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lunedì 10 febbraio 2025

Sulle foibe - Rossana Rossanda

Da: Massimo Zucchetti - Rossana Rossanda (Pola, 23 aprile 1924 – Roma, 20 settembre 2020) è stata una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto

Vedi anche: La narrazione intorno alle foibe. Un'ambigua verità di stato - Angelo d'Orsi 

Leggi anche: “E allora, le foibe?!”  

L’occupazione italiana nei Balcani - Angelo Del Boca  

Italia: una “memoria condivisa” fatta di vittimismo e negazione del conflitto Una conversazione con Davide Conti  

https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/02/14/von-banditen-erschossen-su-mattarella-e-le-foibe 


[nella foto partigiani sloveni fucilati] Da Giancarlo Raimondo


[Il Giorno del Ricordo, istituito con una legge bipartisan che solo noi comunisti non votammo, è diventato da anni l'occasione per riscrivere la storia. A aprire la porta alla narrazione dei fascisti furono gli ex-comunisti del centrosinistra. Tra di loro va segnalato Luciano Violante che meritò all'inizio di questa operazione una dura critica di Rossanda] Massimo Zucchetti 

il manifesto, 27 agosto 1996 

Da quando è presidente della Camera, Luciano Violante si è investito della missione di riscrivere la storia, che secondo lui non è mai stata giusta. Rifacendola, si potrebbe “riconciliare la nazione” che, come si sa, nel 1943 si divise. 

Prima ci ha spiegato che occorre (o sarebbe addirittura occorso l’8 settembre?) capire i giovani che sceglievano Mussolini e Salò. Adesso rimprovera il suo ex partito - o ex suo partito o comunque si voglia chiamare il PCI - di aver nascosto che dal 1943 al 1945 i partigiani jugoslavi giustiziarono sommariamente e cacciarono nelle foibe non solo gli ustascia ma alcune migliaia di istriani che sospettavano d’accordo con loro, sicuramente molti innocenti. Il PCI ha occultato tutto, dice Violante riprendendo il segretario pidiessino di Trieste, per complicità totalitaria con Tito. 

Si dà il caso che io sia stata una del PCI, e istriana da diverse generazioni. Conosco quella storia. Ma la conoscono tutti fuorché, forse, la distratta generazione di Violante: dal 1948 in poi le foibe ci vennero rinfacciate a ogni momento, e non solo dai fascisti che rivolevano Trieste (i loro eredi ancora mettono in causa il trattato di Osimo). Se la federazione triestina del PCI, a lungo diretta da Vittorio Vidali, fu dilaniata nel giudizio politico, storicamente non c’era nulla da scoprire. 

Non è questione di archivi da portare alla luce, ci sono storie e documenti. Se Violante avesse velocemente consultato la abbastanza buona biblioteca della Camera, si sarebbe risparmiato delle enormità. La prima delle quali è tacere l’essenziale d’una vicenda che si pretende di ricostruire. 

Non ci sono due possibili interpretazioni delle responsabilità italiane in Jugoslavia: ce n’è una. Ed è che l’Italia seguì Hitler nell’invasione della Jugoslavia del 1941, pretese un dominio particolare sulla Croazia, appoggiando Ante Pavelic e sovrapponendogli a mo’ di sovrano Aimone di Savoia Aosta, duca di Spoleto. Per due anni i corpi d’armata italiani, soprattutto la Pusteria, e i generali Cavallero, Ambrosio e Roatta attuarono operazioni orrende contro la guerriglia partigiana, la più lunga e coraggiosa d’Europa, gli ebrei, i musulmani, i serbi ed altre minoranze; le fonti di Renzo De Felice calcolano in oltre duecentomila gli uccisi. 

Mentre una nobile gara si instaurava, teste indiscusso Luigi Pietromarchi, fra Roma e Berlino su come spartirsi le spoglie dei Balcani. In capo a due anni, con l’8 settembre, l’esercito italiano si disgrega e per l’onore del nostro disgraziato paese diversi soldati e ufficiali raggiungono le formazioni partigiane jugoslave. Ma non perciò esse hanno vinto: i tedeschi non mollano il fronte jugoslavo, se perdono dei territori tentano di riprenderli o li riprendono con ripetute offensive, che tengono impegnata la Wehrmacht come in nessun altro fronte occidentale. La Jugoslavia si può considerare liberata e la guerra quasi conclusa nel tardo 1944 con la presa di Belgrado. 

L’unificazione dei comitati partigiani è avvenuta un anno prima. E Tito sarà riconosciuto come interlocutore soltanto alle soglie del 1945, gli inglesi avendogli preferito il governo all’estero di Mihailovic (alleati cetnici inclusi finché non cambiarono bandiera). Quattro anni di guerra di guerriglia, che il variare del fronte e degli esiti rende subito guerra, quattro anni di scontro con un esercito potente e crudele, di massacri, rappresaglie e saccheggi, sono un tempo infinito. L’odio seminato, e meritato, da italiani e collaborazionisti fu grande, e non dimenticato. E le vendette certamente atroci, e non dimenticate. 

Ma le responsabilità non sono le stesse. 

Non tiriamo in ballo i morti, che sono davvero fuori dalla storia, per far intendere che le colpe sono uguali, e che lo scontro è stato tra due totalitarismi che si equivalevano.

Questa è mistificazione, prima ancora che revisionismo. L’ignoranza e la confusione sono già abbastanza grandi perché un presidente della Camera ex comunista venga ad aumentarle. 

venerdì 11 febbraio 2022

Reddito di autodeterminazione: dubbi di una femminista eretica - Giovanna Vertova

 Da: https://transform-italia.it - Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi.

Vedi anche: Il mercato del lavoro e la piena occupazione - Giovanna Vertova

Occupati, disoccupati, inattivi...*- Giovanna Vertova

Donne e crisi*- Giovanna Vertova

Il reddito di esistenza - Giovanna Vertova

Leggi anche:La questione di classe è una questione di genere - Giovanna Vertova 

POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova 

Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere. - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova 

L'ALTRA METÀ DEL LAVORO - Rossana Rossanda 



Composizione VIII - Vasilij Kandinskij 

Ormai da decenni, più o meno dal pieno sviluppo del neoliberismo, è iniziata una riflessione, sia a destra che a sinistra, sull’idea che il welfare che si è venuto a creare nel secondo dopo guerra non sia, oggi, più sostenibile (destra) o non sia più in grado di creare un’adeguata rete di protezione sociale per le classi meno abbienti (sinistra). La posizione di sinistra è, inoltre, articolata su un’analisi della attuale fase capitalistica alquanto fantasiosa. L’ipotesi di base è che, da molti anni, sia in corso un declino della soggettività “lavorista”, in quanto il neoliberismo sarebbe incapace di garantire la piena occupazione, tipica del periodo storico precedente, spesso denominato fordista-keynesiano. Di conseguenza il welfare di matrice “fordista” sarebbe inadeguato a garantire le protezioni necessarie per costruire una risposta alla crescente insicurezza sociale della classe lavoratrice, in quanto concepito per una società “lavorista” e di “piena occupazione”. L’automazione dei processi di produzione (ove possibile), la rivoluzione tecnologica digitale, ultimamente il sistema Industria 4.0 concorrono a sostituire lavoratori in carne ed ossa con macchine, creando o aumentando la disoccupazione tecnologica. Per questo motivo i sostenitori di questa visione ritengono che il welfare non possa più essere legato alla condizione lavorativa1, ma andrebbe riformato per rispondere alle nuove insicurezze sociali figlie del neoliberismo. Un trasferimento monetario statale, sganciato dalla prestazione lavorativa sembra, quindi, essere la soluzione giusta per tutelare la classe lavoratrice.

mercoledì 30 settembre 2020

L'ALTRA METÀ DEL LAVORO - Rossana Rossanda

 Da: https://www.facebook.com/riccardo.bellofiore - Articolo uscito su il manifesto, 30 maggio 2010. - Rossana Rossanda è stata una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto.

Vedi anche:   Donne e crisi*- Giovanna Vertova**

Leggi anche: IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE. Classe, genere e natura. - Riccardo Bellofiore                                                                                                                       Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere. - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova 


Immagina che il lavoro («Sottosopra», ottobre 2009; ne ha già scritto sul manifesto Laura Pennacchi) è la proposta d'un gruppo della Libreria delle Donne di Milano, sulla quale è impegnata Lia Cigarini. Conosco Lia da una vita, vivevamo vicine, fra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, lei più giovane, in una Milano dove le donne entravano in massa nel lavoro. In verità, entrare nel lavoro voleva dire diventare salariate, perché lavorare, avevano lavorato sempre. Nella cascina, che non era né casa né fabbrica, o nel podere in Veneto, a pieno tempo su terra altrui, mezzadre in Toscana e in Emilia, o braccianti stagionali, o nell'acqua delle risiere fino alle ginocchia come le favoleggiate mondine. Sempre, oltre che in casa, in qualche lembo delle produzione agricola o dei servizi. Quando entrarono in fabbrica diventarono operaie, si incontravano nei tram molto mattutini o serali, assonnate, vestite di furia, la permanente ferrea, o appoggiate al sole fuori dell'Alfa nell'intervallo della mensa. Uscivano di casa prestissimo, rifatti i letti e avviata la minestra, correvano al lavoro, risalivano le scale la sera dopo frettolosi acquisti a preparare la cena. Dopo cena lavavano e stiravano, la domenica mattina lustravano. In busta paga avevano di regola meno degli uomini, oltre che inquadrate ai livelli inferiori.

Maternità? Ogni tanto una era contenta. Ogni tanto un'altra correva di nascosto a un certo indirizzo e ne usciva verde in faccia e col ventre sanguinante. Altre sprofondavano in maternità faticose, tirando la vita con i denti e facendo qualche servizio. Tutte leggevano avidamente le dolci idiozie dei romanzi a fumetti.

Donne al lavoro

La composizione della forza di lavoro cambiò in quegli anni. In fabbrica e negli uffici le donne erano molte di più - anche se meno che in Francia e in Germania. Un terzo della manodopera teneva otto ore un piede in azienda, almeno due in tram, altre sei in famiglia fra spesa, pulizie, cibo e figli, scordando ogni riposo, per non dire la politica e il sindacato. Meno di venti anni dopo le stesse sarebbero scese per strada a manifestare per il divorzio e l'aborto, oblique libertà. Ma non esitarono. Un diritto avrebbe da esser bello e l'aborto non lo era. Era un desiderio? Malinconico ma desiderio? Malinconica ma libertà? Era delitto per un medico su due, per un uomo e mezzo su due, nessun delitto ma tuo rischio per la mammana, zona di rabbiosi silenzi per le famiglie.

Donne era difficile. Sono certa soltanto di questo.

mercoledì 23 settembre 2020

La politica della teoria - sulle Tesi di Rifondazione - Rossana Rossanda

Da: https://www.pane-rose.it (7 Febbraio 2002) (Uscito su "La rivista de Il manifesto" del 25 gennaio 2002)

Rossana Rossanda (Pola, 23 aprile 1924 – Roma, 20 settembre 2020) è stata una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto. 


Ha ragione Bertinotti quando osserva che non si misura un partito sulla lettera di Marx. Ma Rifondazione dichiara una svolta, e la ricava anche dall'esaurimento di «molte categorie marxiste». Vale la pena di riflettervi; non per amore dell'ortodossia ma per intendere le priorità che ne derivano.

A me le Tesi appaiono anzitutto la vera reazione al voto del 13 maggio, quando Bertinotti fece sussultare mezza Italia dicendosi soddisfatto dei risultati, che pure consegnavano il paese a Berlusconi. Quel sollievo rivelava quanto Rc si fosse sentita in pericolo, dopo che la corsa al centro dei Ds aveva impedito un'alleanza elettorale decente. Ma il 'siamo vivi' non cancellava il fatto che Rc non era riuscita ad attrarre neanche due o tre punti dei molti che i Democratici di sinistra sono venuti perdendo. Quali che ne siano le responsabilità - umori ed errori sia di Rifondazione sia dei Ds - non c'è stata neanche una modesta tendenza del voto a rafforzare Rc, cosa che avrebbe forse modificato i termini del congresso Ds. Le Tesi di novembre ne derivano che una sinistra proveniente dalla tradizione comunista - nella cui continuità, rifondata quanto si vuole, quel partito si era presentato ed era recepito - era esaurita.

E proprio mentre fuori di essa si alzava in varie parti del mondo un vasto movimento contro gli effetti devastanti della globalizzazione.

Poco dopo il 13 maggio esso aveva dato a Genova una dimostrazione della sua ampiezza, e a fine estate la marcia della pace di Perugia aveva una dimensione senza pari in Europa. Esisteva dunque una sensibilità militante che non si formava più sotto la bandiera rossa, ma alla chiamata dei no-global e dei pacifisti. Insomma era fra i no- global che la politica riprendeva respiro. Non si doveva concludere che una fase storica era davvero chiusa e sentirsi interpellati da quei movimenti non come aggiunta ma come una cesura con i parametri e gli orizzonti del movimento operaio comunista? E cambiare rotta? Questa è la scelta delle Tesi.

Il documento preliminare dava ai no-global una valenza epocale: «è possibile che nel mondo si stiano determinando le condizioni per un nuovo inizio del processo rivoluzionario» sino «al superamento della società capitalistica». Nelle Tesi il giudizio è stato moderato. Ma si riconferma la natura rivoluzionaria di quel formarsi di diverse culture militanti su obiettivi alti, non più immediati e sulla porta di casa, bensì a dimensione mondiale; e capaci di darsi continuità, consolidare saperi, autogestirsi, andare in piazza, suscitare una grande eco mediatica, custodendo ciascuno un'autonomia (Attac, Commercio equo e solidale, Lilliput, Nigrizia, Confédération Paysanne, Sem Terra, una eco della radicalità degli anni '70 nei Social Forum, altri), e muoversi su obiettivi comuni. E infine, nelle riunioni di Porto Alegre, non solo sfidare il 'pensiero unico' ma tentare un altro mondo possibile.

Rifondazione li aveva sempre appoggiati. Ma ora le Tesi ne deducono che la coscienza rivoluzionaria non fa più centro sul 'lavoro', ma nasce da molteplici soggettività, delle quali quella operaia è una; e così supera la dicotomia fatale del movimento operaio comunista, fra la navigazione entro i limiti del sistema politico ed economico, e il perpetuo rinvio a un domani socialista. Rc ne deriva una riflessione su di sé come partito, che deve assumere i movimenti quale riferimento senza proporsi di diventarne la classica avanguardia, e a questo fine deve rinnovarsi, aprirsi, mutare metodo di decisione.

Questa ridefinizione del soggetto, anzi dei soggetti di rivoluzione, che non fa più asse sul lavoro - cioè sulla lotta al capitale come modo di produzione e ordinamento sociale - si distacca da Marx? Sì.

domenica 3 maggio 2020

Gramsci. Eretico e comunista - Rossana Rossanda

Da: http://www.rifondazione.it/formazione - [Articolo pubblicato sul manifesto nel gennaio 1991 nell’inserto per il centenario della nascita di Gramsci. Si era alla vigilia del congresso di scioglimento del Pci (3,febbraio,1991)] - Rossana Rossanda è una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto.
Vedi anche:  Seminario organizzato dall'Istituto della Enciclopedia Italiana in occasione della pubblicazione del volume di Giorgio Fabre, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (https://www.youtube.com/watch?v=a4r005sbHak).


Non è senza imbarazzo che il Partito comunista italiano celebra l'anniversario di Antonio Gramsci alle soglie di quel XX congresso nel quale cambierà nome, simbolo e progetto politico. 

Paradossalmente è la natura decisamente antistaliniana di Gramsci a farne un personaggio non piegabile alle ragioni della «svolta» di Occhetto. Egli dimostra infatti come nessun altro che si può essere comunisti e non totalitari, comunisti e non giacobini, comunisti e non legati a uno schema impoverente di lettura della realtà, comunisti e sostenitori o portatori di un radicale dissenso.

Figura scomoda dunque per chi sostiene che comunismo e stalinismo sono la stessa cosa. O leninismo o trotzkismo. Gramsci non si può dire del tutto leninista («La rivoluzione contro il capitale») e per nulla trotzkista; nel 1926 si oppose alla condanna di Trotzki non perché ne condividesse le posizioni, ma per la rottura che Stalin induceva nel gruppo dirigente bolscevico mentre si spegneva ogni prospettiva di rivoluzione in Europa. A lui un partito comunista che volesse seriamente ripensare il suo metodo e trarre categorie di analisi non riducibili alla vulgata marxista, poteva davvero riferirsi: ma per restare comunista, non per cessare di esserlo.


E' questo che rende Gramsci non fungibile a qualsiasi uso politico. La duttilità dell'intelligenza si univa a una fermezza su alcuni principi, che pagò a costi altissimi: l'indisciplina del 1926, ce la diceva lunga su come egli concepisse un partito, fu deflagrante, Togliatti gli rispose aspramente, egli replicò non meno aspramente, e l'Internazionale spedì Humbert Droz a Genova per ricondurre i comunisti italiani sulla retta via. Non dovette penare molto: Gramsci non poté partecipare alla riunione perché era stato arrestato a Milano due giorni prima e non avrebbe più rivisto la libertà. Né avrebbe potuto mai più discutere con i compagni quel giudizio e la situazione che gliene derivava. Tanto da poter sospettare tormentosamente che, per quel dissenso, il Partito poco ormai si interessasse a lui, se addirittura non aveva contribuito - con la famosa lettera di Grieco - a «incastrarlo» al processo. 

mercoledì 11 marzo 2020

Rosa Luxemburg, teorica marxiana dell’economia e della politica - Riccardo Bellofiore

Dal numero monografico dedicato a Rosa Luxemburg dalla rivista «Alternative per il socialismo», n. 56, dicembre 2019/marzo 2020. - http://www.rifondazione.it - 

                      Rosa Luxemburg*- Edoarda Masi 
                        ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986)


«Qualche sentimentale piangerà che dei marxisti bisticcino fra loro, che ‘autorità’ provate siano messe in discussione. Ma il marxismo non è una dozzina di persone che si distribuiscano a vicenda il diritto alla ‘competenza’, e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria che lotta per sempre nuove conquiste della conoscenza, che da nulla aborre più che dalle formule valide una volta per tutte, che mantiene viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate dell’autocritica e nei fulmini della storia.» (Rosa Luxemburg, 1916) 

Sono trascorsi cento anni dall’assassinio di Rosa Luxemburg. Ecco che si sono svolte numerose iniziative per ricordarne la figura, è stato pubblicato qualche volume, o qualche articolo di rivista. Certo, nulla a che vedere con la doppia ricorrenza marxiana che abbiamo alle spalle (due anni fa, il cento- cinquantenario della pubblicazione della prima edizione del Capitale, l’anno scorso duecento anni dalla nascita di Karl Marx). Nel caso di Rosa Luxemburg, comprensibilmente (ma pur sempre discutibilmente) il fuoco è stato sulla figura personale e politica, non sulla teorica, tanto meno sulla Luxemburg economista. Il che, dal mio punto di vista, è una mutilazione che cancella il centro della figura che si vuole ricordare, e in fondo rende concreto il rischio di disperderne l’eredità. 


Mi proverò allora a ripercorrerne la riflessione guardando agli scritti economici e politici, oltre gli stereotipi. Si comincerà dalla Luxemburg marxista, per approdare alla Luxemburg marxiana, che ci interroga ancora oggi. Dovrò procedere un po’ con l’accetta, rimandando per un approfondimento a miei altri scritti, che saccheggerò qua e là. 


Gli inizi: ristagno e crisi nel marxismo 

lunedì 16 settembre 2019

Aldo Natoli, comunista senza partito. Anni di ricerca tra Berlino e Urbino. - Peter Kammerer

Da: http://www.fondazionemicheletti.it  - peter-kammerer, ha insegnato Sociologia alla Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Urbino.
Leggi anche: Sul compromesso storico - Aldo Natoli 
                         Togliatti fra Stalin e Cavour - Aldo Natoli
                          http://fondazionepintor.net/anniversari/Natoli/bio_Rossanda/


  1. Comunista senza partito
 La mia relazione (frutto di ampie discussioni con il circolo culturale del Montesacro) abbraccia l’ultimo periodo della vita di Aldo Natoli che dura ben 34 anni (dal 1976 al 2010), periodo nel quale si consumano le ultime speranze di un dirigente comunista e in cui la solitudine aumenta fino a diventare emarginazione e isolamento. Aldo vive questo destino „senza l’illusione di una alternativa, senza nostalgia, senza rimpiangere occasioni mancate“. Sono parole con le quali lui in una conferenza nel marzo 1979 aveva ricordato Pietro Secchia diventato - diceva Natoli - „un rivoluzionario impotente“. Era l’impotenza di chi continuava ad orientarsi a „una stella già spenta“, all’URSS. Secchia non ha nè potuto nè voluto uscire da questo condizionamento storico. Natoli invece è riuscito a romperlo in un lungo processo iniziato nel 1956 e compiutosi nel 1969. Il suo coraggio gli è costato la radiazione dal PCI, una separazione dolorosa, ma infine feconda. Commemorando Vittorio Vidali Natoli scrive nel 1983: „Quando fui escluso dal Pci, sembrò che la sua stima e il suo affetto per me aumentassero, anzichè diminuire“. (Ritengo straordinaria questa affermazione se si pensa che la maggior parte dei dirigenti comunisti di allora tolse il saluto ai radiati o troncava comunque ogni rapporto con loro). E Aldo continua: „Qualche volta mi chiesi se non mi invidias­se per la capacità di libero esame, di critica disinteressata che ave­vo acquistato; ma comprendevo che era una strada che tutta la sua storia (e quale storia!) gli pre­cludeva“. I comunisti che si credevano dalla parte della storia o addirittura i suoi esecutori erano diventati i suoi prigionieri. E sappiamo come qualche decennio dopo, l’azione che voleva essere liberatoria, non fu altro che una grande liquidazione. Commentandola nel 1995 Aldo afferma: „Per molti è stato possibile dire ‘in fondo non siamo più comunisti’. Ma per chi ha costruito la propria esistenza, le proprie scelte politiche culturali con questa idea della trasformazione, sul fatto che fosse possibile essere comunisti in un modo diverso da quello che l’Unione Sovietica prospettava, per queste persone accettare una formulazione del tipo ‘non sono più comunista’ è impossibile. Io che pure essendo un prodotto della società in cui vivo, se qualcuno mi domandasse ‘tu sei comunista’ io risponderei ‘sì, sono comunista’“. Lo aveva già affermato nella sua ultima dichiarazione davanti al Comitato Centrale il 26 novembre 1969: “Si è comunisti se e fino a quando ci si impegna ad essere espressione politica della classe, e può capitare di cessare di esserlo anche restando nelle fila di                                                                    un partito...“. Rossana Rossanda scriverà più tardi: „Non gli perdonarono che dicesse: ‘Non occorre una tessera per essere comunisti’“ (384).
Se questa frase fosse soltanto l’affermazione di un attaccamento ideologico coerente e orgoglioso, anche Natoli non sarebbe altro che un prigioniero della sua storia. Ma Natoli non è una figura amletica, come Heiner Müller ha chiamato gli intellettuali di una intera generazione comunista lacerata tra due epoche, coscienti e impotenti. Penso che lui abbia fatto uno sforzo immenso di vivere la rottura epocale e di scrutare senza paraocchi l’abisso che si era aperto. Già alla fine degli anni ‘70 lo sentivamo dire: „Ci vorranno 100 anni prima che si possa parlare di nuovo di comunismo“. Non era una battuta. E non era nemmeno il semplice rovescio della tesi della „maturità del comunismo“ (1970) da lui prudentemente criticata (Marx, 166 ss.). Annunciava la ricerca di un nuovo modo di essere comunisti (al di là della forma partito, superando l’eredità della bolscevizzazione). Senza rinunciare all’analisi del presente immediato Natoli ha tentato di collocare questa ricerca in una dimensione temporale di orizzonti epocali (del resto questo mi pare sia anche il significato del famoso „für ewig“ di Gramsci). Si capisce che una impostazione del genere risente di un pessimismo che può apparire perfino disfattista e che crea un vuoto intorno a chi lo professa. Infatti, la solitudine che a Natoli forse pesava di più è stata quella di essere rimasto senza interlocutori nella ricerca su „che cosa significa oggi essere comunisti“, domanda che ammette pure la possibilità di rinunciare a questo termine diventato anacronistico. Non si tratta solo tener fede all’imperativo categorico marxiano di „rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole…" (Introduzione alla Critica della Filosofia del diritto di Hegel), bensì di riempire queste parole che rischiano di diventare formule vuote, con pensiero e atti concreti. Il PCI questo a Natoli e ad altri non ha più consentito. Ma che cosa fa e può fare un comunista senza partito? 

  1. Il 1976 e l’autunno tedesco 1977

martedì 3 settembre 2019

"MA IL SUO LAVORO È VIVO" - Intervista su Marx a Riccardo Bellofiore

Da: http://www.palermo-grad.com - riccardo.bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. 


Questa intervista che ora pubblica PalermoGrad ha una breve storia che va raccontata per comprenderne la genesi. Alla fine degli anni Novanta la RAI intendeva preparare un ciclo di trasmissioni sulle grandi figure del pensiero economico. Cristina Marcuzzo sfruttava le occasioni convegnistiche per poter intervistare vari economisti, italiani e stranieri. Le interviste duravano poco meno di un’ora, se ricordo bene. Venni così intervistato a Firenze su Marx. Non avevano ancora deciso come costruire effettivamente il programma. La scelta finale, a mio parere felice, fu di mettere da parte le interviste. La trasmissione che andò in onda si chiamò infine La fabbrica degli spilli: un titolo evidentemente smithiano. Ad essere interrogato era il solo Alessandro Roncaglia che stava allora ultimando il suo La ricchezza delle idee per Laterza: lo interrogavano due giornalisti che si alternavano. Uno dei due, ricordo, era Roberto Tesi: più noto come Galapagos, del manifesto. In ogni trasmissione si aprivano due medaglioni con un breve estratto dalle interviste. Nella trasmissione su Marx i medaglioni erano costituiti da Ernesto Screpanti e dal sottoscritto: infelicemente, il lavaggio di capelli la mattina in albergo mi fece apparire con una capigliatura da fare invidia ad Angelo Branduardi o alla primissima Nicole Kidman. Ovviamente, mi preparai. Avevo delle scalette, ma dietro le scalette stavano delle domande (in numero di 10) che avevo buttato giù, corredate di risposte. C’era un ordine imposto dalla produzione, che però col loro consenso sovvertii. La prima domanda doveva essere sulla biografia, e così fu. La seconda sul metodo, e così non fu: sono fermamente convinto che il metodo dipenda dal contenuto dell’oggetto che si indaga, quindi collocai quella domanda verso la fine. Ritenni opportuno integrare con due domande di attualizzazione, in senso lato politiche. A quelle domande non detti risposta nella mia bozza. Ho dunque integrato, riprendendo delle frasi da scritti contemporanei. Ho apportato pochissimi mutamenti alla intervista buttata giù a mano nella mia grafia poco meno incomprensibile di quella di Marx. Per questo ringrazio con molto calore Vincenzo Marineo che è riuscito a decifrarla alla perfezione. Per chi volesse vedersela, la trasmissione su Marx è reperibile a questo link

Il sito www.conoscenza.rai.it dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche/Universo della conoscenza raccoglie molte, anche se non tutte, le trasmissione della Fabbrica degli spilli, che infliggo ancor oggi ai miei studenti, sotto la dizione ahimé scorretta “Storia dell’economia”. In questo caso il link diretto è questo.
rb


1 – Quali sono le tappe più significative della vita di Marx, e quali le sue opere principali?

lunedì 19 agosto 2019

All’Europa serve un “new deal” di classe - Riccardo Bellofiore

Da: La rotta d’Europa  a cura di Rossana Rossanda e Mario Pianta, Sbilanciamoci/Manifesto - http://sbilanciamoci.info/la-rotta-d-europa-in-due-volumi-13127/ -
Riccardo Bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo.
Leggi anche: La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore - 
                         La_Grande_Recessione_e_la_Terza_Crisi_della_Teoria_Economica 



La crisi europea viene dagli Stati uniti, dal crollo del “keynesismo privatizzato”. Per uscirne, occorrono politiche opposte a quelle di Maastricht. Un new deal inedito, strumento di una “riforma”, non solo di una “ripresa”. E una sinistra di classe su scala continentale.



Dell’articolo di Rossanda una cosa mi ha conquistato: il titolo. Rótta può significare direzione; ma anche sconfitta, sbaragliamento. Di questo stiamo parlando, per quel che riguarda la sinistra. O si parte dalla coscienza che si è al capolinea – e dunque che è ormai condizione di vita o di morte un’altra analisi, un’altra pratica conflittuale, un’altra proposta – o siamo morti che camminano. La luce in fondo al tunnel è quella di un treno ad alta velocità che ci viene incontro.

Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? Come si ripara? L’unificazione monetaria in Europa non sarebbe che la figlia legittima della fiducia hayekiana nella mano invisibile del ‘liberismo’. È questo che avrebbe retto i decenni ingloriosi che ci separano dalla svolta monetarista. Le economie europee dovevano ‘allinearsi’ a medio termine, grazie alla politica deflazionistica della Bce. Il problema sarebbe la frattura con la linea continua Roosevelt-Keynes-Beveridge, che si sarebbe materializzata nei Trenta gloriosi in un ‘compromesso’ tra le parti sociali. È la vulgata ‘regolazionista’. Pace sociale e sviluppo trainato dai consumi salariali come perno dello sviluppo postbellico. In Europa, lo spartiacque sarebbe il crollo del Muro di Berlino. Di lì il Trattato di Maastricht, e poi l’istituzione dell’euro. Ne discendono: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro. La bolla finanziaria scoppiata nel 2008 viene in fondo di qui, dalla finanza perversa e tossica.

È un quadro non convincente in tutti i suoi snodi. Il keynesismo era stato abbattuto da Reagan e Thatcher, e prima ancora da Volcker. Ma cosa era stato davvero il ‘keynesismo’? Non un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro. Tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi. Il salario non traina la domanda, lo fa la domanda ‘autonoma’ – anche se una migliore distribuzione del reddito può alzare il moltiplicatore. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale avevano prodotto una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel new deal. C’era l’Unione sovietica, e la fresca memoria degli effetti della disoccupazione di massa. Conservatori e democratici non potevano che optare per la ‘piena occupazione’. Prevalentemente maschile, e orientata a una produzione accelerata di merci, distruttrice dunque della natura. Quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale (e in una certa fase, anche del salario relativo) vennero conquistati, furono strappati con la lotta. Presto – per questa contraddizione tra le altre, ma per questa in modo cruciale – l’eccezione keynesiana si inabissò.

mercoledì 28 novembre 2018

STORIA DEL SESSANTOTTO - Michele Brambilla

Da Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994 - https://www.autistici.org/operaismo/Autonomi3/index.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html

      Una interpretazione tra altre... (Il collettivo)


"Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli"
Karl Barth

XIII - VERSO LA FINE

Il 1976 è l'anno in cui il Sessantotto entra in agonia. Certo, gran parte delle battaglie cominciate otto anni prima erano state vinte: il divorzio era diventato legge dello Stato, già dal 1970 era stato varato lo Statuto dei lavoratori, nel 1975 era stato riformato il diritto di famiglia, la scuola e l'università erano state sensibilmente modificate. E certo molti degli stili di vita e delle idee dei sessantottini si erano ormai radicati nella mentalità comune: dai comportamenti sessuali al linguaggio all'atteggiamento verso l'autorità. Persino il cosiddetto apparato era stato intaccato dalla «rivoluzione» sessantottina, e di questo l'esempio forse più rilevante è costituito dalla forte influenza, nel sistema giudiziario, della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica, e del fenomeno dei «pretori d'assalto». Di tutti questi cambiamenti nei costumi, del resto, è rimasta fino ai giorni nostri una traccia che appare indelebile. Ma per quanto riguarda il suo obiettivo principale, il Sessantotto è stato innegabilmente sconfitto. Il fine dichiarato dei contestatori, soprattutto dopo l'incanalamento ideologico della protesta, era una radicale trasformazione del sistema politico ed economico; un rinnegamento del capitalismo, l'instaurazione di una democrazia «dal basso». Molti sessantottini il potere l'hanno pure preso, come si può oggi facilmente constatare dando uno sguardo a molti organigrammi: ma per farlo hanno dovuto abiurare l'antica fede, e accettare di essere strumenti di quel capitalismo che volevano distruggere.

LA CRISI DEI GRUPPI

Di questa sconfitta, nel 1976 c'era già molto più di qualche semplice segno premonitore. L'avvisaglia principale fu la crisi dei gruppi rivoluzionari organizzati, che cominciarono allora la propria dissoluzione. I gruppi avevano fallito su tutti i fronti: non erano riusciti a sottrarre la classe operaia alla fedeltà al Partito comunista e al sindacato tradizionale; e, sul versante opposto, non erano stati in grado di interpretare fino in fondo lo spirito «movimentista» dell'ultima generazione. «I gruppi» ha scritto Paul Ginsborg «erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società italiana.»
Dicevano di combattere l'autoritarismo, ma cercarono di imporre a tutti le loro forme di lotta, i loro stili di vita e le loro idee politiche: «Il lavoratore» era scritto su un documento programmatico del Cub della Pirelli nel 1972, «deve concepire se stesso come produttore ed acquisire coscienza della sua funzione, deve aver coscienza di classe e diventare comunista, deve rendersi conto che la proprietà privata è un peso morto, è un ingombro che bisogna eliminare».
Dicevano di detestare la forma-partito, ma caddero quasi tutti nella tentazione di riprodurre in fotocopia l'organizzazione di quei partiti che volevano spazzare via. Uno degli esempi più eclatanti fu, nel 1973, la nomina di Adriano Sofri a segretario della «movimentista» Lotta continua. E fu proprio nel 1976 che Lotta continua, forse il più importante dei gruppi del Sessantotto, si sciolse.

venerdì 7 settembre 2018

"PRAGA '68 E LE CONTRADDIZIONI DELLA SINISTRA ITALIANA" - Franco Astengo

Da: http://www.pane-rose.it - Leggi anche: - 5-gennaio-1968-alexander-dubcek-eletto-segretario-del-partito-comunista-cecoslovacco-inizia-la-primavera-praga.
                                                                    - A CINQUANT’ANNI DA PRAGA NEL VORTICE DELLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE  
                                                                    - http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=35294



Tutto è legato, credo, alla questione del socialismo in un paese solo e arretrato, all'isolamento e alla forza economica dell'occidente capitalistico. Ciò ha determinato, come sappiamo, un irrigidimento del dibattito e una burocratizzazione antidemocratica del PCUS e dei partiti comunisti dei paesi socialisti. Ciò alla fine ha destabilizzato l'URSS e gli altri paesi socialisti. L'ideologia del capitalismo con la falsa libertà e il falso benessere hanno fatto il resto.

Azzardo anche un'ipotesi, in parte connessa a quanto sopra: il capitalismo, finché c'era l'URSS ed il rischio del comunismo, è stato costretto a fare politiche economiche molto più sociali o comunque keynesiane di quanto sarebbe stato "naturale" e questo ha portato ad una crescita economica molto elevata nel complesso dei paesi capitalistici e a miglioramenti sociali. Ciò è stato positivo, ma ha aiutato ideologicamente lo stesso capitalismo nei confronti del socialismo ed ha aiutato anche il capitalismo ad essere economicamente stabile e in crescita. 

Oggi che non c'è più il pericolo comunista il capitalismo si svolge in maniera non forzata ma naturale e questo porta a crisi, instabilità, bassa crescita e aumento della povertà e dell'insicurezza sociale. Con il quadro politico economico attuale forse il confronto con il socialismo sarebbe stato più a vantaggio di quest'ultimo. Purtroppo andrebbe ricreata oggi la fiducia nel socialismo, ma l'ideologia odierna disgregante e individualistica senza progettualità rende tale compito al momento molto difficile. 
Paolo Massucci per il collettivo                                                           

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Mi auguro sia permesso avviare questo intervento con un ricordo personale.

Ero a casa, in ferie forzate perché l’ufficio stava chiuso una settimana (chi mi ha conosciuto sa quanto non mi siano mai piaciute le ferie).
Le 5,30 del mattino: mio padre si stava preparando per il turno in fabbrica e ascoltava, come sempre, la radio.
Ad un certo punto irruppe nella stanza che dividevo con mio fratello ed esclamò (tutto il dialogo rigorosamente in dialetto, naturalmente) “I russi hanno invaso Praga”.
Mi alzai seguendolo ad ascoltare il notiziario: camminavo nervosamente su e giù per la cucina e ad un certo punto, mentre stava per uscire di casa, lo appellai perentorio. “ Papà, questa volta rompiamo con Mosca". Poco profetico e molto ottimista.

21 Agosto 1968: i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, spezzando l'esperienza della “Primavera”, il tentativo di rinnovamento portato avanti dal Partito Comunista di Dubcek.
1968: l'anno dei portenti, l'anno della contestazione globale, del “maggio parigino”, di Berkeley, Valle Giulia, Dakar, della Freie Universitaat di Berlino: quell’anno magico vive in quel momento la svolta verso il dramma.

Si chiude bruscamente un capitolo importante nella storia del '900.

lunedì 20 agosto 2018

Bertolt Brecht - Rossana Rossanda

Da: il Manifesto 05/08/2006 - http://www.sitocomunista.it - Rossana_Rossanda è una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto, giornale con cui ha collaborato fino a novembre 2012.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/02/dialoghi-di-profughi-bertolt-brecht.html


Ho incontrato Brecht a Milano nel 1956 alla prova generale dell'Opera da tre soldi messa in scena da Giorgio Strehler con scandalo della borghesia milanese e dibattiti roventi al consiglio comunale. La censura era ancora in vigore e tale sarebbe rimasta fino a tutto il 1963. Il Piccolo Teatro, che aveva avuto il via della Presidenza del Consiglio, era in fibrillazione.

Brecht non veniva a sovrintendere, veniva e vedere. Grigio e composto nella giacca alla Mao, gli occhi acuti dietro alle lenti rotonde, frangetta sulla fronte sguarnita, era divertito della interpretazione di Strehler, tanto più colorita di quella sua, tutta percorsa da brividi, che avrei trovato qualche anno dopo a Berlino. Il testo, diceva, ha da essere usato come più conveniva per provocare nello spettatore quella reazione che impediva il consumo gastronomico dell'azione in scena, e ogni identificazione con il personaggio - il teatro era teatro, non doveva essere realistico, doveva estraniare.

E quella sera era straniato lui, contento che funzionasse una certa cagnara all'italiana, gli piacquero il Mackie Messer di Tino Carraro e Milly ripescata da Strehler e Grassi nel cabaret. Non sapeva gran che dell'Italia e ascoltava con qualche distanza l'estroversa loquela di Paolo Grassi. Aveva in mente di andare la mattina dopo ad Arcetri per vedere il luogo di Galileo, credeva fosse a due passi e lo dovetti disilludere. Doveva essere ricevuto dal sindaco a mezzogiorno, ma se ricordo bene non fece nessuna conferenza stampa, incontrò questo o quello, era cortese, sempre in giacca e tenendosi il berretto, voce quieta e pochi gesti - così anche dirigeva gli attori: pareva un insegnante di mezza età. Un poco diffidente e curioso. Non sembrava ammalato ma il cuore lo aveva tormentato fin dalla nascita. Sarebbe morto pochi mesi dopo, il 14 agosto, e nel 1960 sarei inciampata sulla sua tomba, due rocce davanti a un muretto nel cimitero delle Dorotee.

Lo accompagnai per due giorni, ma fra il suo riserbo e il mio tedesco, non si può dire che avessimo un vero dialogo. Ero intimidita. Fra Torino e Milano leggevamo tutto il suo teatro che Gerardo Guerrieri pubblicava per Einaudi traduzioni splendide -; alla Casa della Cultura, con la scusa che era un club privato, lo facemmo dire da Enrico Rame, fratello di Franca. Conoscevamo le poesie grazie a Fertonani ,e Fortini ci intratteneva sul Me-ti e Le storie da calendario. Eravamo alla vigilia del diluvio - rapporto segreto di Krusciov, rivoluzione ungherese, i carri sovietici a Budapest - e quando venne giù mi parve una benevolenza degli dei che Brecht fosse morto un mese prima.

giovedì 5 luglio 2018

- IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE. Classe, genere e natura. - Riccardo Bellofiore

Da: http://www.palermo-grad.com - il-rosso-il-rosa-e-il-verde - riccardo.bellofiore è docente di "Analisi Economica", "Economia Monetaria" e "International Monetary Economics" e "Dimensione Storica in Economia: le Teorie" presso il Dipartimento di Scienze Economiche "Hyman P. Minsky" dell'Università di Bergamo. (Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/economia-per-i-cittadini-riccardo.html 

      Qui il video dell'incontro: https://www.facebook.com/418633548290438/videos/1057843317702788/

Le idee contenute in questo contributo sono state presentate a Roma, il 27-28 febbraio 1988 al seminario “Emergenza ambientale, crisi delle politiche, movimenti”; esse hanno anche costituito l’oggetto di una discussione svoltasi a Torino nella sede del C.r.i.c.. Solo la cortese insistenza dei compagni di Roma e di Torino mi spinge a mettere per iscritto delle riflessioni che sento ancora insufficienti; ma gioca anche un po’ la convinzione che vada superata una situazione come quella italiana attuale in cui il rapporto tra marxismo, femminismo e pensiero verde è per lo più di indifferenza, di ostilità o al meglio di ossequio di maniera. Ringrazio Stefano Alberione, Maria Teresa Fenoglio, Roberto Finelli e Mimmo Porcaro per i commenti, i consensi e i dissensi. A Marco Revelli sono debitore di un ringraziamento particolare: le discussioni sulle questioni qui trattate sono state così tante, e l’impressione di porsi spesso interrogativi comuni è stata tale, che mi è difficile distinguere ciò che è mio e ciò che è suo nelle opinioni che avanzo, e facendolo rischierei di attribuirgli opinioni che non condivide ed è bene rimangano di mia responsabilità. 

Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti 

"​Il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana essenza gli è diventata esistenza naturale, fino a che punto la sua umana natura gli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell’uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità."  
(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 225. Corsivi nel testo) 

"Don’t you know 
They’re talkin’ about a revolution
It sounds like a whisper"
(Tracy Chapman,Talkin’ bout a revolution
                                                                                           Introduzione

Nell’ultimo decennio vi è stata una sostanziale disattenzione, quando non inimicizia, tra quel che rimaneva del marxismo critico e le culture femminista ed ambientalista. Nelle pagine che seguono vorrei provare, dal mio punto di vista, ad interrompere questa sorta di reciproco disinteresse, nel modo forse più scomodo: entrando nel merito del pensiero rosa e del pensiero verde, presentandone un inizio di critica, e ciononostante accettando la sfida lanciata dal femminismo e dai verdi: convinto, come sono, che gli attacchi portati in questi anni dai cosiddetti nuovi movimenti alla cultura della sinistra, vecchia e nuova, siano spesso tutt’altro che infondati. I lettori (e le lettrici) giudicheranno se il tentativo sia troppo coraggioso o troppo ingenuo.

Anticipo subito, per chiarezza, il punto di vista da cui parto ed il filo del ragionamento. Il mio discorso si regge su due convinzioni: che non siano esaurite tutte le potenzialità della rilettura ‘operaista’ del marxismo che ha permeato parte della nuova sinistra italiana (e dunque anche chi, come me, ha mosso i primi passi politici nel “manifesto”); e che non vi sia contraddizione ma rapporto fecondo tra ‘questo’ marxismo e la rottura operata dal sessantotto. Sono però anche convinto che ciò che c’è di positivo in questa recente tradizione possa vivere solo se essa esercita su se stessa una pesante riflessione autocritica.

Nella mia riflessione tenterò di impiegare le nozioni di uguaglianza, di democrazia e di libertà come una cartina di tornasole, o se volete come una sorta di controllo di qualità, del potenziale emancipativo tanto dei movimenti che si rifanno alla classe operaia quanto dei cosiddetti nuovi movimenti, e dunque anche di quelle riflessioni che vogliono far capo alle cosiddette nuove soggettività. La tesi centrale del mio ragionamento è che tanto dentro il pensiero femminista quanto dentro il pensiero verde sono presenti non poche, e preoccupanti, ambiguità: si incontrano spesso argomentazioni che recuperano il valore delle differenze fuori o contro l’eguaglianza; ed è possibile individuare dentro l’uno e l’altro tendenze antiegualitarie e, forse, persino antidemocratiche. Non può essere nascosto, in altri termini, un potenziale esito conservatore e reazionario delle cultura della differenza sessuale e dell’emergenza ambientale.