Da: laboratorio culturale - francesco Garibaldo è sociologo industriale, direttore della Fondazione «Claudio Sabattini» (fondazionesabattini) già direttore dell’Istituto per il lavoro (Ipl) e dell’Ires-Cgil nazionale.
Riccardo Bellofiore, Docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo, i suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)
Non c'è liberazione dal lavoro senza liberazione del lavoro - Gianluca Pozzoni
Vedi anche: Sraffa tra Ricardo e Marx - Riccardo Bellofiore
Corso sul "Il Capitale" di Karl Marx (1) - Riccardo Bellofiore
Il dibattito su Marx e le nuove problematiche del capitalismo in un recente libro di Riccardo Bellofiore. Come nasce il plusvalore? La natura monetaria del valore. I limiti di una analisi distributiva del reddito. La doppia critica: al lavorismo e alla teoria della fine del lavoro. La critica a Keynes e i compiti politici del presente.
Il libro di Riccardo Bellofiore dedicato a Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica1 rilegge gli autori classici citati nel titolo seguendo due temi dominanti: la teoria del valore-lavoro e come viene rappresentato il lavoro nella riflessione economico-politica. Un pensiero centrale in tutto il libro, riprendendo un tema di Rosa Luxemburg, è la critica della centralità dell’economico e di una visione industrialista basata sulla centralità della produzione.
In realtà, nel ripercorrere criticamente questi temi in quegli autori, Bellofiore ci consegna i risultati di un dibattito internazionale – International Symposium on Marxian Theory – iniziato da Fred Moseley nel 19902, di un lungo lavoro di rilettura di gruppo di Marx a partire dall’originale tedesco, iniziato da Bellofiore all’Università di Bergamo, e il confronto con un grande numero di interpretazioni di Marx negli ultimi decenni. In primo luogo, quindi, il libro è un utilissimo compendio critico del dibattito su Marx su scala internazionale e in Italia negli ultimi quarant’anni.
Una seconda ragione di interesse del libro è la sua apertura problematica. Esso non vuole consegnarci un Marx ossificato in una qualche forma dogmatica, ma un Marx oltre Marx. Si tratta di tenere fermi i punti chiave delle sue scoperte teoriche aggiornandole ai nuovi contributi di ricerca, sia teorici sia derivanti dall’analisi dei nuovi problemi posti dal capitalismo attuale.
Il libro si articola in otto capitoli e due appendici: la prima di analisi critica del pensiero di O’Connor sulla questione della natura, la seconda sulla questione di genere; entrambi i temi sono discussi in rapporto al problema del lavoro. L’ultimo capitolo sostituisce una formale conclusione con una disamina dell’ambiguità del concetto di liberazione dal lavoro a partire dal famoso saggio di Keynes del 1930 sulle prospettive economiche per i nostri nipoti.
Gli altri sette capitoli analizzano il pensiero di Smith, Ricardo, Marx e Sraffa rispetto ai due temi dominanti. I due temi dominanti si intrecciano continuamente nel libro, ma il tema della teoria del valore-lavoro domina i capitoli 2, 4, 5, 6, 7, quello della rappresentazione del lavoro i capitoli 1 e 3 e naturalmente l’ottavo.
Per quanto concerne la teoria del valore-lavoro, il capitolo secondo è dedicato ad Adam Smith e alla teoria del valore-lavoro comandato; il capitolo quarto è dedicato a David Ricardo e alla contraddittorietà della sua teoria del valore-lavoro contenuto. I capitoli quinto e sesto sono dedicati a Karl Marx. Il quinto analizza il rapporto di continuità e rottura con Hegel nella fondazione epistemologica del Capitale. Il capitolo sesto rilegge la teoria del valore-lavoro “astratto” come processo. Nel capitolo settimo Bellofiore rilegge Produzione di merci a mezzo di merci di Sraffa, dopo avere avuto accesso agli Sraffa papers. Come egli stesso dice:
La sorpresa per me maggiore è stata rinvenire in Sraffa uno dei pochissimi autori che con lucidità individua il centro della teoria di Marx nel “metodo della comparazione” (un termine che mutuo da Isaak Il’ij Rubin, dandogli un significato parzialmente diverso) secondo il quale il plusvalore viene visto emergere dal prolungamento del lavoro vivo oltre il lavoro necessario. Ciò consente di scorgere in Produzione di merci una implicita adesione alla teoria del valore-lavoro nella sua versione macro-sociale (p. 9).
Ciò nonostante il capitolo evidenzia con chiarezza la differenza tra Marx e Sraffa. Per quanto concerne il tema del lavoro, il primo capitolo introduttivo fornisce un quadro generale e una storia ragionata (p. 10) degli stadi del capitalismo fino al neoliberismo e alla sua crisi. Il terzo capitolo, come scrive Bellofiore, «insegue l’intreccio tra pensiero economico e pensiero filosofico nel delineare e discutere l’antropologia che si costituisce con il capitalismo, dopo Smith, trattando in particolare di John Stuart Mill e John Maynard Keynes, ma anche di Norman Brown e Herbert Marcuse, di psicoanalisi e critica femminista» (p. 10).
Come nasce il plusvalore?
Lo spazio disponibile in questa sede non consente di seguire e commentare il libro passo passo. Devo quindi isolare quelli che a mio giudizio sono alcuni passaggi chiave che in nuce racchiudono l’orizzonte teorico del volume.
Il primo passaggio è l’analisi del fondamento epistemologico del Capitale; continuità e rottura con Hegel. Bellofiore, in un dialogo costante con gli altri protagonisti del dibattito internazionale, ci guida una sintesi che mi pare molto convincente. C’è in Marx una continuità con Hegel che riguarda «un isomorfismo tra la Logica di Hegel e il Capitale» (p. 155). Ciò è vero a molti livelli analitici.
Partiamo, come Marx, dalla merce e dal suo carattere duplice – valore d’uso e valore di scambio, cioè valore. La merce come valore d’uso è frutto del lavoro concreto; entrambe, merce come valore d’uso e lavoro concreto, sono realtà fisiche disomogenee e quindi non sono commensurabili. Devono diventare l’uno, il lavoro, lavoro astratto, pura erogazione di lavoro. L’altro, il valore d’uso, valore, è cioè «una gelatina di lavoro puro e semplice, un cristallo esito di un congelamento, un ammontare omogeneo» (p. 182), quindi commensurabile in unità di tempo secondo una media di tempo di lavoro socialmente necessario. Il rapporto tra le merci è quindi in origine un rapporto sociale, mentre, in ciò il feticismo, queste qualità sociali diventano proprietà delle cose, delle merci.
D’altronde il valore è un’entità puramente sociale, un fantasma, come fa allora ad acquisire un’esistenza materiale? Come si produce valore dal valore? Bellofiore annota:
Il capitale, che è fatto tutto di lavoro morto – moneta, macchine, mezzi di produzione, edifici, beni intermedi, beni di consumo –, non si può valorizzare se non è in grado di immettere e plasmare un “altro” da sé, quella capacità lavorativa che sola può erogare lavoro vivo. Questo qualcosa, che è una alterità che va resa “interna”, va anche controllato: non può però mai esserlo fino in fondo, così che diventi l’equivalente di una macchina (p. 15).
Il ciclo viene descritto da Marx usando varie metafore che nel libro vengono così sintetizzate:
Solo grazie alla propria natura di vampiro il capitale trasforma la crisalide – l’“incarnazione”, nel corpo del denaro, del fantasma del valore – in farfalla: valore che figlia più valore; lavoro morto che torna alla vita, e ammassa sempre più lavoro morto. In questa dialettica mostruosa di corpi che divorano corpi – il corpo del denaro, il corpo delle macchine e dei mezzi di produzione, il corpo dei lavoratori – sta il cuore di tenebra del Capitale (p. 231).
Le merci per entrare nel circuito dello scambio capitalistico devono essere prodotte da dei lavoratori in carne e ossa che sono portatori viventi della forza-lavoro. Ma appare che nel processo produttivo i lavoratori siano mera appendice della merce che loro vendono, la loro capacità lavorativa, un potenziale che diviene lavoro vivo o lavoro in divenire. Ecco quindi che:
Gli esseri umani si trovano “di fronte” le proprie forze generiche, come forze collettive, come totalità alienata che li domina. Un pensiero, questo, il cui sviluppo approda alla concezione del capitale sociale come totalità autonoma, come Soggetto totalitario e reale, “astratto” e “indifferente” agli individui: il Capitale che “abbraccia” e “domina” nel suo automovimento (p. 165).
In questo senso il Capitale è isomorfo al soggetto assoluto di Hegel. Da un punto di vista epistemologico il Capitale «è una totalità che, hegelianamente, pare “porre i propri presupposti”, accrescendosi a spirale secondo una modalità puramente quantitativa» (p. 211).
Nel concetto di capitale c’è l’inversione di soggetto e oggetto e la trasformazione del predicato, il pensiero, in soggetto. La critica dell’economia quindi è in sintesi il prevalere di una ricerca genetica della realtà e contestualmente una ricerca sistematica e genetica dei concetti che richiede una metodologia dialettica:
la concezione secondo cui l’oggettività economica, l’oggettività di valore è una “seconda natura”, sovrasensibile e non fatta dagli esseri umani, è al tempo stesso un’illusione, più propriamente un’illusione oggettuale (gegenstndlicher Schein). Si è detto che le forme economiche sono forme “impazzite”, “deviate”, “spostate” – nel senso anche di uno spostamento dal loro luogo naturale. Si tratta di una trasposizione e di una proiezione del sensibile nel sovrasensibile. Se l’economia conosce solo il risultato di questo “impazzimento” e “spostamento”, la “critica” dell’economia ha il compito di esporre la genesi delle verrückte Formen, la loro “origine umana”: disvelando in ciò che è immediato per gli esseri umani delle forme alienate da sradicare (p. 164).
Il Capitale come soggetto che si autovalorizza mette in moto un processo circolare che parte dal denaro passa alla produzione e vendita di merci per concludersi con un ammontare maggiore di denaro, secondo la nota formula generale del capitale: D-M-D’; formula che ha per definizione una dimensione macroeconomica e quindi non può realizzarsi solo con uno scambio interno alla classe dei capitalisti. L’accrescimento del denaro – D’ – non viene quindi da uno scambio interno ai capitalisti, non è il successo commerciale di alcuni a spese di altri. La sorgente del valore, ci ricorda Bellofiore, non può che essere «nel solo scambio che è esterno alla classe capitalistica» (p. 213), quindi nella compera della forza lavoro.
La domanda inevitabile è come può, quindi ciò accadere? Come si genera un plusvalore? Dal fatto che nel processo lavorativo i lavoratori salariati oltre a riprodurre, come classe, i mezzi di produzione, compresa la riproduzione di se stessi come classe, generano un prodotto netto. Il prodotto netto «si esibisce sul mercato come un “neovalore” in forma monetaria e il neovalore così aggiunto è nient’altro che l’espressione monetaria del tempo di lavoro oggettualizzato dai lavoratori salariati nel periodo corrente – è cioè, per coì. dire, la materializzazione in denaro del lavoro vivo da loro prestato» (p. 213). Quindi, conclude Bellofiore, le merci hanno un valore di scambio perché prima dello scambio finale sul mercato hanno «già acquisito la proprietà ideale di essere scambiabili universalmente, sono “valore” che deve esibirsi in una “forma di valore”. Il denaro, dunque, non è altro che il valore stesso, resosi autonomo nella circolazione: separatosi dalle merci, ed esistente al loro fianco. Come tale esso è un’esposizione esteriore, una “oggettualizzazione”, di lavoro astratto, solo indirettamente sociale» (p. 215).
Per Marx il valore ha una natura essenzialmente monetaria, questo lo differenzia «da tutta la teoria economica prima e dopo di lui» (p. 217). In sintesi:
Raggiungiamo qui di nuovo la problematica per cui, pur essendo il valore attualizzato nello scambio finale delle merci, il movimento marxiano va dalla produzione immediata alla circolazione sul mercato finale delle merci, dal contenuto (come forma “latente”) alla forma attualizzata. Il che è evidentemente possibile solo se quel contenuto è, per così dire, previamente “conformato” da un’antevalidazione monetaria (come a me pare si dia con il finanziamento monetario della compravendita di forza-lavoro, sulla base di certe aspettative sull’andamento della produzione e del mercato), e si tiene conto del condizionamento che impone una pre-commensurabilità nella produzione, che anticipano la validazione finale sul mercato (il “ciclo”, o “circuito” monetario, parallelo alla sequenzialità del lavoro astratto) (p. 176).
Ma, c’è un ulteriore radicale innovazione di Marx. A questo circuito capitalistico circolare e autorealizzantesi corrisponde un processo lineare che avviene nella sfera della produzione, dopo che i capitalisti monetari hanno anticipato il denaro ai capitalisti industriali e prima della immissione delle merci sul mercato. Questo movimento lineare non è autofondato nel Capitale come soggetto. Ecco quindi dove si spezza l’isomorfismo. Scrive Bellofiore:
anche se il “lavoro” è incorporato nel capitale, il capitale non può che continuare a dipendere da lavoratori e lavoratrici in carne e ossa. La “circolarità” del Capitale – il circolo ontologico del presupposto-posto – possiede come suo segreto inconscio il processo “lineare” da cui origina, il vampiresco succhiare lavoro vivo in eccesso rispetto al lavoro necessario per riprodurre i lavoratori (p. 197).
Quindi, conclude citando il lavoro di Sbardella: «È questa una totalità dove le relazioni sociali antagonistiche tra capitale e lavoro (sul mercato del lavoro e nel processo di lavoro capitalistico), prima delle relazioni tra produttori capitalistici sul mercato finale, sono al centro» (pp. 197-198).
Ecco quindi come la circolarità e l’autosufficienza del Capitale si aprono per virtù del«potenziale antagonismo costitutivo di questo rapporto sociale di produzione» (p. 198). È nel “laboratorio segreto della produzione” che si può costituire un rapporto antagonistico. Aggiunge Bellofiore: «Una verità è che il “lavoro” dei lavoratori è ormai del capitale. Ma c’è un’altra verità, ed è che il “lavoro” non può che essere lavoro degli stessi lavoratori» (p. 206).
Questa è la ragione analitica per la quale il conflitto di classe e l’essenza del capitalismo non possono essere ridotti a solo conflitto distributivo e, ancor più importante, non può essere letto con delle categorie analitiche tese all’analisi dei processi distributivi del reddito. Inoltre il potenziale antagonistico richiede una soggettività per manifestarsi come potenza attiva.
Lo statuto del lavoro
Il secondo passaggio chiave è lo statuto del lavoro. Concordo, in base ad una mia antica e radicata convinzione3, con l’affermazione di Bellofiore che «il Marx maturo trasformi radicalmente ma non abbandoni del tutto la visione giovanile dei Manoscritti del 1844» e che «in questa luce, il discorso sul lavoro come essenza dell’essere umano non è più, come nel 1844, il fondamento di una critica filosofica ed esterna della realtà esistente, ma diviene parte di una scienza che vuole totalmente immanente il punto di vista della critica» (p. 79).
Il primo riferimento qui è all’affermazione di Marx che la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’essere umano: «l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie […] soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come un ente generico». Come commenta Bellofiore: «In un lavoro autenticamente umano si mediano la genericità dell’attività, che non è fissata in uno scopo determinato, e la sua naturalità, la dipendenza da un mondo naturale e oggettivo» (p. 78). Il capitalismo, per quanto abbiamo già detto, inverte la natura del lavoro.
Il secondo riferimento al Marx maturo si basa sulla lettura dei Grundrisse, in due mosse. La prima, teoretica, afferma Bellofiore, è la trasformazione dell’universalità e della socialità del lavoro in fenomeni integralmente storici e, così interpretati, – la seconda mossa – solo con il capitalismo i due attributi del lavoro. universalità e socialità – diventano possibili. Il capitalismo infatti vive una contraddizione perché, annota Bellofiore,
costituisce, per la prima volta nella storia, la società come effettiva universalità di relazioni nello scambio; fa ciò però isolando i produttori e contrapponendoli nella concorrenza. Rende il lavoro del singolo funzione della cooperazione sociale; gli impone però quest’ultima come risultato di una scienza e di una organizzazione capitalistica, di cui diviene un accessorio vivente (p. 81).
Ecco quindi le ragioni profonde del fatto che la critica di Marx è immanente. Qui ben si salda la critica di Bellofiore a due posizioni antitetiche. L’una lavorista, perché inverte il discorso di Marx del rapporto tra determinazioni tecniche relazioni sociali: per Marx la conquista della libera attività consapevole può avvenire solo in un mondo in cui sia stata superata la centralità della produzione. La seconda, la liberazione dal lavoro, confonde oggettivazione e alienazione, per cui è il finito in quanto tale che è negatività.
Nessuno più di Freud ha sottolineato l’importanza del principio del piacere e della ricerca della felicità: «lo scopo della vita è semplicemente il programma del principio del piacere», contro il principio di realtà. Come mettere in equilibrio i due? Assieme a Rebecchi abbiamo riassunto l’alternativa di Freud partendo dalle sue stesse parole: «C’è, certamente, un altro percorso migliore: quello di diventare un membro della comunità umana, e, con l’aiuto di una tecnica che sia guidata dalla scienza, andare decisamente all’attacco contro la natura e assoggettarla alla volontà umana. Allora l’uomo lavora con tutti per il bene di tutti»4.
Bellofiore ripercorre la discussione sul tema del lavoro e del principio di realtà e conclude:
La prospettiva antropologica di Marx non può allora essere la negazione del lavoro, o la sua riduzione a gioco, come vorrebbe Marcuse: ma neanche una sua assolutizzazione, come è nella banalizzazione di Marx che va oggi di moda. Semmai, la sua integrazione con le altre facoltà umane, quali la contemplazione e il piacere. La libertà reale non si nega ma si afferma in quel “superare gli ostacoli” che è tipico del lavoro. Lo stesso lavoro caratterizzante il regno della necessità – la necessità della riproduzione materiale al livello dato delle forze produttive e delle relazioni sociali – può divenire lavoro libero, autorealizzazione dell’individuo (p. 95).
I conti con Keynes
Nel capitolo conclusivo, dopo avere ripercorso il dibattito sulla liberazione dal lavoro, di cui sopra, Bellofiore affronta alcuni problemi che costituiscono un’agenda di riflessione e iniziativa antagonista. È l’occasione per Bellofiore di fare i conti «con un Keynes il cui ideale di liberazione dal lavoro, contro le sue intenzioni, può e dev’essere ripreso solo dentro un simultaneo percorso di liberazione del lavoro» (p. 334).
Come stanno insieme il Keynes delle Conseguenze economiche per i nostri nipoti cioè «il profeta di una riduzione drastica dell’orario di lavoro, del superamento dei principi pseudomorali puritani e calvinisti» con quello della Teoria Generale? (p. 340).
Per Bellofiore il Keynes della Teoria Generale matura l’idea che esiste una lunga fase di lotta alla povertà, alla disoccupazione e all’ineguaglianza che richiede la creazione di opportunità di lavoro, ma, aggiunge Bellofiore, che ciò non esclude la scelta di una riduzione di orario a parità di salario e di un reddito minimo di esistenza ma esse devono essere misure complementari e devono seguire non precedere la creazione di lavoro. Così reinterpretato positivamente Keynes, emerge, a maggior ragione, l’insufficienza della prospettiva di Keynes e il punto chiave della discussione e delle pratiche politiche di questa fase. Bellofiore utilizza l’idea di Joan Robinson di una seconda crisi dell’economia: «Ora che siamo tutti d’accordo che la spesa può mantenere l’occupazione, dobbiamo discutere sulla destinazione della spesa» (p. 353); questo è oggi un punto chiave di discrimine non solo teoretico ma pratico-politico.
Il libro si conclude con il richiamo a Kalecki e Minsky. Kalecki che rese esplicite le conseguenze sociali e politiche della piena occupazione e la ragione della profonda avversione ad esse da parte del Capitale perché i «lavoratori diventano in tale situazione recalcitranti e i capitani d’industria diventano ansiosi di dar loro una lezione» (p. 354). È quello che accaduto nel ciclo delle lotte degli anni Settanta.
Note
1 Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 398. Il riferimento alle pagine citate è nel testo, tra parentesi.
2 R. Bellofiore, R. Fineschi, Marx in questione. Il dibattito aperto dell’international symposium on marxian theory, Napoli, La città del sole, 2009.
3 Cfr. F. Garibaldo, Lavoro, innovazione, sindacato, Genova, Costa & Nolan, 1988.
4 F. Garibaldo, E. Rebecchi, Needs and desires: transcending the “bipolar tendency”, in AI & Soc, 2013, n. 28, pp. 117-121 (https: //doi.org/10.1007/s00146-012-0393-3); trad. mia.
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