Vedi anche: Quale attualità di Claudio Napoleoni: il contributo di Politica Economica
Paul Mason: POSTCAPITALISMO – Riccardo Bellofiore
Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore
Leggi anche: Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione "civilizzatrice" del capitale.*- Riccardo Bellofiore**
Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia - Riccardo Bellofiore
La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore -
CHE COS'È IL VALORE? - Giorgio Gattei*
L’ecomarxismo di James O’Connor - Riccardo Bellofiore
Qui il video della presentazione dell'ultimo libro di Riccardo Bellofiore "Smith, Ricardo, Marx, Sraffa: Il lavoro nella riflessione economico-politica", Rosenberg & Sellier, 2020, presso la Mediateca Gateway.
Tutta da ascoltare, grazie agli ottimi interventi di Giorgio Gattei, Cristina Re e Francesco Garibaldo. Sono seguite le repliche dell'autore. Ha moderato e introdotto Andrea Coveri: https://www.facebook.com/mediateca.gateway/videos/300969457731929/
* * *
“Smith Ricardo Marx Sraffa: Il lavoro nella riflessione economico-politica” di Riccardo Bellofiore (Rosenberg&Sellier, 2020) non è un semplice compendio di storia del pensiero economico. È piuttosto un'immersione nelle teorie economiche moderne che spinge l’autore a interrogarsi sul ruolo del lavoro nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, sul suo futuro aperto, e sui compiti politici che questo futuro pone.
Tanto vale dichiararlo in apertura: dietro al titolo esoterico, da “addetti ai lavori”, dell’ultimo libro di Riccardo Bellofiore – Smith Ricardo Marx Sraffa – si nasconde in realtà un testo fortemente militante. Si tratta, beninteso, di una militanza teorica, da economista critico. Lo stesso titolo del libro è un omaggio all’opera Smith Ricardo Marx, pubblicata all’inizio degli anni Settanta da un altro economista critico, Claudio Napoleoni, antico maestro di Bellofiore. E se l’impostazione di Bellofiore non risparmia neppure lo stesso Napoleoni, criticato in vari punti, fedele all’approccio del suo predecessore è invece la scelta di avanzare una proposta teorica ripercorrendo alcune tappe fondamentali del pensiero economico moderno.
Al pensiero classico di Adam Smith, primo termine di confronto in ordine di tempo, sono infatti dedicati i primi due capitoli dopo quello introduttivo. Segue poi un capitolo dedicato al pensiero di David Ricardo, e altri due ancora a Marx. Chiudono il corpo del volume, prima delle appendici, due capitoli dedicati rispettivamente a Piero Sraffa e John Maynard Keynes. Ma come annunciato in apertura, non ci troviamo davanti a un semplice compendio di storia del pensiero economico. Stante l’interesse didattico dei profili dei vari autori qui tracciati, questa escursione nelle teorie economiche moderne si svolge all’insegna di una scelta tematica ben specifica, enunciata nel sottotitolo: il lavoro nella riflessione economico-politica. Scelta che, peraltro, spinge l’autore fino a interrogarsi sul ruolo del lavoro nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, sul suo futuro aperto, e sui compiti politici che questo futuro pone. Ma andiamo con ordine.
Tenendo in mente come chiave di lettura il tema del lavoro e della sua centralità, è possibile vedere più chiaramente gli elementi di maggiore originalità della ricostruzione storica di Bellofiore. Adam Smith, ad esempio, viene sottratto alle banalizzazioni manualistiche o ideologiche che ne fanno semplicemente un paladino del libero scambio, così come alle distorsioni che lo vogliono apologeta del capitalismo industriale. È certamente vero che Smith ascriveva il commercio a una disposizione naturale degli individui a perseguire il proprio interesse. Così come è vero che, per Smith, l’organizzazione del lavoro che si ritrovava nella fabbrica capitalista era quella che assicurava massima occupazione e quindi massimo benessere, e che questi benefici emergevano proprio come effetto involontario di un movente naturale che spingeva gli imprenditori a reinvestire i propri profitti nella fabbrica allo scopo egoistico di accrescerli ulteriormente.
Ma da un confronto coi testi del pensatore scozzese, sostiene Bellofiore, emerge anche la consapevolezza del carattere del tutto storico e accidentale, piuttosto che naturale, dello sviluppo del capitalismo industriale manchesteriano. Il commercio estero, scrive Smith, ha accresciuto la domanda manifatturiera, favorendo il lavoro di fabbrica a scapito di quello agricolo e artigiano e incentivando le concentrazioni operaie. Con conseguenze funeste per la maggioranza della popolazione, cioè per quelle masse operaie costrette a prestare il proprio lavoro sotto padrone e a ottenere, insieme al salario, anche la fatica e la pena (toil and trouble) che il lavoro di fabbrica comporta. Alla luce di queste considerazioni, osserva Bellofiore, siamo lontani dall’immagine di un vate del capitalismo liberista, disposto a trascurare i costi sociali della divisione del lavoro.
Con ciò, tuttavia, non si tratta di apprendere da Smith la lezione di una critica morale al capitalismo. Piuttosto, le evoluzioni successive del pensiero economico – da Mill a Marx al Keynes de Le conseguenze economiche della pace (1919) e delle Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930) – sembrano aver posto l’accento sul tema smithiano dell’accidentalità con cui il perseguimento dell’interesse individuale conduce ad accrescere il benessere sociale attraverso la produzione capitalistica. Così, ad esempio, è possibile inquadrare alcuni capitoli cruciali dei Principi di economia politica (1848) di Mill all’interno del tentativo di dare una risposta a una domanda fondamentalmente smithiana: se il capitalismo è un processo storico-dinamico che prescinde in larga parte dalle intenzioni degli attori economici individuali, come prevenirne le derive incontrollate e le conseguenze nefaste per la popolazione lavoratrice?
Evidenziando le pagine milliane in cui sembrano riecheggiare le constatazioni di Smith sull’imbarbarimento della classe lavoratrice, Bellofiore mostra come la soluzione proposta da Mill sia una paradossale rivalutazione proprio di quello “stato stazionario” che per Smith conseguiva alla caduta del saggio di profitto e comportava quindi una riduzione della ricchezza, contrapponendosi in negativo allo stato “progressivo” di crescita del benessere generale.
La ragione di questo paradosso solo apparente, argomenta Bellofiore, è che Mill vede l’egoismo come un comportamento individuale che è possibile e anzi desiderabile contrastare: la cooperazione, lungi dall’essere un effetto collaterale dell’interesse personale, è per Mill un principio che può prendere il sopravvento sulle leggi dell’economia. A patto, ovviamente, che «i lavoratori prendano nelle proprie mani il loro destino, e vogliano passare dal lavoro salariato al lavoro cooperativo» (p. 68). Ecco allora che lo stato stazionario può presentarsi come una favorevole alternativa alle derive incontrollate dell’accumulazione, e consentire interventi redistributivi.
Considerazioni di questo tipo sembrano dissolvere nell’aria la solidità delle presunte leggi naturali del capitalismo, e prospettare la possibilità che sia l’azione umana – e in particolare l’azione della classe lavoratrice – a prendere il sopravvento sull’economia, conducendola verso scenari piuttosto lontani dal modo di produzione vigente. Con ciò siamo già, evidentemente, su quel terreno di battaglia teorico che è stato particolarmente congeniale a Marx. Ma prima di addentrarsi in una ricognizione di questo pensatore, cui sono dedicati i due capitoli centrali del libro, Bellofiore sembra voler mostrare come anche nel suo più immediato antecessore, Ricardo, si ritrovi la lucida constatazione di una tendenza costitutiva del capitalismo: il «periodico tentativo di ridurre il lavoratore a elemento della produzione in tutto analogo al bestiame; a merce che produce altre merci» (p. 99).
Il capitolo dedicato a Ricardo è uno dei più densi del libro, e si concentra in gran parte sulle interpretazioni successive delle teorie di questo autore. In particolare, come enunciato nel titolo del capitolo – David Ricardo oltre l’interpretazione sraffiana – Bellofiore intende sottrarre il profilo teorico dell’economista inglese all’egemonia della lettura proposta da Piero Sraffa e di quelle successivamente fornite da alcuni allievi di quest’ultimo. Questa esigenza filologica è però motivata da Bellofiore sulla base di un fondamento squisitamente teorico: la constatazione di una “contraddizione” all’interno del pensiero ricardiano. Si tratta, per Bellofiore, di una contraddizione ineliminabile, che i successivi tentativi interpretativi “neoricardiani” hanno tentato invano di ricomporre.
Questa contraddizione fondamentale risiede per Bellofiore nel problema centrale che anima la riflessione di Ricardo, quello di trovare un’unità di misura “assoluta”, cioè invariabile, del valore di una merce. Misura che Ricardo identifica nell’ambigua categoria di “difficoltà di produzione”, cioè, in estrema sintesi, nel sacrificio di lavoro che deve essere sopportato per ottenere quella merce. Sta qui la comprensione ricardiana che il valore origina dalla riduzione della prestazione lavorativa a semplice elemento della produzione di merci. Ma qui sta anche il problema. Questa “difficoltà di produzione”, che si vorrebbe misura invariabile del valore, non può che variare a sua volta con il mutare delle condizioni di produzione, le quali evidentemente comportano una differente distribuzione del lavoro.
Si tratta di una problematica ben presente a Ricardo, che però la lascia significativamente aperta. Nella ricostruzione di Bellofiore, questa questione appare anzi irrisolvibile “dall’interno” della prospettiva ricardiana, come testimonia il fatto che i successivi approcci al problema del valore – inclusi quelli sraffiani o post-sraffiani – hanno imposto di superare l’impostazione di Ricardo. Uno di questi approcci è, naturalmente, la teoria del valore-lavoro di Marx. Ecco allora che più che concentrarsi sulle critiche che Marx stesso muove a Ricardo, ha senso soffermarsi sulla centralità della categoria di “lavoro astratto” nella teoria marxiana. Una categoria che, in ottica di storia del pensiero, può essere vista come un superamento della categoria ricardiana di “valore assoluto”, e come il tentativo di sciogliere l’enigma del valore guardandolo da una prospettiva diversa.
Per Ricardo, il valore assoluto era da ricercarsi nella misura della quantità di lavoro contenuto in una merce. Per Marx, al contrario, è l’acquisto di forza-lavoro da parte del capitalista che trasforma attivamente un attributo umano qualitativo – la forza-lavoro, appunto – in una merce quantificabile da immettere nel processo produttivo per produrre altre merci. Solo in questo modo lavoratrici e lavoratori possono essere inseriti nel processo produttivo: la loro forza-lavoro diviene effettivamente una merce il cui valore è misurabile semplicemente in unità di tempo espresse in denaro, e a cui è corrispondibile un prezzo (espresso nel salario). È questo ciò che Marx chiama “lavoro astratto”, cioè il lavoro spogliato delle specificità delle mansioni in cui si esplica e delle caratteristiche degli individui che lo erogano.
Quello che per Bellofiore è importante sottolineare è come questa astrazione sia un processo dinamico, del quale il capitale monetario impiegato nella compera di forza-lavoro è un soggetto attivo. Grazie a questa compera iniziale, infatti, è possibile innescare un ciclo produttivo di merci, la cui vendita sul mercato permette alla classe capitalistica di ricevere dal processo economico più denaro di quanto ne avesse originariamente immesso. Ma ciò mostra anche come l’impiego di lavoro nella produzione di merci sia solo un segmento di un processo più ampio, che ha inizio con l’erogazione del credito bancario che consente alle imprese di pagare i salari, e termina con lo scambio finale di merci al cui valore è possibile dare espressione monetaria. Un ciclo che ha un’origine e un termine monetari, e che per Bellofiore impone di ascrivere la teoria marxiana del valore-lavoro a quella che egli chiama «teoria macromonetaria della produzione capitalistica».
Ora, è noto come quello che si era inizialmente proposto come uno dei massimi propugnatori novecenteschi della teoria marxiana del valore, Piero Sraffa, abbia poi finito, a prescindere dalle proprie intenzioni, per abbandonarla. Questo, perlomeno, era il bilancio che tra gli altri aveva tracciato Claudio Napoleoni a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Sebbene infatti l’assenza del nome di Sraffa dal titolo dell’opera Smith Ricardo Marx di Napoleoni marchi l’unica differenza con il titolo di questo libro di Bellofiore, il confronto critico di Napoleoni con Sraffa era stato cruciale per il suo approdo a una prospettiva marxiana in teoria economica. La polemica di Napoleoni era rivolta soprattutto alle aperture neoricardiane della teoria sraffiana, che sembravano presentare il valore come una grandezza puramente fisico-naturale, di cui il lavoro umano è solo una delle tante componenti al pari di quelle inanimate. Un “revisionismo” nei confronti della teoria marxiana del valore che poteva costituire un’apertura verso un revisionismo anche politico, in cui veniva a mancare la centralità della lotta allo sfruttamento del lavoro.
A Sraffa è appunto dedicato il capitolo successivo del libro di Bellofiore. Ma più che su Produzione di merci a mezzo di merci (1960), il suo magnum opus, l’autore si concentra sugli inediti dell’economista torinese contenuti nell’archivio degli Sraffa Papers a Cambridge. Il tentativo è qui di superare i reciproci anatemi tra sraffiani e marxisti, come quelli che avevano coinvolto anche Napoleoni e che al tempo potevano sostanziarsi di divergenze effettive nella lettera dei due capostipiti, ma che per Bellofiore non sono più riproponibili alla luce degli sviluppi successivi della teoria economica marxista e delle carte sraffiane ora rese accessibili. Bellofiore propone infatti di seguire le indicazioni contenute negli appunti preparatori in cui Sraffa dimostra, da un certo punto in poi, di comprendere e di accettare la teoria del valore-lavoro di Marx come teoria dello sfruttamento, dichiarando piuttosto di volere con la sua opera semplicemente «tradurre Marx in inglese» e sostituire la metafisica idealistica di Hegel con quella empiristica di Hume quale suo presupposto analitico.
Naturalmente, le intenzioni di chi si cimenta con un’impresa così imponente possono divergere anche radicalmente dai risultati cui perviene nel lavoro finale, specialmente se questo ha una gestazione ultratrentennale, come è il caso di Produzione di mezzi a mezzo di merci. Ma la congettura di Bellofiore è che, contro la vulgata neoricardiana, l’approccio sraffiano alla misura del valore non sostituisca, ma anzi presupponga la teoria marxiana del valore-lavoro e dello sfruttamento. In questo senso, la Production of commodities by means of commodities analizzata da Sraffa può essere altrimenti vista come un processo attraverso cui «commodities are produced by labour out of commodities», secondo un’espressione che si trova tra gli appunti dello stesso Sraffa. A fare la differenza con Marx sarebbe piuttosto la prospettiva da cui si osserva il processo, che per Sraffa è quella di chi scatta una «fotografia» (l’espressione è ancora sua) al termine del periodo di produzione; fotografia che non esclude ma al contrario presuppone il movimento – quello che Bellofiore ha chiamato appunto “teoria macromonetaria della produzione capitalistica”.
* * *
Che conclusioni trarre allora dal ristabilimento di questa teoria e, ancora più in generale, da questo lungo excursus storico sulla centralità del lavoro nella riflessione economico-politica? È utile provare a tirare le fila del discorso prima di affrontare il capitolo conclusivo, celato dietro un confronto con Keynes, e delle due appendici ad esso apposte, che si confrontano con tematiche apparentemente estranee a quelle del corpus del libro – ossia con l’ecologia e con il femminismo. Si è esordito dichiarando che il libro che abbiamo davanti è un testo militante, e si è proseguito specificando che si tratta della militanza di un teorico dell’economia. Ma non si deve pensare con ciò che l’impresa si risolva semplicemente in una lettura originale e “tematica” della storia del pensiero economico, di cui pure si è cercato di dare conto.
Piuttosto, il tema serve come indicazione per guidare chi legge verso alcune considerazioni generali sul rapporto tra lavoro e capitalismo, programmaticamente esposte nell’introduzione. Abbiamo appreso da Smith, spesso dipinto come il teorico dell’individuo economico isolato, che è il posizionamento di classe (cioè la disponibilità di capitale) a permettere all’imprenditore di avviare la produzione di merci da vendere sul mercato per generare profitto e ricchezza. E si è visto, con Ricardo, che questo processo presuppone una certa passività della classe lavoratrice, che deve essere integrata come semplice strumento di produzione. Ma si è visto anche, con questi ed altri autori, come ciò sia reso possibile attraverso dinamiche piuttosto instabili e turbolente, che nel loro dipanarsi mettono capo a esiti in larga parte incontrollati e che devono contemplare la possibilità che la classe lavoratrice si faccia soggetto attivo al loro interno.
Nel capitalismo fordista che ha accompagnato la gran parte del Novecento, la soggettività della classe operaia si è tradotta nella contrattazione sindacale, che ha funzionato come strumento di redistribuzione e allo stesso tempo di “contenimento” del suo stesso protagonismo. L’esito temporaneamente stabile è stato il modello cosiddetto “keynesiano” fatto di interventi statali a sostegno del reddito e dell’occupazione. Ma secondo Bellofiore, anche il crollo di questo sistema, che ha dato seguito all’attuale fase neoliberista, è da ricondursi a una centralità del lavoro – del lavoro inteso come soggetto attivo.
Rifiutando di essere relegata al ruolo di parte attiva limitatamente alla sola redistribuzione, la classe operaia rivendicava un ruolo anche nell’organizzazione del lavoro. Ecco allora che il neoliberismo si configura per Bellofiore come una risposta politica “dall’alto”, cioè da parte dello Stato, a questa pressione. Politiche di restrizione monetaria hanno aumentato il costo del denaro, il che a sua volta ha ridotto il tasso di crescita del reddito nazionale e incentivato un’aggressiva competizione globale tra le imprese. Una competizione ulteriormente favorita dalla riduzione della spesa pubblica e dall’ordine politico interstatale. (Siamo molto lontani, come si vede, dallo “Stato minimo” che l’etichetta di “neoliberismo” sembra suggerire.) L’effetto è quello di una disgregazione della grande impresa e di una conseguente destrutturazione del mondo del lavoro, cosa che ha assicurato il successo della controrivoluzione neoliberista: «la situazione macroeconomica, il primato della finanza, la diffusione della logica di mercato, la ridefinizione delle strategie d’impresa, tutto congiura a rendere garantita e massima la soggezione dei lavoratori attraverso un comando impersonale» (p. 25).
Di fronte a questo scenario, porsi con Bellofiore la questione della possibilità di un suo superamento è già, di per sé una presa di posizione sulla desiderabilità di un tale superamento. Una presa di posizione che si giustifica con l’assunzione di un punto di vista, quello di chi lavora in condizioni incerte e flessibili, e che a sua volta attribuisce un significato politico anche alla questione, di per sé puramente analitica, della centralità del lavoro nel capitalismo. Veniamo così alle conclusioni dell’intero volume, esposte nell’ultimo capitolo nella forma, come si è detto, di un confronto con Keynes.
Nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930), Keynes osservava una fase interbellica in cui la rapidità dell’accumulazione del capitale si accompagnava a una forte disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. Prolungando idealmente questa tendenza, era allora possibile prospettare l’imminente avvento di una società dell’abbondanza in cui lavoratori e lavoratrici avrebbero potuto chiedere e ottenere una quota di quella stessa ricchezza che contribuivano a produrre. Sarebbe stato allora tutt’altro che impossibile immaginare, complice anche l’innovazione tecnologica che rendeva sempre più marginale il lavoro umano, una settimana lavorativa ridotta a quindici ore e turni ridotti a tre ore, secondo una previsione divenuta famosa. Era possibile, insomma, ipotizzare la prospettiva di una “liberazione dal lavoro”. Una prospettiva che si ritrova oggi, secondo una convergenza inedita, nelle posizioni politiche che rivendicano un reddito svincolato dalla prestazione lavorativa, così come nelle tante teorie “accelerazioniste” – una su tutte: il “postcapitalismo” immaginato nel saggio omonimo di Paul Mason (Il Saggiatore, 2018), che delle prospettive economiche di Keynes riprende inconsapevolmente molti tratti.
Nonostante le previsioni di Keynes, però, la centralità del lavoro nell’economia non sembra affatto svanita, tantomeno nell’attuale fase neoliberista del capitalismo. Non viviamo certo la fine del lavoro, scrive Bellofiore, ma «semmai la sua totalizzazione: l’espansione abnorme e mostruosa di un lavoro precarizzato, senza voce, mero fattore di produzione» (p. 357). È alla luce di questa constatazione che vanno inquadrate le riserve di Bellofiore nei confronti delle posizioni “redditiste”, ma anche il confronto con alcune posizioni provenienti dall’ecologismo e dal femminismo.
La centralità della produzione è totalizzante non solo nei confronti dell’attività lavorativa retribuita, ma anche della sfera ambientale e, attraverso la divisione sessuale del lavoro, della sfera della riproduzione sociale. Questa centralità, scrive Bellofiore, non è quindi «un’idea» ma «un fatto oggettivo: duro, materiale, concreto» (p. 27). A questa oggettività così totalizzante, conclude Bellofiore, non si può che contrapporre la rivendicazione qui e ora di un nuovo protagonismo nell’organizzazione sociale e complessiva della produzione. La pur necessaria rivendicazione di un reddito incondizionato non può che accompagnarsi all’altrettanto necessaria rivendicazione della piena occupazione come presupposto per una socializzazione del lavoro, per la liberazione dell’acquisizione di conoscenza e qualificazione (cioè dell’università e della scuola) dalle esigenze dettate dal mercato, perché il lavoro sia il più possibile occasione di realizzazione umana e non, con Smith, puramente toil and trouble, pena e fatica. In una battuta, la liberazione dal lavoro non può che accompagnarsi alla liberazione del lavoro.
Nessun commento:
Posta un commento