*Viparelli Irene,
« Crise et conjoncture révolutionnaire : Marx et 1848. », Actuel
Marx2/2009 (n° 46) , p. 122-136
URL : www.cairn.info/revue-actuel-marx-2009-2-page-122.htm.
DOI : 10.3917/amx.046.0841.
URL : www.cairn.info/revue-actuel-marx-2009-2-page-122.htm.
DOI : 10.3917/amx.046.0841.
Che influenza ebbe la rivoluzione europea del 1848 sulla
teoria marxiana? Quale fu il suo contributo specifico? In che misura fu un
evento determinante? La strada maestra per addentrarsi nel cuore di questo
problema sembra essere fornita dal temporaneo abbandono della militanza
politica, compiuto da Marx agli inizi degli anni Cinquanta. Sicuramente il
mutamento del contesto storico, la vittoria della controrivoluzione in tutta
Europa, la repressione, l’esilio londinese furono tutti fattori che ebbero
un’importanza decisiva. Vi fu però anche una motivazione squisitamente teorica,
un radicale mutamento nella prospettiva strategica marxiana1.
«Nel caso di una
battaglia contro un nemico comune non c’è bisogno di nessuna unione speciale.
Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due
partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per
l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si
ristabilirà spontaneamente»2.
L’imperativo dell’alleanza di tutte le forze democratiche,
centrale nel Manifesto, sembra ormai, dopo la rivoluzione, avere ben poco di
strategico; il vero compito dei comunisti rivoluzionari è piuttosto la lotta
proprio contro queste alleanze ibridatrici che, lasciando evaporare le
differenze di classe, dissolvono l’autonomia del proletariato e ne distruggono
la coscienza e la forza rivoluzionaria.
« Le diverse beghe, a
cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del
partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi
dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili
soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che
la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i
tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta
l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova
rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è
altrettanto sicura quanto l’altra»3.
Questo principio teorico fu la scoperta fondamentale e il
grande contributo della rivoluzione del 1848 alla teoria marxiana: non solo fu
il presupposto della nuova strategia anti-ideologica, che spinse Marx a
criticare violentemente i progetti cospiratori dei democratici esiliati a
Londra e provocò la scissione dell’ala Willich-Schapper nella ricostituita Lega
dei comunisti, ma fu anche e soprattutto lo strumento di un’autocritica fondamentale.
L’individuazione dell’intrinseco legame tra crisi e rivoluzione impose infatti
una radicale problematizzazione della teoria marxiana, che dovette essa stessa
liberarsi dai presupposti ancora ideologici, dagli ultimi residui di “filosofia
della storia” che, alle soglie della rivoluzione, ancora inibivano la
formulazione di una teoria rivoluzionaria organica e pienamente coerente. Marx
non ha mai né rinnegato le tesi enunciate nel Manifesto né ha mai
tematizzato una differente teoria politica; eppure le vicende del biennio
rivoluzionario europeo, inintelligibili attraverso tale schema interpretativo,
gli imposero necessariamente l’utilizzazione di altre categorie, non
“filosofiche”, che superarono di fatto la semplicità dell’antico modello
teorico lineare4: dopo il Quarantotto, infatti, la rivoluzione proletaria non
poté più fondarsi semplicemente sull’ “astratta necessità” che accomuna ogni
società umana, destinata a perire con l’emergere della contraddizione di forze
produttive e rapporti di produzione, ma si dovette invece legare alla modalità
peculiare con cui questa “legge generale" si realizza nel modo di
produzione capitalistico, a quel movimento ciclico attraverso il quale si
sviluppa la contraddizione di lavoro salariato e capitale.
Così, proprio a partire dai testi giornalistici scritti a
tra il 1848 e il 1853 è possibile rintracciare preziose indicazioni per una
teoria della rivoluzione ben più problematica, intimamente legata all’essenza
del modo di produzione capitalistico, al suo essere “terra di mezzo” tra il
regno della necessità e quello della libertà, tra la preistoria e la storia
dell’umanità5.
2. Linearità e ciclicità.
Nell’Ideologia tedesca Marx aveva definito la propria
concezione della storia proprio in opposizione ad ogni concezione filosofica,
ideologica:
«Con la
rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi
d’esistenza. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati
più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli
uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno
assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento
del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma
non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si
possono ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al
contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di
un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di
queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere
enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo
reale della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca»6.
Le teoria marxiana, al contrario delle filosofie della
storia, si fonda su un uso cosciente delle concettualizzazioni e
generalizzazioni teoriche: gli universali, riconosciuti come il prodotto dell’astrazione
dalle differenze peculiari degli oggetti determinati, non possono più essere considerati
il fine ultimo della conoscenza, ma assolvono piuttosto un compito “pratico”
derivato dalla loro peculiare capacità sintetica: servono a definire i tratti
comuni della storia umana. Per Marx quindi l’astrazione, per sé priva di
valore, diventa strumentale alla ricerca scientifica, che è invece sempre
riferita ad un oggetto specifico ed è sempre finalizzata a definirne le sue
caratteristiche peculiari, la sua irriducibilità alla dimensione generica e astratta,
la sua “differentia specifica”7.
Tale prospettiva metodologica fonda due dimensioni
differenti della temporalità e determina la loro relazione reciproca. La
“temporalità lineare” è la condizione trascendentale della storia stessa,
conseguenza delle caratteristiche essenziali dell’uomo: la sua specifica
modalità di rapportarsi alla natura duplica il significato e il valore
dell’elemento “naturale”, che, in ogni epoca, diventa allo stesso tempo l’espressione
del lavoro umano delle epoche passate, che dev’essere conservato, e il
presupposto per lo sviluppo ulteriore delle forze produttive umane, che
dev’essere quindi sempre ulteriormente trasformato8.
Il movimento storico, determinato dallo scontro necessario
tra queste due dimensioni, la conservativa e la dinamica, si configura come un
processo che procede dal semplice al complesso, dalle varie storie particolari
verso l’affermazione della storia universale. La rivoluzione, in ogni epoca, è
lo strumento per distruggere i vecchi rapporti di produzione e per fondare una
nuova “natura”, una diversa oggettività che, adeguata alle forze produttive
ormai sviluppate, realizza una nuova, effimera armonia tra l’elemento
conservatore e quello rivoluzionario.
La temporalità “filosofica” e lineare, che ha la sua sintetica
definizione nel postulato marxiano secondo il quale «le circostanze fanno gli
uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze»9, è quindi il
risultato dell’astrazione dalle caratteristiche determinate di ogni epoca, funzionale
alla definizione dei caratteri generali, comuni a tutte le epoche e quindi
anche a quella che è l’ oggetto specifico della ricerca marxiana, il modo di
produzione capitalistico. La sua vera conoscenza però presuppone il superamento
di questo terreno delle “astratte analogie” e l’individuazione della sua logica
specifica10.
La “temporalità ciclica”, in quanto descrive e definisce ciò
che distingue la società capitalista da ogni altra società umana, è il
risultato del passaggio a questo nuovo piano d’analisi.
«La borghesia non può
esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i
rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali»11.
In opposizione alle altre classi dominanti della storia, che
incarnavano la dimensione conservativa e statica dei rapporti di produzione
costituiti, la borghesia interiorizza l’elemento rivoluzionario dell’indefinito
sviluppo delle forze produttive come sua essenza peculiare. Le “circostanze
oggettive” conseguentemente, nel modo di produzione capitalistico, perdono la
loro fisionomia tradizionalmente statica ed appaiono esse stesse come elementi
dinamici, in continua trasformazione, infinitamente rivoluzionatesi attraverso
i successivi cicli economici.
«E’ questa la legge
che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e
costringe il capitale a intensificare le forze produttive del lavoro, perché esso le ha intensificate; la
legge che non gli concede tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti!
Avanti! Questa legge non è altro che la legge la quale, entro le oscillazioni
dei cicli commerciali, riconduce necessariamente
il prezzo di una merce ai suoi costi
di produzione. […] Qualunque sia la potenza dei mezzi di produzione
impiegati, la concorrenza cerca di rapire al capitale i frutti dorati di questa
potenza, riconducendo il prezzo della merce ai costi di produzione; facendo sì
che, nella misura in cui si può produrre più a buon mercato, cioè nella misura
in cui si può produrre di più con la stessa somma di lavoro, la produzione più
a buon mercato, la fornitura di masse sempre maggiori di prodotti per lo stesso
prezzo diventi una legge inesorabile. In tal modo con i suoi propri sforzi il
capitalista non avrebbe guadagnato nient’altro che condizioni più difficili di valorizzazione del suo capitale»12.
L’indefinito incremento delle forze produttive è il
risultato necessario delle leggi coercitive del capitale, che da un lato
impongono alla produzione di svilupparsi indefinitamente, al di là dei bisogni,
indipendentemente dalle esigenze della domanda, e dall’altro mantengono lo
scambio individuale quale forma di socializzazione della produzione privata, il
mercato come luogo in cui si deve realizzare la produzione. La specificità del
modo di produzione capitalistico è così, al tempo stesso, l’espressione del suo
strutturale disequilibrio, del suo carattere intrinsecamente contraddittorio:
la produzione si trova ciclicamente di fronte ad un mercato troppo limitato,
ormai saturo, incapace di fagocitare l’enorme quantità di merci prodotte13.
È il momento della crisi economica.
«Nella crisi scoppia
una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso:
l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente
ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra
generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza;
l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società
possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo
commercio. […] Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un
verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per
un altro verso conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i
mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e
più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi»14.
La “temporalità ciclica”, cogliendo la peculiare dinamica
attraverso la quale si realizza la “legge generale della storia” nel modo di
produzione capitalistico, mette in luce le sue qualità determinate, i suoi
elementi di irriducibilità, la sua unicità, la sua essenza: società ormai
capace di produrre libera dai bisogni ma d’altra parte costretta a riprodurre
ed aumentare progressivamente la miseria proletaria e lo sfruttamento del
lavoro, è la “terra di mezzo” tra la preistoria e la storia dell’umanità,
l’ultimo gradino della storia naturale e il presupposto necessario per lo
sviluppo libero dell’uomo.
3. Incoerenze interne
Il proletariato non può sperare, come le classi subalterne
delle società pre-capitalistiche, di emanciparsi attraverso il rivoluzionamento
delle forze produttive; il loro indefinito sviluppo quantitativo e la loro
infinita trasformazione sono piuttosto la sua croce, il fondamento della sua oppressione15.
“La trasformazione delle circostanze”, la rivoluzione, nel modo di produzione capitalistico,
deve necessariamente assumere un significato, completamente originale, nuovo:
dovrà coincidere con la prima trasformazione “qualitativa” della storia, con la
distruzione del presupposto naturale delle società umane e con l’inizio di una
nuova fase della storia umana, fondata sul libero sviluppo onnilaterale degli
uomini16.
La “temporalità ciclica”, esprimendo la peculiarità del modo
di produzione capitalistico, deve quindi definire anche da un lato la modalità
di sviluppo dell’antagonismo sociale tra borghesia e proletariato, dall’altro
le caratteristiche specifiche della rivoluzione sociale.
Tale deduzione è assente nella riflessione marxiana degli
anni ’40. La storia del proletariato corre parallela a quella della borghesia;
il loro antagonismo si sviluppa progressivamente, secondo fasi successive,
attraverso un percorso assolutamente lineare17.
Quando la borghesia è ancora in lotta contro le classi
reazionarie, l’antagonismo rimane celato, nascosto, sotterraneo. In questo
stadio la borghesia è infatti ancora la classe per eccellenza rivoluzionaria ed
ha quindi il monopolio dell’iniziativa storica; il proletariato parallelamente
è ancora immaturo, non si riconosce come soggetto storico, classe per sé. La
sua lotta contro la miseria è ancora una lotta reazionaria contro il progresso,
per riguadagnare la sua condizione perduta nell’artigianato medievale. Ogni gradino
che compie la borghesia verso la sua completa affermazione come classe
politicamente e socialmente dominante è però anche un momento di radicalizzazione
del loro antagonismo essenziale.
All’apice del modo di produzione
capitalistico, quando si sono ormai sviluppate tutte le forze produttive che
potevano nascere all’interno dei rapporti di produzione borghesi, tale processo
giunge infine al pieno compimento: la borghesia si è ormai trasformata in
classe conservatrice mentre il proletariato è diventato un soggetto rivoluzionario
pienamente cosciente delle condizioni della sua propria emancipazione.
La rivoluzione sociale è concepita anch’essa in piena
analogia alle rivoluzioni borghesi dell’epoca moderna: un evento di breve
respiro, capace di distruggere repentinamente, attraverso la conquista del
potere politico da parte del proletariato, l’intero ordinamento borghese18.
La strategia politica, enunciata nel Manifesto, è
pienamente coerente con tali presupposti “filosofici”: lì dove, come in
Germania, si era ben lontani dal vedere realizzata una matura società capitalistica
e con essa le condizioni oggettive per la rivoluzione sociale, il proletariato
avrebbe dovuto ancora essere, come il proletariato francese del 1789, alleato
della borghesia contro le forze reazionarie e avrebbe dovuto aiutarla a
realizzare il suo pieno dominio sociale e politico; lì dove invece, come in
Inghilterra, il modo di produzione capitalistico aveva ormai già compiuto tutte
le tappe del suo sviluppo, la rivoluzione sociale sarebbe stata imminente19.
Germania e Inghilterra rappresentavano i due estremi opposti
dello sviluppo capitalistico: la prima era la nazione più arretrata, ormai
anacronista, in cui la borghesia non era ancora né politicamente né socialmente
la classe dominante; l’altra invece incarnava l’apice dello sviluppo capitalistico;
la borghesia non aveva più altro nemico che il proletariato rivoluzionario.
La Francia, in questa prospettiva dell’assoluto parallelismo
tra sviluppo economico, conquista borghese del potere politico e realizzazione
delle condizioni oggettive della rivoluzione proletaria era per Marx un enigma
irrisolto. Qui la borghesia aveva infatti già compiuto la sua rivoluzione
politica, spazzato via l’antica nobiltà feudale ed il potere della chiesa, affermato
il suo assoluto dominio di classe ma, d’altra parte, la realtà sociale francese
era molto dissimile da quella inglese: l’antagonismo tra borghesia e
proletariato rimaneva ancora secondario e la maggioranza della popolazione
francese era ancora costituita da piccoli contadini proprietari e dalla piccola
borghesia cittadina, la cui stessa esistenza era indice dell’ “immaturità” del
modo di produzione capitalistico.
Come poter spiegare questo scarto tra sviluppo politico e
sviluppo sociale? L’imbarazzo di Marx è ancor più evidente se si considerano i
suoi tentennamenti sulla strategia politica da adottare, oscillante tra la
prospettiva dell’alleanza, enunciata nel Manifesto, e la previsione di
una pura rivoluzione proletaria, enunciata nell’articolo La situazione
francese, apparso sulla «Deutsche- Brüsseler-Zeitung» nel gennaio 184820.
L’ insufficienza teorica, dovuta alla coesistenza di due
piani eterogenei e contraddittori, si traduce in incertezza programmatica. La
stessa dialettica è rintracciabile nei tentennamenti e nelle incertezze
marxiane relative alla descrizione del passaggio della rivoluzione proletaria
dalla dimensione nazionale a quella universale.
Nel Manifesto Marx propone una teoria pienamente
coerente con la prospettiva lineare:
«Sebbene non sia tale
per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però
all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni
paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia»21.
Le rivoluzioni proletarie avrebbero inizialmente dovuto
assumere la forma di rivoluzioni nazionali indipendenti, ciascuna strutturata
secondo il grado di sviluppo raggiunto dal modo di produzione capitalistico.
«Con lo sparire
dell’antagonismo fra le classi nell’interno delle nazioni scompare l’ostilità
fra le nazioni stesse»22.
La conquista della dimensione universale sarebbe stata poi
il risultato naturale delle varie rivoluzioni nazionali: l’abolizione delle
classi avrebbe portato con sé, come conseguenza, l’abolizione dei confini e
delle nazioni.
In che modo però si possono conciliare i diversi gradi di
sviluppo delle nazioni, i tempi diversi delle varie rivoluzioni nazionali, dal
momento che la rivoluzione proletaria è vincente soltanto come rivoluzione
mondiale?
La risposta sembra poter esser trovata nel discorso tenuto
da Marx all’Assemblea nazionale di Londra per il diciassettesimo anniversario
della rivoluzione polacca, in cui però Marx in realtà utilizza un paradigma
completamente diverso:
«Tra
tutti i paesi l'Inghilterra è quello dove l'antagonismo tra proletariato e
borghesia è più sviluppato. La vittoria del proletariato inglese sulla
borghesia inglese è quindi decisiva per la vittoria di tutti gli oppressi
contro i loro oppressori. La Polonia non si libera quindi in Polonia, ma in
Inghilterra».23
Ben lungi dall’apparire come un puro legame esteriore, la
dipendenza tra le varie rivoluzioni nazionali in questo caso appare piuttosto
fondata su un vincolo essenziale: i destini delle nazioni arretrate sono decisi
in quelle più sviluppate. Dall’Inghilterra la rivoluzione si sarebbe dovuta quindi
espandere a macchia d’olio fino a conquistare quella dimensione universale in
cui sola avrebbe potuto essere vittoriosa.
Tale concezione della rivoluzione era destinata a rimanere
un’ipotesi contraddittoria all’interno di una prospettiva politica che,
indifferente alla specifica contraddizione del modo capitalistico di
produzione, alla peculiarità dell’antagonismo di borghesia e proletariato e
alla sua modalità ciclicità di sviluppo, fonda ancora la necessità della rivoluzione
proletaria soltanto sull’astratta analogia con le altre società umane,
storicamente determinate e quindi destinate a perire in virtù della
contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. La medesima
prospettiva rivoluzionaria però, fondata sull’interdipendenza mondiale della
produzione capitalistica e ben più coerente con i presupposti teorici marxiani,
prenderà decisamente il sopravvento dopo la rivoluzione del 1848.
4. Prosperità e
controrivoluzione.
Le rivoluzioni politiche europee, invece di essere un passo
in avanti verso la definitiva vittoria della società borghese sui residui di
epoche passate, ebbero come unico risultato l’affermazione “universale” della
controrivoluzione, non soltanto sul continente rivoluzionario ma anche nella “pacifica”
Inghilterra. Qui l’aristocrazia fondiaria, rappresentata dal partito Tory,
nonostante avesse perduto, con l’abolizione delle leggi sul grano, il suo
ultimo privilegio sociale e nonostante avesse ormai riconosciuto l’indiscussa
egemonia del capitale industriale, continuava a conservare il monopolio del
potere politico.
«E come si può raggiungere questo obiettivo?
Nientedimeno che con una controrivoluzione,
cioè con una reazione dello Stato contro la società. Essi si sforzano di tenere
artificiosamente in piedi le istituzioni e un potere politico, condannati dal
momento stesso in cui la popolazione rurale si è trovata superata di tre volte
da quella delle città»24.
La controrivoluzione, dopo il biennio rivoluzionario, non
poteva più essere considerata un fenomeno storico contingente, un’effimera
sospensione del movimento lineare della storia, una mera conseguenza dei
disordini rivoluzionari25; colpendo anche il paese che era riuscito a restare indifferente
alle vicissitudini rivoluzionarie, aveva conquistato una “dimensione più
universale” della stessa rivoluzione europea. Doveva essere necessariamente
riconosciuta come un fenomeno essenziale della società moderna, intimamente
legato al modo di produzione capitalistico26.
La metamorfosi delle forze reazionarie in pure “forze
politiche”, improduttive e parassitarie è infatti la conseguenza della
peculiare contraddizione della moderna borghesia che, al contrario delle altre
classi dominanti nella storia, è impossibilitata a compiere la sua propria
trasformazione da classe rivoluzionaria in classe conservatrice ed è costretta
piuttosto ad essere allo stesso tempo, sincronicamente, rivoluzionaria verso le
forze reazionarie, conservatrice nei confronti del proletariato ed incapace di
liberarsi definitivamente di entrambi i nemici27.
La borghesia è necessariamente ed essenzialmente antagonista
verso ogni potere consolidato dalle tradizioni: le monarchie, con i loro enormi
apparati burocratici e militari, sono per lei null’altro che “faux frais”
della produzione, spese inutili al capitale, inspiegabili ritenute sui profitti,
esistenze parassitarie assolutamente contraddittore rispetto alle leggi della
produzione borghese. «L’argent n’a pas de maître!»28 ed il capitale non
può tollerare alcun potere politico che intralci la sua innata forza
rivoluzionaria, alcuna limitazione esteriore alle sue leggi intrinseche, alcun
ostacolo, alcun privilegio. La borghesia quindi non può che rivendicare uno
Stato perfettamente corrispondente alla dinamica del capitale: un governo
repubblicano, “minimo”, libero da ogni spesa superflua, che riduca al minimo i
suoi costi di produzione.
Quel «comitato, il quale amministra gli affari comuni di
tutta quanta la classe borghese»29, prospettato nel Manifesto come esito
ultimo dello sviluppo capitalistico, è quindi in effetti l’ideale politico
della borghesia, destinato però a restare un progetto utopico, irrealizzabile:
l’eliminazione del dispendioso apparato burocratico e militare dello Stato
eliminerebbe infatti ogni autonomia formale del potere politico,
demistificherebbe i rapporti tra le classi e lascerebbe emergere in modo pericolosamente
evidente l’antagonismo di capitale e lavoro30. La borghesia fornirebbe così al proletariato
tutte le armi per la rivoluzione e parallelamente si priverebbe di ogni
capacità repressiva, destinandosi all’impotenza. La realizzazione del suo
“Stato ideale” sarebbe l’affermazione delle condizioni della propria sconfitta
certa31.
La borghesia quindi, di fronte al proletariato, è costretta
a svestirsi degli abiti rivoluzionari per indossare quelli conservatori: gli
enormi costi di gestione dell’apparato statale, che aveva dapprima denunciato
come “faux frais” della produzione, intollerabili ritenute sui profitti,
vengono improvvisamente riconosciuti come spese più che mai necessarie al
capitale, le sue sole armi contro la lotta di classe, gli unici strumenti
capaci di garantire l’ordine e la pace sociale e assicurare così le condizioni
necessarie per lo sfruttamento capitalistico del lavoro.
L’essenza duplice della borghesia incarna quindi due istanze
contraddittorie, reciprocamente negatesi: il proletariato è tanto suo unico alleato contro i
poteri reazionari, quanto il suo nemico, «irreconciliabile, invincibile –
invincibile perché la sua esistenza è condizione della esistenza stessa della
borghesia»32; d’altra parte le costose forze repressive dello Stato sono sì “ faux
frais” di cui la borghesia si deve liberare, ma sono anche, nello stesso
tempo, la sua unica arma contro il proletariato.
Per mantenere il proprio dominio di classe la borghesia deve
inibire lo svolgimento della dialettica storica, mantenere assopita la sua
essenza contraddittoria, rendere latente, sospesa, la conflittualità sociale, impedire
l’emergere violento del suo “duplice antagonismo”, evitare da un lato che
classi rivoluzionarie «avanzino dall’emancipazione politica all’emancipazione
sociale»33, dall’altro che la reazione «retroceda dalla restaurazione sociale
alla restaurazione politica»34.
Questo limbo, questa dimensione dell’assoluta indecisione
storica ha però la sua condizione trascendentale nella prosperità economica,
che crea le condizioni per poter realizzare un tacito e ipocrita compromesso
tra la borghesia e le forze repressive statali, capace di anestetizzare le contraddizioni
tendenzialmente esplosive del capitalismo: il credito borghese si sottomette
agli interessi improduttivi dello Stato, accetta di sopportare il peso dei ceti
privilegiati e parassitari e questi ultimi “in cambio” si impegnano a garantire
l’ordine e a pace sociale, diventando così strumenti borghesi contro i pericoli
della lotta di classe35.
Concentrata sui suoi affari privati, interessata
esclusivamente a sfruttare al meglio la congiuntura favorevole, impegnata a
trarne i maggiori benefici economici nella consapevolezza che la crescita
economica è sempre il preludio della stagnazione e della crisi, la borghesia
cede ben volentieri ad un potere politico formalmente indipendente, garante
delle condizioni del corso normale della produzione borghese, tutte le
responsabilità e i pericoli connessi alla gestione dello Stato36.
Il compromesso appare infatti duplicemente vantaggioso per
la borghesia: non solo le forze burocratiche e militari dell’apparato statale
salvaguardano la pace sociale attraverso le forze repressive vere e proprie, ma
svolgono anche una preziosa funzione di “repressione preventiva”: opprimendo
egualmente tutte le classi sociali, compresa la borghesia, nascondono la loro dipendenza
dai rapporti di produzione borghesi e l’effettiva subordinazione al capitale
dietro la loro autonomia formale. Questa mistificazione, in cui i reali
rapporti di dipendenza tra i poteri statali e la società appaiono invertiti, dà
allo Stato le sembianze di un potere metafisico, di una forza trascendente: è
un “Dio”, che ha creato la struttura sociale per poter dispensare premi e
punizioni sociali, elargire miseria e privilegi. Mentre attira così su di sé
l’odio di tutte le classi sociali, lascia il capitale libero di affermare
indisturbato il suo effettivo potere, il suo reale dominio, lontano da occhi
indiscreti e pericolosi37.
L’autonomia formale dello Stato dalla società quindi, ben
lungi dall’essere in contraddizione con i rapporti di produzione borghesi, è piuttosto
il risultato conseguente dell’a-politicità e dell’ “interessata indifferenza”
della classe borghese verso la dimensione pubblica in ogni periodo di crescita
economica.
Tutte le monarchie europee si fondavano per Marx, prima del
1848, su questo “tacito compromesso”, le cui clausole specifiche dipendevano,
nelle varie nazioni, dal potere sociale, e quindi dalla forza contrattuale,
delle varie borghesie nazionali.
La borghesia inglese, rifiutandosi di trarre dalla sua
potenza sociale «le necessarie conclusioni politiche ed economiche»38, aveva
lasciato la gestione dello Stato in mano all’aristocrazia fondiaria, garante
dell’ordine sociale. L’abolizione delle leggi sul grano era stata la
dimostrazione che, qualsiasi partito stesse al governo, il potere politico era
sempre costretto a cedere alle richieste borghesi e a sottomettersi ai suoi
interessi di classe39.
«La Costituzione
britannica non è altro che un compromesso superato, anacronistico e caduto in prescrizione,
fra la borghesia che non ufficialmente
ma di fatto predomina in tutte le sfere decisive della società e
l’aristocrazia terriera ufficialmente
regnante»40.
Ben diversa era invece la forza sociale della borghesia
francese, che, in nome dell’ordine sociale, doveva accettare il dominio
politico dell’aristocrazia finanziaria, la «riproduzione del sottoproletariato
alla sommità della società borghese»41.
Lo Stato francese, monopolizzato da una “cricca” di interessi particolaristici,
era diventato «una società per azioni per lo sfruttamento della ricchezza
nazionale francese, società i cui dividendi si ripartivano fra i ministri, le
Camere, 240 mila elettori e il loro seguito»42.
In Germania infine
il compromesso sembrava assolutamente impossibile: la debole borghesia tedesca
era infatti la più bisognosa della protezione statale contro la concorrenza
straniera e doveva sopravvivere con un potere politico che, incapace di
proteggerla economicamente, la costringeva inoltre a farsi carico degli enormi
costi di gestione della struttura ancora feudale della monarchia.
Eppure la borghesia
tedesca era la meno propensa a intraprendere il cammino della rivoluzione:
«Ai suoi occhi la Corona era appunto solamente il
paravento per grazia divina dietro al quale dovevano nascondersi i suo i propri
interessi profani. L’intangibilità dei suoi propri interessi e delle forme
politiche corrispondenti al suo interesse, tradotta in linguaggio
costituzionale, doveva significare: intangibilità della Corona»43.
L’“ipocrita compromesso” tra poteri repressivi di Stato e
borghesia è anche il segreto dell’affermazione universale della
controrivoluzione alla fine del biennio rivoluzionario:
«A partire dal 1849 la
prosperità industriale e commerciale ha rappresentato il divano su cui la
contro rivoluzione ha dormito indisturbata»44.
Passata la crisi economica iniziata in Inghilterra tra il
1845 e il 1847, era cominciato un nuovo periodo di benessere, prosperità,
crescita economica e conseguentemente una rinnovata indifferenza della
borghesia verso la politica. Il desiderio di essere tutelata contro ogni
pericolo di conflitti sociali la spinse ad abbandonare i suoi rappresentanti
politici e a rifugiarsi nuovamente nelle braccia protettive dei poteri
controrivoluzionari45.
In Inghilterra:
«la massa della
popolazione è occupata e gode più o meno di un relativo benessere, sempre
astrazion fatta dei poveri, che sono inseparabili dalla prosperità inglese; per
questo motivo oggi non è molto incline ad agitazioni politiche. Ma ciò che
soprattutto dà a Derby la possibilità di dar corso alle sue macchinazioni, è il
fanatismo con cui la classe media si
è gettata nell’immane processo della produzione industriale, erigendo
fabbriche, costruendo macchine e navi, filando e tessendo cotone e lana,
immagazzinando merci, fabbricando, scambiando, esportando, importando ed
esercitando altre attività più o meno utili, il cui scopo, per la borghesia, è
sempre quello di far soldi. La borghesia, in questo momento di intensa attività
commerciale – e ben si sa che questi felici momenti diventano sempre più rari e
sempre più distanti l’uno dall’altro – fa e deve far soldi, molti soldi;
soltanto soldi. E lascia ai suoi uomini politici ex professo l’incarico di
tener d’occhio i tories. Ma gli uomini politici ex professo […] si lamentano
giustamente di non poter agitare le acque senza una pressione dall’esterno,
così come l’organismo umano non può funzionare senza la pressione atmosferica»46.
Sul continente rivoluzionario il nuovo benessere anestetizzò
nuovamente la contraddizione borghese e la parola d’ordine tornò ad essere
quella della tutela dell’ordine e della pace sociale. La lotta per il
mantenimento del potere politico conquistato attraverso le rivoluzioni avrebbe
richiesto necessariamente, in Francia come in Germania, una nuova alleanza con
il popolo, la fine di ogni garanzia di pace sociale, il rischio di non poter
approfittare della congiuntura economica favorevole. Le borghesie nazionali
preferirono quindi ritirarsi dal terreno politico e allearsi con la reazione contro
i loro stessi rappresentanti.
La borghesia francese «faceva capire che la lotta per la
difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi di classe,
del suo potere politico, in quanto disturbava i suoi affari privati lo molestava
e gli dava fastidio»47. Abbandonò così l’Assemblea legislativa al suo triste
destino e diventò bonapartista48.
In Germania, parallelamente, «per paura della rivoluzione,
la parte commerciale e industriale della borghesia si getta nelle braccia della
controrivoluzione»49. L’Assemblea intesista si trovò completamente isolata
nella sua guerra contro la Corona; il suo appello ai cittadini per non pagare
le tasse al governo traditore sarebbe caduto nel vuoto, se non fosse stato
accolto entusiasticamente solo dai movimenti democratici, che in seguito
dovettero rispondere davanti ai tribunali.
L’ultimo periodo del biennio rivoluzionario, quindi, non fu
la lotta della borghesia per il mantenimento del potere politico, fu piuttosto
una “guerra politica” tra l’esecutivo ed il legislativo per la gestione dell’apparato
statale e per il monopolio dei privilegi politici.
«Il potere esecutivo,
in opposizione al potere legislativo, esprime l’eteronomia della nazione, in
opposizione alla sua autonomia»50. I
rappresentanti borghesi si erano trasformati anch’essi, dopo due anni di
politica controrivoluzionaria e repressiva, in “poteri metafisici”, “cricche”
politiche legate a specifici privilegi e privi di qualsiasi forza di
rappresentanza. Lontani dal popolo, traditi dalla propria stessa classe, privi
di ogni sostegno sociale, senza armi, erano però destinati all’impotenza e
dovettero soccombere alla pura forza repressiva dei poteri controrivoluzionari.
5. Crisi e
rivoluzione.
La borghesia, finché c’è abbondanza di credito, prosperità,
crescita economica, mantiene sospesi i presupposti contraddittori del suo
dominio, persistendo nella pacifica dimensione dell’assoluta indecisione e
irresoluzione; col sopraggiungere della crisi però la contraddizione esplode
violentemente, inaugurando una congiuntura rivoluzionaria.
La riduzione delle disponibilità di credito della borghesia,
la penuria nei profitti, impongono la fine degli sperperi, la parsimonia,
l’eliminazione dei “faux frais” della produzione. Così, quell’antagonismo
latente, sotterraneo tra il potere politico formalmente autonomo, che vorrebbe sottomettere
il credito borghese ai suoi privilegi, e la borghesia, che soltanto a
malavoglia tollera queste spese improduttive, deve necessariamente emergere in
superficie: l’autonomia formale dello Stato, le sue capacità repressive, i suoi
apparati burocratici e militari sono improvvisamente riconosciuti come poteri
reazionari, arbitrari, oppressivi, non legittimi. E contro i regimi dispotici
la rivoluzione è un diritto borghese.
La rottura del tacito compromesso con il potere statale,
l’abbandono del terreno della “sospensione storica” è però il più grande
pericolo per la borghesia poiché ogni congiuntura rivoluzionaria si annuncia
sempre con il minaccioso avvertimento: «Aprés moi le déluge!»51. Lasciando
esplodere il fondamento contraddittorio del suo dominio la borghesia dà infatti
inizio ad una serie di eventi che non può controllare; per quanto cerchi
disperatamente di riassopire le contraddizioni esplose, si trova ad essere
spintonata, sballottata, in balia di forze estranee che non riesce ad
addomesticare.
La possibilità rivoluzionaria è contemplata quindi dalla
borghesia esclusivamente come estremo rimedio, una strada da percorrere
soltanto dopo aver tentato tutti i possibili compromessi con i poteri statali
sul “terreno legale”. La forza e le capacità “persuasiva” della borghesia dipendono
però da due fattori oggettivi: da un lato dal grado dell’intensità della crisi
economica, che determina i margini di disponibilità di credito per tenere in
vita lo Stato parassita, dall’altro dalla forza sociale della borghesia, che
definisce la sua capacità di influire a livello politico, la possibilità di
costringere i poteri statali a rinunciare pacificamente ai propri privilegi, subordinandoli
agli interessi di classe borghese52.
Nel 1848 soltanto la borghesia inglese riuscì a mantenere
questo terreno della mediazione pacifica: poiché la crisi economica era rimasta
circoscritta nelle sfere secondarie e sintomatiche della speculazione e del
commercio, senza estendersi fino al cuore della economia capitalista, alla sfera
industriale, anche le ripercussioni politiche furono limitate. L’abolizione
delle leggi sul grano fu il compromesso col quale il governo Tory accettò di
difendere le esigenze della borghesia industriale, conservando il proprio
monopolio del potere politico. La borghesia inglese così si salvò senza doversi
incamminare sul pericoloso terreno rivoluzionario; la sua essenza
contraddittoria restò assopita.
Ben differente fu la dinamica storica per le altre nazioni.
La paralisi del commercio inglese fu infatti cruciale per le deboli economie
continentali, unilateralmente dipendenti dall’Inghilterra: non solo chiuse il
loro principale canale di esportazione ma aumentò parallelamente la concorrenza
inglese sugli altri mercati. La crisi si presentò conseguentemente nella sua
forma pura, essenziale, radicale: come crisi industriale di sovrapproduzione,
che annientò tutti i possibili tentativi di mediazione. La debolezza economica
si tradusse così in impotenza politica: sia l’appello della borghesia
industriale francese per una riforma elettorale che le avrebbe dato la
maggioranza parlamentare, sia quello rivolto dalla borghesia tedesca al monarca
assoluto, affinché si decidesse a diventare costituzionale, caddero nel vuoto.
La borghesia però, per sé assolutamente priva di coraggio,
incapace di imprese eroiche, non si incammina mai da sola sul terreno
rivoluzionario. Chiama il popolo a sua difesa, lo manda avanti contro il
pericolo, gli permette di battersi per lei e raccoglie infine i frutti della
rivoluzione.
Così in Francia fu il proletariato ad imporre la
proclamazione della repubblica sulla base del suffragio universale, cancellando
«persino il ricordo degli scopi e degli obiettivi limitati che avevano spinto
la borghesia alla rivoluzione di febbraio»53.
In Germania parallelamente il
popolo pose fine ad ogni possibilità di meschini compromessi con la Corona.
«La borghesia non
aveva mosso un dito. Aveva permesso al popolo di battersi per lei. Il dominio
trasmessole non era quindi il dominio del generale che sconfigge il suo
avversario sul campo di battaglia, bensì il dominio di un comitato di salute
pubblica a cui il popolo vincitore affida la tutela dei suoi propri interessi»54.
Il popolo, « puer robustus sed malitiosus come dice
Hobbes»55, consegna quindi alla borghesia il potere politico ma la costringe
allo stesso tempo a superare le sue limitate rivendicazioni iniziali, ad
elevarsi al di sopra della propria esistenza di classe, a trasformarsi nella rappresentante
della “volontà universale della nazione”, nella classe universalmente
emancipatrice, simbolo della definitiva vittoria del diritto su ogni potere
arbitrario, su ogni forma di privilegio.
Le condizioni per la liberazione delle altre classi sociali
però implicano il superamento del modo di produzione borghese mentre d’altro
canto il dominio di classe della borghesia presuppone la schiavitù delle altre
classi sociali. Come avrebbe potuto la borghesia tutelare i propri particolari interessi
di classe ed esser contemporaneamente la portavoce delle rivendicazioni delle
altre classi sociali? Come avrebbe potuto garantire le condizioni del dominio
del capitale sul lavoro e rappresentare gli interessi del proletariato? Come
tutelare gli interessi della piccola borghesia e della piccola proprietà
contadina se il suo potere è il dominio del grande capitale, che distrugge con ferrea
necessità la piccola proprietà?
Il potere politico della borghesia, conquistato per via
rivoluzionaria, lascia emergere le sue istanze contraddittorie, reciprocamente
escludentisi, e crea così «il terreno della lotta»56: la rivoluzione borghese
diventa cioè la prima fase di un movimento rivoluzionario che deve proseguire
inarrestabile, «secondo una linea ascendente»57, bruciare le tappe della
storia, perpetuarsi, prolungarsi in permanenza, e, senza arrestarsi, senza
accettare compromessi, inesorabile, deve portare a compimento il suo compito
trasformando la rivoluzione politica in rivoluzione sociale e superando il
fondamento contraddittorio della società borghese.
Una necessità vitale impone quindi alla borghesia di
“reagire”, di bloccare questo movimento ascendente, di chiudere il più
rapidamente possibile la congiuntura rivoluzionaria; il ripristino del terreno
legale però, ben lungi dal poter esser deciso dalla volontà delle borghesia, dipende
esclusivamente dalla ripresa economica. «Anche il terreno controrivoluzionario
è rivoluzionario»58 e quindi il tradimento borghese della
rivoluzione instaura necessariamente il movimento opposto, “discendente”, verso
la controrivoluzione, e la borghesia è destinata a perdere nuovamente il
controllo degli avvenimenti ed essere infine sconfitta dalle forze reazionarie.
Questo movimento discendente, nel 1848, tanto in Francia
come in Germania, si realizzò in due fasi: la prima, quella della “resistenza
passiva”, fu dominata dalle rappresentazioni ideologiche della realtà59.
Formalmente la borghesia riconobbe la rivoluzione come atto
fondativo del suo dominio e si proclamò classe universalmente emancipatrice,
rappresentante della volontà del popolo; praticamente, contraddicendo e negando
i principi ideali, cercò di stabilire una distanza tra il suo potere politico e
l’evento rivoluzionario che l’aveva generato.
La borghesia francese proclamò così la “fraternité”
universale come il principio fondante della repubblica, mentre parallelamente
la politica del governo provvisorio ebbe un unico obiettivo:
«Si doveva […] farla
finita con gli operai»60.
La Commissione del Lussemburgo, la formazione della guardia
mobile, gli Ateliers nationaux; furono tutti provvedimenti tesi a
indebolire i proletari che, essendo stati decisivi nelle giornate di
febbraio, «avanzavano le pretese orgogliose del vincitore»61; rivendicazioni
inammissibili per la borghesia.
In Germania l’espediente col quale la borghesia riconobbe e
negò allo stesso tempo il legame tra la rivoluzione e il suo potere politico fu
la trasformazione di un nesso causale in un legame temporale.
«Post e non propter,
vale a dire, il signor Camphausen è
diventato presidente del Consiglio non per
effetto della rivoluzione di marzo, ma dopo la rivoluzione di marzo»62.
Il ministero Camphausen, definendosi “primo ministero dopo
la rivoluzione di marzo”; riconosceva la rivoluzione soltanto come momento di
inizio del potere borghese e tacitamente confessava che la sua azione politica
si sarebbe svolta invece su un altro terreno. In tal modo furono poste le
premesse per la teoria intesista: la borghesia tedesca avrebbe svolto la sua
opera costituente sul “terreno legale del diritto”, in accordo con la Corona.
Tale ipocrisia celava un ardito e furbesco progetto borghese:
«Il “terreno del
diritto” significava, in una parola, che la borghesia, dopo il marzo, voleva trattare con la Corona sullo stesso piede
di prima del marzo, come se non
fosse avvenuta nessuna rivoluzione e la Dieta riunita avesse raggiunti il suo
scopo senza la rivoluzione. Il “terreno del diritto” significava che il titolo
giuridico del popolo, la rivoluzione,
non esisteva nel contrat social tra governo e borghesia. La borghesia deduceva le sue rivendicazioni
dalla vecchia legislazione
prussiana affinché il popolo non deducesse rivendicazioni dalla nuova rivoluzione prussiana»63.
Il giugno parigino segnò il passaggio dalla fase della
“resistenza passiva” a quello dell’ “attacco attivo” contro la rivoluzione. Il
suo segreto fu il dieci aprile inglese, giorno in cui una pacifica
manifestazione cartista fu trasformata in un massacro; la borghesia inglese
diede così l’esempio e la forza alla controrivoluzione europea: la borghesia
francese poté liberarsi definitivamente del proletariato, «e ciò che era
possibile a Parigi si poteva rifare anche altrove»64. La borghesia tedesca,
pusillanime e debole, divenne improvvisamente impavida e coraggiosa65.
Così, dall’Inghilterra alla Germania, la rivoluzione europea
fu definitivamente sconfitta e la borghesia sembrò esser ormai riuscita ad
imporre finalmente il suo dominio assoluto: inizialmente aveva sfruttato il
popolo contro i poteri reazionari, poi si era disfatta anche dell’antico
alleato, e sembrava aver così risolto il carattere contraddittorio del suo
potere politico distruggendone gli elementi costitutivi. Era rimasta la sola
forza sopravvissuta.
Le Costituzioni sarebbero state i suoi strumenti per
tutelarsi tanto dalla reazione quanto dal popolo. Ma, reprimendo il popolo,
quale altra arma le sarebbe rimasta contro i poteri reazionari? E come avrebbe
potuto portare avanti la repressione del popolo una volta distrutto l’antico
apparato statale? Ancora una volta l’attendeva un compito impossibile; ancora
una volta la contraddizione poteva essere risolta soltanto sul piano illusorio
dell’ideologia: essa sancì idealmente i principi democratici del proprio
dominio, immaginando così di tutelarsi dalle forze reazionarie, mentre praticamente,
per imporre la propria dittatura di classe contro il popolo, riconfermò ovunque
gli antichi poteri, la burocrazia e l’esercito, convinta che questi avrebbero
accettato il nuovo ruolo di “salariati” della borghesia e avrebbero rinunciato
ai loro vecchi privilegi.
L’egemonia politica borghese, all’interno della congiuntura
rivoluzionaria, non poteva esser altro che un effimero momento di equilibrio
tra rivoluzione e controrivoluzione e la borghesia, cercando di eternare
quest’”istante fuggente” attraverso l’opera costituzionale, preparava in realtà
tutte le condizioni oggettive per la sua futura sconfitta. Principi ideali e
condizioni reali del dominio borghese furono enunciati in ogni singolo articolo
della Costituzione francese emanata nel novembre 1848: diviso in due parti,
nella prima veniva enunciata formalmente la libertà universale mentre nella
seconda ne venivano definite le limitazioni66.
«Il lettore avverte
subito che essa è, dal principio alla fine, un insieme di belle parole che
nascondono un’intenzione quanto mai fallace. Già nel modo stesso in cui è
formulata, infrangerla è impossibile, poiché ogni sua norma contiene in sé la
propria antitesi – si annulla da sé. […] La Costituzione continua a ripetere
sempre la formula che la regolamentazione e la limitazione dei diritti e delle
libertà del popolo (come il diritto di riunione, il diritto di voto, la libertà
di stampa, di insegnamento ecc.) debbono essere fissate da una legge organica
successiva – e queste “leggi organiche” “determinano” la libertà promessa
annientandola. […] Le eterne contraddizioni di questa parodia di Costituzione
mostrano con sufficiente chiarezza che la borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti; essa potrà
ben riconoscere le verità di un principio, ma non lo metterà mai in pratica – e la vera “Costituzione” della Francia
non sta nella Carta di cui abbiamo riferito, ma nelle leggi organiche emanate
sulla base di questa e che noi abbiamo brevemente riassunto per il lettore. I principi c’erano - ma i dettagli furono rimessi al futuro, e
proprio in grazia di quei dettagli la vergognosa tirannia fu ancora una volta
assunta a legge!»67.
Le leggi organiche definirono “socialiste” anche le più
classiche libertà borghesi e permisero di portare avanti una politica
repressiva e reazionaria, antipopolare, che sottrasse alle classi nemiche, in
nome dell’ordine e della sicurezza sociali, ogni libertà.
«Ciò che la borghesia
non comprendeva era la conseguenza che il
suo proprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico, dovevano anche essi
sottostare alla generale sentenza
di condanna come socialisti […]
Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la “calma”, come poteva voler
conservare, alla testa della società , il
regime della irrequietezza, il suo proprio regime, il regime parlamentare, questo regime
che, secondo l’espressione di
uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta? Il regime parlamentare vive della discussione:
come può proibire la discussione? […] Tacciando dunque di eresia “socialista”
ciò che prima aveva esaltato come “liberale”,
la borghesia confessa che il suo
proprio interesse le impone di sottrarsi al pericolo dell’autogoverno; che per mantenere la calma nel paese deve anzitutto esser
ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il
suo potere politico; che i singoli borghesi
possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della
proprietà, della famiglia,
della religione e dell’ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero
politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria
corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempo pendere come in spada di Damocle
sulla propria testa»68.
La borghesia francese, convinta di aver affermato le
condizioni per la propria dittatura di classe, aveva posto le premesse per il
colpo di stato di Luigi Bonaparte.
Gli unici articoli positivi della Costituzione, che non
avevano in sé la propria antitesi, erano quelli relativi alla separazione dei
poteri. Qui la contraddizione tra la libertà ideale e dittatura reale, non più
incarnata in ogni singolo articolo, si disponeva invece tra gli articoli
relativi ai poteri del legislativo e quelli dell’esecutivo. I primi sancivano
l’idealità del potere politico borghese, i secondi la sua realtà. I poteri
speciali, affidati a Cavaignac durante il massacro di giugno, diventarono le prerogative
del presidente della repubblica: investito dei poteri illimitati di un monarca
assoluto, con il pieno controllo sull’esecutivo e sulle forze militari, ebbe
come unico limite quello della scadenza del mandato, che sanciva il suo
passaggio dall’onnipotenza al nulla. Così la costituzione «non solo […]
consacra, come la Carta del 1830, la divisione dei poteri, ma la estende sino a
farla diventare una intollerabile contraddizione»69. Istigava necessariamente
l’esecutivo alla soluzione anticostituzionale70.
In Germania il passaggio dalla “resistenza passiva”
all’”attacco attivo” fu simboleggiato dalla caduta del ministero Camphausen.
«Le sue dimissioni
furono […] un mistero per i politicanti da osteria. Fu seguito dal ministero d’azione, dal ministero Hansemann, perché la borghesia
pensava di passare dalla fase del tradimento
passivo del popolo a favore
della Corona alla fase dell’assoggettamento attivo del popolo
sotto il dominio concordato con la Corona. Il ministero d’azione fu il secondo
ministero dopo la
rivoluzione di marzo. Ecco il suo mistero»71.
La politica
impossibile del ministero Hansemann si riassunse nella formula: «Signori! In
questioni di denaro, la cordialità cessa!»72. Quest’espressione era
portatrice di due messaggi differenti: per la Corona doveva significare
l’abolizione degli antichi privilegi della “camarilla berlinese”, la
fine degli antichi “faux frais” della produzione statale, dei poteri
privilegiati, della nobiltà. La monarchia assoluta sarebbe stata trasformata in
monarchia costituzionale e l’unica forma di proprietà tutelata sarebbe stata la
proprietà borghese. Per il popolo il medesimo imperativo era invece un
avvertimento: poiché il credito borghese aveva bisogno di ordine e stabilità
sociale il governo avrebbe provveduto a reprimere ogni sussulto sociale, ogni
tentativo di risvegliare la lotta di classe.
Ancora una volta
due compiti che si negavano reciprocamente: se la borghesia avesse voluto realmente
distruggere il potere della Corona, l’intera struttura dell’apparato statale
assolutistico e monarchico, si sarebbe dovuto proclamare un potere costituente,
una Convenzione rappresentante del popolo rivoluzionario, come avevano fatto la
borghesia inglese nel XVII e quella francese nel XVIII secolo. Per la repressione
del popolo d’altra parte non avrebbe potuto fare a meno degli antichi poteri
repressivi dello Stato, gli avrebbe dovuto concedere enormi poteri,
riconoscendoli come elementi fondamentali del modo capitalistico di produzione.
La borghesia
tedesca, proprio come quella francese, rese unilaterale la contraddizione e si limitò
alla repressione del popolo. «La vecchia burocrazia, il vecchio esercito, le
vecchie procure, i vecchi giudici, nati, educati e invecchiati al servizio
dell’assolutismo»73 furono invece investiti di poteri sempre maggiori, nella
convinzione che si sarebbero sottomessi al nuovo potere borghese. «Non solo nel
ministero, ma in tutto l’ambito della monarchia la borghesia era ebbra di
questa folle illusione»74.
Agonizzanti dopo la
rivoluzione di marzo, grazie alle cure della borghesia, le vecchie forze reazionarie
poterono riprendere lentamente forza e vigore, finché, quando furono ormai completamente
guarite, vollero ristabilire il loro antico modo di vita, lontane da “noiosi
medici” e protettori borghesi.
6. Conclusione.
Due anni di
sommovimenti politici avevano avuto come unici risultati il ristabilimento dei vecchi
poteri contro i quali era stata mossa la rivoluzione, l’accresciuta arroganza
delle burocrazie e degli eserciti europei, un clima ancor più oppressivo di
quello pre-rivoluzionario, la rinnovata indifferenza borghese per la dimensione
politica. Il biennio rivoluzionario europeo sembrava così concludersi con un
“nulla di fatto”; quasi come se la spinta rivoluzionaria e la reazione controrivoluzionaria
si fossero infine compensate, annullandosi a vicenda.
Tale insensatezza
della storia si rivela essere apparente se le congiunture rivoluzionarie sono concepite
come stadi determinati dello sviluppo capitalistico: in tale prospettiva,
infatti, ogni ripresa economica, ben lungi dall’essere un definitivo
superamento della crisi, è soltanto il presupposto per crisi future, più
radicali, più violente; la contraddizione borghese va in letargo solo per
esplodere nuovamente, in una forma più matura e più drastica.
L’antagonismo tra
borghesia e proletariato diventa progressivamente sempre più violento mentre
d’altra parte diminuiscono i margini per i possibili compromessi tra la
borghesia e i poteri parassitari dello Stato.
La trasformazione
del proletariato in classe compiutamente rivoluzionaria non si realizza, come
Marx aveva immaginato nel Manifesto, attraverso un processo di sviluppo
lineare, ma invece proprio attraverso le successive congiunture rivoluzionarie.
Il suo sviluppo quantitativo, risultato del rivoluzionamento delle forze
produttive necessario per superare le crisi, è sempre accompagnato da un
parallelo sviluppo qualitativo.
La demistificazione
delle relazioni sociali infatti, lasciando emergere l’essenza contraddittoria della
borghesia, costituisce necessariamente un momento di crescita del proletariato,
che solo così diventa progressivamente maturo e cosciente della sua
conflittualità essenziale con la borghesia.
Il massacro di
giugno aveva liberato l’intero proletariato europeo da ogni illusione di poter emanciparsi
all’interno dell’ordinamento borghese, dalla rappresentazione ideologica della borghesia
quale classe universalmente emancipatrice, da ogni ipocrita “fraternité”.
Era diventato così una vera forza rivoluzionaria75.
«Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella
forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva
strappare come concessioni della repubblica di febbraio, subentrò l’ardita
parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia. Dittatura della classe
operaia. […] Solo con la disfatta di giugno dunque sono state create le
condizioni, entro le quali la Francia può prendere l’iniziativa della
rivoluzione europea. Solo immergendosi nel sangue degli insorti di giugno il
tricolore è diventato la bandiera della rivoluzione europea – la bandiera rossa.
E il nostro grido è: La rivoluzione è morta! Viva la rivoluzione!» 76.
Nella crisi futura
il proletariato sarebbe stato ormai pienamente consapevole che «c’è un solo mezzo
per abbreviare, semplificare, concentrare l’agonia assassina della
vecchia società e le doglie sanguinose della nuova società, un solo mezzo;
il terrorismo rivoluzionario»77. La sua accresciuta potenza quantitativa e
qualitativa gli avrebbe dato ben altra forza per resistere ai tentativi
borghesi di frenare il movimento ascendente della rivoluzione78.
«Lo Stato borghese non sarà altro che una mutua
assicurazione della classe borghese nei confronti sia dei singoli suoi membri
che della classe sfruttata, un’assicurazione destinata a diventare sempre più
dispendiosa e verosimilmente sempre più a sé stante rispetto alla società
borghese, perché sempre più difficile sarà tenere a bada la classe degli
sfruttati»79.
La progressiva
crescita dell’antagonismo sociale rende l’apparato burocratico e militare di Stato
un elemento sempre più necessario per il mantenimento della società borghese, ne
impone una crescita e uno sviluppo continuo.
La radicalità delle
crisi, la loro dimensione sempre più globale, la diminuzione degli strumenti per
imporre la ripresa economica, le crescenti difficoltà ad estendere i mercati,
il credito sempre più, instabile avrebbero quindi imposto alla borghesia con
sempre maggiore necessità una gestione parsimoniosa dello Stato proprio mentre
il suo bisogno della protezione statale sarebbe stato più urgente; gli spazi
per le mediazioni e per i compromessi in funzione antipopolare sarebbero progressivamente
diminuiti proprio mentre, d’altra parte, anche la strada rivoluzionaria sarebbe
stata per la borghesia sempre meno praticabile80.
Le crisi cicliche
del modo di produzione capitalista rendono quindi la borghesia sempre più impotente
di fronte all’esplosione delle sue contraddizioni essenziali mentre insegnano parallelamente
al proletariato come riuscire a spingere il movimento “ascendente” della
rivoluzione fino alle sue estreme conseguenze. La rivoluzione sociale è sempre
più all’ordine del giorno.
Questa nuova
concezione dello sviluppo ciclico delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico
diede a Marx una valida griglia interpretativa per poter trovare le risposte a
quelle questioni che, alle soglie della rivoluzione, erano destinate a rimanere
degli arcani.
La rivoluzione
proletaria era o non era all’ordine del giorno in Francia81?
«Come gli operai credevano di emanciparsi accanto alla
borghesia, così pensavano di potere compiere, accanto alle altre nazioni
borghesi, una rivoluzione proletaria entro le pareti nazionali della Francia.
Ma i rapporti di produzione francesi sono condizionati dal commercio estero
della Francia, dalla sua posizione sul mercato mondiale e dalle leggi di
questo. Come avrebbe potuto la Francia spezzare queste leggi senza una guerra
rivoluzionaria sul continente europeo che si ripercotesse sul despota del
mercato mondiale, sull’Inghilterra? Una classe nella quale si concentrano gli
interessi rivoluzionari della società, non appena si è sollevata trova
immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto e il materiale della
propria attività rivoluzionaria: abbattere i nemici, prendere misure imposte
dalle necessità della lotta. Le conseguenze delle sue proprie azioni la spingono
avanti. Essa non inizia indagini teoriche sui suoi compiti. La classe operaia
francese non si trovava a questa altezza: essa era ancora incapace di fare la
sua propria rivoluzione»82.
L’antica questione,
centrale nel Manifesto, della corrispondenza tra il grado di sviluppo
del capitalismo all’interno di una nazione e la conseguente strategia
rivoluzionaria da adottare sembra avere ormai perso l’antica urgenza: l’ambito
in cui si definiscono le condizioni oggettive per la rivoluzione proletaria,
infatti, non è più la nazione, ma invece il contesto e la fisionomia peculiare di
ogni congiuntura rivoluzionaria, in cui si decidono le sorti delle rivoluzioni
nazionali.83 Le nazioni più deboli infatti non sono vincolate solo
economicamente, ma anche politicamente, dalle più forti: così, per comprendere
la dinamica delle vicende tedesche del ’48, Marx era stato costretto ad
analizzare la rivoluzione francese, il cui destino era stato però a sua volta
deciso in Inghilterra.
Era stato infatti
l’atteggiamento liberale della borghesia inglese, la sua battaglia per
l’abolizione delle leggi sul grano, il segreto presupposto delle rivoluzioni
politiche della primavera ’48 proprio come era stato il massacro dei Cartisti
del dieci aprile, e non il giugno parigino, che aveva dato inizio alla
controrivoluzione europea.
L’ingresso
dell’Inghilterra nella congiuntura rivoluzionaria era quindi ormai per Marx il presupposto
assolutamente necessario affinché la rivoluzione sociale potesse avere delle
possibilità concrete di vittoria. Marx aveva erroneamente previsto questo
debutto inglese nella congiuntura successiva che si sarebbe dovuta aprire tra
il 1852 e il 185384.
Le rivoluzioni
politiche seguono sempre un cammino inverso rispetto alla crisi economica: nascono
sempre nelle zone periferiche, dove le deboli borghesie sono disarmate di
fronte alla crisi, tendono però ad espandersi progressivamente verso il
centro85. Se nel 1848 non erano riuscite ad oltrepassare la Manica e per questo
erano state sconfitte, nella prossima crisi avrebbero invece raggiunto
l’Inghilterra, trasformando l’iniziale analogia tra le due congiunture in una
differenza assoluta86.
Per superare la
crisi economica del 1845-1847 la borghesia inglese aveva utilizzato tutte le sue
armi più classiche, aumentando enormemente le forze produttive, aprendo nuovi
mercati e sfruttando più intensamente gli antichi. La chiusura dei canali
tradizionali della speculazione europea inoltre l’aveva costretta sia ad
investire quasi tutto il capitale disponibile nella produzione industriale, sia
ad espandere la speculazione la verso i nuovi mercati oltreoceanici. Da tali
tendenze Marx aveva dedotto il carattere eminentemente industriale e la
dimensione ben più universale della futura crisi economica che avrebbe colpito
il cuore stesso dell’economia capitalistica, l’industria inglese.
«Fra qualche mese la crisi sarà a un punto che non
raggiungeva in Inghilterra dal 1846, forse dal 1842. Quando i suoi effetti
cominceranno a farsi sentire appieno fra le classi lavoratrici, si risveglierà
quel movimento politico che per sei anni ha sonnecchiato. I lavoratori inglesi
insorgeranno di nuovo a minacciare le classi medie nel momento stesso in cui
queste stanno finalmente cacciando dal potere l’aristocrazia. Sarà gettata la
maschera che ha finora celato i veri lineamenti politici della Gran Bretagna.
Allora i due veri partiti antagonisti del paese si ritroveranno faccia a
faccia. la classe media e le classi lavoratrici, la borghesia e il
proletariato, e l’Inghilterra sarà costretta in ultimo a condividere
l’evoluzione sociale generale della società europea. […] D’ora in poi potrà
difficilmente evitare i grandi sommovimenti interni che colpiscono le altre
nazioni europee»87.
La borghesia, per
poter conquistare la maggioranza parlamentare e amministrare direttamente lo Stato
avrebbe rivendicato una riforma amministrativa per l’estensione del suffragio.
Il proletariato, come sempre, suo naturale alleato contro l’aristocrazia
fondiaria, avrebbe radicalizzato le rivendicazioni borghesi ed imposto il
suffragio universale. Non ci sarebbe più stato spazio per i compromessi tra la
borghesia industriale e l’aristocrazia fondiaria e si sarebbe aperta la
congiuntura rivoluzionaria nella nazione che domina il mercato mondiale.
«Il suffragio universale è l’equivalente del potere
politico per la classe operaia d’Inghilterra, dove il proletariato costituisce
la larga maggioranza della popolazione, dove, attraverso una guerra civile
lunga, anche se sotterranea, esso ha acquistato una chiara coscienza della sua
situazione in quanto classe, e dove persino nei distretti rurali non ci sono
più contadini, ma proprietari terrieri, imprenditori industriali (fittavoli) e
mano d’opera salariata. In Inghilterra, conseguire il suffragio universale
costituirebbe una misura di gran lunga più socialista di qualsiasi altra cosa
che sia stata onorata con questo nome sul continente.
A questo punto, il suo
risultato inevitabile è la supremazia politica della classe operaia»88
Le rivoluzione
politica, giungendo al cuore del modo di produzione capitalistico, si trasforma
in rivoluzione sociale, aprendo così una nuova fase della congiuntura
rivoluzionaria: la conquista del potere politico da parte del proletariato
inglese, da un lato avrebbe sottratto alla controrivoluzione europea quella
segreta forza che l’aveva resa vittoriosa nel ‘48, dall’altro avrebbe dato al proletariato
europeo l’energia che finora gli era mancata.
La rivoluzione
sociale avrebbe cominciato così il suo movimento peculiare, inverso rispetto
alle rivoluzioni politiche: dal centro, estendendosi a macchia d’olio, avrebbe
raggiunto le nazioni più deboli, sostenuto le forze rivoluzionarie, permettendo
loro di “bruciare le tappe”, di andare oltre le possibilità offertegli dal
grado di sviluppo economico nazionale, di accelerare il tempo storico col terrore
rivoluzionario, di perpetrare la rivoluzione, di raggiungere infine quella
dimensione universale in cui la rivoluzione sociale è vittoriosa89.
Questa prospettiva,
sicuramente idilliaca, non voleva però certamente essere profetica.
È impossibile
infatti definire a-priori l’esito delle congiunture perché è impossibile che si
realizzino, al di fuori della congiuntura, le condizioni oggettive per la
vittoria rivoluzionaria. Se infatti i presupposti della rivoluzione proletaria
fossero semplicemente ricavabili dal grado di sviluppo quantitativo raggiunto
dalle forze produttive ad un certo stadio del modo di produzione capitalistico,
non si sarebbe ancora usciti dalla prospettiva “filosofica” del Manifesto.
Le condizioni
oggettive della rivoluzione proletaria sono allo stesso tempo invece il
presupposto e il risultato della congiuntura. Da un lato infatti lo sviluppo
quantitativo delle forze produttive è il fondamento di ogni crisi economica,
quindi di ogni congiuntura rivoluzionaria, e ne determina il grado di
intensità; dall’altro però, all’interno della congiuntura stessa, la crisi è un
processo che si sviluppa, si trasforma, si generalizza e si radicalizza o si
ritrae lasciando lo spazio per la ripresa90.
L’abolizione delle
leggi sul grano, la scoperta delle miniere d’oro californiane, l’immaturità del
proletariato europeo, l’atteggiamento reazionario dei contadini e della piccola
borghesia, la sospensione delle leggi bancarie di R. Peel. Nella congiuntura
del ’48 i più disparati fattori, soggettivi ed oggettivi, avevano impedito la
radicalizzazione della crisi e della congiuntura rivoluzionaria, favorendo la
ripresa economica e la controrivoluzione.
Marx, quasi come
volesse esorcizzare tale possibilità regressiva per il futuro, nei primi anni
’50 incominciò una spasmodica ricerca degli elementi che potessero fungere da
“fattori di radicalizzazione” della crisi economica “imminente”, e che,
tutelando la rivoluzione dalle pericolose derive “discendenti”, le avrebbero
garantito la conquista di quella dimensione universale vittoriosa. Che si
trattasse della politica inglese, della questione indiana, della guerra di
Crimea, delle leggi di Sir R. Peel, dei cambiamenti dei tassi di interesse
della Banca inglese o delle rivolte sociali in Cina, ogni questione particolare
era affrontata sempre dalla medesima prospettiva: cercando di definirne il
ruolo specifico che avrebbe potuto assumere nella futura crisi e la sua potenziale
capacità di inibire la ripresa economica.
La relazione tra la
vecchia Europa e gli Stati Uniti d’America è emblematica della duplice possibilità
essenziale, sempre presente in ogni congiuntura rivoluzionaria: le possibilità
espansive del capitalismo sono ben lungi dall’essersi esaurite; d’altronde la
possibilità di una rivoluzione sociale è altrettanto attuale. Il futuro è
aperto a molteplici possibilità ed è solo nella congiuntura rivoluzionaria che
si decidono le sorti della lotta tra le capacità espansiva e metamorfica del capitalismo,
che gli permette di uscire dalle crisi, e la forza espansiva, “ascendente”,
accelerante, della rivoluzione91.
«Le miniere d’oro californiane sono state scoperte solo
da diciotto mesi, e già gli yankees hanno avviato la costruzione di una
ferrovia, di una grande strada e di una via d’acqua dal golfo del Messico, già
esistono corse regolari di navi a vapore da New York a Chagres, da Panama a San
Francisco, già il commercio dell’oceano Pacifico si concentra a Panama, e la
rotta per capo Horn è ormai superata. Una costa di 30 gradi di latitudine, una
delle zone più fertili e belle del mondo, finora praticamente disabitata, va
trasformandosi a vista d’occhio in un paese ricco e civilizzato, densamente
popolato da gente di tutte le razze, dallo yankee al cinese, dal negro
all’indiano al malese, dal creolo al meticcio all’europeo. L’oro californiano
si riversa a fiumi sull’America e sulla costa asiatica dell’oceano Pacifico e
trascina gli indocili popoli barbarici nel commercio mondiale, nella civiltà.
Quello che nell’antichità furono Tiro, Cartagine e Alessandria, per il medioevo
Genova e Venezia e, sino ai giorni nostri, Londra e Liverpool, cioè empori del
commercio mondiale, ora ben presto lo diventeranno New York e San Francisco,
San Juan de Nicaragua e Leon, Chagres e Panama. Il fulcro del traffico mondiale
– nel medioevo l’Italia, nell’epoca moderna l’Inghilterra – sarà ora la metà
meridionale della penisola nordamericana. L’industria e il commercio della
vecchia Europa debbono impegnarsi a fondo se non vogliono finire nella stessa
decadenza toccata all’industria e al commercio italiani dal XVI secolo in poi,
e se Inghilterra e Francia non vogliono ridursi a quello che oggi sono Venezia,
Genova e Olanda […] Grazie all’oro californiano e all’instancabile energia
degli yankees, presto ambedue le coste dell’oceano Pacifico saranno popolate,
aperte al commercio e industrializzate quanto lo è attualmente la costa da
Boston a New Orleans. Allora l’oceano Pacifico avrà la stessa funzione che ora
ha l’oceano Atlantico, e che nel medioevo fu del Mediterraneo, la funzione cioè
di grande via marittima del traffico mondiale; e l’oceano Atlantico si ridurrà
al ruolo di mare interno, come è ora il Mediterraneo. L’unica possibilità, per i
paesi europei civilizzati, di non cadere in quella dipendenza industriali, e
commerciale e politica in cui ora si trovano l’Italia, la Spagna e il
Portogallo, sta in una rivoluzione sociale che – finché si è in tempo – muti i
sistemi di produzione e di trasporto secondo le necessità della produzione
quali scaturiscono dalle moderne forze produttive nuove, che mantengano all’industria
europea la sua superiorità compensando in tal modo gli svantaggi della
posizione geografica»92.
Sebbene quindi
progressivamente lo sviluppo capitalistico aumenti “tendenzialmente” le
possibilità della vittoria rivoluzionaria, il pericolo di nuovi “fattori
inibitori”, della ripresa economica, delle derive controrivoluzionarie, delle
brame repressive borghesi è sempre in agguato93. «Aprés moi le déluge!»94:
l’esplosione del fondamento contraddittorio del modo di produzione borghese
apre uno spazio di incertezza storica e di molteplici possibilità, che si
realizzano nel corso dello sviluppo della congiuntura, attraverso il
dispiegamento e l’imprevedibile interazione di una pluralità di fattori
eterogenei, sia soggettivi che oggettivi, che possono fungere da “inibitori” o
da “radicalizzatori” della crisi e che non sono mai definibili a-priori95.
Note.
1
Nel corso del presente lavoro saranno
utilizzati per le opere di Marx i consueti acronimi: MEGA_ = K. Marx, F.Engels, Gesamtausgabe, a cura dell’Istituto per il
Marxismo-Leninismo del Cc del Pcus e dell’Istituto per il Marxismo-Leninismo
del Cc del Partito socialista unitario tedesco (Sed), Berlin, Dietz Verlag,
1975 sgg, indicando con la cifraromana la sezione e con la cifra araba il
volume e la pagina; MEW = K. Marx, F. Engels, Werke, a cura dell’Istituto per il
Marxismo-Leninismo del Cc del Partito socialista unitario tedesco, Berlin,
Dietz, 1957 sgg; MEOC = K. Marx, F.Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1972 sgg.
2
MEGA_, I, 10, p. 259; MEOC, X, p. 282.
3
MEGA_, I, 10, p. 467; tr. it. P. Togliatti, Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, a cura di G. Giorgetti, Roma, Editori
riuniti, 1970, p. 286. «Dall’inizio del XVIII secolo non c’è stata in Europa
rivoluzione seria che non sia stata preceduta da una crisi commerciale e
finanziaria. Ciò vale per la rivoluzione del 1789 non meno che per quella
del1848» (MEGA_, I, 12, p. 152; MEOC, XII, pp. 103-104).
4 Cfr. M.
Barbier, La pensèe politique de K. Marx , Paris, l'Harmattan, 1992, pp.
220-232 e M. E. Spencer, Marx on the State: the Events in France
between 1848-1850, in Karl Marx's social and political thought: Critical
assessment, Vol. III, a cura di C. M. Brown, London - New York, Routledge,
1990, pp. 519-547. La nostra lettura non è assimilabile a
queste interpretazioni, che tendono a considerare le riflessioni politiche
marxiane relative alla rivoluzione del 1848 contraddittorie rispetto alla
teoria rivoluzionaria degli anni ’40. Marx nel 1850 poteva ancora scrivere: «La
Lega ha
fatto
buona prova di sé perché la sua concezione del movimento, quale era stata
esposta nelle circolari dei congressi e del Comitato centrale nel 1847 e nel
“Manifesto comunista”, [0]ha mostrato di essere la sola giusta» ( MEGA_, I,
10, p. 254; MEOC, X, p. 276). In relazione a tale problema ci sembra
illuminante la riflessione di Lenin: «Nel Manifesto del Partito comunista
si ricavano gli insegnamenti generali della storia; questi insegnamenti ci
mostrano lo Stato come l’organo del dominio di una classe e ci portano a questa
necessaria conclusione: il proletariato non potrebbe rovesciare la borghesia senza
aver prima conquistato il potere politico, senza essersi assicurato il dominio
politico, senza trasformare lo Stato in “proletariato organizzato come classe
dominante”. […] Il problema di determinare in che cosa consista – dal punto di
vista dello sviluppo storico – questa sostituzione dello Stato proletario allo
Stato borghese qui non è posto. Proprio questo è il problema che Marx pone e
risolve nel 1852. Fedele alla sua filosofia, il materialismo
dialettico,
Marx prende come base l’esperienza storica dei grandi anni rivoluzionari
1848-1851. Qui, come sempre, la dottrina di Marx è il bilancio di
un’esperienza, bilancio illuminato da una profonda concezione filosofica del
mondo e da una vasta conoscenza della storia». (V. I. Lenin, Opere Scelte,
Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 871-873). Le analisi del biennio
rivoluzionario non sono per noi una falsificazione della teoria enunciata nel Manifesto;
costringendo però Marx a prendere in considerazione il legame tra le
possibilità della rivoluzione proletaria e la “temporalità ciclica” che sola
realizza, nella società capitalista, la “legge generale” dello sviluppo lineare
delle forze produttive, ne impongono un necessario approfondimento e il
completamento.
5
Cfr. A. Lepre, La concezione della storia nell’opera di Marx, in «Studi
storici», XXIV, 1983, n. 3-4, pp. 359-365. Per Lepre la rivoluzione del ’48 ha
conseguenze teoriche fondamentali: «Si ha la completa trasformazione del
rapporto passato/presente in quello presente/passato. […] Nelle Forme dunque
l’analisi storica non ha più come oggetto determinati avvenimenti, come nel 18
brumaio o nelle Lotte di classe e nemmeno una determinata classe,
come nel Manifesto, ma il processo generale che ha portato alla
formazione del produttore isolato. In questo modo essa perviene ad una
scomposizione della struttura della società negli elementi che la compongono e
può studiarli in se stessi e nei loro rapporti. Nei Grundrisse Marx
riprende anche la celebrazione che, insieme con Engels, ha fatto del progresso
nel Manifesto, ma lo attribuisce all’azione non della borghesia moderna,
ma del capitale. […] La sostituzione del capitale
alla
borghesia moderna, come agente e motore dei processi storici, segna perciò una
svolta nella concezione marxiana della storia». (ivi, pp. 359-365). In tutt’altra
prospettiva l’importanza della rivoluzione del ’48 è sottolineata da Kouvélakis:
«Le jeune Marx vit la fin des années de ce qu’on appelle en Allemagne le Vormärz,
il a trente ans au moment où une grande partie de l’Europe se couvre de
barricades, il est lui-même un “quarante-huitard”, selon la terminologie de
l’époque. Un quarante-huitard certes très particulier mais qui prend place dans
cette génération d’intellectuels et de révolutionnaires européens pour lesquels
le 48 et sa défaite marqueront de manière indélébile la vie – une vie d’exilé –
tout autant que l’ouvre. Il ne me semble pas dénué de sens d’examiner
d’ailleurs sous cet angle les
écrits
postérieurs à 1850, de lire en d’autres termes le Capital comme une
longue médiation, portée au niveau du concept, sur la défaite révolutionnaire
de 48. Un peu comme on
a pu lire la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, et plus largement
l’idéalisme allemand, comme une vaste réflexion sur la Révolution française et
ses conséquences». (E
Kouvélakis, Marx 1842-1844: de l’espace public à la démocratie
révolutionnaire, in AA. VV. Marx 2000, sous la direction de E. Kouvélakis, Paris, Presses
universitaires de France, 2000, pp. 91-92).
6
MEW, 3, p. 27; tr. it. F. Codino, L’ideologia tedesca, Roma 1958,
pp. 23-24.
7
Cfr. G. M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria
marxiana dello sviluppo , Napoli, Liguori, 1981, pp. 25-28. La lettura
marxiana della storia può esser compresa soltanto tenendo presente i due
differenti livelli nei quali si struttura. Il livello più astratto è quello in
cui il lavoro è concepito come interscambio fra l’uomo e la natura; tale piano
si realizza però soltanto attraverso l’astrazione dall’altro livello, in cui
l’uomo è «colto come prodotto di un organismo sociale, vero e unico soggetto
dell’interscambio con la natura» (ivi, p. 28). Tale duplicità di livelli
d’analisi si giustifica a partire dalla finalità marxiana: «individuare la
forma specifica, storicamente determinata, in cui si combinano fra loro i
fattori della produzione» (ibid.). Ci sembra altrettanto esplicativa,
sebbene il nostro angolo visuale sia differente, la prospettiva di Fineschi:
«Con l’Ideologia tedesca, di fatto, Marx riprende la strada della
“logica peculiare dell’oggetto peculiare”, cercando di ricostruire la
dialettica concreta del reale». (R. Fineschi, Hegel e Marx. Contributi
a una rilettura, Roma, Carocci, 2006, pp. 30-32). «Che cosa significhi
uomo, quale sia la natura del suo rapporto con gli altri e via dicendo sono
caratteristiche che si stabiliscono solo mediante lo strutturarsi delle
formazioni
sociali
specifiche. Che cosa sia uomo in astratto non è dato saperlo perchè questa
nozione esiste per l’appunto solo per astrazione da un processo storico in atto
che progressivamente si da forme distinte in base alle regole sociali di volta
in volta determinate» (ivi, p. 100). Non ci sembra quindi condividibile la tesi
di Finelli (Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx,
Torino, Bollati Boringhieri, 2004) che riduce il materialismo storico ad
una nuova “filosofia della storia” fondata su una concezione organicista e
feuerbachiana, metafisica, dell’uomo. Sulla fondazione della teoria marxiana attraverso
la critica dell’ideologia cfr. E. Balibar, La philosophie de Marx,
Paris, La decouverte, 1993 e Id., Cinq études
de matérialisme historique, Paris, F. Maspero, 1974, pp. 45-49;
M. Barbier, La pensèe politique de K. Marx, cit., p. 60- 99; R.
Guastini, I due poteri - Stato "borghese" e stato operaio
nell'analisi marxista, Bologna, Il mulino, 1978, p. 20- 29; G. Labica, Le
statut marxiste de la philosophie, Bruxelles, Éd. Complexe, 1976, pp.
277-310; M. Löwy, La realtà rivoluzionaria nel giovane Marx, tr.
it. D. Tarizzo, Milano, Ottaviano, 1976, 120-135; E. Renault, Marx e l’idea
di critica, tr. it. M.T. Ricci, Roma, Manifestolibri, 1999, pp.
91-97.
8
«En fin de compte, qu’est-ce qui caractérise l’histoire historique des hommes,
par opposition à l’histoire naturelle de la nature? L’histoire possède bien un
trait spécifique qui la différencie de la nature. C’est la
transformation de conditions “naturelles” (y compris les conditions
socio-naturelles) en conditions qui sont elles-mêmes un résultat produit par
une activité sociale. Les conditions externes données, trouvées là, sont
modifiées et changées en conditions internes produites et reproduites. La
société se renouvelle et reproduit ses conditions, y compris ses conditions
socionaturelles, qui, au début, lui sont imposées, mais qu’en même temps elle
modifie». (M. Vadée, Marx penseur du possible, Paris, Méridiens
Klincksieck, 1992, pp. 224-225).[0]
9 MEW, 3,
p. 38; tr. it. L’ideologia tedesca, cit, pp. 34-35.
10 «L’idée de
Marx est que la thèse selon laquelle “les circonstances font tout autant les
hommes que les hommes font les circonstance” se renverse à partir du
moment où les hommes font tout autant les circonstances que les
circonstances font les hommes. Non seulement, cette thèse a une
valeur critique contre les diverses écoles philosophiques matérialistes et
idéalistes, mais elle ne s’applique pas indifféremment à toutes les époques
historiques. Il faut la comprendre comme
s’appliquant à notre époque qui est celle d’un tournant historique mondial. Du
moins, Marx le pensait-il. Telle est l’expression et l’essence du matérialisme
marxien» (M. Vadée, Marx penseur du possible, cit., p. 247).
11
MEW, 4, p. 464; MEOC, VI, p. 489.
12 MEW,
6, pp. 418-419; MEOC, IX, pp. 230-231.
13
«Questa giusta proporzione tra l’offerta e la domanda che ricomincia ad essere
l’oggetto di tanti pii desideri, da molto tempo ha cessato di esistere. È ormai
divenuta una cosa antiquata. È stata possibile solo nei tempi in cui i mezzi di
produzione erano limitati, in cui lo scambio si muoveva entro limiti
estremamente ristretti; con la nascita della grande industria, questa giusta
proporzione doveva cessare, e la produzione è stata fatalmente costretta a
passare, in successione continua, attraverso vicissitudini di prosperità, di
depressione, di crisi, di ristagno, di nuova prosperità e via di seguito […].
Cos’era che manteneva la produzione nelle giuste proporzioni, o quasi? La
domanda che si imponeva
all’offerta,
precedendola. La produzione seguiva passo passo il consumo. La grande
industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala
sempre più vasta, non può più attendere la domanda. La produzione precede il
consumo, l’offerta da violenza alla domanda. Nella società attuale, con
l’industria basata sugli scambi individuali, l’anarchia della produzione, che è
la fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso.
Così, di due cose, l’una: O volete le giuste proporzioni dai secoli passati,
con i mezzi di produzione della nostra epoca, e allora siete al contempo
reazionari e utopisti. O volete il progresso senza l’anarchia; e allora, per
conservare le forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali. Gli
scambi individuali infatti non sono conciliabili se non con la piccola
industria dei secoli passati, e col suo corollario di “giusta proporzione”,
ovvero anche con la grande industria, ma in questo caso con tutto il suo
seguito di miseria e di anarchia». (MEW, 4, pp. 97-98; MEOC, VI,
pp.138-139).
14
MEW, 4, p. 468; MEOC, VI, pp. 491-492. Sulle crisi cicliche del
modo di produzione capitalistico cfr. M. Vadée, Marx penseur du possible, cit.,
pp. 417-448.
15
Soltanto l’affermazione della grande industria moderna, invertendo il rapporto
tradizionale tra produzione e mercato, rende inadeguati i rapporti di
produzione borghesi rispetto al grado di sviluppo delle forze produttive.
Parallelamente solo la grande industria moderna trasforma il proletariato come
classe rivoluzionaria: «Si potrebbe dire che fino al 1825, l’epoca della prima
crisi universale, i bisogni del consumo siano in generale cresciuti più
rapidamente della produzione e che lo sviluppo delle macchine era la
conseguenza forzata dei bisogni del mercato. Dal 1825 l’invenzione e l’applicazione
delle macchine non sono che il risultato della guerra tra padroni e operai. E
anche ciò vale solo per l’Inghilterra. Le nazioni europee sono state costrette
ad usare le macchine dalla concorrenza che gli inglesi facevano
loro
sia sul mercato interno, sia sul mercato mondiale» (MEW, 4, p. 551, MEOC,
XXXVIII, p. 462). Sul legame tra grande industria e sviluppo del proletariato
rivoluzionario cfr. G. M. Cazzaniga, Funzione e conflitto, cit., pp.
159-160; F. Claudin, Marx, Engels et la révolution de 1848, traduit de
l’espagnol par A. Valzer, Paris, F. Maspero, 1980, pp. 35- 51 e P. M. Sweezy, Marx
and the Proletariat, in Karl Marx's social and political thought:
Critical assessment, Vol. II, a cura di C. M. Brown, London - New York,
Routledge, 1990. pp. 228-240.
16
«Superare l’alienazione non consiste nel ristabilire l’essenza traviata e
quindi nel cancellare le condizioni materiali di produzione stabilite dal modo
di produzione capitalistico, ma nel superare la forma in cui il rapporto vi si
presenta; le condizioni capovolte, il contenuto materiale che consiste
nell’inversione di soggetto e oggetto, non solo non vanno cancellate, ma
rappresentano il guadagno, il progresso epocale del modo di produzione
capitalistico. Si tratta di trasformare il comando esterno in comando proprio
e, attraverso la scienza, di produrre le condizioni in cui il lavoro meramente
meccanico sia completamente automatizzato e all’uomo restino il lavoro
universale della scienza e il libero sviluppo delle potenzialità personali. Non
va abbattuto il contenuto, ma la forma, ossia bisogna dare
effettualità alla nuova forma latente nel contenuto venutosi a creare»
(R. Fineschi, Hegel e Marx, cit., p. 102).
17
Non possiamo proprio per questo condividere pienamente la prospettiva di
Balibar : «Misère de la philosophie, 1846 […] et surtout le Manifeste
du Parti communiste, […] constituent les premiers exposés cohérent du
matérialisme historique; c’est-à-dire les premiers textes de Marx dont la
position théorique soit irréductible à toute forme antérieure, où la position
spécifique du prolétariat devient dominante en même temps qu’elle trouve sa
formulation. La rupture est alors à la fois théorique et politique» (E.
Balibar, Cinq études de matérialisme historique, cit., p. 23). Tali
testi invece a noi sembrano non essere pienamente conseguenti proprio con i
nuovi presupposti teorici, poiché le analisi politiche di Marx sono ancora
indifferenti alla modalità specificamente ciclica di sviluppo del modo di
produzione capitalistico. La nostra tesi è quindi altresì opposta a quella di
A. Tosel: «En ce qui concerne la théorie de l’organisation du prolétariat en
classe révolutionnaire, elle a pour base une première théorie des crises
sociales et politiques du mode de production capitaliste: la contradiction
fondamentale entre forces de production et système des rapports de production
est le terrain qui permet à la classe ouvrière, pourtant appelée à s’appauvrir
pour produire davantage, de devenir classe générale» (A.Tosel, Les critiques
de la politique chez Marx, in E. Balibar, A. Tosel, C. Luporini, Marx et
sa critique de la politique, Paris, F. Maspero, 1979, p. 28). Sul rapporto
tra la filosofia e la teoria marxiana degli anni ‘40 cfr. anche E. Balibar, La
crainte des masses, Paris, Galilée, 1997, pp. 184-189 ; Id., L’idée
d’une politique de classe chez Marx, in Marx en perspective, textes
réunis par Berbard Chavance, Paris, Éd. de l'École des hautes études en
sciences sociales, 1985, pp. 173-192 e Id., État, parti, idéologie. Esquisse
d’un problème, in E. Balibar, A. Tosel, C. Luporini, Marx et sa critique
de la politique, cit., pp. 134-136.
18
Sulla concezione marxiana della rivoluzione francese come “forma classica”
della rivoluzione e sul “giacobinismo” di Marx cfr. E. Balibar, La crainte
des masses, cit., pp. 157-165; B. Bongiovanni, Le repliche della storia:
Karl Marx tra la Rivoluzione francese e la critica della politica,
Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 60-70; J. Bruhat, Marx et la révolution
française, in «Annales historiques de la Révolution française»,
aprile-giugno 1966, pp. 125-147; A. Cornu, Karl Marx et la révolution
française, in «La pensée», 1958, n. 81, pp. 61-74; F Furet, Marx et la
revolution francaise, Paris, Flammarion, 1986, pp. 13-85; G. Sgro’, «Le
considerazioni di un giovane in occasione della scelta di una professione»:
il tema di tedesco di Karl Marx per l’esame di licenza liceale, in
«Archivio di storia della cultura», anno XVIII, 2005, pp.79-98; A. Soboul, Karl
Marx et l’expérience révolutionnaire française. Les origines de la théorie de
la dictature du prolétarat, in «La Pensée», 1951, n. 36, pp. 61-69.
19
Sulla strategia rivoluzionaria prima della rivoluzione del 1848 e sul rapporto
tra i comunisti e le altre forze
democratiche
cfr. E. Balibar, Marx, Engels and the Concept of the Party, in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, vol. III, cit.. pp. 146-151; M.
Barbier, La pensée politique de Karl Marx, cit., pp. 198-216; J. Cunliffe,
Marx, Engels, and the Party, in Karl Marx's social and political
thought: Critical assessment, vol. III, cit., pp. 198-215; M.
Johnstone, Marx and Engels and the Concept of the Party, in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, Vol. III, cit..
pp. 161-197; B. H. Moss, Marx and Engels on French social democracy:
Historians or Revolutionaries? in Karl Marx's social and political
thought: Critical assessment, Vol. I,
a cura di C. M. Brown, London - New York, Routledge, 1990, pp. 222-237;
J. Texier, La nozione di “Partito” e di “Partito comunista” nel 1847-1848, in
R. Rossanda ( a cura di), Il Manifesto del Partito comunista 150 anni dopo,
Roma, Manifestolibri, 2000, p. 224-228.
20 «Che fa il ministero? Nulla. Che fa
l’opposizione parlamentare legale? Nulla. Che si deve aspettare la Francia
dalle Camere attuali? Nulla. Che vuole Guizot? Restare al ministero. Che
vogliono Thiers, Molé e compagnia? Rientrare al ministero. Che guadagna la
Francia con questo eterno: ôte-toi de là, afin que je m’y mette? Nulla.
Ministero e opposizione sono dunque condannati a non far nulla. Chi compirà da
solo la prossima rivoluzione francese? Il proletariato. Che ci farà la
borghesia? Nulla». (MEOC, VI, p. 522).
21 MEW, 4, p. 473; MEOC, VI, p. 497.
22 MEW, 4, p. 480; MEOC, VI, p. 504.
23 MEW, 4, p. 417; MEOC, VI, p. 411.
24
MEGA_, I,
11, p. 319; MEOC, XI, pp. 338-339.
25
«Con la Reazione, con i Borboni» alla
borghesia liberale «le si è contrapposta ancora una volta la controrivoluzione.
Infine, nel 1830, questa borghesia ha realizzato i suoi desideri del 1789». (MEW, 2, p. 131; tr. it. A. Zanardo, La sacra famiglia,
Roma, Editori riuniti, 1967, p. 162).
Nella Sacra Famiglia Marx interpreta il periodo
controrivoluzionario tra il 1815 e il 1830 come un accadimento meramente
empirico, una breve interruzione nel regolare sviluppo della storia verso la
piena affermazione della società capitalista, un’affermazione solo temporanea
del caso sulla necessità storica. Gli esiti controrivoluzionari della storia
sono infatti assolutamente incompatibili con una concezione semplicemente
lineare
dello sviluppo storico.
26 Cfr. la
definizione di E. Balibar del termine “ contre-révolution” in Dictionnaire
critique du Marxisme , , sous la direction de G. Labica, Paris, Presses
universitaires de France, 1982, p. 241 e L. Brownstein, The
Concept of Counterrevolution
in Marxian Theory, in Karl Marx's social and political thought: Critical assessment, Vol. III, cit., pp.273-282.
27
Questo rapporto assolutamente
contraddittorio tra la borghesia e i poteri reazionari emerge chiaramente nelle
riflessioni di Marx sulla borghesia industriale inglese. Da un lato, infatti, è
naturalmente spinta alla rivoluzione: «A che cosa appartiene la monarchia, con
i suoi “barbarici splendori”, la sua corte, la sua lista civile e i suoi
lacchè, se non ai faux frais della produzione? La nazione può produrre
e scambiare senza la monarchia; liberiamoci della monarchia. Le sinecure della
nobiltà, la Camera dei lords? faux
frais di produzione. Le colonie? faux frais di produzione. La Chiesa di Stato con
le sue ricchezze, spoglie di saccheggi o di elemosine? faux frais di produzione. Lasciate che i parroci
si facciano libera concorrenza fra di loro e che ciascuno li paghi secondo i
suoi bisogni. Tutta la meticolosa routine della legislazione inglese, con la
sua Corte di cancelleria? faux
frais di produzione. Le guerre nazionali? faux frais di produzione. L’Inghilterra può
sfruttare le nazioni estere più a buon mercato in tempo di pace» (MEGA_, I,
11, p. 324;
MEOC, XI, p. 344). D’altra parte però la
borghesia inglese non può portare a termine questo suo compito
rivoluzionario:
«Questi stessi “valorosi” liberoscambisti, rinomati per la infaticabilità con
cui denunciano l’interferenza governativa, questi apostoli della dottrina
inglese del laissez faire, che pretenderebbero di dare via libera in
ogni circostanza agli interessi individuali, sono sempre i primi a chiedere
l’intervento del governo non appena gli interessi individuali del lavoratore
vengono in conflitto con i loro interessi di classe. In questi momenti di
scontro essi guardano con aperta ammirazione agli Stati del continente, dove
governi dispotici, che pure non permettono alla borghesia di governare, almeno
impediscono ai lavoratori di opporre resistenza» (MEGA_, I, 12, p. 175; MEOC,
XII, p. 137).
28
MEGA_, I, 10, p. 146; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848
al 1850, cit., p. 159.
29
MEW, 4, p. 464; MEOC, VI, p. 488.
30
Si chiarifica così la relazione tra la concezione dello Stato moderno come
Stato burocratico e parassitario, formalmente autonomo dalla società, e quella
dello Stato come Stato di classe, enunciata nel Manifesto: quest’ultima,
fondata soltanto sulla prospettiva lineare, diventa una “tendenza” che non può
mai realizzarsi per il duplice e sincronico antagonismo che caratterizza la
classe borghese. Sul rapporto dello Stato e la struttura di classe specifica
della società borghese cfr. anche E. Andrew, Marx’s Theory of Classes:
Science and Ideology, in Karl Marx's social and political thought:
Critical assessment, Vol. II, cit., pp. 263-277; E. Balibar, Cinq études
de matérialisme historique, cit., pp. 167-178; R. Guastini, I due
poteri, cit., pp. 25-26; M. Mauke, La teoria delle classi nel pensiero
di Marx ed Engels, tr.it. C. Papini, Milano, Jaca Book, 1973, pp. 9-15; D.
Sayer, The Critique of Politics and Political Economy: Capitalism,
Communism and State in Marx’s Writings of the Mid-1840s., in Karl Marx's
social and political thought: Critical assessment, Vol. I, cit., pp.
670-678.
31
«Si je dis que l’État est séparé de la lutte des classes (qui se déroule dans
la production-exploitation, dans les appareils politiques et dans les appareils
idéologiques) parce qu’il est fait pour ça, fait pour être séparé
d’elle, c’est qu’il lui faut cette “séparation”, pour pouvoir intervenir
dans la lutte des classes et “tous azimuts”, car non seulement dans la lutte de
la classe ouvrière, afin de maintenir le système d’exploitation et d’oppression
général de la classe bourgeoise sur les classes exploitées, mais aussi,
éventuellement, dans la lutte de classe intérieure à la classe dominante, contre
la division de la classe dominante qui peut être pour elle, si la lutte de
classe ouvrière et populaire est forte, un grave péril» (L. Althusser, Marx
dans ses limites, in Id., Écrits philosophiques et politiques, vol.
I, Paris, IMEC, 1994, pp. 428-449).[0]
32
MEGA_, I, 10, p. 139; tr. it., Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, cit., p. 142.
33
MEGA_, I, 10, p. 148; tr. it. Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, cit., p. 167.
34
Ibidem.
35
Marx aveva descritto il “compromesso ipocrita” tra la borghesia e le forze
reazionarie. Lenin coglierà la possibilità della stessa mediazione anche tra la
borghesia e l’altro suo nemico, il proletariato: «Perché il monopolio
dell'Inghilterra spiega la vittoria (temporanea) dell'opportunismo in Inghilterra?
Perché il monopolio dà un sovrapprofitto, cioè un'eccedenza di profitto,
superiore al profitto capitalistico abituale, normale in tutto il mondo. Di
questo sovrapprofitto i capitalisti possono sacrificare una piccola parte (e
persino assai considerevole!) per corrompere i propri operai, per creare una
specie di alleanza (…), un'unione degli operai di una data nazione con i propri
capitalisti contro gli altri paesi. (…) La borghesia, di una «grande» potenza
imperialistica può corrompere economicamente gli strati superiori dei «propri»
operai, sacrificando a questo scopo anche più d'un centinaio di milioni di
franchi all'anno, poiché il sovrapprofitto ammonta, probabilmente, a circa un
miliardo» (V. I. Lenin, Opere complete, vol. 23, tr, it I. Ambrogio, Roma,
Editori Riuniti, 1965, pp. 126-127).
36
Sull’essenziale carattere a-politico della borghesia e sulla conseguente
“metamorfosi” delle classi reazionarie cfr. H. Draper, Karl Marx’s Theory of
Revolution, vol. I, State and Burocracy, London, Monthly Review
Press, 1977, pp. 320- 324. e 490-497. Per
Draper la classe capitalista è per natura avversa alla gestione diretta
dell’apparato statale: in primo luogo perché il rapporto tra capitale e lavoro
è una relazione puramente economica e il capitalista quindi, sebbene abbia sempre
bisogno dell’appoggio politico dello Stato, ha preoccupazioni decisamente non
politiche. In secondo luogo storicamente la classe capitalista non si è
sviluppata come classe nobile, ma attraverso il lavoro e lo sfruttamento del lavoro
produttivo degli altri; tale distinzione tra produttori e aristocratici spinge
conseguentemente la classe capitalista ad identificare la partecipazione
politica con il parassitismo. Infine, la forte conflittualità e competitività
tra le varie frazioni della classe borghese, sia a livello sia nazionale che
internazionale, rende difficile per un capitalista rappresentare
gli interessi dell’intera classe.
37
Sulla forza mistificatrice dell’autonomia formale del potere politico sembra
fondamentale un confronto con le stimolanti analisi di E. Balibar. (L’idée
d’une politique de classe chez Marx, in Marx en perspective, cit.,
pp. 497-526) sul “corto circuito” marxiano. Il grande merito di Marx è per
Balibar quello di aver colto, al di là della scissione ideologica borghese tra
sfera economica e sfera politica, la loro matrice comune; la nozione di
antagonismo sociale, che delinea il rapporto di lavoro salariato e capitale,
svela infatti una relazione che, né puramente economica né politica, è piuttosto
la base, il terreno comune, su cui si strutturano entrambe: «En opérant ce
court-circuit, le marxisme produit donc, plutôt qu’un “renversement” selon la
métaphore classique, une déplacement et une rotation de l’axe des représentations
du “social”: il prive la notion de propriété de sa fonction centrale […] et il
remplace l’axe “vertical” des rapports société / Etat par le réseau transversal
des implications, des effets et conditions du rapport de production. Du même
coup il crée une zone de tension insupportable dans l’espace des confrontations
idéologiques» (ivi, p. 515). Nella nostra prospettiva questa “separazione
ideologica” è da intendersi proprio come “apparenza reale”: lo Stato, solo in quanto
è formalmente separato dalla società, in quanto si presenta come un “potere
metafisico”, può svolgere la sua funzione
specifica di garantire le condizioni dello sfruttamento del capitale sul
lavoro. La crisi congiunturale ha proprio per questo una forte potenza
demistificatrice: annichilendo quel sistema di mediazioni che permettevano di
mantenere la “parvente” autonomia della sfera pubblica da quella privata e
lasciando emergere l’antagonismo sociale, rivela la duplice natura del
capitale, «la nature indistinctement “économique” et “politique”, ou plutôt,
comme nous pouvons maintenant l’écrire, ni économique ni politique, au sens que
ces catégories reçoivent dans l’idéologie bourgeoise» (ivi, p. 511). La
congiuntura rivoluzionaria, in altri termini, si apre proprio nel momento in
cui, nella crisi, il rapporto di capitale e lavoro salariato lascia emergere il
proprio significato non solo economico, ma invece anche politico. Cfr. anche
L. Althusser, Per Marx, tr. it. F. Madonia, Roma, Editori Riuniti, 1972,
pp. 91-92; Id. Marx dans ses limites, cit., pp. 428-449; E. Balibar, Sur
la dictature du prolétariat, Paris, F. Maspero, 1976, pp. 53-65; R.
Guastini, I due poteri, cit., p. 38-39 e A. Tosel, Les critiques de
la politique chez Marx, cit., pp. 31-32.[0]
38
MEGA_, I, 11, p. 324; MEOC, XI, p. 345.
39
«Sarebbe facile allungare questo elenco delle concessioni fatte dal ministero
di coalizione alla scuola di Manchester. Che cosa provano queste concessioni?
Che la borghesia industriale, per quanto debolmente rappresentata alla Camera,
è tuttavia la vera padrona della situazione e che ogni governo, sia esso whigs,
tory o di coalizione, può mantenersi in carica e può mantenere la borghesia
fuori del governo, soltanto facendo per quest’ultima il lavoro preparatorio.
Risalite attraverso i documenti della legislazione britannica fino al 1825 e
potrete costatare che si resiste sul piano politico alla borghesia facendole
una concessione dopo l’altra sul piano finanziario. Quel che l’oligarchia non
riesce a capire è il semplice fatto che il potere politico è soltanto il
prodotto del potere commerciale e che la classe alla quale essa è costretta
a cedere quest’ultimo finirà necessariamente per conquistarsi anche il primo.
Lo stesso Luigi XIV, quando attraverso Colbert emetteva leggi in favore dei
manifatturieri, andava preparando la rivoluzione del 1789, e al suo “l’état
c’est moi” Sieyès potrà rispondere “le tiers état est tout”. (MEGA_, I,
12, p. 123, MEOC, XII, p. 73).
40
MEGA_, I, 14, p. 170; MEOC, XIV, p. 52.
41
MEGA_, I, 10, p. 122; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848
al 1850, cit., p. 96.
42
MEGA_, I, 10, p. 121; tr. it. Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, cit., p. 95.
43 MEW, 6,
p. 106; MEOC, VIII, p. 157.
44
MEGA_, I, 12, p. 332; MEOC, XII, p. 323.
45 Cfr. J.
Ehrenberg, The dictatorship of [0]proletariat, London-New York,
1992, pp. 41-49 e B. H. Moss, Marx and Engels on French Social Democracy:
Historians or Revolutionaries?, cit., pp. 222-237. Per entrambi gli autori la rivoluzione
del 1848 aveva mostrato a Marx il carattere intimamente conservatore della
borghesia e l’aveva conseguentemente spinto a cambiare la strategia
rivoluzionaria, individuando altri soggetti rivoluzionari. Quest’interpretazione
però permette di cogliere solo un lato della contraddizione borghese, mentre
non tiene presente l’antagonismo altrettanto essenziale tra la borghesia
e le forze reazionarie.
46
MEGA_, I, 11, pp. 350-351; MEOC, XI, p. 377.
47 MEGA_, I, 11, p. 165; tr. it. P.
Togliatti, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori riuniti, 1964, pp.
178-179.
48 «Ci si immagini ora come il borghese
francese, in mezzo a questo panico commerciale, doveva avere il cervello, malato
come il suo commercio, torturato, confuso, stordito dalle voci di colpi di
stato e di restaurazione del suffragio universale, dalla lotta tra il
Parlamento e il potere esecutivo, dalla guerra di fronda tra i legittimisti e
gli orleanisti, dalle cospirazioni comuniste a sud della Francia, dalle pretese
jacqueries nei dipartimenti della Nièvre e dello Cher, dalla pubblicità dei
diversi candidati alla presidenza, dalle parole d’ordine ciarlatanesche dei
giornali, dalle minacce dei repubblicani di voler difendere la Costituzione e
il suffragio universale con le armi alla mano, dal vangelo degli eroi emigrati
in partibus che annunciavano la fine del mondo per la seconda (domenica) di
maggio del 1852, e si comprenderà come, in mezzo a questa costituzione,
cospirazione, coalizione, emigrazione, usurpazione e rivoluzione, il borghese
furibondo gridasse in faccia alla repubblica parlamentare: “Meglio una fine con
spavento che uno spavento senza fine !”». (MEGA_, I, 11, p. 169;
tr. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 186-187).
49 MEW, 6, p.
194; MEOC, VIII, p. 268.
50 MEGA_, I, 11, pp. 177-178; tr. it.
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 204.
51 MEGA_, I, 10, p. 196; tr. it. Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., p. 278.
52 Cfr. W. Wesolowski, Marx’s Theory of Class Domination (an attempt
at systematization) , in Karl Marx's social and political thought:
Critical assessment, Vol. II, cit., pp.173-181. Wesolowski separa da un lato
la battaglia legale dalla rivoluzione, concependoli come due strumenti
differenti, ma entrambi validi, della lotta di classe; dall’altro distingue tra
la “forma ideologica”, (classica, diretta) e la “forma repressiva”
(indiretta) del dominio borghese. Queste distinzioni sono interessanti
per la nostra riflessione: la loro possibilità effettiva, l’imporsi di una
specifica modalità di lotta o di una forma determinata di Stato, dipende
infatti precisamente dalle differenti fasi dello sviluppo ciclico del
capitalismo, dal grado di intensità dei periodi di recessione o dalla
forza espansiva dei momenti di prosperità; dalla possibilità di restare
sul terreno di quei possibili “compromessi” che eludono il pericolo
dell’apertura della congiuntura rivoluzionaria.
53
MEGA_, I, 10, p. 124; tr. it. Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, cit., p. 107.
54 MEW, 6, p. 106; MEOC, VIII, p. 158.
55 MEW, 6, p. 111; MEOC, VIII, p. 162.
56
MEGA_, I, 10, p. 125; tr. it. Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, cit., p. 108.
57
MEGA_, I, 11, p. 118; tr. it. Il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte, cit., p. 85.
58 MEW, 6, p. 102; MEOC, VIII, p. 153.
59«Ce sont donc
les exigences du moment historique . moment critique et révolutionnaire où
s’aiguise la lutte des classes – qui motivent cette réactivation du fonds
représentatif de chaque classe engagée dans la crise révolutionnaire : celle-ci
a en effet pour conséquence de briser le status
quo, caractérisé
par la fixation temporaire de la configuration des rapports de forces sociaux
et les oblige par là même à mobiliser leur stock d’armes idéologiques. La crise a donc pour effet, en remettant
en jeu les intérêts vitaux de domination de la classe, de la faire revenir pour
ainsi dire à sa propre origine, au moment de sa fondation pour renaître à
proprement parler comme classe dominante. Les anciens
combats servent de paradigmes aux nouveaux » (P. L. Assoun, Marx et
la répétition historique, Paris, Presses Universitaires de France, 1978, pp.
130-131). Sul problema della funzione delle
rappresentazioni ideologiche nella storia cfr. anche I.Garò, Représentation et politique chez
Marx, in «La pensée», n. 350, avril-juin
2007, pp. 77-88 e M. Tomba, Il materialista
storico al lavoro. La storiografia politica del Diciotto Brumaio, in AA.VV. Pensare con Marx, ripensare
Marx, Roma, Sped. Al. Graf, 2008.
60
MEGA_, I, 10, p. 132; tr. it. Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, . cit., p. 126.
61
MEGA_, I,
10, p. 136; tr. it. Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850, cit., p. 136.
62 MEW, 5, p. 25; MEOC, VII, p. 26.
63 MEW, 6, p. 112; MEOC, VIII, p. 164.
64 MEW, 6, p. 79; MEOC, VIII, p. 101.
65
A Londra, il 10 aprile, fu spezzata per la prima volta non
soltanto la potenza rivoluzionaria dei cartisti, ma anche la propaganda rivoluzionaria della
vittoria di febbraio. Chi
valuta giustamente l’Inghilterra e tutta la sua posizione nella storia moderna
non ha potuto meravigliarsi del fatto che le rivoluzioni del continente siano
per il momento passate senza lasciar traccia su di essa. […] L’Inghilterra non
accetta la rivoluzione del continente; quando la sua ora verrà, essa detterà la rivoluzione al
continente. Questa era la posizione
dell’Inghilterra, questa la conseguenza necessaria di tale posizione, e perciò
la vittoria dell’ “ordine” il 10 aprile era perfettamente spiegabile. Ma che
non ricorda come questa vittoria dell’”ordine” è stata il primo contraccolpo ai
colpi del febbraio e del marzo, come essa ha dato dappertutto nuovo respiro
alla controrivoluzione, e come ha riempito di ardite speranze i petti dei
cosiddetti conservatori!». (MEW, 6,
pp. 77-78; MEOC, VIII, pp. 99-100).
66
«Tutte le volte che essa proibì completamente “agli altri” queste libertà, o ne
permise l’esercizio soltanto a
condizioni
che sono altrettante trappole poliziesche, ciò avvenne sempre nell’interesse
della “sicurezza pubblica”, cioè della sicurezza della borghesia, così
come prescrive la Costituzione. Perciò, in seguito ebbero diritto di appellarsi
alla Costituzione tanto gli amici dell’ordine, che sopprimevano tutte queste
libertà, quanto i democratici, che le reclamavano integralmente. Ogni paragrafo
della Costituzione contiene infatti la sua propria antitesi, la sua Camera alta
e la sua Camera bassa: nella proposizione generale, la libertà, nella nota
marginale, la soppressione della libertà. Sino a che, dunque, il nome della
libertà venne rispettato e venne soltanto ostacolata, con mezzi legali
s’intende, la vera realizzazione di essa, l’esistenza costituzionale della
libertà rimase illesa, intatta, benché la sua esistenza reale venisse distrutta».
(MEGA_, I, 11, pp. 109-110; tr. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte,
cit., p. 69).
67
MEGA_, I, 10, pp. 545-546; MEOC, X, pp. 592-593.
68
MEGA_, I, 11, pp. 135-136; tr. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit.,
pp. 119-121.
69
MEGA_, I, 11, p. 110; tr. it. Il 18 brumaio di Luigi
Bonaparte, cit., p. 70.
70
Sulla struttura intrinsecamente contraddittoria della Costituzione francese del
1848 cfr. P. Craveri, Genesi di una costituzione, Napoli, Guida,
1985.[0]
71
MEW, 6, p. 113; MEOC, VIII, p. 165.
72 Ibidem.
73 MEW, 6,
p. 234; MEOC, VIII, p. 318. «La
nobiltà agraria dell’Uckermark arde nel desiderio di un conflitto con il popolo,
di una ripetizione delle scene parigine di giugno nelle strade di Berlino; ma
non si batterà per il ministero Hansemann, si batterà per il ministero del
principe di Prussia» (MEW, 5, p. 398; MEOC, VII, p. 441).
74 MEW, 6,
p. 110; MEOC, VIII, p. 161.
75
«In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue
tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una
controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo
il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero
partito rivoluzionario» (MEGA_, I, 10, p. 119; tr. it. Le lotte di
classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., p. 89).
76 MEGA_, I, 10,
pp. 139-140; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 ,
cit., pp. 141-145. «Le cosiddette rivoluzioni del 1848 furono soltanto dei
poveri episodi – piccole rotture e crepe nella dura crosta della società
europea. Eppure resero visibile una voragine. Esser rivelarono, al di sotto
della superficie apparentemente solida, un mare di materia fluida, che aveva
solo bisogno di espandersi per mandare in frantumi continenti di roccia
compatta. Rumorosamente e confusamente esse annunciarono l’emancipazione del
proletariato, vale a dire il segreto del XIX secolo e della sua rivoluzione» (MEGA_,
I, 14, p. 119; MEOC, XIV, p. 655).
77 MEW, 5,
p. 457; MEOC, VII, p. 520.
78
«Il proletariato non è una mera parte attiva di questo intero, ma il crescere e
lo svilupparsi della sua conoscenza da un lato e, dall’altro, il suo stesso
crescere e svilupparsi nel corso della storia sono soltanto due aspetti del
medesimo processo reale» (G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr.it.
G. Piana, Milano, Sugarco, 1973, p. 29-30).
79
MEGA_, I, 10, pp. 296-297; MEOC, X, p. 334.
80
«Posto che la controrivoluzione vivesse in tutta Europa grazie alle armi,
morirebbe in tutta Europa grazie al denaro. La fatalità che incasserebbe la
vittoria sarebbe la bancarotta europea, la bancarotta di Stato.
Contro le punte “economiche” le punte delle baionette si sbriciolano come
l’esca morbida». (MEW, 5, p. 457; MEOC, VII, p. 519).
81
«Lo sviluppo del proletariato industriale è condizionato, in generale, dallo
sviluppo della borghesia industriale. E’ soltanto sotto il dominio della
borghesia industriale che il proletariato industriale acquista quella larga
esistenza nazionale, la quale rende nazionale la sua rivoluzione; crea i
moderni mezzi di produzione, i quali diventano in pari tempo i mezzi della sua
emancipazione rivoluzionaria. Solo il dominio della borghesia industriale
strappa le radici materiali della società feudale e spiana il terreno, sul
quale solamente è possibile una rivoluzione proletaria. […] La borghesia
industriale può dominare soltanto là dove l’industria moderna foggia a propria
immagine tutti i rapporti di proprietà, e l’industria può raggiungere questo
potere solo quando ha conquistato il mercato mondiale, perché i confini nazionali
non bastano al suo sviluppo. Ma l’industria francese in gran parte si assicura
lo stesso mercato nazionale solo mediante un sistema proibitivo più o meno
modificato. […] La lotta contro il capitale nella sua forma moderna, sviluppata,
nella sua fase culminante, la lotta del salariato industriale contro il
borghese industriale, è in Francia un fatto parziale,
che dopo le giornate di febbraio tanto meno poteva fornire il contenuto
nazionale della rivoluzione, in quanto la lotta contro i metodi secondari di
sfruttamento capitalistico, dei contadini contro l’usura ipotecaria del piccolo
borghese contro il grande commerciante, il banchiere e l’industriale, in una
parola, contro la bancarotta, era ancora confusa nel sollevamento generale
contro l’aristocrazia finanziaria in generale» (MEGA_, I, 10, p. 127; tr.
it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., pp.
114-116).
82
MEGA_, I, 10, pp. 126-127; tr. it. Le lotte di classe in
Francia dal 1848 al 1850, cit., pp. 111-114.
83
È questo cambiamento del punto di vista teorico che fonda la nuova posizione
strategica: il proletariato deve farsi trovare pronto al sopraggiungere della
congiuntura. Deve liberarsi dall’ideologia, maturare, diventare consapevole dei
suoi compiti rivoluzionari e «aspettare l’occasione in cui il diffuso scontento
di tutte le altre classi e le circostanze generali consentiranno loro di
riprendere nuovamente la loro opera rivoluzionaria». (MEGA_, I, 12, p.
561; MEOC, XII, pp. 558-559).
84
«Durante tutto questo periodo, tra il 1846 e il 1852, si resero ridicoli col
loro grido di battaglia: grandi principi e misure pratiche (cioè piccole).
E perché tutto questo? Perché in ogni sommovimento violento sono costretti a
ricorrere alla classe operaia. E se l’aristocrazia è il loro avversario
in via di sparizione, la classe operaia è il nemico in ascesa. Essi
preferiscono venire a un compromesso con l’avversario in via di sparizione
piuttosto che rafforzare il nemico in ascesa con concessioni di qualche
consistenza. Perciò si sforzano di evitare ogni collisione violenta con
l’aristocrazia; ma la necessità storica e i tories li spingono avanti. Non
possono evitare di adempiere la loro missione riducendo a pezzi la Vecchia
Inghilterra, l’Inghilterra del passato; e nel momento stesso in cui avranno
conquistato l’esclusivo predominio politico, quando il predominio politico e la
supremazia economica saranno uniti nelle stesse mani, quando, di conseguenza,
la lotta contro il capitale non sarà più separata dalla lotta contro i governo
in carica, allora , da quel momento, avrà inizio la rivoluzione sociale in
Inghilterra» (MEGA_, I, 11, pp. 324-327; MEOC, XI, p. 345).
85
«È naturale che le esplosioni violente si manifestano prima alle estremità del
corpo borghese che nel suo cuore, perché qui le possibilità di un compenso sono
più grandi». (MEGA_, I, 10, p. 466; MEOC, X, p. 522).
86
Cfr. F. Claudin, Marx, Engels et la révolution de 1848, cit., pp.
346-347. Per Claudin la rivoluzione del 1848 rivelò a Marx la possibilità
dell’esplosione della rivoluzione non lì dove il capitalismo è ai limiti delle
sue possibilità storiche, bensì nelle zone più arretrate e spinse così sue
riflessioni in una direzione che si mostrerà di grande utilità alla luce dell’evoluzione
storica ulteriore. L’interpretazione di Claudin sembra però forzata. Se infatti
è vero che le rivoluzioni politiche scoppiano “in periferia”, per Marx è però
altrettanto certo che la rivoluzione sociale dovrà nascere nel “cuore” del modo
di produzione capitalistico.
87
MEGA_, I, 14, p. 168 ; MEOC, XIV, pp. 60-61.
88
MEGA_, I, 11, p. 327; MEOC, XI, p. 345. Cfr. J. Texier,
Révolution et démocratie chez Marx et Engels , Paris, PUF, 1998. Texier deduce dalle riflessioni
marxiane sul proletariato inglese un’implicita possibilità di transizione
pacifica al socialismo. In realtà però, «il movimento rivoluzionario vero e
proprio potrà cominciare in Inghilterra solo con l’introduzione della Carta,
proprio come in Francia, dove la battaglia del giugno fu possibile solo dopo la
conquista della repubblica». (MEGA_, I, 10, p. 472; MEOC, X,
p. 528). Per Marx, nella prossima rivoluzione, «Cobden avrà il
ruolo
di Necker» (MEGA_, I, 10, p. 218; MEOC, XI, p. 264). «Le
concept de la dictature du prolétariat n’a rien à voir d’essentiel avec les
conditions et le formes de la “prise du pouvoir”. Par contre, il est indissociable
de la question de la détention du pouvoir, qui commande pratiquement tout
le cours de la révolution» (E. Balibar, Sur la dictature du prolétariat, cit.,
p. 51). Che sia il risultato di una rivoluzione violenta o di una vittoria
elettorale, la conquista proletaria del potere politico è comunque
sempre soltanto il primo momento di un movimento rivoluzionario che si deve radicalizzare
fino a trasformarsi in rivoluzione sociale, tesa a distruggere i rapporti
borghesi di produzione. [0]
89 Cfr. J. Textier,
Révolution et démocratie chez Marx et Engels , cit., pp. 22-23, D.
Doveton, Marx and Engels on Democraty, in “History of political
thought”, 1994, XV, pp. 555-591; M. Johnstone, Marx, Blanqui, and Majority
Rule, in Karl Marx's social and political thought: Critical
assessment, Vol. III, cit., pp. 331-351. Questi autori
considerano il pensiero marxiano essenzialmente una teoria democratica e
liberale. Tali interpretazioni sono possibili però soltanto se non si
tiene presente la peculiarità specifica della rivoluzione sociale, ovvero la
trasformazione del “politico” da fine a strumento, a momento che deve
essere superato. L’ interruzione della rivoluzione e il suo mancato
radicalizzarsi da rivoluzione politica in rivoluzione sociale, il suo
fallito passaggio dalle dimensioni nazionali a quella mondiale, ha infatti
come sua conseguenza assolutamente necessaria la “controrivoluzione”, intesa
come rafforzamento e perfezionamento degli apparati repressivi e
burocratici dello Stato, formalmente indipendenti. Sul significato del momento
politico della rivoluzione ci sembra indicativa la posizione di. E. Balibar :
«La révolution n’est pas conçue
simplement
comme un acte, mais comme un processus objectif. Dans un tel processus, les
“mesures” constituant un programme révolutionnaire ne sont qu’une “première
étape”, que d’autres suivront nécessairement, et qu’elles ne contiennent pas
encore» (Cinq études de matérialisme historique, cit., p. 79). La rivoluzione proletaria non può, per Balibar,
in alcun modo essere la mera conquista politica dello Stato borghese; tale
prospettiva, rintracciabile nel Manifesto, è “rettificata” proprio
attraverso le esperienze della rivoluzione de 1848 e quelle della Comune di
Parigi. Esse mostrarono infatti la necessità di distruggere gli apparati di
potere statali borghesi e di costituire forme di organizzazione del
proletariato rivoluzionario completamente differenti rispetto allo Stato
borghese. E’ illuminante, in tal senso, la distinzione di L. Althusser tra
potere e apparati di Stato: «Innanzitutto, bisogna, se non aggiungere, almeno precisare
che lo Stato (e la sua esistenza nel suo apparato) non ha senso che in funzione
del potere di Stato. Tutta la lottam politica
delle classi ruota attorno allo Stato: intendiamo attorno alla detenzione, cioè
alla presa o alla conservazione del Potere di Stato da parte di una certa
classe, o di un “gruppo di potere”, cioè di un’alleanza di classi o di frazioni
di classi. Questa prima precisazione ci obbliga dunque a dare una distinzione
tra il Potere di Stato (conservazione del potere di Stato o presa del potere di
Stato), obiettivo della lotta politica di classe da una parte, e l’Apparato di
Stato dall’altra. Sappiamo che l’Apparato di Stato può rimanere al suo posto,
come lo provano le “rivoluzioni” borghesi del XIX secolo in Francia (1830,
1848) o i colpi di Stato ( il 2 dicembre 1852, il 13 maggio 1958) o i crolli di
regimi (caduta dell’Impero nel 1870, caduta della III Repubblica nel 1940) o
l’ascesa politica della piccola borghesia (1890- 1895 in Francia), ecc. […]
senza che l’apparato di Stato ne sia toccato o modificato; esso può rimanere al
suo posto, sotto gli avvenimenti politici che colpiscono la detenzione del
potere di Stato» (L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, tr. it. M.
T. Ricci, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 77). La dittatura proletaria deve
quindi essere finalizzata alla distruzione degli apparati di Stato borghesi;
solo questo momento distruttivo può porre le premesse per il passaggio dalla
rivoluzione politica alla rivoluzione sociale. Cfr. anche Id. Marx
dans ses limites, cit., pp. 454-464. [0]
90
«Questa duplice crisi viene accelerata, resa più vasta e pericolosa dalle
convulsioni che contemporaneamente incombono sul continente, e, sul continente,
le rivoluzioni assumeranno per l’effetto che avrà la crisi inglese sul mercato
mondiale un carattere molto più marcatamente socialista». (MEGA_, I, 10,
303; MEOC, X, p. 341). Le rivoluzioni politiche stesse retroagiscono
quindi sulla crisi, come “fattori di radicalizzazione”, contribuendo a determinarne,
nella congiuntura, il grado di intensità. La nuova strategia marxiana è
pienamente coerente con questa prospettiva: solo il proletariato indipendente e
rivoluzionario potrà essere in grado di sottrarre alla borghesia le armi di difesa,
accelerando così il movimento rivoluzionario. [0]«Il est clair que, pour Marx
et Lénine et Mao, la capacité dite “subjective” (c’est-à-dire et théorique et
organisationnelle), la qualité de l’organisation, de sa théorie et de sa ligne,
sont alors déterminantes pour combattre judicieusement les
“causes qui contrecarrent” la tendance dominante du processus de lutte de
classe, et pour aider à l’accomplissement de la “tendance” elle-même. Aucune
fatalité ne préside donc a l’échéance du processus. Tout au contraire : il
dépend des capacités théoriques, organisationnelles et politiques, jusque dans
ses moindres pratiques, du parti, que la tendance s’accomplisse, ou
qu’au contraire quelque résultat “monstrueux” résulte d’une lutte menée sans
prendre en considération les “causes qui contrecarrent” le développement de la
tendance» (L. Althusser, Marx dans ses limites, cit., p. 462).
91
Su questa “duplice possibilità” presente in ogni congiuntura rivoluzionaria ci
sembra chiarificante la prospettiva di A. Tosel: «Le communisme ne peut plus
être défini comme forme de rapport social immédiatement expressif de son contenu
; il se présente comme une tendance possible, à construire, sans garantie, dans
la résistance à la soumission réelle qui joue contre le travail la productivité
même du travail et oppose toute la gamme de l’innovation scientifique et technologique
au projet d’une gestion sociale du surproduit» (A Tosel, Études sur Marx et
Engels. Vers un communisme de la finitude, Paris, Ed. Kimé, 1996, p.
67). Cfr. anche Id.,
Marx et le rationalisme politique, in « La pensée », Juilletaoût 1995,
n. 303, pp. 35-45; L. Brownstein, The Concept of Counterrevolution in
Marxian Theory, cit., pp. 273-287 e I Garò, Représentation et politique
chez Marx, cit., pp. 77-88. Non
concordiamo con l’interpretazione di F. Kaplan (Les trois communismes
de Marx, Paris, Éd. Noêsis, 1996), che interpreta questo spazio di
iniziativa storica come il momento morale della dottrina marxiana: «En fait, la
nécessité historique laisse, pour Marx, une certaine marge à l’initiative
humaine, à la liberté, à la bonne ou mauvaise volonté. […] Autrement dit, le
marxisme, en tant que doctrine faisant appel au militantisme, ne peut se borner
à justifier le communisme par la nécessité historique. Il doit aussi en faire
un exigence morale» (ivi, pp. 401-403). L’apertura della possibilità
dell’iniziativa storica per noi si deve piuttosto interpretare come una
“possibilità oggettiva”, derivata proprio dalla contraddittorietà del modo di
produzione capitalistico e dal suo manifestarsi attraverso crisi
congiunturali.[0] Sulla essenziale a-moralità del discorso marxiano cfr. E.
Renaut, Marx e l’idea di critica, cit., pp. 135-149.
92
MEGA_, I, 10, pp. 218-219; MEOC, X, pp. 264-265.
93
«Marx pense la nécessité de la prise du pouvoir et de son avenir : dans une
dialectique de la tendance,
nécessairement
prise dans des “causes qui la contrarient” (et viennent avant tout d’elle), où
une intervention politique est possible et s’impose pour permettre
l’accomplissement de cette tendance. Sans cette “ intervention”, jamais la
tendance ne s’accomplira d’elle-même, et si cette “intervention” est de
mauvaise qualité, le pire est à craindre, dans la médiocrité d’un “compromis
historique”, dont les variétés peuvent être infinies, et qui peut s’achever
dans des horreurs, pour peu que la situation de l’impérialisme y prête la main»
(L. Althusser, Marx dans ses limites, cit., p. 463).
94 MEGA_, I,
10, p. 196; tr. it. Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850,
cit., p. 278.
95
Cfr. M. Rubel, Marx devant le bonapartisme , Paris - La Haye, Mouton
& Co, 1960, pp. 149-161. Rubel sottolinea lo scacco della possibilità della
rivoluzione liberatrice rispetto alla sua opzione opposta. L’analisi della
storia europea, con la formazione delle grandi unità nazionali, dei grandi
sistemi industriali e delle grandi masse proletarie, partiti e sindacati
operai, a Est e a Ovest, sembra dimostrare che il bonapartismo è il destino del
mondo moderno. I mezzi definiti da Marx come storicamente necessari per portare
al socialismo - la generalizzazione del modo di produzione capitalistico e
quindi del proletariato a la conquista degli stati nazionali – hanno infatti
condotto non alla rivoluzione, bensì alla generalizzazione del fenomeno così
profeticamente analizzato da Marx, il bonapartismo. Sul tema del bonapartismo
cfr. anche L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, cit., pp. 103-104;
la definizione di Balibar di “appareil” in AA. VV. Dictionnaire
critique du Marxisme, cit., p. 49 e K. Papaioannou, Marx and the
Bureaucratic State, in Karl Marx's social and political thought:
Critical assessment, Vol. III, cit., pp. 42- 43.
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