venerdì 11 febbraio 2022

Reddito di autodeterminazione: dubbi di una femminista eretica - Giovanna Vertova

 Da: https://transform-italia.it - Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi.

Vedi anche: Il mercato del lavoro e la piena occupazione - Giovanna Vertova

Occupati, disoccupati, inattivi...*- Giovanna Vertova

Donne e crisi*- Giovanna Vertova

Il reddito di esistenza - Giovanna Vertova

Leggi anche:La questione di classe è una questione di genere - Giovanna Vertova 

POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova 

Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere. - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova 

L'ALTRA METÀ DEL LAVORO - Rossana Rossanda 



Composizione VIII - Vasilij Kandinskij 

Ormai da decenni, più o meno dal pieno sviluppo del neoliberismo, è iniziata una riflessione, sia a destra che a sinistra, sull’idea che il welfare che si è venuto a creare nel secondo dopo guerra non sia, oggi, più sostenibile (destra) o non sia più in grado di creare un’adeguata rete di protezione sociale per le classi meno abbienti (sinistra). La posizione di sinistra è, inoltre, articolata su un’analisi della attuale fase capitalistica alquanto fantasiosa. L’ipotesi di base è che, da molti anni, sia in corso un declino della soggettività “lavorista”, in quanto il neoliberismo sarebbe incapace di garantire la piena occupazione, tipica del periodo storico precedente, spesso denominato fordista-keynesiano. Di conseguenza il welfare di matrice “fordista” sarebbe inadeguato a garantire le protezioni necessarie per costruire una risposta alla crescente insicurezza sociale della classe lavoratrice, in quanto concepito per una società “lavorista” e di “piena occupazione”. L’automazione dei processi di produzione (ove possibile), la rivoluzione tecnologica digitale, ultimamente il sistema Industria 4.0 concorrono a sostituire lavoratori in carne ed ossa con macchine, creando o aumentando la disoccupazione tecnologica. Per questo motivo i sostenitori di questa visione ritengono che il welfare non possa più essere legato alla condizione lavorativa1, ma andrebbe riformato per rispondere alle nuove insicurezze sociali figlie del neoliberismo. Un trasferimento monetario statale, sganciato dalla prestazione lavorativa sembra, quindi, essere la soluzione giusta per tutelare la classe lavoratrice.

Nonostante le basi teoriche della proposta, qui solo brevemente richiamate, potrebbero essere ampiamente smentite, non è questo l’obiettivo del presente lavoro. Qui si vuole sottoporre a critica la soluzione proposta – il trasferimento monetario senza contropartita – con uno sguardo particolare alla sua versione femminista, il Reddito di Autodeterminazione (RdA), teoricamente molto simile a quello che, nella letteratura scientifica, è noto come Universal Basic Income (UBI – Reddito di Base Universale). Nel dibattito politico, soprattutto in Italia, la proposta di una forma di trasferimento monetario, sganciato da una prestazione lavorativa è, spesso, chiamata con nomi che sono, erroneamente, considerati sinonimi: reddito di esistenza, di base, di cittadinanza, di dignità, di autonomia, di inclusione, di autodeterminazione. È bene, quindi, iniziare con una chiara definizione della proposta. Lo UBI è un pagamento periodico in contanti, dato incondizionatamente a tutte e tutti su base individuale, senza means-test (cioè, senza una verifica dell’esistenza di condizioni per la sua erogazione) o contropartita lavorativa2. Da questa definizione segue che lo UBI deve avere cinque caratteristiche particolari: (i) essere pagato ad intervalli regolari, non essendo una misura una tantum; (ii) essere un trasferimento monetario, per consentire a coloro che lo ricevono di decidere per cosa spenderlo. Non viene, quindi, corrisposto né in natura (come beni o servizi) né in voucher dedicati ad un uso specifico; (iii) essere erogato su base individuale e non, per esempio, alle famiglie (come sono spesso i trasferimenti monetari di sostegno ai cittadini); (iv) essere universale, cioè essere pagato a tutti e tutte; (v) essere incondizionato, cioè sganciato da qualsiasi condizione lavorativa o sociale del ricevente, da un qualsiasi obbligo al lavoro o dalla dimostrazione di una volontà di lavorare. Date queste caratteristiche, diventa chiaro il parallelo con il RdA che deve essere “universale e incondizionato, rivolto alla singola persona e non familistico, slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno”3.

Entrambe le proposte sono teoricamente giustificate come forma di redistribuzione di valore (marxianamente inteso) già prodotto. Lo UBI dovrebbe rappresentare la riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (nell’interpretazione del più recente Negri e degli odierni post-operaisti); il RdA quella del valore “prodotto” dal lavoro domestico e di cura. Personalmente ritengo queste interpretazioni poco convincenti. Le mie critiche all’idea che la cooperazione sociale o che ogni singolo aspetto della vita produca valore nell’attuale bio-capitalismo (così come definito dai sostenitori della tesi) si possono trovare in scritti precedenti4.

Per quanto riguarda, invece, il RdA, la questione è più complicata. La rivendicazione di un RdA come remunerazione del valore “prodotto” dal lavoro domestico e di cura si avvicina alla Campagna Internazionale per il Salario al Lavoro Domestico (International Wages for Housework Campaign) dei primi anni ’70 del Novecento. Pur non condividendola, quella Campagna ha avuto dei meriti che vanno riconosciuti, collocandosi storicamente in una epoca in cui la maggior parte delle donne era una casalinga. All’epoca la lotta per il salario al lavoro casalingo (domestico e di cura, secondo la terminologia odierna) aveva, prima di tutto, l’obiettivo di rendere visibile la dipendenza dell’accumulazione capitalistica dal lavoro svolto “fuori” dai luoghi della produzione e, in secondo luogo, di scardinare il sistema delle compatibilità capitalistiche. L’importanza storica della Campagna è quella di aver aperto il dibatto sul lavoro casalingo, ponendo il sistema di produzione di plusvalore in relazione con quello della riproduzione sociale della forza-lavoro. Tuttavia, allora come oggi, trovo poco convincente la giustificazione teorica: poiché il lavoro casalingo produce valore, deve essere remunerato.

I limiti teorici della proposta sono importanti, poiché producono dei cortocircuiti nella sua pratica politica. L’ipotesi che il lavoro casalingo sia direttamente produttivo di valore è stata una delle questioni centrali del dibattito degli anni ’70, che ha visto posizioni diverse e, anche, contrapposte. Le sostenitrici della Campagna fanno un parallelo tra il lavoro in fabbrica e quello a casa: in fabbrica il padrone si appropria del risultato del lavoro salariato, che produce una merce che, se venduta, permette la realizzazione del plusvalore; in famiglia il marito (padrone) si appropria del risultato del lavoro casalingo, che “produce” beni e servizi necessari alla riproduzione della forza-lavoro. Secondo questa interpretazione il lavoro casalingo produce direttamente plusvalore esattamente come il lavoro salariato, con l’unica differenza di non essere pagato. Da ciò la richiesta di salario.

Tuttavia, questo parallelismo è inappropriato, per una serie di ragioni che cerco qui di presentare, seppur brevemente. Prima di tutto le relazioni sociali capitalistiche sono diverse da quelle tra marito e moglie((Assumo, per semplicità, che si parli del lavoro domestico e di cura all’interno di una famiglia composta da membri eterosessuali, dove la moglie svolge tutto, o la maggior parte, del lavoro per la riproduzione sociale della forza-lavoro.). Il padrone ha (o vorrebbe avere) il diretto controllo sul tempo e sulle modalità di uso della forza-lavoro salariata, in modo da assicurarsi la massima estrazione di plusvalore possibile. Il lavoro della moglie non è sottoposto allo stesso controllo: il marito non ha interesse a controllare i tempi e/o le modalità di esecuzione del lavoro casalingo. È sufficiente che siano disponibili i beni e servizi per la riproduzione della forza-lavoro. Inoltre, per questo motivo, il lavoro domestico e di cura non è soggetto alla pressione della concorrenza con le altre “produzioni” casalinghe, per minimizzare il tempo di lavoro e aumentarne la produttività e, quindi, il plusvalore. Infine, l’obiezione più rilevante: il lavoro domestico e di cura non è soggetto alla teoria del valore. Quest’ultima impone una misura comune del tempo di lavoro tra le diverse forme di produzione capitalista: il tempo di lavoro socialmente necessario. Al contrario non esiste alcuna ragione per cui un’ora di lavoro casalingo di una persona sia paragonabile ad un’ora di lavoro casalingo di un’altra persona, o che un’ora di lavoro casalingo di una stessa persona per compiere una certa mansione sia paragonabile ad un’ora per compierne un’altra. Il tempo di lavoro che le persone dedicano al lavoro domestico e di cura non può essere paragonato con il tempo di lavoro contenuto nelle merci che consumano (cosa che, al contrario, avviene per il lavoro salariato). Il lavoro domestico e di cura non è, quindi, direttamente produttivo di valore, così come non lo è la vita tutta (come ipotizzano i sostenitori dello UBI). Rivendicare un RdA con questa giustificazione contribuisce ad offuscare o confondere le relazioni sociali di produzione con il patriarcato, le quali si intrecciano, ma non sono la stessa cosa. Molto più semplice sarebbe stato rivendicare un reddito sulla base dell’elementare nozione di una vita dignitosa.

Al di là della giustificazione teorica, l’adeguatezza della proposta rispetto agli obiettivi da raggiungere rimane dubbia. Il RdA è una misura redistributiva insufficiente per gli scopi desiderati se solitaria, visto come panacea di tutti i mali, e fuori da un pacchetto di riforme più articolato. Come tutte le forme di redistribuzione (di reddito o ricchezza), misure di trasferimento monetario non vanno ad intaccare le cause dei problemi, ma, semplicemente ne mitigano gli effetti nefasti, rendendoli più sopportabili. Così come lo UBI non incide sulle cause dell’insicurezza sociale, il RdA non tocca né il patriarcato, né l’asimmetria di potere nei rapporti sociali tra i generi. Contro le intenzioni, il rischio è quello di causare effetti opposti a quelli desiderati. Si cristallizza e congela il ruolo della donna nelle mura di casa, che diventa ora l’unico soggetto predisposto al lavoro domestico e di cura in quanto percettore di reddito per svolgere esattamente quei lavori. E, poiché il peso delle responsabilità familiari ha una diretta influenza sulla partecipazione delle donne al lavoro salariato, si mantengono (o, peggio, si peggiorano) così anche le disparità di genere nel mercato del lavoro: la segregazione verticale (che vede poche donne nelle posizioni di vertici) e orizzontale (che vede le donne occupate prevalentemente in pochi settori, quelli più vulnerabili e meno remunerativi); la disparità di remunerazione e, di conseguenza, la disuguaglianza pensionistica.

Pensare che l’autodeterminazione delle donne sia raggiungibile solo ed esclusivamente con un trasferimento monetario cancella un po’ di questioni. Si propone il RdA come soluzione al patriarcato, mantenendo inalterati tutti gli elementi che concorrono a crearlo e mantenerlo in vita. Non basta avere un RdA per superare i rapporti di potere tra i generi (altrimenti le donne della classe dominante non sarebbero soggette al patriarcato: sappiamo che non è così).

Personalmente ritengo che la proposta sia accettabile se inserita in un quadro più ampio, che abbia come base un’analisi di genere del sistema capitalistico. Occorrono riforme strutturali, dove la questione di genere e della riproduzione sociale della forza-lavoro siano poste al centro dell’analisi, intersecandosi con la questione della produzione e del lavoro salariato. Sono necessarie proposte di politica economica che tengano insieme la dimensione di classe con quella di genere e di cittadinanza. Vorrei essere chiara: è ovvio che, soprattutto nella situazione attuale, dopo 15 anni dallo scoppio della Grande Recessione e 2 anni dalla pandemia, è necessario un trasferimento monetario a sostegno della classe lavoratrice (occupata o disoccupata che sia). Ma non basta. L’autodeterminazione delle donne si raggiunge con un lavoro salariato di qualità e ben pagato; con una condivisione del lavoro domestico e di cura con l’altra metà del cielo; e con uno Stato che si fa carico di un sistema di welfare universale, funzionate e gratuito per tutte e tutti. Inoltre, soprattutto in questo paese, bisogna combattere gli stereotipi di genere con una politica culturale che ponga al centro il rispetto delle diversità e del dissenso come elementi fondanti la democrazia e non come patologie.

  1. Spesso, tuttavia, si dimentica che, in Italia, parte del welfare creato durante il periodo Fordista-Keynesiano era di carattere universalistico e non lavoristico.[↩]
  2. Fonte: https://basicincome.org/about-basic-income (visitato il 12 gennaio 2022).[↩]
  3. Fonte: https://nonunadimeno.wordpress.com/2019/02/05/reddito-di-cittadinanza-una-critica-femminista-di-nudm-roma/ (visitato il 12 gennaio 2022).[↩]
  4. “Le tante trappole del reddito garantito”, il manifesto (4 giugno 2006). “Reddito e salario: si parte dal lavoro e dal conflitto”, il manifesto (15 agosto 2006). “Nuovo capitalismo e frammentazione del lavoro”, Essere comunisti (anno II, n. 6, aprile-marzo 2008). “Potenzialità e limiti del reddito di base”, Etica&Politca (vol. XIX, n. 1, 2017). “Basic Income al di là dei limiti”, Su la testa (n. 2, settembre 2020).[↩

Nessun commento:

Posta un commento