libertà, ma
immediatamente la viola, quando i suoi antagonisti la esercitano ledendo i suoi
interessi di classe, l'unica strada percorribile per l'efficace
affermazione e praticabilità dei diritti umani, il cui nucleo costitutivo resta
indissolubilmente legato all'individualismo occidentale, non può che essere il
sovvertimento dell'organizzazione classista della società. Ma ovviamente -
conclude lo storico del diritto messinese - questa è un'altra questione, a cui
oggi non è certo facile dare una risposta, ma la cui formulazione sembra quanto
mai urgente.
Note
1) Come si può comprendere, Jefferson considera legittimo,
in certi casi, il ribaltamento dell'ordinamento politico, come d'altra parte
aveva già sottolineato Tommaso d'Aquino. Prospettiva questa non certo auspicata
da chi sta ai vertici dell'organizzazione politica.
2) Locke scrive la Lettera sulla tolleranza (1685)
e Voltaire il Trattato sulla tolleranza(1763).
3) Enclosure vuol dire recinzione. I
piccoli contadini non avevano a disposizione le risorse per procedere alla
recinzione dei terreni.
4) Anche gli antropologi hanno contribuito all'ampliamento
dei diritti riconosciuti, da un lato, mettendo l'accento sull'unilateralità
delle prime dichiarazioni, nelle quali si universalizzava l'individualismo
borghese; dall'altro, - come fecero gli autori delloStatement on Human Right del
1947 - ribadendo che il rispetto dell'individuo non può esulare dal
rispetto della cultura, cui esso appartiene. In sostanza, essi si sono
interrogati sulla possibilità di rendere compatibili il pluralismo culturale e
l'universalità di una Carta dei diritti (v. A. Colajanni, Il disordine
mondiale nei diritti umani: il punto di vista dell'antropologia, 2002).
[5] Si pensi anche al diritto al lavoro previsto
dall'articolo 4 della nostra Costituzione e ridimensionato dalle varie leggi
approvate negli ultimi decenni.
[6] Cit. in: Marx
e la rivoluzione del 1848
Nessun commento:
Posta un commento