Non c’è liberazione della donna se non in una società socialista: questo è il senso che diamo alla lotta delle donne. Comuniste dunque, anche in quanto donne, per realizzare quella liberazione che dentro la società della divisione del lavoro e della divisione in classi non può realizzarsi. E questa è la ragione per cui le donne comuniste non si pongono solamente come antagoniste all’esistente: lottano contro, certo, contro lo sfruttamento, contro il patriarcato, contro la violenza, contro la collocazione in ben precisi ruoli sociali e culturali…, ma lottano anche per “abolire lo stato di cose presenti” e per costruire un mondo nuovo, di liberi ed uguali: un mondo socialista. La condizione delle donne è - al pari di quella degli uomini - il prodotto di relazioni sociali che si sono affermate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche.
Dunque, anche il ruolo della donna (se così vogliamo
definirlo, perché è evidente che questo ruolo non è lo stesso per le donne
lavoratrici e per le donne della classe dominante) è un prodotto
storico-sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo
attraverso la trasformazione della società che determina questi ruoli. Questo
vuol dire che quando si tenta di analizzare la posizione della donna nella
società in cui viviamo non si può fare a meno di partire dall’analisi della
natura di questa società dunque, nel nostro caso, una società capitalista che
si fonda essenzialmente sulla divisione in classi e sullo sfruttamento del
lavoro di una classe da parte di un’altra classe. In altri termini, non
possiamo non tenere conto che esiste una classe - fatta di uomini e di donne -
che viene sfruttata e che ne esiste un’altra - anch’essa composta da uomini e
da donne - che sfrutta, domina e accumula profitto sulle spalle dell’altra.
Questo è per noi l’elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che
la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra
contraddizione fondamentale che è quella tra lavoratori salariati e
capitalisti.
Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le
donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero
ottenuto solo molti anni dopo: per esempio, la prima donna ministra al mondo fu
Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne
hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia
le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo
attendere gli anni ’70-’80.
Prendiamo la situazione della donna rispetto al mondo del
lavoro. Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore
gli effetti della crisi economica del capitalismo. Gli attacchi durissimi
portati alle conquiste sociali ed economiche del mondo del lavoro hanno avuto
conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle
donne. Il processo generale di ristrutturazione e di precarizzazione del lavoro
che è stato portato avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi
decenni, qualunque fosse il loro segno politico, ha prodotto
l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà
del lavoro, portando con sé lo smantellamento di diritti che i lavoratori e le
lavoratrici avevano conquistato nelle lotte della fase precedente. Le donne (e
gli immigrati, per altro verso) sono i soggetti più colpiti dal
supersfruttamento attraverso contratti di lavoro “atipici”, come il lavoro interinale
o i contratti part-time che molte donne chiedono non allo scopo di liberare
tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico
di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia. Quindi: doppio
sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano
in casa. Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica
porta con sé l’aumento della violenza sulle donne (e magari anche la
diminuzione delle denunce, le due cose non sono affatto in contraddizione).