Il significato
fondamentale del primo libro del Capitale.
Un breve compendio
Per Marx, la società capitalistica è definita come quel
contesto storico in cui le condizioni «oggettive» della produzione (mezzi di
produzione, incluso le risorse originarie e il lavoro) sono possedute
privatamente da una parte della società, la classe capitalista, mentre l'altra
parte, la classe dei lavoratori, ne è esclusa. I lavoratori, separati dalle
condizioni materiali del lavoro e quindi incapaci di produrre indipendentemente
i propri mezzi di sussistenza, sono costretti a vendere alle imprese capitaliste
la sola cosa che posseggono, la condizione «soggettiva» della produzione (la
loro forza-lavoro), in cambio di un salario monetario da spendere nell'acquisto
dei beni salario. La forza lavoro è la capacità di lavorare: essa è costituita
dalle capacità fisiche e mentali che vengono messe in moto nel lavoro utile,
che produce qualsiasi tipo di valori d'uso, e che è inseparabile dal corpo
vivente degli esseri umani. Il contratto di lavoro tra i capitalisti e i
lavoratori salariati presuppone che questi ultimi siano formalmente soggetti
liberi (diversi dagli schiavi e dai servi), e, quindi, che mettano la loro
forza-lavoro a disposizione dei capitalisti soltanto per un periodo limitato di
tempo. I proprietari dei mezzi di produzione, i «capitalisti industriali»,
hanno bisogno di un finanziamento iniziale dai proprietari di denaro, i
«capitalisti monetari», non solo per comprare i mezzi di produzione dagli altri
capitalisti (il che, dal punto di vista della classe capitalistica nel suo
complesso, è una transazione interna alla medesima), ma anche, e soprattutto,
per comprare la forza-lavoro dei lavoratori (il che, dallo stesso punto di
vista, è il suo solo acquisto «esterno»). Le merci prodotte appartengono ai
capitalisti industriali, che le vendono ai «capitalisti commerciali», i quali,
a loro volta, le realizzano sul mercato. Marx nel primo libro suppone che i
capitalisti industriali abbiano inizialmente già a loro disposizione il denaro
di cui hanno bisogno per attivare i processi produttivi, e che vendano le loro
merci sul mercato senza bisogno di intermediari. Dunque, a questo livello di
astrazione, le tre figure dei capitalisti (industriali, monetari, commerciali)
non hanno bisogno di essere distinte. Il processo capitalistico, in un dato
periodo di produzione, può essere riassunto in questi termini. All'inizio del
circuito, la compera della forza-lavoro
sul cosiddetto mercato del lavoro
permette all'imprenditore capitalista di dare inizio alla produzione immediata. Le imprese si aspettano di vendere sul
mercato le merci prodotte in cambio di denaro. Ciò che ottengono deve per lo
meno coprire l'anticipo iniziale, in modo da chiudere il circuito. Qui sono
coinvolti due tipi di circolazione monetaria. I salariati vendono le merci, Mfl
(la loro forza-lavoro) in cambio di denaro, D, così da ottenere merci
differenti, Mps (il paniere di merci necessarie alla riproduzione dei
lavoratori, provenienti dai precedenti processi di produzione e appropriate dai
capitalisti). I lavoratori sono così intrappolati in ciò che Marx chiama la
«circolazione semplice delle merci», o M - D - M'. Dall'altro lato, le imprese
capitalistiche comprano merci per venderle, quindi la circolazione appare dal
loro punto di vista D - M - D'. Una volta espressa in questa forma, è chiaro che
la circolazione capitalistica ha senso solo se la quantità di denaro alla fine del circuito è maggiore di quella
anticipata all'inizio - cioè se D' > D e se il valore anticipato sotto
forma di denaro è stato in grado di ottenere un plusvalore, consistente in un
profitto monetario lordo. D - M - D' è la «formula generale del capitale», e
il capitale è definito da Marx come valore che si autovalorizza. La divisione
tra capitalisti e lavoratori salariati potrebbe a questo punto essere
reinterpretata come la «separazione» tra coloro che hanno accesso
all'anticipazione di denaro come capitale, «denaro che genera denaro»,
indipendentemente dalla disponibilità di una merce e dunque anche prima della
sua produzione, e quelli che hanno invece accesso al denaro solo come reddito,
e che per ottenerlo devono già avere la disponibilità di una merce da vendere.
La domanda fondamentale affrontata da Marx nel primo libro
del Capitale è quindi la seguente: come
può la classe capitalistica ottenere dal processo economico più di quanto non
vi immetta? Ciò che essi immettono, come classe, è il capitale monetario,
che «esibisce» (o «espone»: nel seguito useremo i due termini come sinonimi) il
lavoro astratto materializzato nei mezzi di produzione e nei mezzi di
sussistenza richiesti per il processo di produzione. Ciò che essi ottengono è
denaro che «esibisce» il lavoro astratto cristallizzato nelle merci prodotte e
vendute sul mercato alla fine del circuito. Da un punto di vista
macroeconomico, è chiaro che la
«valorizzazione» del capitale non può avere la propria origine nelle
transazioni «interne» alla classe capitalistica, ossia tra le imprese,
perché qualsiasi profitto un produttore ottenga attraverso l'acquisto a prezzo
più basso e la vendita a prezzo più alto determinerebbe una perdita per gli
altri produttori. Di conseguenza, la
fonte del plusvalore deve essere rintracciata nel solo scambio che è «esterno»
alla classe capitalistica, ovvero l'acquisto della forza-lavoro.
La questione qui è semplicemente comprendere attraverso quale meccanismo tutto ciò
può aver luogo. Ritornerò su questo punto in maggiore dettaglio, ma penso che
il ragionamento di Marx sia, in estrema sintesi, il seguente. Nel processo
lavorativo capitalistico, la totalità
dei lavoratori salariati riproduce i mezzi di produzione impiegati e produce un
prodotto netto. Il prodotto netto è «esibito» sul mercato in un neo valore che
si aggiunge al valore dei mezzi di
produzione. Questo vero e proprio «valore aggiunto» è nient'altro che l'espressione monetaria del tempo di lavoro
(socialmente necessario) «oggettualizzato»
in merci dai lavoratori salariati nel periodo attuale. Il «valore della forza-lavoro» con riferimento all'intera
classe lavoratrice è dato dal lavoro
contenuto nei salari monetari, che è regolato dal tempo di lavoro
(produttore di merci) richiesto alla riproduzione della capacità di lavoro, e
quindi dal tempo di lavoro che è
richiesto per (ri)produrre i mezzi di sussistenza acquistati sul mercato.
Perciò, il plusvalore proviene dal «pluslavoro»: la differenza positiva tra, da
una parte, tutto il lavoro vivo speso
nella produzione del prodotto netto del capitale, e, dall'altra, la quota di lavoro vivo necessaria alla
riproduzione dei salari, che Marx chiama lavoro necessario.
Nella prima metà del
saggio (i primi tre paragrafi), presenterò la mia lettura della teoria
macro-monetaria del valore-lavoro, distinguendo chiaramente l'interpretazione dell'argomentazione
marxiana dalla mia personale ricostruzione
e sviluppo della medesima. Nella seconda metà del saggio (i paragrafi 4 e
5) metterò a confronto la discussione sul primo libro del Capitale con l'approccio di Moseley. Il presente saggio, dunque,
presenta un abbozzo sintetico della mia lettura di Marx in parallelo con una
critica dell'interpretazione di Moseley, entrambe messe alla prova
dell'evidenza testuale.