Non è irragionevole pensare che lo scarto sempre più marcato
- fra obiettività degli eventi caratterizzanti il nostro tempo e i parametri
ideologici di cui la “sinistra” oggi si serve - a breve debba determinare una
sorta di “scatto” della coscienza e, dunque, il recupero di una prospettiva non
delirante ma critica, non ideologica ma teorica.
Certo si potrebbe obiettare (e non per scherzo) che l’irrealismo di questa ipotesi è misurato proprio dal quanto della sua ragionevolezza. Senonché, un nero pessimismo è, esso stesso, parte non secondaria di quell’ideologia di quella “sinistra” di cui, forse - qua e là - può già avvertirsi la crisi. Lasciamo dunque cadere tale estremo pessimismo. Se decidiamo al suo posto di assumere un atteggiamento che non valorizzi solo la negatività, ma anche la possibilità di un “superamento”, può risultare non bizzarro proporre di nuovo all’attenzione dei compagni un tema, ostico, antipatico ma importante, come quello della “filosofia marxista”.
Certo si potrebbe obiettare (e non per scherzo) che l’irrealismo di questa ipotesi è misurato proprio dal quanto della sua ragionevolezza. Senonché, un nero pessimismo è, esso stesso, parte non secondaria di quell’ideologia di quella “sinistra” di cui, forse - qua e là - può già avvertirsi la crisi. Lasciamo dunque cadere tale estremo pessimismo. Se decidiamo al suo posto di assumere un atteggiamento che non valorizzi solo la negatività, ma anche la possibilità di un “superamento”, può risultare non bizzarro proporre di nuovo all’attenzione dei compagni un tema, ostico, antipatico ma importante, come quello della “filosofia marxista”.
La connessione è evidente: la critica all’ideologia (anche della “sinistra”) non è mai condotta direttamente dalle esperienze - se non altro perché funzione propria dell’ideologia è rendere le esperienze, quali che siano, compatibili con “lo stato di cose esistente”.
É dunque necessario uno strumento di mediazione che faccia della coscienza la “critica dell’esistente” e non il suo “prolungamento celeste”, la sua “legittimazione”.
Comunque la si voglia definire, è certo che la filosofia marxista rivendica per sé esattamente questa funzione di mediazione, di passaggio dall’“ideologia” alla “critica”.
Di qui - posto il pacato ottimismo che iniziava questa mia nota - l’opportunità, forse, di riproporre tale filosofia come argomento di riflessione.
Dicevo, però, che si tratta di un tema ostico e antipatico. É vero, infatti, che subito rimanda all’intricata faccenda della dialettica e richiama anche alla mente periodi dubbi, nei quali era in definitiva l’apparato di partito, quello che sanciva l’accettabilità o meno di una tesi, la scientificità o meno di una teoria.
E certamente non penso a situazioni di questo genere, quando mi sembra importante
che di filosofia marxista si ragioni. Per farlo, scelgo qui un artificio che ha
il duplice vantaggio sia di ricondurre l’argomento che propongo ad un contesto
ben circoscritto, sia di costringermi a render conto di certe cose determinate,
facendo così guadagnare al lettore l’effettiva possibilità di controllare,
valutare, discutere quanto dico.
L’artificio è quanto mai prevedibile: rileggerò qui un saggio del sovietico
Ojzerman [che Rassegna sovietica pubblicò nei numeri 1 e 2 del 1984] dandomi
l’obiettivo di mettere in luce - e criticare - una certa interpretazione del
termine “filosofia marxista” che, non per caso, stabilisce un rapporto sterile
ed incomprensivo con un momento significativo dell’epistemologia contemporanea
(Karl Popper).
La scelta dello scritto di quell’autore si giustifica per queste
considerazioni: come si vedrà, Ojzerman è certo rappresentativo di una determinata
tradizione che, per molti, s’identifica addirittura col marxismo stesso, mentre
in realtà ne rappresenta solo una versione storica riduttiva, anche se comprensibile
nella sua genesi.
Da parte sua, l’argomento “Popper” appare quasi d’obbligo per chi del marxismo voglia sottolineare le pretese di scientificità.
Da parte sua, l’argomento “Popper” appare quasi d’obbligo per chi del marxismo voglia sottolineare le pretese di scientificità.
Sappiamo, infatti, che Popper è spesso indicato come colui che, con rigore
implacabile, ha messo in piena luce l’insostenibilità scientifica del marxismo:
l’analisi che tenterò in questo articolo dovrebbe, al contrario, riuscire a
mostrare come Popper incorra, per un verso, in importanti fraintendimenti
rispetto alla dialettica e, per un altro, ne rasenti a volte la problematica
pur se in un certo modo indiretto, mascherato.
L’articolo dovrebbe inoltre mostrare che esattamente i lati del pensiero di Popper
più accostabili ad un orizzonte dialettico son, pure, quelli attualmente più
stimolanti - a patto, ben inteso, di leggerli al di fuori di certi assunti
popperiani di fondo, ma anche liberandosi da certo scolasticismo “à la
Ojzerman”.
Nel momento stesso in cui leggo e critico il saggio di Ojzerman tento di
delineare (almeno questo è il mio impegno) un modo diverso di pensare la filosofia
marxista e la sua destinazione critica.
Ovviamente, è nel concreto della critica a Popper che Ojzerman mostra quale senso egli dia al termine “filosofia marxista”.
Nel suo saggio però ci sono alcune osservazioni - per così dire di contorno, rispetto al centro dell’argomento - su cui vale la pena soffermarci, se vogliamo cogliere meno radici e implicazioni dal punto di vista dell’autore sovietico. Egli parla, ad esempio, della “vecchia identificazione razionalistica tra verità ed evidenza” [RS,1,67].
Possiamo azzardare che, in questo contesto, “evidenza” valga per evidenza “logica” e che, dunque, Ojzerman stia rimproverando alla tradizione Descartes - Leibniz - Spinoza (il razionalismo) una teoria della verità, che non riconosce alcun ruolo a forme di evidenza che non siano la razionale.
Senonché - a patto di studiare da vicino l’argomento - noi sappiamo in primo luogo che il confine tra razionalismo ed empirismo risulta ben più complesso e problematico da tracciare, di quanto non preveda la schematizzazione manualistica (pur utile al suo livello).
In secondo luogo - e sempre a patto di studiare dettagliatamente il tema - sappiamo che in Descartes, ad esempio, son presenti almeno tre forme diverse di “evidenza”, di cui la logico-deduttiva - quale che sia la centralità del suo ruolo nella complessiva costruzione cartesiana - non è che una forma.
Perché, allora, Ojzerman potenzia la schematizzazione manualistica, dandole la dignità di comprovata tesi storiografica?
Lasciamo l’interrogativo senza risposta, per ora, e volgiamoci a un altro passaggio del testo di Ojzerman. In una nota a pie’ di pagina, con esplicito riferimento ad Analysis of Mind, Ojzerman rimprovera a B.Russell di cancellare, nella sua riflessione sul “credere”, “la contrapposizione tra fede e sapere, tra opinione e verità, interpretando soggettivamente questi opposti (e così distinguendosi dalla tradizione dei) filosofi progressivi premarxisti”. [ivi,1,68].
Per valutare adeguatamente l’osservazione di Ojzerman dobbiamo, per quanto rapidamente, riandare al ragionamento che, nel testo citato, svolge Russell.
Immaginiamo un qualche soggetto S che abbia due credenze B e G, di cui l’una è di fatto vera, mentre l’altra, com’è ovvio, nell’inconsapevolezza di S è falsa.
Collegandosi ad una tradizione che comprende, anche, lo scetticismo classico: Locke, Hume e lo stesso Descartes, Russell si chiede se S - analizzando B e G per le loro caratteristiche proprie - potrebbe riconoscere quale delle due credenze è vera e quale è falsa.
In continuità con la critica a Meinong, svolta in anni precedenti, la risposta di Russell è negativa: nessun’analisi formale, strutturale dell’atto del “credere” può decidere del valore/verità di ciò che è creduto. Se B e G son due credenze, solo il raffronto con uno stato di fatto (il referente o contenuto della credenza) potrà decidere del loro valore/verità.
Perché Ojzerman respinge questa tesi di Russell, accusandola perfino di parificare fede e sapere, opinione e verità?
Di primo acchito, sembrerebbe da attendersi, invece, che Ojzerman accetti la posizione di Russell - per il suo “materialismo”, ad esempio.
Se andiamo più a fondo, però, comprendiamo che se vale l’analisi di Russell e se escludiamo dalla nostra considerazione logica e matematica pura, siamo portati a concludere che non si dà mai la possibilità di un sapere che sia adeguazione piena - per quanto parziale e limitata - tra mente e cosa, tra soggetto e stato di fatto. Sempre, al contrario, il “credere” - in quanto atto mentale - è, a dir così, costruzione neutra per l’accertamento del cui valore/verità (a patto di escludere ancora una volta logica e matematica pura) è necessario andare “oltre”, volgersi ad un’altra dimensione, al dominio - appunto - degli “stati di fatto”.
Se a questo punto richiamiamo le precedenti osservazioni a proposito di razionalismo, verità ed evidenza, possiamo formulare una prima ipotesi circa il significato, per Ojzerman di “filosofia marxista”.
In definitiva, semplificando - come fa - la tradizione razionalistica e leggendo - nel modo che sappiamo - l’analisi di Russell, Ojzerman sembra proporre questi due momenti della storia del pensiero come esempi, rispettivamente, di idealismo “oggettivo” e di idealismo “soggettivo”.
Lo scopo della mossa è, se non sbaglio, di preparare il terreno ad un terzo “momento” - la dialettica materialistica - che di entrambi sia la critica/superamento. Ciò che si delinea è la possibilità che Ojzerman concepisca la storia della filosofia in generale come ripetizione continua di uno stesso dramma - quello appunto del passaggio dall’idealismo alla dialettica materialistica - e quindi che ne valuti i diversi protagonisti come continue, inessenziali trasformazioni di maschere che restano, nella sostanza, le stesse.
Se per l’autore sovietico così stessero le cose, ovviamente egli non avrebbe bisogno di una conoscenza dettagliata, capace di penetrare nelle pieghe intime di questa o quella determinata filosofia.
Ed è proprio questo, mi pare, il motivo per cui Ojzerman può riproporre, nella sua secca semplicità, l’opposizione manualistica fra razionalismo ed empirismo; come anche questo è il motivo per cui Ojzerman ritiene di poter valutare la tesi di Russell, estrapolandola dal contesto problematico da cui sorge.
Com’è chiaro, non sto sottintendendo che nella storia della filosofia manchino linee e tradizioni che, a dir così, si incarnino in personaggi ed episodi diversi o che si snodino in tempi e situazioni diversi.
Il punto non è questo. Si tratta piuttosto di valutare quanto pesino, per il costituirsi di una filosofia determinata, le particolarità che segnano i contesti specifici.
E quindi se sia possibile parlare, poniamo, di idealismo oggettivo - pretendendo di denotare e connotare in mo-do adeguato - quando ci si riferisca a momenti della storia della filosofia facendo però astrazione dai problemi precisi discussi in quei momenti, e dai termini in cui quei problemi allora si presentavano e venivano vissuti e tematizzati. Il problema dunque non è negare la presenza, in ogni senso del termine di “continuità” nella storia del pensiero.
Piuttosto il problema è come valutare il rapporto tra quelle continuità e le differenze storicamente determinate; come evitare che la storia effettiva del pensiero - scandita necessariamente in fasi storicamente distinguibili - si dissolva in quanto mera epifania di un’altra vicenda, i cui protagonisti siano “momenti ideali” (idealismo og-gettivo, idealismo soggettivo e loro superamento).
Un lato decisivo della questione mi sembra questo: se la tradizione razionalistica, poniamo, è solo un esempio di idealismo oggettivo e la riflessione di Russell, a sua volta, è solo un esempio di idealismo soggettivo, allora il passaggio dall’un idealismo all’altro ed il superamento di entrambi, per realizzarsi, non avranno bisogno delle caratteristiche storicamente determinate, specifiche, proprio di quelle filosofie là; non nasceranno da un travaglio interno a quelle filosofie.
Infatti potrebbero darsi altri esempi dell’uno o dell’altro idealismo e, tuttavia, passaggi e superamento si porrebbero ugualmente. Ma, dunque, quei passaggi e quel superamento avverrebbero nell’astrazione delle filosofie in questione; rispetto ad esse, sarebbero processi “esterni”.
Se così Ojzerman concepisse la storia della filosofia, sarebbe da attendersi che la critica sua all’epistemologia popperiana resti “esterna” all’oggetto; e che altrettanto “esterno” ne risulti il superamento.
Insomma, sto suggerendo la possibilità di un’interpretazione del termine “filosofia marxista”, nel senso, però di un orientamento a classificare le diverse filosofie, che storicamente si danno, entro taxa (ordini) definiti dal ritmo di una storia “essenziale”, che si svolge dietro le spalle di quella reale.
Nella prospettiva di questa “filosofia marxista”, il compito che essenzialmente si pone è quello del “riconosci-mento”, dell’individuazione dell’ “es-senza comune”, per cui - poniamo - non contano le differenze tra Fichte e Russell, non contano le diversità di tematiche, di linguaggio o di contesto culturale; perché conta invece il co-mune contrapporre una dimensione del soggetto chiuso in se stesso, ed una dell’oggetto o stato di fatto, le quali solo “esteriormente” possono toccarsi.
É evidente come, giusta questa prospettiva, un’analisi da vicino, nel dettaglio, delle filosofie di Fichte o di Hume o di Russell, in sostanza, risulti pleonastica.
Senonché, se quell’analisi è pleonastica, il rischio è che l’intera vicenda scandita da passaggi e superamenti, anch’essa risulti pleonastica. Con conseguenze non certo esaltanti per la “filosofia marxista”.
A questo punto, conviene entrare direttamente in argomento, richiamando le critiche di Ojzerman a Popper; il passo successivo, e finale, sarà confrontarle con pagine dello stesso Popper e con le questioni che abbiamo finora posto.
Le critiche di Ojzerman possono essere raccolte in tre punti:
Ovviamente, è nel concreto della critica a Popper che Ojzerman mostra quale senso egli dia al termine “filosofia marxista”.
Nel suo saggio però ci sono alcune osservazioni - per così dire di contorno, rispetto al centro dell’argomento - su cui vale la pena soffermarci, se vogliamo cogliere meno radici e implicazioni dal punto di vista dell’autore sovietico. Egli parla, ad esempio, della “vecchia identificazione razionalistica tra verità ed evidenza” [RS,1,67].
Possiamo azzardare che, in questo contesto, “evidenza” valga per evidenza “logica” e che, dunque, Ojzerman stia rimproverando alla tradizione Descartes - Leibniz - Spinoza (il razionalismo) una teoria della verità, che non riconosce alcun ruolo a forme di evidenza che non siano la razionale.
Senonché - a patto di studiare da vicino l’argomento - noi sappiamo in primo luogo che il confine tra razionalismo ed empirismo risulta ben più complesso e problematico da tracciare, di quanto non preveda la schematizzazione manualistica (pur utile al suo livello).
In secondo luogo - e sempre a patto di studiare dettagliatamente il tema - sappiamo che in Descartes, ad esempio, son presenti almeno tre forme diverse di “evidenza”, di cui la logico-deduttiva - quale che sia la centralità del suo ruolo nella complessiva costruzione cartesiana - non è che una forma.
Perché, allora, Ojzerman potenzia la schematizzazione manualistica, dandole la dignità di comprovata tesi storiografica?
Lasciamo l’interrogativo senza risposta, per ora, e volgiamoci a un altro passaggio del testo di Ojzerman. In una nota a pie’ di pagina, con esplicito riferimento ad Analysis of Mind, Ojzerman rimprovera a B.Russell di cancellare, nella sua riflessione sul “credere”, “la contrapposizione tra fede e sapere, tra opinione e verità, interpretando soggettivamente questi opposti (e così distinguendosi dalla tradizione dei) filosofi progressivi premarxisti”. [ivi,1,68].
Per valutare adeguatamente l’osservazione di Ojzerman dobbiamo, per quanto rapidamente, riandare al ragionamento che, nel testo citato, svolge Russell.
Immaginiamo un qualche soggetto S che abbia due credenze B e G, di cui l’una è di fatto vera, mentre l’altra, com’è ovvio, nell’inconsapevolezza di S è falsa.
Collegandosi ad una tradizione che comprende, anche, lo scetticismo classico: Locke, Hume e lo stesso Descartes, Russell si chiede se S - analizzando B e G per le loro caratteristiche proprie - potrebbe riconoscere quale delle due credenze è vera e quale è falsa.
In continuità con la critica a Meinong, svolta in anni precedenti, la risposta di Russell è negativa: nessun’analisi formale, strutturale dell’atto del “credere” può decidere del valore/verità di ciò che è creduto. Se B e G son due credenze, solo il raffronto con uno stato di fatto (il referente o contenuto della credenza) potrà decidere del loro valore/verità.
Perché Ojzerman respinge questa tesi di Russell, accusandola perfino di parificare fede e sapere, opinione e verità?
Di primo acchito, sembrerebbe da attendersi, invece, che Ojzerman accetti la posizione di Russell - per il suo “materialismo”, ad esempio.
Se andiamo più a fondo, però, comprendiamo che se vale l’analisi di Russell e se escludiamo dalla nostra considerazione logica e matematica pura, siamo portati a concludere che non si dà mai la possibilità di un sapere che sia adeguazione piena - per quanto parziale e limitata - tra mente e cosa, tra soggetto e stato di fatto. Sempre, al contrario, il “credere” - in quanto atto mentale - è, a dir così, costruzione neutra per l’accertamento del cui valore/verità (a patto di escludere ancora una volta logica e matematica pura) è necessario andare “oltre”, volgersi ad un’altra dimensione, al dominio - appunto - degli “stati di fatto”.
Se a questo punto richiamiamo le precedenti osservazioni a proposito di razionalismo, verità ed evidenza, possiamo formulare una prima ipotesi circa il significato, per Ojzerman di “filosofia marxista”.
In definitiva, semplificando - come fa - la tradizione razionalistica e leggendo - nel modo che sappiamo - l’analisi di Russell, Ojzerman sembra proporre questi due momenti della storia del pensiero come esempi, rispettivamente, di idealismo “oggettivo” e di idealismo “soggettivo”.
Lo scopo della mossa è, se non sbaglio, di preparare il terreno ad un terzo “momento” - la dialettica materialistica - che di entrambi sia la critica/superamento. Ciò che si delinea è la possibilità che Ojzerman concepisca la storia della filosofia in generale come ripetizione continua di uno stesso dramma - quello appunto del passaggio dall’idealismo alla dialettica materialistica - e quindi che ne valuti i diversi protagonisti come continue, inessenziali trasformazioni di maschere che restano, nella sostanza, le stesse.
Se per l’autore sovietico così stessero le cose, ovviamente egli non avrebbe bisogno di una conoscenza dettagliata, capace di penetrare nelle pieghe intime di questa o quella determinata filosofia.
Ed è proprio questo, mi pare, il motivo per cui Ojzerman può riproporre, nella sua secca semplicità, l’opposizione manualistica fra razionalismo ed empirismo; come anche questo è il motivo per cui Ojzerman ritiene di poter valutare la tesi di Russell, estrapolandola dal contesto problematico da cui sorge.
Com’è chiaro, non sto sottintendendo che nella storia della filosofia manchino linee e tradizioni che, a dir così, si incarnino in personaggi ed episodi diversi o che si snodino in tempi e situazioni diversi.
Il punto non è questo. Si tratta piuttosto di valutare quanto pesino, per il costituirsi di una filosofia determinata, le particolarità che segnano i contesti specifici.
E quindi se sia possibile parlare, poniamo, di idealismo oggettivo - pretendendo di denotare e connotare in mo-do adeguato - quando ci si riferisca a momenti della storia della filosofia facendo però astrazione dai problemi precisi discussi in quei momenti, e dai termini in cui quei problemi allora si presentavano e venivano vissuti e tematizzati. Il problema dunque non è negare la presenza, in ogni senso del termine di “continuità” nella storia del pensiero.
Piuttosto il problema è come valutare il rapporto tra quelle continuità e le differenze storicamente determinate; come evitare che la storia effettiva del pensiero - scandita necessariamente in fasi storicamente distinguibili - si dissolva in quanto mera epifania di un’altra vicenda, i cui protagonisti siano “momenti ideali” (idealismo og-gettivo, idealismo soggettivo e loro superamento).
Un lato decisivo della questione mi sembra questo: se la tradizione razionalistica, poniamo, è solo un esempio di idealismo oggettivo e la riflessione di Russell, a sua volta, è solo un esempio di idealismo soggettivo, allora il passaggio dall’un idealismo all’altro ed il superamento di entrambi, per realizzarsi, non avranno bisogno delle caratteristiche storicamente determinate, specifiche, proprio di quelle filosofie là; non nasceranno da un travaglio interno a quelle filosofie.
Infatti potrebbero darsi altri esempi dell’uno o dell’altro idealismo e, tuttavia, passaggi e superamento si porrebbero ugualmente. Ma, dunque, quei passaggi e quel superamento avverrebbero nell’astrazione delle filosofie in questione; rispetto ad esse, sarebbero processi “esterni”.
Se così Ojzerman concepisse la storia della filosofia, sarebbe da attendersi che la critica sua all’epistemologia popperiana resti “esterna” all’oggetto; e che altrettanto “esterno” ne risulti il superamento.
Insomma, sto suggerendo la possibilità di un’interpretazione del termine “filosofia marxista”, nel senso, però di un orientamento a classificare le diverse filosofie, che storicamente si danno, entro taxa (ordini) definiti dal ritmo di una storia “essenziale”, che si svolge dietro le spalle di quella reale.
Nella prospettiva di questa “filosofia marxista”, il compito che essenzialmente si pone è quello del “riconosci-mento”, dell’individuazione dell’ “es-senza comune”, per cui - poniamo - non contano le differenze tra Fichte e Russell, non contano le diversità di tematiche, di linguaggio o di contesto culturale; perché conta invece il co-mune contrapporre una dimensione del soggetto chiuso in se stesso, ed una dell’oggetto o stato di fatto, le quali solo “esteriormente” possono toccarsi.
É evidente come, giusta questa prospettiva, un’analisi da vicino, nel dettaglio, delle filosofie di Fichte o di Hume o di Russell, in sostanza, risulti pleonastica.
Senonché, se quell’analisi è pleonastica, il rischio è che l’intera vicenda scandita da passaggi e superamenti, anch’essa risulti pleonastica. Con conseguenze non certo esaltanti per la “filosofia marxista”.
A questo punto, conviene entrare direttamente in argomento, richiamando le critiche di Ojzerman a Popper; il passo successivo, e finale, sarà confrontarle con pagine dello stesso Popper e con le questioni che abbiamo finora posto.
Le critiche di Ojzerman possono essere raccolte in tre punti:
a) rapporto fra popperiano criterio di falsificabilità (cf)
e concezione della verità;
b) questione della valenza “falsificante” di un fatto;
c) conseguenze relativistiche di cf.Rispetto ad a), la tesi di Ojzerman è che, se vale cf, dire che una certa proposizione scientifica è “vera” significa solo che - finora - ha superato i tentativi fatti per falsificarla; si tratta, dunque, di una proposizione che giudichiamo “vera”, solo perché non siamo ancora riusciti a liberarcene: dunque è transitoriamente vera.
Inoltre, solo per una sorta di convenzione o abitudine linguistica, diciamo “vera” quella proposizione: se infatti il senso, la direzione del progresso scientifico è indicato dalla “falsificazione”, l’implicito è, ovviamente, che raggiungere non già il “falso” ma sì il “vero”, questo è, propriamente, fuori della portata della scienza.
Rispetto a b), Ojzerman sottolinea l’incongruenza per cui se numerosi fatti comprovano una certa tesi scientifi-ca, tuttavia ne basterebbe un unico per vanificare le esperienze acquisite e per costringere ad abbandonare quel-la determinata tesi. In questo modo, per altro, verrebbe a cadere un momento centrale della pratica scientifica: l’importante e raffinato lavoro di precisazione della portata di una tesi, in modo da valorizzare adeguatamente sia le esperienze che la verificano, sia quell’unica che la falsifica.
Rispetto a c), l’argomentazione di Ojzerman è uno svolgimento del punto precedente: Popper, in sostanza, perde di vista l’effettivo ritmo scientifico, scandito da precisazione e rettificazione, costringendolo, invece, entro le rigide maglie di cf. Di qui, la sua propensione a scambiare elasticità e mobilità dei concetti scientifici con un loro preteso essenziale relativismo. Come risulta anche da questa schematica esposizione, il “tono” dell’argomentazione di Ojzerman è quello della “contrapposizione”, nel senso che obiettivo dell’autore sovietico è - direi perfino esclusivamente - tracciare lo spartiacque, che consenta di separare l’epistemologia marxista da ogni altra.
La situazione che così si delinea è analoga a quella su cui gli scettici - antichi e moderni - hanno sempre esercitato la loro ironia. Voglio dire la situazione di sistemi dogmatici (uso il linguaggio degli scettici) non di altro capaci, se non di rigide, reciproche opposizioni.
Il che significa, ad es., che lo scettico può, volta a volta, servirsi degli argomenti degli uni contro gli argomenti degli altri e viceversa. Ma significa, anche, che mancando ogni terreno di comunicazione o “passaggio” tra un sistema dogmatico e l’altro, tutti rischiano di apparire ugualmente arbitrari ed unilaterali.
Cogliamo qui un carattere preciso della “filosofia marxista” nell’accezione di Ojzerman.
Carattere che non viene smentito da due, pur significative , osservazioni.
Alcuni marxisti, riconosce Ojzerman, credono che il popperiano cf “rappresenti un contributo sostanziale, se non alla filosofia, almeno alla logica moderna” [RS,1,71].
Inoltre, i “razionalisti critici (cioè, Popper e i suoi seguaci) risultano ... avversari della dialettica, nonostante es-si si avvicinino molto (ma naturalmente da posizioni idealistiche) alla sua problematica” [ivi, 69].
L’importanza di queste notazioni è ovvia: testimoniano di una riflessione marxista più mossa di quanto non si ricaverebbe dalle tesi di Ojzerman; come anche di una complessità della pagina popperiana, inattesa, se valesse la valutazione che Ojzerman ne dà.
Ma dobbiamo notare, anche, come le due osservazioni si collocano, formalmente, entro la pagina di Ojzerman.
Intendo dire che la loro portata - obiettivamente capace di porre in questione la secchezza delle contrapposizio-ni operate da Ojzerman - viene, per così dire, neutralizzata, perché le osservazioni son ridotte a meri incisi, con valore concessivo.
Dunque, elementi problematizzanti vengono immiseriti in quanto semplici, ulteriori, informazioni, che restano “esterne” rispetto al nucleo fondamentale della pagina e dell’argomentazione di Ojzerman. Segno anche questo, sembra a me, di insufficiente dialetticità.
Per entrare meglio in argomento è utile riandare ad un saggio, relativamente recente, di G. Volpe [Rivista di filosofia, n.3, 1991].
L’obiettivo dello scritto è mostrare che, almeno per un punto di fondo, la proposta del “realismo interno”, avanzata da H. Putnam, non è giustificata.
Il filosofo americano - contro la teoria del rispecchiamento e, in generale, contro ogni forma di realismo ingenuo o metafisico - propone che abbiano rilievo epistemologico, solo, i “punti di vista concreti e limitati delle persone reali, i quali riflettono interessi e scopi sempre parziali”.
Realismo interno proprio questo significa: nulla esiste “realmente” - o, almeno, non ha senso interrogarsi circa la sua natura - se non ciò che è contenuto entro un quadro teorico e d’esperienza determinati.
In altre parole - contro il mito di un conoscere, che pretenda di afferrare immediatamente un reale già dato e strutturato, là fuori di me - l’unica alternativa è, per Putnam, quella “internista”, che discrimina fra reale e non reale, ma solo entro l’orizzonte definito da una teoria determinata e dall’esperienza che quella consente.
Pur accettando la premessa (cioè, la critica del materialismo ingenuo o metafisico), Volpe contesta la pretesa di Putnam che l’unica alternativa possibile sia, allora, quella del “realismo interno”; lo contesta perché individua almeno un’ulteriore alternativa realistica: quella del falsificazionismo popperiano.
Pur concedendo, infatti, qualche oscillazione verso il realismo ingenuo [RdF,387], Volpe coglie - esattamente, mi pare - nel popperiano cf il risultato di un’importante tensione [ivi,385-386].
Da un lato la presenza - ma come “idea regolativa” - di una nozione classica di verità (la verità come “corrispondenza”); dall’altro la consapevolezza che nessuna nostra conoscenza è esente da teoria e, quindi, priva di condizionamenti storicamente dati.
Ne consegue, per un verso, un deciso orientamento antiplatonico (almeno nel senso del moderno platonismo matematico); per l’altro, la convinzione che non possono darsi positivi criteri di verità [ivi,370,387]: ecco perché Popper propone un criterio non di verità, ma di falsificazione.
Il lettore di Lenin - esattamente di Materialismo ed empiriocriticismo - non può non avvertire, in questo Popper, assonanze forti con motivi, appunto, leniniani.
Basterebbe considerare che se vale - come vuole Lenin - la conoscibilità all’infinito del reale, ne consegue di necessità che ogni tappa determinata del nostro conoscere non è altro che “approssimazione”, dunque un non cogliere il vero.
Detta in altro modo, l’implicito dell’epistemologia leniniana (se pure effettivamente esiste una tal cosa) è un evidente scetticismo nei confronti delle singole tappe dell’infinito processo conoscitivo (d’altra parte sappiamo che il legame essenziale con lo scetticismo è organico alla dialettica).
Ed appunto un analogo scetticismo conduce Popper a proporre il suo cf. Ma poiché - come sottolinea Volpe - vale l’idea regolativa della verità come corrispondenza, lo scetticismo epistemologico non conduce a disarmi irrazionalistici, sì piuttosto a tentativi sempre più raffinati di liberare il nostro sapere da ciò che di falso esso contiene, facendolo scontrare con i fatti.
Al contrario di quanto sosteneva Ojzerman, questo Popper né vanifica l’impresa conoscitiva della scienza, né dissolve la verità come mera illusione - se è vero che una tale accusa non si può muovere al leniniano materialismo ed empiriocriticismo.
[Per questo punto si rinvia all’esposizione che S. Tagliagambe fa delle tesi del fisico sovietico V.A. Fock, in Aa.Vv. L’interpretazione materialistica della meccanica quantistica, Feltrinelli, Milano 1972, pp.110ss.].
Ma, dicevo, “questo Popper”: l’implicito, ovviamente, è che la riflessione dell’epistemologo austriaco non sia compatta e sempre coerente. Nel senso che si può cogliere in essa la presenza di istanze e prospettive perfino discordanti o che, comunque, la indirizzano così e così, non sempre per esplicita e coerente necessità.
Il limite dell’analisi che Ojzerman ne fa, veramente, è tipico di un modo di dar significato a “filosofia marxi-sta”: quando l’atteggiamento critico, infatti, è fondamentalmente vòlto a far risaltare lo “stacco” fra marxismo e non, ciò che ne risulta è la contrapposizione tra prospettive e, quindi, la semplificazione schematizzante sia di ciò che vien criticato, sia dal punto di vista da cui si critica.
Nel nostro caso, allora, la varietà e la ricchezza - anche contraddittoria - del pensiero di Popper viene costretta entro il rigore di un’immagine “essenziale” o semplice; e, dall’altro lato, la plasticità delle nozioni dialettiche viene immiserita in contenuti che, dati una volta per tutte, s’organizzano in un rinnovato, sistema dogmatico (per dirla di nuovo con gli scettici).
Si rifletta, ad es., sull’atteggiamento di Popper verso la dialettica.
Se consideriamo da vicino le sue pagine, siamo indotti a distinguere un atteggiamento esplicito, da un altro che, invece, resta implicito. E va notato, per altro, che lo stesso atteggiamento esplicito verso la dialettica si concreta in due prospettive, non di necessità fra loro connesse.
Sappiamo, infatti, che il rifiuto popperiano della dialettica si basa, in primo luogo, su un motivo logico:
- da premesse contraddittorie, si può inferire qualunque conseguenza;
- l’argomento dialettico, quindi, in quanto basato su premesse contraddittorie, è inutilizzabile dal punto di vista di un qualunque standard di razionalità.
Sembra a me che questo sia uno dei momenti meno felici della riflessione popperiana, perché basato su due equivoci di fondo:
i) che la “logica” dialettica si collochi sullo stesso piano della logica simbolica e, dunque, possa esser sottoposta a procedure di calcolo valide per quest’ultima;
ii) che la “logica” dialettica pretenda di segnare una rottura con l’aristotelico principio di non-contraddizione.
Qui è invece assai più penetrante Russell, quando individua in Hegel l’orientamento non a sancire le contraddizioni, ma a snidarle e sfidarle, per “toglierle”.
La seconda prospettiva esplicitamente critica è quella per cui la dialettica offrirebbe la chiave di lettura dello sviluppo scientifico, il cui ritmo sarebbe scandito dal continuo porsi e contrapporsi di tesi, antitesi e sintesi.
Così irrigidita - normativamente - la dialettica, Popper ha gioco facile nel mostrare che la storia effettiva del pensiero scientifico segue, anche, tracciati diversi: dunque, la scansione tra tesi, antitesi e sintesi non ha validità universale ma solo episodica.
Prescindiamo ora dal fatto che questo scacco della dialettica, in realtà, è imputabile all’immagine che di essa lo stesso Popper ha costruito.
Prescindiamo, per notare un’altra - forse più eclatante - incongruenza.
Dopo aver rimproverato i dialettici di scoprire, dovunque, contraddizioni e, quindi, di imporre - all’universo tutto - sempre la stessa scansione, Popper compie una mossa paradossale: sostituisce al ritmo dialettico (tesi, antitesi, sintesi) un altro ritmo (prova ed errore), però, applicandolo esattamente all’universo tutto, quale che ne sia l’ambito - attribuendosi, così, un errore che, pure, aveva rimproverato ai dialettici.
La cosa è notevole anche perché, in questo modo, Popper dimostra di non aver colto un’istanza fondamentale per la dialettica: quella di superare l’identità formale per cogliere, invece, la tessitura profonda e specifica che differenzia concretamente i reali.
Di non aver colto, quindi, che ciò che massimamente ripugna alla dialettica è proprio una visione unitaria e sistematica del mondo (i sistemi dogmatici, di cui dicevano gli scettici) - che poi quest’ultima sia basata su prova ed errore, oppure su tesi, antitesi, sintesi, sul serio fa poco conto.
Prima di passare a quello che chiamavo l’atteggiamento implicito verso la dialettica, torniamo per un attimo sul motivo logico che fondava la critica popperiana della dialettica stessa.
Il suo nucleo era dato dall’enunciato: “Da premesse contraddittorie, qualunque conclusione è inferibile”. Interpreto questo enunciato come un divieto, l’indicazione di una mossa proibita, ed è proprio per questo che lo indico con R in quanto “regola grammaticale” del calcolo logico.
Insomma, attribuisco a R questo senso: enunciati costruiti secondo il modello logico indicato non sono corretti, perché renderebbero impossibile il calcolo logico; il divieto implicito in R va rispettato, se l’obiettivo è giocare questo determinato “gioco”.
Ma rientra la dialettica entro questo determinato gioco?
Popper decide di sì e ne ricava una duplice diffidenza verso la dialettica: perché necessariamente portata ad affermare proposizioni contraddittorie; e perché necessariamente indifesa nei loro confronti, in quanto costretta a “calcolare” in violazione di R (inteso come divieto).
La dialettica, insomma, si presenta a Popper come una situazione di arrendevolezza, di cedimento verso le contraddizioni, di passività nei loro confronti.
Più il dialettico va a scoprire le contraddizioni e più ne resta necessariamente invischiato.
Bisogna fare molta attenzione a quest’ultimo motivo, perché una costante della riflessione di Popper è l’anti-quietismo, il rifiuto a riconoscersi in atteggiamenti e concezioni di accettazione dello stato di fatto.
Volendo spiegare, ad es., il suo cf, Popper distingue tra un atteggiamento “dogmatico” ed uno “critico” - essendo il primo quello di chi, placato in modalità e concezioni acquisite, si cura solo di veri-ficarle, di dotarle di nuove conferme e garanzie.
Ed essendo l’altro, l’atteggiamento “critico”, quello di chi sfida, invece, norme criteri e procedure già dati, mirando a falsi-ficarli.
É evidente, dunque, che il popperiano cf ha, pure, uno spessore morale, è fondato, anche, su una scelta di vita, enfatizza un tipo di comportamento individuale, appunto anti-quietistico.
La dialettica - concepita nel modo in cui abbiamo visto Popper concepirla - si rivela, a questo punto invece, una sorta di ebbrezza “quietistica”: infatti, non solo accetta il modo, ma addirittura lo accetta nella sua contraddittorietà, perché impedita logicamente ad uscirne.
Senonché, entrando meglio nella descrizione dell’atteggiamento scientifico, Popper arriva ad affermare il necessario primato dell’atteggiamento “dogmatico”, nel senso che l’altro - l’atteggiamento “critico” - ha pur bisogno di un certo patrimonio acquisito per dar prova di sé.
A questo punto è chiaro che i due atteggiamenti non sono più, solo, contrapposti, ma reciprocamente funzionali: non solo la “critica” ha come suo presupposto il “dogma”, ma addirittura in tanto può essere efficacemente se stessa, in quanto sia critica di quel dogma.
E non c’è forse della dialettica in ciò?
Quanto indicavo prima con atteggiamento implicito verso la dialettica è, appunto, questo concepire dogma e critica, falsificazione e verificazione, come componenti di intrecci specifici, di cui la storia della scienza, ad es., dà numerose prove. Ma che è pure - è lo stesso Popper a dircelo - atteggiamento morale, modo di disporsi nel mondo. É chiaro che, qui, abbiamo un Popper diverso da quello finora incontrato ed assai consonante con problematiche dialettiche.
Ben inteso, anche questo Popper è fortemente segnato da quell’“individualismo” (e qui fa bene Ojzerman a richiamare Nietzsche) che lo conduce a polemizzare, poniamo, contro la sociologia della conoscenza, il marxismo, insomma contro tutte quelle posizioni ed orientamenti (epistemologici e di metodo) che autorizzano soggetti collettivi, come classe, coscienza di classe, ecc.
Un “individualismo” che facilmente si coniuga col rifiuto stesso della storia, in un senso accostabile all’anti-storicismo di marca nicciana, appunto.
Si tratta però di un Popper contraddittorio - disponibile ad esiti diversi, a seconda che l’enfasi cada sull’intreccio dogma-critica, oppure sull’individualismo anti-quietistico (al limite dell’irrazionalismo).
Potremmo concludere in questo modo: si ha critica dialettica di Popper (ad esempio) quando l’analisi del suo pensiero si spinga tanto a fondo, da farne risaltare l’interno suo movimento contraddittorio.
La filosofia marxista proprio una tale critica deve sviluppare perché, forse è solo così che può dotarsi della plasticità necessaria ad essere la critica dello “stato di cose esistente”.
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