sabato 12 febbraio 2022

Simone Weil: La condizione operaia

Da: https://www.facebook.com/vittori.oliva.9 - http://www.controappuntoblog.org - Simone Weil è stata una filosofa, innamorata del pensiero greco; una combattente per la giustizia e il rispetto della dignità umana, appassionata all’idea di Dio, cui corrispondere senza limiti confessionali.

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Cara Albertine,

mi ha fatto bene ricevere un rigo da te. Ci sono cose, mi pare, che comprendiamo solo tu e io. Tu vivi ancora; ecco, non puoi sapere come ne sia felice … La vita li vende cari i progressi che fa compiere. Quasi sempre a prezzo di dolori intollerabili… Quel che mi scrivi della fabbrica m’è andato dritto al cuore. E’ quel che sentivo io fin da quando ero piccola. Per questo ho dovuto finire con l’andarci e mi addolorava, prima, che tu non capissi. Ma quando si è dentro, come è diverso! Ora, è così che sento il problema sociale: una fabbrica, dev’essere quel che … ho sentito tanto spesso, un luogo dove ci si urta dolorosamente, duramente, ma tuttavia gioiosamente, con la vita vera. Non quel luogo tetro dove non si sa fare altro che ubbidire, spezzare sotto la costrizione tutto quel che c’è di umano in noi, piegarsi, lasciarsi abbassare al di sotto delle macchine. 

Una volta ho avvertito intensamente, in fabbrica, quel che avevo presentito con te, dal di fuori. Era la mia prima fabbrica. Immaginami davanti a un gran forno, che sputa fiamme e soffi brucianti che mi arroventano il viso. Il fuoco esce da cinque o sei fori situati nella parte inferiore del forno. Io mi metto proprio davanti, per infornare una trentina di grosse bobine di rame che un’operaia italiana, una faccia coraggiosa e aperta, fabbrica accanto a me; quelle bobine sono per il tram e per il metrò. Devo fare ben attenzione che nessuna delle bobine cada in uno dei buchi, perché vi si fonderebbe; e, per questo, bisogna che mi metta proprio di fronte al fuoco senza che il dolore dei soffi roventi sul viso e del fuoco sulle braccia (ne porto ancora i segni) mi facciano mai fare un movimento sbagliato. Abbasso lo sportello del forno, aspetto qualche minuto, rialzo lo sportello a mezzo di tenaglie, tolgo le bobine ormai rosse, tirandole verso di me con grande sveltezza (altrimenti le ultime comincerebbero a fondere) e facendo anche più attenzione di prima perché un movimento errato non ne faccia cadere mai una dentro uno dei fori. E poi si ricomincia. Di fronte a me un saldatore, seduto, con gli occhiali blu e la faccia severa, lavora minuziosamente; ogni volta che il dolore mi contrae il viso, mi rivolge un sorriso triste, pieno di simpatia fraterna, che mi fa un bene indicibile. 

Dall’altra parte, lavora una squadra di battilastra, intorno a grandi tavoli; lavoro di squadra, compiuto fraternamente, con cura e senza fretta. Lavoro molto qualificato, dove bisogna saper calcolare, leggere disegni complicatissimi, applicare nozioni di geometria descrittiva. Più lontano, un robusto giovanotto picchia con un maglio su certe sbarre di ferro, facendo un fracasso da fendere il cranio. Tutto ciò avviene in un cantuccio in fondo all’officina, dove ci si sente a casa propria, dove il caposquadra e il capo officine, si può dire, non vengono mai. Ho passato là 2 o 3 ore a quattro riprese (ci rimediavo da 7 a 8 franchi all’ora; e questo conta, sai!). 

La prima volta, dopo un’ora e mezzo, il caldo, la stanchezza, il dolore, m’han fatto perdere il controllo dei movimenti: non riuscivo più ad abbassare lo sportello del forno. Uno dei battilastra (tutti tipi in gamba) appena se n’è accorto si è precipitato a farlo in vece mia. Ci ritornerei subito in quel angolo d’officina se potessi (o almeno appena avessi riacquistato un po’ di forze). Quelle sere, sentivo la gioia di mangiare un pane dolorosamente guadagnato. 

Ma questo è stato unico, nella mia esperienza di vita di fabbrica. Per me, personalmente, lavorare in fabbrica ha voluto dire, che tutte le ragioni esterne sulle quali si fondavano la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa, sono state radicalmente spezzate, in due o tre settimane, sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana. E non credere che ne sia conseguito in me qualche moto di rivolta. No; anzi, al contrario, quel che meno mi aspettavo da me stessa: la docilità. Una docilità di rassegnata bestia da soma. mi pareva d’essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – di non aver mai fatto altro che questo – di non dover mai far altro che questo. Non sono fiera di confessarlo.
E’ quel genere di sofferenza di cui nessun operaio parla; fa troppo male solo a pensarci. 

Quando la malattia mi ha costretto a smettere, ho assunto piena coscienza dell’abbassamento nel quale stavo cadendo e mi sono giurata di subire questa esistenza fino al giorno in cui fossi giunta, mio malgrado, a riprendermi. Ho mantenuto la promessa. Lentamente, soffrendo, ho riconquistato, attraverso la schiavitù, il senso della mia dignità di essere umano, un senso che questa volta non si fondava su nulla di esterno, sempre accompagnato dalla coscienza di non aver diritto a nulla e che in ogni istante libero dalle sofferenze e dalle umiliazioni doveva essere ricevuto come una grazia, come unico risultato di favorevoli circostanze casuali. 

Due fattori essenziali entrano in questa schiavitù: la rapidità e gli ordini.
La rapidità: per “farcela” bisogna ripetere un movimento dopo l’altro a una cadenza che è più rapida del pensiero e quindi vieta non solo la riflessione, ma persino la fantasticheria. Mettendosi dinnanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima, i propri pensieri, i sentimenti, tutto per otto ore al giorno. Irritati, tristi o disgustati che si sia, bisogna inghiottire, respingere in fondo a se stessi irritazione, tristezza o disgusto: rallenterebbero la cadenza. Per la gioia, è lo stesso.
Gli ordini: dal momento in cui si timbra per l’uscita, si può ricevere qualsiasi ordine in qualunque momento. E bisogna sempre tacere e obbedire. L’ordine può essere penoso o pericolosa da eseguire, o anche ineseguibile; oppure due capi possono dare ordini contradditori; non fa nulla: tacere e piegarsi. Rivolgere la parola a un capo, anche per una cosa indispensabile, anche se è una brava persona (le brave persone hanno pure i loro momenti di cattivo umore) vuol dire rischiare di farsi strapazzare. E quando capita, bisogna ancora tacere. Per quanto riguarda i propri impulsi di nervi o di malumore, bisogna tenerseli; non possono tradursi né in parole né in gesti, perché i gesti sono, in ogni momento, determinati dal lavoro. Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae dinnanzi al bisturi. 

Non si può essere “coscienti”. Tutto questo, beninteso, riguarda il lavoro non qualificato, soprattutto quello delle donne. E attraverso tutto ciò, un sorriso, una parola di bontà, un istante di contatto umano hanno più valore delle più devote amicizie fra i privilegiati grandi e piccoli. Solo là si conosce che cos’è la fraternità umana. Ma ce n’è poca, pochissima. 

Quasi sempre le relazioni, anche fra i compagni, riflettono la durezza che, là dentro, domina su tutto. .. Volevo dirti anche questo: il passaggio da quella vita così dura alla mia vita attuale, sento mi corrompe. Capisco ora cosa succeda ad un operaio che diventa funzionario sindacale. Reagisco quanto posso. Se mi lasciassi andare, dimenticherei tutto, m’installerei nei miei privilegi senza voler pensare che sono privilegi. Sta tranquilla, non mi lascio andare. A parte questo, in quella esistenza ci ho lasciato la mia allegria, ne serbo in cuore un’amarezza incancellabile. E tuttavia, sono felice di averla vissuta…


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