venerdì 4 febbraio 2022

Le «competenze cognitive» che snaturano la scuola - Ernesto Galli della Loggia

 Da: https://www.corriere.it - Ernesto Galli della Loggia è uno storico e accademico italiano, editorialista del Corriere della Sera. 

Leggi anche: Scuola, non mercato - Teachers For Future Italia 

https://www.tecnicadellascuola.it/le-competenze-non-cognitive-diventano-didattica-la-camera-approva-si-insegnera-come-gestire-stress-empatia-pensiero-critico-e-creativo/amp 

Vedi anche: Però c’è un problema... - Emiliano Brancaccio 

LO STATO DELLE COSE. Produzione, riproduzione e uso dei saperi nell’era del digitale.


Nel linguaggio di Marx, tutto ciò può essere interpretato come un ulteriore espandersi della sussunzione reale del lavoro - e non solo del lavoro, ma di tutti gli aspetti dell'esistenza umana - al capitale. Quest'ultimo non si limita più ad appropriarsi delle conoscenze o delle competenze tecniche e culturali per sfruttarle ai suoi fini, ma vuole formare un tipo di essere umano che sia spiritualmente adattabile alle sue esigenze. 

D'altra parte, crediamo sia un processo in atto da decenni, e di cui Pasolini già parlava negli anni settanta nella sua denuncia del "genocidio culturale". Era un romantico? Forse, o almeno in parte, ma ci vedeva lungo. 

I marxisti non possono essere romantici, i quali spesso sono reazionari, ma un po' di romanticismo seppure razionalizzato crediamo sia alla base anche del pensiero critico comunista. Infatti il romanticismo è anche un sentimento che ricerca il meglio del passato per poter leggere il presente. Possiamo sbagliare, ma il pensiero dialettico ambisce al superamento del presente anche facendo tesoro del passato: negare il presente è possibile alla luce del sentimento del passato, ma non per un ritorno ad esso bensì per un suo superamento che comprenda anche il passato. 

Le tendenze dei nuovi programmi scolastici introducono insegnamenti motivazionali e di gestione dello stress al fine di far sì che il soggetto, terminati gli studi, possa rimanere attivo e motivato e capace di accettare e sopportare lavori discontinui, sottoretribuiti e inferiori alle aspettative e alle competenze acquisite. Se volessero veramente ridurre il disagio dovrebbero consentire ai bambini e ai giovani delle aree svantaggiate e/o con famiglie a basso reddito, di avere accesso gratis a un corso di lingua, uno sport, ripetizioni di studio, una vacanza retribuita, oltre che un supporto alle famiglie. Ma questo sarebbe un mondo civile che con il capitalismo è impossibile, in quanto i fini del capitalismo sono semplicemente altri. Il cerchio si chiude. (il collettivo) 

Le «competenze cognitive» che snaturano la scuola - Ernesto Galli della Loggia, 02 febbraio 2022

Tutto ciò — come accade spesso in Italia — grazie proprio a chi in teoria dovrebbe vegliare sulle sue sorti: al centro una cricca di alti burocrati ed «esperti» scervellati, sopra di loro un ministro in realtà loro succube perché ormai da anni sempre privo di qualunque autorità culturale e peso politico, e infine un Parlamento dove regnano l’incompetenza e la demagogia.

È stata infatti la Camera nei giorni scorsi ad approvare all’unanimità (all’unanimità: ecco dove vanno a finire i propositi «conservatori» della destra: nel consentire a quanto di più culturalmente eversivo si possa immaginare) una proposta di legge mirata «all’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico». Che cosa significa questa astrusa formulazione delle «competenze non cognitive», che cosa sono (mi piacerebbe sapere quanti degli oltre trecento deputati che hanno espresso il loro sì ne avessero una qualche vaga idea)? e che cosa c’entrano la scuola e il «metodo didattico»? Detto in breve vuol dire che d’ora in avanti nel corso del loro insegnamento i docenti dovranno fare in modo, secondo i fautori, d’inculcare e/o d’incrementare negli alunni quei comportamenti positivi e di adattamento che rendono capaci di far fronte alle evenienze più varie della vita quotidiana. E quindi addestrare all’«autocontrollo», alla «stabilità emotiva», all’«empatia», alla «fiducia in se stessi» e alla «resilienza», a «gestire le emozioni e lo stress», a «comunicare», a «prendere decisioni» e a «risolvere problemi». Sono queste per l’appunto le cosiddette soft skills, al cui insegnamento/propagazione dovrebbe piegarsi la scuola per formare il carattere degli allievi. Ma non è questo ciò che in realtà la scuola ha sempre fatto? Sì, ma attenzione: finora essa lo ha fatto attraverso i saperi delle sue varie discipline, dispensando ai giovani le più disparate conoscenze e lasciando che poi nell’animo di ognuno di essi quelle conoscenze, i libri letti, i pensieri e le emozioni nati nell’aula scolastica durante ogni ora di lezione, s’incontrassero con la sua indole, la sua fantasia, il suo animo e fecondandole dessero vita a quella cosa che si chiama la personalità. Finora insomma la scuola è stata convinta che a formare il carattere dei giovani a lei affidati, a plasmare il loro modo di sentire e quindi d’essere, fosse essenzialmente la cultura che si acquisiva per il suo tramite. In ognuno di quei giovani in modo libero e spontaneo, secondo vie misteriose destinate a restare tali a garanzia per l’appunto della libertà e della spontaneità. E la migliore pedagogia ha sempre tenuto per fermo a questa concezione libera e spontanea della formazione umana nell’ambito dell’istituzione scolastica. Mai la scuola si è proposta di formare un tipo standard di individuo, di persona modellata secondo specifiche decise in precedenza come se fosse una macchina.

Ora però sappiamo che invece i deputati della Repubblica non la pensano così. Essi pensano, al contrario, che il carattere vada determinato fin dall’infanzia (non dimentichiamo che l’auspicata svolta didattica si applica a tutto il ciclo scolastico) secondo un format prestabilito di «skill», di «abilità». Abilità a che cosa? Lo avrebbero capito se avessero letto quanto predica da tempo il Centro di ricerca educativa dell’Ocse, che di questa svolta didattica è da sempre a livello europeo il fautore più indefesso. In sostanza abilità a integrarsi senza problemi nella società com’è (in particolare a quella sua parte che ha a che fare con il mondo del lavoro), ad adeguarsi con successo ai suoi precetti, a introiettare le sue norme sapendo «autocontrollandosi» e mostrandosi capaci di «risolvere i problemi».

Si realizza così il vecchio progetto di ogni totalitarismo: che la scuola non sia più in alcun modo un’altra cosa rispetto alla società, qualcosa di irriducibile ad essa perché altro evidentemente è il suo paradigma e altri sono i suoi parametri funzionali. Bensì che essa sia solo l’ambigua anticipazione della società stessa, il luogo dove soprattutto si accerti la maggiore o minore disponibilità di ognuno ad adeguarsi alle sue richieste. Sicché la scuola serva di fatto a gettare le premesse di un autentico controllo/condizionamento di massa: basta usare la parola magica «competenza non cognitiva» e il gioco è fatto: chi può mai essere infatti dalla parte dell’incompetenza?

Ma c’è dell’altro naturalmente: l’aspetto diciamo così «materiale» di tutta la faccenda che però riguarda — eccome — anche il contenuto. Infatti, al fine di istruire adeguatamente i docenti alla svolta didattica di cui si tratta la proposta di legge prevede un «Piano straordinario di azione formativa», finanziato da quell’abituale mucca da mungere che è ormai diventato il Pnrr, e appaltato all’Indire e all’Invalsi. Cioè ai due enti che da anni — in stretto collegamento con le centrali euro-internazionali della nuova ideologia educativa — sono la roccaforte di una concezione dei sistemi fondata sull’idea di tradurre in termini standardizzati e quantificabili non tanto le conoscenze quanto soprattutto un certo insieme di tratti psicologici degli studenti, di atteggiamenti o elementi del carattere, inclusi i sintomi clinici delle categorie «a rischio», per poi naturalmente intervenire in senso terapeutico. La verità viene così finalmente a galla. Le «competenze non cognitive» sono lo strumento perché la scuola perda la sua natura antica e sempre nuova. Perché smetta cioè di essere il luogo dell’apprendimento e della formazione civile e culturale delle nuove generazioni. E si trasformi invece in una generica agenzia dell’accudimento sociale al cui interno diviene sempre più largo uno spazio di psico-medicalizzazione volto al controllo normalizzatore della personalità dei suoi allievi.

Ormai impaziente, George Orwell attende accanto al telefono di essere chiamato da un momento all’altro a ricoprire l’ incarico di ministro dell’Istruzione della Repubblica italiana.


Nessun commento:

Posta un commento