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Davide Conti/, storico, è consulente dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica, della Procura di Bologna (inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980) e della Procura di Brescia (inchiesta sulla strage del 28 maggio 1974). È inoltre autore della ricerca sulla Guerra di Liberazione a Roma 1943-1944 che ha determinato il conferimento della Medaglia d'oro al Valor Militare alla città di Roma da parte del Presidente della Repubblica.
Leggi anche: L’occupazione italiana nei Balcani - Angelo Del Boca
Vedi anche: La narrazione intorno alle foibe. Un'ambigua verità di stato - Angelo d'Orsi
Spesso, in questi anni, come forze dell’antagonismo sociale e della sinistra di classe abbiamo realizzato iniziative volte a contrastare la rilettura ufficiale della storia italiana. Uno sforzo meritorio, che ha prodotto momenti di discussione utili, anche sul piano della formazione di chi vi ha partecipato. Mai come oggi è necessario rafforzare questo impegno, fondandolo su una piena comprensione delle ragioni che hanno spinto a definire i nuovi criteri di interpretazione della vicenda italiana. In questa intervista, Davide Conti – autore di L’occupazione italiana dei Balcani (2008) e Criminali di guerra italiani (2011) – si sofferma sulle caratteristiche di quella “memoria condivisa” che si è andata delineando a partire dalla fine della Prima Repubblica. E che negli ultimi anni è stata sancita attraverso una precisa, ragionata calendarizzazione, tesa a sottacere le verità più scomode e capace di rifunzionalizzare alle nuove esigenze antichi miti, come quello degli “italiani brava gente”. Per il suo carattere complessivo, il discorso di Conti deve essere preso in considerazione da chiunque voglia contrastare la narrazione storica oggi dominante. Anche per superare quella frammentarietà – legata alla necessità di intervenire volta per volta su singoli aspetti del dibattito pubblico sulla memoria – che ha inevitabilmente segnato la nostra azione su questo terreno.
Naturalmente le ragioni che hanno permesso una sostanziale impunità per i presunti criminali di guerra italiani (adotto questa formula proprio perché non sono stati fatti i processi), non vanno rintracciate nella dimensione giuridica.
Semmai le motivazioni sono state in primo luogo di carattere geopolitico ed in second'ordine legate a questioni interne. Dal punto di vista geopolitico - cioè dell'asse portante del paradigma dell'impunità dei criminali di guerra italiani - sicuramente la collocazione del nostro paese nell'ambito del dispositivo internazionale della NATO ha prodotto, per gli alleati, la necessità di evitare processi contro i vertici ed i quadri medio-alti e medi del Regio Esercito. Si voleva impedire quella decapitazione di fatto del nostro corpo militare, che sarebbe stata la naturale conseguenza di una seria procedura di epurazione in seno all'esercito. L'idea era invece quella di riarmarlo e di reintegrarlo in un nuovo dispositivo bellico, perciò gli alleati rinunziarono a processare quei criminali di guerra che loro stessi avevano indicato in liste apposite, consegnate alle Nazioni Unite. Parliamo della Francia, degli USA e dell'Inghilterra. Per quanto riguarda gli altri paesi, fummo aiutati dalle stesse ragioni geopolitiche: la contrapposizione col blocco orientale consentì all'Italia, appoggiata dagli alleati, di non consegnare gli accusati di pratiche e condotte militari illecite soprattutto in Unione Sovietica ed in paesi balcanici come Jugoslavia ed Albania. Un discorso a parte andrebbe fatto per la Grecia, che fa parte dell'area dei Balcani ma trovandosi nello stesso schieramento geopolitico dell'Italia, quello occidentale, rinunciò con un accordo segreto siglato nel 1948 a vedersi consegnati i presunti criminali di guerra. Di più, essa sbloccò di fatto delle procedure che permisero il progressivo rientro anche di quei militari italiani che, essendo stati già processati e condannati, stavano scontando la pena nelle carceri greche.
Questo è il quadro generale. Il risultato, sul piano interno, fu la possibilità sostanziale per i governi a maggioranza conservatrice di mantenere quella continuità dello Stato che è stato il tratto caratteristico del dopoguerra italiano.
Diciamo che alla popolazione è stato permesso di non fare i conti con i lati più scomodi della propria storia, alimentando quel mito degli "italiani brava gente" che è ancora oggi fortemente radicato nella nostra società. Non solo, dal punto di vista della ricomposizione della memoria pubblica, questa mancata Norimberga italiana ha determinato un altro fenomeno, cioè la ricostruzione - in epoca post Guerra Fredda - di una narrazione della memoria nazionale tutta incentrata su un paradigma vittimistico. In sostanza, si tende a vedere costantemente l'Italia come un soggetto che subisce un fatto storico, che non è protagonista in negativo nemmeno per quanto concerne la seconda guerra mondiale, che questo paese ha contribuito a scatenare a fianco della Germania hitleriana. Quindi, dalla fine della Prima Repubblica in poi abbiamo assistito alla costruzione di una memoria e di un discorso pubblico interamente incentrati sull’elusione di qualsiasi responsabilità italiana nei passaggi e nei nodi più complessi della nostra storia. A ciò va aggiunta la sostanziale cancellazione dell'elemento conflittuale, che è totalmente espunto non solo dal discorso pubblico ma dalla stessa memoria nazionale di questo paese. Queste due tendenze sono ben esemplificate dalla progressiva calendarizzazione a cui abbiamo assistito in questi anni.
Si pensi anzitutto a come è stata tradotta in Italia la data del 27 gennaio, la giornata internazionale dedicata alla Shoah. E' una giornata che ricorda l'ingresso dei carri armati sovietici nel campo di sterminio di Auschwitz, quindi la rottura del sistema concentrazionario nazista e la fine del processo di sterminio razionalizzato e programmato messo in atto dal Terzo Reich. Alcuni paesi, ad esempio la Francia, hanno scelto di affiancare alla data internazionale del 27 gennaio - che non può da sola ricomporre tutte le dimensioni nazionali e locali dello sterminio degli ebrei - una data nazionale, tale da ricordare quanto il collaborazionismo francese di Vichy abbia contribuito al genocidio ebraico. Così è stata istituita per legge la giornata del 16 luglio, nella ricorrenza del rastrellamento antiebraico di Parigi organizzato dalle truppe naziste con il sostegno organico delle milizie di Vichy. Con questa scelta, la Francia imprime nella memoria collettiva l'idea di una corresponsabilità attiva nello sterminio degli ebrei.
Un dibattito simile si è avuto in Italia, quando si è pensato di poter affiancare anche nel nostro paese una data nazionale a quella internazionale del 27 gennaio. Si era pensato di portare in Parlamento - e così è stato fatto - la proposta di istituire la giornata della memoria italiana indicandola nel 16 ottobre, nella ricorrenza del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma. Il nostro Parlamento ha respinto questa proposta ed ha mantenuto una data, dal punto di vista nazionale, più "neutra", perché appunto inquadra in una dimensione internazionale, ma molto poco italiana, il genocidio ebraico.
Si è proseguito poi, nel corso del tempo, istituendo la giornata del ricordo, che è quella più controversa del nostro calendario pubblico. Si intenderebbe ricordare le vittime delle foibe, quindi di quei fenomeni di violenza che si sono verificati nel settembre del 1943 e nel maggio del 1945 lungo il confine orientale. Ora, la data scelta pone una questione che non dovrebbe essere trascurata: il 10 febbraio non si verifica nessun episodio di violenza sul confine orientale da indicare col termine foibe. Le foibe sono un fenomeno che si sviluppa all'indomani dell'8 settembre 1943, quando la rotta dell'esercito italiano produce una temporanea rioccupazione delle terre del confine orientale da parte della popolazione civile. La prima ondata delle foibe si sviluppa a partire dall'11 settembre e termina immediatamente dopo con la rioccupazione del territorio da parte delle truppe tedesche. In questa prima ondata perdono la vita 500 persone.
Giacomo Scotti, nel suo "Dossier foibe", legge questi accadimenti come un’insurrezione popolare spontanea, senza una precisa direzione militare...
E' giusto, io infatti parlerei di jacquerie contadina. Erano molto forti il rancore e l'odio di classe, legati al ricordo dell’espandersi del fascismo di frontiera degli anni ‘20, la cui inusitata violenza aveva colpito soprattutto operai e contadini, ferendo in profondità la popolazione di quei luoghi. All'indomani della rotta dell'8 settembre, esplode una conflittualità sociale memore di quei trascorsi traumatici.
Nel maggio del '45 l'avanzata dell'esercito popolare di liberazione jugoslavo produce una seconda ondata delle foibe. Dunque, ci si potrebbe riferire a due mesi precisi: il settembre del 1943 ed il maggio del 1945. L'indicazione del 10 febbraio come giornata del ricordo delle vittime delle foibe, quindi, non ha un'attinenza calendaristica, bensì un significato fortemente politico. Tanto è vero che ha prodotto ogni anno degli attriti - progressivamente mitigati, ma sempre attriti - tra gli stati della ex Repubblica Jugoslava e l'Italia. Il punto è che il 10 febbraio ricorre la firma del Trattato di Parigi (1947) che restituisce alla Jugoslavia i territori che erano stati occupati dal Regio Esercito e dal regime fascista.
L'indicazione di questa data assume di fatto la caratteristica di una contestazione della legittimità di quel Trattato, ponendosi sostanzialmente in continuità con quella che sino a qualche anno fa era una lettura minoritaria, quasi clandestina. Una lettura propria dell'estrema destra, quella del diktat imposto all'Italia, che recuperava l'idea, diffusasi dopo la prima guerra mondiale, della "vittoria mutilata". In sostanza, si contestava ai governi democratici la firma di un Trattato di Pace che - restituendo alla Jugoslavia i territori illecitamente occupati - mutilava di nuovo il nostro paese. Ecco, questa lettura che era tipica dell'irredentismo neofascista oggi assume un carattere di memoria nazionale. Ciò dovrebbe produrre una forte preoccupazione nei settori democratici di questo paese.
D'altro canto, la rilettura ufficiale della storia d'Italia ha creato anche altri paradossi, altre contraddizioni Quest'anno, nella ricorrenza del 150° anno dell'Unità d'Italia, è stata indicato il 17 marzo come data di riferimento. In questo caso ha prevalso la dimensione aconflittuale della storia, perché il 17 marzo è l'anniversario del Regio Decreto che costituisce il Regno d'Italia senza Roma Capitale. Dunque, si escludono la "questione romana" ed il contenzioso col Vaticano dalla memoria pubblica nazionale. Questa lettura aconflittuale ha consentito una narrazione della storia dell'Unità d'Italia quasi condivisa, paradossalmente, non solo dalle istituzioni ufficiali della Repubblica, ma anche dalla stessa Chiesa cattolica. Un’indicazione nel 20 settembre - giorno della breccia di Porta Pia - o un richiamo esplicito all’esperienza della Repubblica Romana (1849), avrebbero espresso elementi conflittuali, impedendo una siffatta convergenza. Si sarebbe cioè determinata la necessità di un approfondimento in termini non solo storici, ma anche di ricostruzione della memoria pubblica del nostro paese.
Questo approccio, in fondo, lo si può registrare anche rispetto agli anni '70...
Sì, ne è una conferma l'indicazione del 9 maggio come giornata dedicata alle vittime del terrorismo. Qui le due dimensioni dominanti della narrazione della storia di questo paese - quella aconflittuale e quella legata al paradigma del vittimismo - trovano una connessione. Anche in questo caso il dibattito politico si è incentrato sull'indicazione di due date, come possibili punti di riferimento per una giornata dedicata alle vittime del terrorismo: quella del 12 dicembre - che avrebbe ricordato la Strage di Piazza Fontana e gli attentati dinamitardi di Roma del 1969 – e, appunto, quella del 9 maggio. Data, quest'ultima, che rinvia al ritrovamento di Aldo Moro a via Caetani, nel 1978. Il dibattito ha prodotto la convergenza di quasi tutte le forze politiche verso l'indicazione del 9 maggio, in una dimensione che, come dicevo, coniuga il paradigma vittimistico - cioè l'attacco di un nemico esterno allo Stato, quindi alla comunità organica nazionale - con l'elemento aconflittuale. Eludendo la data del 12 dicembre, infatti, si evitano i conti con un passato scomodo che avrebbe chiamato direttamente in causa le responsabilità delle istituzioni statali in stragi di cittadini italiani.
La calendarizzazione che hai sin qui spiegato, a partire dalla giornata del ricordo del 10 febbraio, è stata fatta propria - ed in una certa misura promossa - anche dalle forze dominanti del centrosinistra. Per quali motivi, secondo te? Più che al consueto e logoro discorso sulla "sinistra che rinsegue la destra" non si dovrebbe fare riferimento a motivi di carattere geopolitico?
Direi che qui ci si può richiamare a due motivi strettamente intrecciati fra loro, uno internazionale, appunto, l'altro interno. Quello internazionale si collega alla fine della Guerra Fredda, quindi alla conclusione di una fase in cui la divisione politica manteneva una proiezione di divisione ideologica ed anche militare. La fine della Guerra Fredda ha comportato il prevalere di una componente politico-ideologico-militare sull'altra, determinando in tutte le società europee una ridefinizione del discorso pubblico ed anche dell'accesso al potere politico. In un mondo non più bipolare, l'accesso a potere è definito in modo diverso, sulla base di una nuova dialettica con la politica estera, la politica economica e quella commerciale con l'estero.
C'è però, agganciato a questo primo piano, un tentativo di sciogliere l'"anomalia italiana", di ricostruire un perimetro pubblico di reciproca legittimazione fra le forze politiche. L'Italia, più di altri paesi europei, aveva vissuto l'elemento contraddittorio di una proiezione militare ed ideologica del conflitto politico. La Costituzione, la legge fondamentale, era stata scritta da tutte le forze democratiche del paese, inclusi i comunisti, ma sulla base della proiezione interna del conflitto bipolare, la discriminante storica dell'antifascismo era stata presto sostituita da quella politica dell'anticomunismo. Si era dunque prodotta, poco dopo la promulgazione della Costituzione, una repentina riduzione dello spazio pubblico legittimato alla guida ed al governo del paese. La fine della Guerra fredda e - con essa - quella della Prima Repubblica, ha posto il problema della reciproca legittimazione di tutte le forze politiche, incluse quelle nuove, che non avevano partecipato - nemmeno come partiti poi trasformatisi - al processo costituente. Noi ci siamo trovati nel 1994 con una serie di forze politiche che, per una ragione o per l'altra - cioè per la conventio ad excludendum o perché nate da poco - o non avevano radici costituzionali o non erano mai state legittimate a guidare il paese. Questo ha posto un problema, spingendo verso una ridefinizione della narrazione storica e del discorso pubblico. Non a caso, sono stati i maggiori esponenti dei partiti dell'ex estrema destra e della, diciamo, ex estrema sinistra parlamentare, Fini e Violante, ad avviare un processo di questo tipo. Promuovendo un incontro simbolico proprio sul confine orientale, proprio a Trieste, naturalmente legato al tema delle foibe. In sostanza, negli ultimi anni si è manifestata la necessità di ricostruire un nuovo perimetro pubblico all'interno del quale l'intero corpo elettorale - non più vincolato da legami ideologici e quindi, per questo, mobile da uno schieramento all'altro - trovi una narrazione comune, fondata su valori nuovi che sciolgano il nodo del blocco di milioni di voti e quindi determinino una diversa modalità di accesso al potere ed una differente modalità di legittimazione del sistema democratico italiano. Ciò, nell’ottica di una riforma costituzionale fondata su schemi molto lontani dall’idea della Repubblica nata dalla Resistenza. La stessa equiparazione fra i vari segmenti dell’elettorato italiano – inclusi quelli un tempo considerati scomodi – non comporta la possibilità popolare di incidere sugli assetti sociali e politici. La linea guida della riforma in questione è il rafforzamento del potere esecutivo a discapito di quello legislativo. Per procedere in questa direzione, era necessario quello “sblocco di sistema” che è passato anche per la costruzione di una memoria pubblica condivisa fondata su nuovi criteri e valori. Con la fine della Prima Repubblica, è venuta meno l’idea che il richiamo alla Resistenza potesse essere l’elemento unificante dello spazio pubblico italiano. Dunque, è decaduta quella retorica celebrativa che talvolta aveva coperto prassi e provvedimenti in aperto contrasto con il dettato costituzionale. Si pensi alle leggi eccezionali degli anni ’70, come la Legge reale, che di fatto sospendevano garanzie primarie. Questi passaggi venivano arbitrariamente legittimati dal fatto che le forze che li promuovevano avevano radici in un’esperienza aperta, pluralistica e fortemente democratica come quella resistenziale.
A questa esigenza di sostituire una retorica celebrativa con un’altra, risultano funzionali narrazioni come quella relativa al confine orientale promossa negli ultimi anni.
Come hai detto all’inizio, i criminali di guerra nostrani sono stati salvati anche in virtù della collocazione geopolitica italiana. Il perpetuarsi del mito degli italiani brava gente quanto si lega al ruolo internazionale e militare svolto oggi da questo paese?
Direi Molto. Dal ‘900 l’Italia porta dietro poca memoria ed il luogo comune sugli italiani brava gente è un retaggio ben ancorato all’attualità. Come italiani facciamo molta fatica a percepire i militari di casa nostra all’estero, oggi, come militari “facenti funzioni”, che in sostanza operano con regole d’ingaggio militare, che fanno operazioni di polizia, che interrogano o arrestano sul campo veri o presunti terroristi o oppositori politici. Non si percepisce la morte di questi militari (che, lo ricordiamo, fanno parte di un esercito che non è più di leva, bensì organizzato su base volontaria e professionale) come quella di soldati caduti nell’esercizio delle loro attività belliche. Quando viene proposta l’immagine dei militari italiani all’estero, da parte di tutti i media e di tutte le forze politiche, si dipinge la figura dei “costruttori di pace”, che contribuiscono a realizzare strade, ponti e ospedali o che aiutano i civili ad andare a scuola. Così in Afghanistan come in Libano o in altri scenari bellici.
Il fatto che i principali partiti, proprio sul piano della politica estera, abbiano trovato una convergenza su questo tipo di lettura si ricollega al discorso che facevamo poc’anzi rispetto alla necessità di ridefinire un perimetro di reciproca legittimazione che passi per la collocazione in un preciso versante geopolitico. Nello stesso schieramento di centrosinistra, il test di affidabilità cui devono sottoporsi le forze minori vede la centralità delle scelte di politica estera, collocate su un piano di maggiore rilevanza rispetto a tutto il resto.
Un’ultima domanda. Negli ultimi anni, gli studi sui crimini legati ad eventi bellici e coloniali si sono moltiplicati. Per quanto la tendenza dei grandi media sia ancora oggi quella di “oscurarli”, non sempre ciò risulta possibile e qualcosa dei risultati di queste ricerche trapela, creando lievi incrinature al discorso ufficiale sugli italiani brava gente. A tuo avviso, c’è la possibilità che questa battaglia, sia pure non sul breve termine, risulti vittoriosa?
Al riguardo non sono pessimista. Emergono sempre più quelle fonti e quei documenti che sono la struttura portante di qualsiasi discorso storico. C’è quindi un elemento oggettivo che non può essere completamente ignorato. In più, vi sono dei precedenti, rispetto alla lettura del passato coloniale italiano, che fanno ben sperare. Si pensi all’esito della battaglia per la verità sull’aggressione fascista all’Etiopia. Angelo Del Boca l’ha condotta con straordinaria tenacia già a partire dagli anni ’60. Negli anni ’90, gli ultimi difensori di quell’impresa coloniale, come Indro Montanelli, si sono dovuti arrendere di fronte all’evidenza dei documenti. E l’Italia ha sancito ufficialmente il vero carattere della guerra all’Etiopia, con il riconoscimento dell’”uso sistematico” di gas asfissianti da parte di un ministro del governo Dini, Corcione, che non a caso era un generale.
Personalmente ritengo che, per quanto il discorso pubblico italiano sia impostato in modo tale da farci sembrare sempre vittime, prima o poi la ricchezza delle fonti documentarie e l’impegno profuso nei lavori di ricostruzione storica finiranno per imporsi. Anche rispetto a quelle vicende – come l’occupazione militare dei Balcani – che si ritiene più scomodo ricordare.
(22 Giugno 2011)
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