giovedì 17 novembre 2016

Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione "civilizzatrice" del capitale.*- Riccardo Bellofiore**

*Da:   https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts  (pubblicato in due parti come: (a) Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione ‘civilizzatrice’ del capitale,  in “Teoria politica”, n. 2, 1991, pp. 69-96; (b) Cambiare la natura umana. Ancora su economia politica e filosofia della storia, “Teoria politica”, n. 3, 1991, pp. 63-98) 
**Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Bergamo 

"Pour que la réalité se dévoile, il faut qu'un homme lutte contre elle."
Jean Paul Sartre, "Matérialisme et révolution", in Situations, I, Paris 1957, p. 213 


1. Introduzione

L'economia politica ha costituito da sempre terreno fertile per la riflessione filosofica. Gli ultimi anni, da questo punto di vista, non fanno eccezione: basta pensare al proliferare di studi di epistemologia economica, o ancora alla questione della relazione tra etica ed economia. Il problema che vorrei affrontare nelle pagine che seguono è invece di quelli un po' desueti: la ricerca bibliografica difficilmente registrerebbe titoli recenti; l'inglese non sarebbe forse la lingua egemone; la letteratura definibile in senso lato come empirista e liberale sarebbe una componente importante ma non esclusiva. 

Si tratta, per dirla in breve ed un po' enfaticamente, di ripercorrere le tappe principali di quella linea di pensiero che si è interrogata sulla missione "civilizzatrice" e sul ruolo storico del capitale. Di riandare, dunque, a quegli autori che hanno visto nel primato dell'economico un problema, sino in alcuni casi ad auspicare, o a temere, un suo possibile superamento. E che, proprio perché questo era il loro tema, si sono trovati a fare affermazioni impegnative sulla "natura umana", e sul "significato della storia". Terreno che altri giudicherà scivoloso, e che senz'altro lo è: ma che comincia ad apparirmi culturalmente, e politicamente, ineludibile, per ragioni che spero saranno più chiare alla fine di questo scritto. Certamente in questa luce l'economia politica si confonde con la filosofia della storia e con la filosofia morale; l'indagine sulle leggi di funzionamento del sistema sfocia nella questione del "senso" del corso storico, si confonde con la discussione sulla "giustificazione" del capitalismo - come vedremo, le due cose sono anzi per molti degli autori che considererò due facce della stessa medaglia. 

Il metodo che adotterò sarà quasi sempre quello di far parlare direttamente i testi. Metodo soggettivo ed arbitrario quant'altri mai, al di là dalle apparenze: benché poco di ciò che dirò pretenda di essere originale, la selezione e il percorso che proporrò presuppongono un filtro interpretativo molto forte, che rimarrà però in buona misura implicito. Il gioco, o le buone regole, della conversazione intellettuale richiedono che io mostri di credere fino in fondo alle ipotesi che avanzo: ciò non toglie che - trattandosi di un tema che costringe ad abbandonare i sicuri recinti degli specialismi - la critica sia la benvenuta.

2. Migliorare la propria posizione. Natura e storia in Smith.

"Nessuno, se non un mendicante, sceglie di dipendere soprattutto dalla benevolenza dei suoi concittadini."
Adam Smith, La Ricchezza delle nazioni. Abbozzo (ca 1763), Boringhieri, Torino 1959, p. 42


2.1. La  filosofia morale.

E' ormai riconosciuto che il punto di partenza della teoria economica di Smith va individuato in quell' originale compromesso tra le posizioni contrapposte di Hobbes e Hume cui  l'autore scozzese approda nella sua filosofia etica: un compromesso di cui la Teoria dei sentimenti morali è il frutto più maturo, e senza il quale la Ricchezza delle nazioni sarebbe incomprensibile.

Nello stato di natura di Hobbes, i liberi individui isolati sono mossi esclusivamente da moventi egoistici, sicché la relazione tra di essi è definibile come una guerra di tutti contro tutti. Qualora lo stato di natura si realizzasse nella sua purezza, qualsiasi convivenza sociale si rivelerebbe impossibile. La società civile nasce in conseguenza dell'alienazione allo Stato dei propri poteri naturali: della rinuncia all'agire secondo passione, e dell'istituzione di un patto secondo ragione. Si tratta, dunque, di una costruzione artificiale. Dell'esito volontario di una convenzione, o di un contratto, tra soggetti calcolanti. 

La critica di Hume a Hobbes ha inizio con il rifiuto della finzione di uno stato di natura e con il riconoscimento di una dualità psicologica fondamentale. Accanto al linguaggio dell'egoismo, Hume individua infatti un "sentimento" originario di natura opposta allo spirito di cupidigia; un sentimento che spinge alla realizzazione del bene (o dell'utilità, o della felicità) individuale e sociale, e che è la fonte del giudizio morale. Tale sentimento è la "simpatia", o "benevolenza". L'etica di Hume si qualifica così come rigorosamente altruistica: la generale diffusione di un "senso di umanità", e la possibilità dell'individuo di giudicare la propria azione come se fosse uno spettatore imparziale, fanno sì che il comportamento virtuoso possa aver luogo non in circoli ristretti ma in società allargate.L'egoismo, il self-love, appare 
invece come eticamente neutro.

Lo sviluppo ed il rovesciamento che Smith opera rispetto a Hume possono apparire in piena evidenza una volta che si sottolinei come per Smith l'egoismo è il mezzo essenziale per la costituzione concreta di quel legame generale tra gli uomini, di quella "società" in senso proprio, che dovrebbe essere il luogo dove si esercita il comportamento morale di Hume. Infatti, il meccanismo impersonale del mercato - l'interazione tra i mercanti spinti esclusivamente dal perseguimento dell'interesse individuale - produce una accelerazione della crescita della ricchezza materiale. Il benessere di ciascuno diviene funzione del lavoro di sconosciuti. 

In quest'ottica l'egoismo può caricarsi, sia pure mediatamente, di un suo valore "morale", per un duplice ordine di ragioni. La reale "possibilità" ed "universalità" dell'etica altruistica di Hume, come etica non particolare ma comune al genere umano, dipende dal generalizzarsi dello scambio: in altri termini, se si guarda a ciò che avviene nella sfera economica, la "guerra di tutti contro tutti", lungi dal disgregare la società, ne pone le fondamenta. Inoltre, l'inclusione nel mondo del lavoro dei poveri, trasformati da mendicanti in salariati, e la crescita del benessere materiale goduto da tutti gli ordini della società, sono entrambi l'effetto - certo inintenzionale ma cionondimeno positivo - del libero confliggere dell'avidità dei singoli. 

La presenza di questi due temi - la società "progredita" è una società di mutua e generale dipendenza materiale; un paese è "civile" se la prosperità è diffusa tra tutte le classi - è evidente sin dalle prime pagine della Ricchezza delle nazioni (1776). Per quanto riguarda la sempre maggiore integrazione sociale propria dell'epoca moderna, si vedano per esempio questi due brani:

"In una società incivilita" l'uomo "ha bisogno in ogni momento della cooperazione e dell'assistenza di moltissima gente, mentre tutta la vita gli basta appena per assicurarsi l'amicizia di poche persone." In quasi tutte le altre razze animali l'individuo giunto a maturità è del tutto indipendente, e nel suo stato naturale non ha bisogno dell'assistenza di altre creature viventi. L'uomo ha invece quasi sempre bisogno dell'aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola benevolenza; avrà molta più probabilità di ottenerlo volgendo a suo favore l'egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo ciò che egli chiede." (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano 1973, p.19)

"senza l'assistenza  e la cooperazione  di molte migliaia  di persone, l'ultimo degli abitanti di un paese civile  non potrebbe mai godere, come ora di norma gode, di un tenore di vita che noi a torto riteniamo semplice e facile ad aversi. Sembrerà certo tale, a paragone del lusso più sfrenato di un gran signore; pure, è probabile che da questo punto di vista, la distanza che separa un principe europeo da un contadino industrioso e frugale è meno grande di quella tra quest'ultimo e i vari re africani, padroni assoluti della vita e della libertà di diecimila selvaggi nudi."(Ricchezza, p. 16)

Non meno netto è il legame che Smith istituisce tra la società "progredita" - quella società dove la divisione del lavoro ha preso piede al punto da condurre ad una specializzazione tendenzialmente senza limiti - e la generale diffusione del benessere materiale anche tra gli appartenenti alle classi più povere:

"La grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del lavoro, è all'origine, in una società ben governata, di una generale prosperità che estende i suoi benefici fino alle classi più basse del popolo. Ogni operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità, e dal momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente nella stessa situazione, è in grado di scambiare una grande quantità dei suoi beni con una grande quantità dei beni degli altri, oppure, che è lo stesso, con il prezzo di questa quantità. Egli li fornisce copiosamente di ciò di cui hanno bisogno ed essi fanno lo stesso con lui, sicché una generale abbondanza si diffonde fra tutti i diversi ceti sociali." (Ricchezza, p. 15) 

Queste tre citazioni nascondono tra le proprie righe il problema che la società moderna pone a Smith, e le linee generali della soluzione che egli avanza. Il modo con cui l'uno e l'altra sono esposti ci consentono di cogliere quale sia per Smith la giustificazione storica della "grande società", del modo di produzione capitalistico. E' a queste tre questioni che dedicherò questa sezione e le due seguenti.


2.2. Il problema: ineguaglianza e benessere.

Il problema di Smith è rivelato dal confronto tra la disparità di benessere che separa ricchi e "poveri che lavorano" all'interno della società progredita (il principe europeo e il contadino industrioso), e il maggiore "agio" che separa il lavoratore a giornata dai capi di una società arretrata. La diseguaglianza propria della "società commerciale" non si accompagna solo al comprensibile lusso dei proprietari - il cui privilegio si esprime nella condizione di non lavoro e nella possibilità di comandare, di impiegare per il proprio utile, il lavoro di altri. Essa si accompagna anche, più misteriosamente, ad un continuo miglioramento della condizione degli strati più bassi e numerosi della popolazione, i lavoratori non proprietari. Vi è qui un contrasto significativo con lo stadio "rozzo e primitivo", dove ognuno è proprietario tanto delle condizioni della produzione quanto del prodotto del proprio lavoro; dove non esistono classi che non lavorano; e dove vige una generale eguaglianza. Eppure, nota Smith, in tale situazione, ad essere condivisa non è, come ci si aspetterebbe a prima vista, l'abbondanza ma la miseria. 

Insomma: le società arretrate hanno come destino la stagnazione e la fame; viceversa, la società del mercato e del capitale garantisce la crescita della produzione, l'aumento della popolazione lavoratrice, una generale diffusione del benessere materiale. Questa considerazione - che è spesso l'alfa e l'omega di una visione apologetica della società capitalistica - è invece, per Smith, l'enigma che l'analisi deve sciogliere. Già nell' "Introduzione"  della Ricchezza delle Nazioni  si legge che:

"Nelle nazioni selvagge di cacciatori e pescatori, ogni individuo in grado di operare è più o meno impiegato in un lavoro utile con cui si sforza di provvedere alle necessità e ai comodi della vita . . . Pure, tali nazioni vivono in una povertà così orribile che soltanto per bisogno si trovano spesso ridotte, o almeno credono di esserlo, alla necessità di eliminare bambini, vecchi e ammalati inguaribili . . . Nelle nazioni civili e floride, all'opposto, sebbene una gran quantità di gente non lavori affatto, e molte di queste persone consumino il prodotto di un lavoro dieci e spesso cento volte maggiore della maggior parte di quelli che lavorano, pure il prodotto complessivo del lavoro sociale è così grande che tutti gli individui ne risultano spesso abbondantemente provvisti." (Ricchezza, p.3-4)

Nell' Abbozzo (1763) Smith era stato ancora più esplicito nell'individuare la contraddizione della "grande società" contemporanea tra "ineguaglianza nella proprietà" e "universale benessere" (p.26), e nello svelare il suo punto di vista:

"Non è certo molto difficile spiegare come avvenga che in una società evoluta, il ricco e il potente si procaccino gli agi e tutto ciò che è necessario per vivere, meglio di quanto non possa fare qualsiasi persona che viva da sola  allo stato selvaggio. E' molto facileimmaginare che colui che può, in ogni tempo, dirigere ai suoi propri fini il lavoro di migliaia di uomini debba essere provvisto di tutto ciò di cui ha bisogno meglio di chi dipende dalla propria ed esclusiva attività. Ma non è così facilmente comprensibile come avvenga che il contadino e il lavoratore siano egualmente meglio provvisti. In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori . . . Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto della propria attività. Non ci sono tra loro né padroni, né usurai, né esattori di tasse. Potremmo quindi naturalmente attenderci - se l'esperienza non ci dimostrasse il contrario - che ciascuno di essi debba godere degli agi e di tutte quelle cose che sono necessarie per vivere, in misura maggiore che non gli strati inferiori del popolo in un paese civile." (Abbozzo, p. 18-19)

Nella società commerciale chi lavora è soggetto ad una "enorme defalcazione" sicché "a quelli che lavorano di più tocca di meno" (nelle Lezioni di Glasgow  (1762-1763) è detto, sullo stesso tono: "colui che sopporta, per così dire, il peso della società, è quello che ne trae i minori  vantaggi " (incluso in Claudio Napoleoni, Smith, Ricardo Marx, Boringhieri, Torino, 19732, p. 178)). Eppure, anche chi è "schiacciato da una così opprimenteineguaglianza" gode di una "maggiore ricchezza e abbondanza di beni" rispetto ai membri di una società "selvaggia" (p. 20-21). 


2.3. La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio.

La soluzione di Smith fa perno sulla divisione del lavoro: un lavoro "sociale", specializzato ed adibito ad una unica mansione, ad una attività particolare, produce più di quanto produrrebbe il lavoro di un produttore "isolato". L'aumento della produttività media consente il mantenimento sia di "padroni", "mercanti" e proprietari fondiari, sia di oziosi e improduttivi. Ma consente anche di soddisfare sempre meglio i bisogni naturali, le necessità fondamentali (cibo, vestiario e riparo), tra le classi più umili. La ragione è costituita dal fatto che ciò che resta al lavoratore è un prodotto comunque maggiore di quello che egli si sarebbe procurato con un lavoro non diviso, anche tenendo conto delle "deduzioni" del profitto e della rendita. L'estrazione di un sovrappiù nella "grande società" si accompagna per questa via ad un miglioramento, quantitativo e qualitativo, della sussistenza rispetto alle società primitive, nelle quali la divisione del lavoro è solo ai primi passi, ed in particolare rispetto alla condizione del lavoro non diviso:

"Quando il lavoro è così diviso, e una così grande quantità di lavoro viene eseguita in proporzione da un solo uomo, il sovrappiù, ossia ciò che supera quanto è necessario al sostentamento delle persone impiegate, è considerevole, e ognuno può ottenere nello scambio quattro volte quello che gli sarebbe stato possibile se avesse eseguito il lavoro interamente da solo. Per questa via il bene prodotto è accessibile a un prezzo molto più basso, e il lavoro diviene invece molto più caro." (Lezioni, p. 179)

Come si sa, la divisione del lavoro dipende per Smith dallo scambio, per così dire, tanto a monte quanto a valle. A valle, perché la divisione del lavoro, e dunque l'innalzamento della produttività, sono tanto più approfonditi quanto maggiore è l'estensione del mercato: dunque, quanto maggiori sono le aspettative di profitto degli imprenditori. A monte, perché la divisione del lavoro trova la sua sorgente in una inclinazione, "naturale" e "comune a tutti gli uomini", al baratto e allo scambio: la quale a sua volta, come recitano le Lezioni di Glasgow, può essere ricondotta al "desiderio di persuadere, così caratteristico della natura umana" (p. 183). 

Abbiamo già visto, da una delle citazioni dalla Ricchezza delle Nazioni, che, a differenza delle altre specie animali, l'uomo ha bisogno dell'assistenza dei suoi simili. Tale affermazione è peraltro ambigua, nel testo di Smith. Il bisogno di cooperazione e assistenza viene infatti interpretato a chiare lettere da Smith come una condizione propria della società "progredita", delle nazioni "civili"; al tempo stesso, l'autore scozzese sembra suggerire una tesi alternativa, quella secondo cui "quasi sempre" l'uomo dipende dai propri simili (d'altronde, già nella Teoria dei sentimenti morali  Smith aveva sostenuto che "l'uomo può vivere solo in società"). 

Credo che questa duplicità possa essere sciolta se si coglie che per Smith la società di mercato, come mutuo nesso materiale, realizza pienamente nel corso della storia la dipendenza dell'uomo dall'uomo, corrispondente alla "natura". Anche qui - sulla scorta della lettera del 1755 all' "Edinburgh Review" in cui Smith commenta il Discorso sull'ineguaglianza  del filosofo ginevrino - la posizione di Smith può essere interpretata come un compromesso tra la tesi di Mandeville e quella, appunto, di Rousseau:

"Il Dr. Mandeville rappresenta lo stato primitivo del genere umano come il più triste e il più miserabile che si possa immaginare. Rousseau, al contrario, lo considera come il più felice e il più conforme alla nostra natura. Entrambi tuttavia ritengono che nell'uomo non vi sia alcun istinto che l'induca necessariamente a ricercare la società come tale. Secondo il primo, è la miseria del suo stato originario che costringe l'uomo a far ricorso a questo sgradevole rimedio. Secondo l'altro un seguito di eventi sfortunati" (trad. in Lucio Colletti, Ideologia e società, Laterza, Bari 1970, p. 265)

Impiegando le parole stesse di Smith, la nostra lettura è che per l'autore scozzese lo stadio "rozzo e primitivo" è realmente "il più triste e miserabile"; davvero la scarsità stringe l'uomo nella sua morsa. Ciononostante, la debolezza - per così dire - dell'individuo isolato rispetto alla natura non è il primo motore del legame sociale. E', al contrario, la presenza, già nella condizione originaria, di un "istinto che l'induce necessariamente a ricercare la società come tale" - è l'inclinazione allo scambio che gli è propria in quanto essere dotato di ragione e linguaggio - che dà conto della spinta a vivere in società. In altri termini: nello stato primitivo, la socialità è sì essenziale, ma esiste solo in potenza. Da questo punto di vista, la natura umana appare un prodotto storico, non un dato di partenza: ed il meccanismo che consente che essa giunga a maturità è appunto la divisione del lavoro.

La situazione originaria, in cui l'uomo vive in comunità, è una situazione per un verso di eguaglianza e scarsità, per l'altro di indipendenza reciproca.  In essa gli individui sono egoisti, ma spinti alla comunicazione: autonomi materialmente, dipendono però dal giudizio dell'altro. In questo senso, si può ben qualificarli come animali sociali. Lo "scambio" intellettuale si tramuta ben presto nel commercio vero e proprio, e nel volgere a proprio vantaggio l'egoismo degli altri:

"Se un qualche animale intende effettuare uno scambio, per così dire, od ottenere qualcosa dall'uomo, può riuscirvi solo in grazia del suo affetto e della sua gentilezza. L'uomo fa, nella stessa maniera, leva sull'egoismo dei suoi simili, offrendo loro un motivo sufficiente di tentazione per ottenere da essi ciò che vuole. Un siffatto comportamento può così esprimersi: "Dammi ciò che voglio, e avrai ciò che vuoi". Al contrario del cane, l'uomo non spera qualcosa dalla benevolenza, bensì dall'egoismo." (Lezioni, p. 183)

Su questa base si erige quella divisione del lavoro per cui alla fine "ogni uomo vive di scambi, o diventa in certa misura un mercante" (Ricchezza, p. 26) e che fa sì che l'egoismo divenga il cemento della società. La divisione del lavoro è la conseguenza - certamente "lenta e graduale" (dunque, non preordinata; inintenzionale) ma cionondimeno "necessaria" - "delle facoltà della ragione e della parola" (Ricchezza, p. 16). La storia si configura qui come il progressivo svolgimento di un principio originario e benefico, in forza del quale l'egoismo proprio dell'uomo, il fare dell'altro un mezzo per i propri scopi, diviene a sua volta - attraverso l'impulso che dà al processo di specializzazione - il tramite essenziale per il completo dispiegarsi di una altrettanto originaria tendenza alla integrazione o socialità. 

Se, come spesso viene fatto, si attribuisce troppo facilmente a Smith l'identificazione tra la "società commerciale" di cui parla nei primi due libri della Ricchezza delle nazioni ed il capitalismo emergente che ha concretamente di fronte, il passo è breve per farne senza troppi complimenti il sostenitore della razionalità e naturalità del mondo che esce dalla rivoluzione industriale. Il capitalismo si configurerebbe, in questa lettura, come la fine della storia e la realizzazione della natura. 
Le cose, come vedremo, non sono così semplici. Prima però di dar conto di questo nostro giudizio, conviene analizzare con più attenzione le tensioni contrastanti che attraversano la visione della natura umana di Smith, e la sua interpretazione della divisione del lavoro: tensioni che trovano il loro momento di cristallizzazione nella teoria del valore-lavoro comandato.


2.4. Ancora sulla filosofia morale

Prima di procedere oltre, vale la pena di notare che la naturale "socialità" dell'essere umano si riverbera sullo stesso egoismo, che è per Smith inseparabile da una dimensione relazionale. E' mettendo al nostro servizio l'egoismo degli altri che possiamo perseguire il nostro interesse individuale. Ma, più fondamentalmente, la molla universale che ci spinge è "migliorare la nostra posizione":

"Da dove dunque nasce quell'emulazione che corre attraverso tutti i diversi ceti degli uomini, e quali sono i vantaggi che ci proponiamo con quel grande obiettivo della vita umana che chiamiamo migliorare la propria posizione? Essere osservati, che ci si occupi di noi, che ci si informi di noi con simpatia, con compiacimento e approvazione, questi sono i soli vantaggi che possiamo proporci di ottenere con essoE' la vanità, non l'agio o il piacere che ci interessa." (Teoria dei sentimenti morali, p. 50, cit. in Maria Luisa Pesante, Economia e politica , Angeli, Milano 1986, p. 20).

Lo stesso egoismo rimanda dunque al principio originario della socialità umana, la dipendenza dallo sguardo dell'altro. 

"Il desiderio di migliorare la propria condizione", "di norma calmo e scevro di passionalità, è presente in noi fin dalla nascita e non ci abbandona mai fino alla tomba". "Il mezzo più comune e ovvio" con cui tale desiderio si realizza è "un aumento del patrimonio" (Ricchezza, p. 336). Ogni individuo "mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni": curando il proprio interesse, dà luogo alla prosperità pubblica. Perseguendo l'egoismo, porta al massimo grado la socialità.

Siamo ben lontani dall'individuo isolato di Hobbes, o - se è per questo - anche dall' "amor proprio" di Rousseau. La rivalità nel commercio dell' uno con l'altro conduce ad un addolcimento del carattere e frena le passioni: l' uscita da quello stato permanente di guerra e di dipendenza servile che caratterizza l'ordine feudale è in qualche misura essa stessa un portato della ricerca del proprio utile individuale. Smith nega come corrispondente alla natura una originaria autonomia dell'uomo isolato, e afferma anzi una sua essenziale socialità. La struttura relazionale del self-love e l'affermazione dello scambio, prima intellettuale e poi materiale, come nesso sociale "naturale", fanno dell'autore scozzese qualcosa di molto diverso da un individualista radicale.


3. Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio "rozzo e primitivo" alla "grande società".

"Sono sempre disposto a correre il rischio di essere noioso pur di essere sicuro di essere chiaro. E dopo aver fatto tutti gli sforzi possibili per essere chiaro, potrà ancora risultare qualche oscurità su un argomento per sua natura estremamente astratto."
Adam Smith, La Ricchezza delle Nazioni , p. 31

3.1. Il lavoro dell'uomo isolato

La rottura di Smith con la posizione che afferma una primitiva asocialità dell'uomo è peraltro contraddetta da un motivo altrettanto potente della sua teoria economica, il motivo del lavoro. 

Quando Smith deve spiegare la generale diffusione del benessere nella società mercantile ricorre agli effetti della divisione del lavoro: nella sua argomentazione, un ruolo chiave è giocato dal paragone tra la produttività del lavoro diviso e quella del "lavoro dell'uomo isolato". Il lavoro dell'uomo isolato segnala l'inatteso riemergere di tracce della problematica dello stato di natura in Smith. Per un verso, attraverso quel paragone Smith effettua un confronto tra, da un lato, la situazione di isolamento degli individui autosufficienti nella produzione e nel consumo che è propria dello stato originario e, dall'altro lato, una situazione pienamente storica quale quella della "grande società", in cui gli individui sono integrati nel consumo e il lavoro è diviso. Per l'altro verso, la possibilità stessa del paragone  presuppone la presenza di un carattere della attività pratica di appropriazione della natura che permane immutato nella storia. Vediamo meglio.

Il "lavoro dell'uomo isolato" rappresenta un caso estremo, quello in cui non esiste specializzazione produttiva, ed in cui dunque il lavoro di ognuno deve provvedere interamente ai propri bisogni; un caso estremo che è approssimato dalle società arretrate nelle quali la divisione del lavoro è limitata e gli scambi sporadici. Ma si tratta anche di un caso che rende evidente la dipendenza dell'uomo: questa volta però dalla natura, prima e più fondamentalmente che dall'altro uomo. E' qui, nel lavoro come originario confronto tra l'uomo solo e la natura, che affonda le sue radici il primato che la attività di trasformazione dell'ambiente materiale ha nella teoria economica di Smith. La ragione può essere detta in breve. Per quanto il passaggio dal lavoro isolato e indipendente al lavoro sociale e diviso aumenti a dismisura la capacità produttiva, cioè incida sul risultato del lavoro, tale passaggio non muta però la natura del lavoro stesso. Nella fabbrica moderna il lavoro, pur ripartito su più persone, rimane sostanzialmente eguale, tanto nel "sacrificio" che comporta quanto nelle modalità di esecuzione, rispetto a quello della società primitiva. 

Questo "naturalismo" di Smith - se così lo possiamo chiamare - è il contenuto rimosso che riemerge ripetutamente tanto nella sua visione della divisione del lavoro quanto nella sua teoria del valore-lavoro comandato, nonostante e contro l'indubbia centralità dello scambio tanto per l'una quanto per l'altra. 

3.2. Lavoro comandato e scambio

Vediamo, per cominciare, come ciò sia vero nel caso della teoria del valore.

Il valore è dato per Smith dalla quantità di lavoro che la merce può comprare o comandare, cioè dal potere d'acquisto di ciò che si è prodotto e venduto, misurato in lavoro:

"Il valore di una merce, per la persona che la possiede e che non intende usarla o consumarla lei stessa ma scambiarla  con altre merci, è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa la mette in grado di comprare o di comandare. Il lavoro è dunque la misura realedelvalore di scambio di tutte merci. Il prezzo reale di ogni cosa, ciò che costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela, è la pena e il disturbo di procurarsela. Il valore reale  di ogni cosa per chi se l'è procurata e ha bisogno di collocarla o di scambiarla con qualche altra è la pena e il disturbo che essa può risparmiargli imponendoli ad altri." (Ricchezza, p. 32) 

Nello stadio "rozzo" e "primitivo" che precede l'accumulazione del capitale e l'appropriazione della terra , ed in cui quindi non esistono profitto e rendita, il lavoro comandato è identico al lavoro contenuto, cioè al lavoro che è stato necessario mettere in movimento per ottenere quella data merce. L'eguaglianza tra tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto, come anche l'eguagliamento di lavori di diversa faticosità o qualificazione, sono garantiti dallo scambio e dalla mobilità del lavoro. Nel caso di divergenze dei valori di scambio dai lavori contenuti, converrebbe infatti spostarsi dalle produzioni in cui tale divergenza è negativa a quelle in cui essa è positiva. Il processo concorrenziale fa dunque sì che il "valore di scambio" della produzione, ovvero il lavoro comandato, e il "valore del lavoro", ovvero la spesa necessaria a pagare il lavoro contenuto, siano identici. Smith descrive tale situazione dicendo anche che l'intero prodotto è esaurito dal salario. 

La divisione del lavoro, facendo emergere un sovrappiù che è sottratto al lavoratore ed appropriato da capitalisti e proprietari fondiari, dà luogo ad una eccedenza del lavoro comandato sul lavoro contenuto. Il valore di scambio di una merce ora comprende anche il profitto e la rendita, ed è dunque tale da poter acquistare merci in quantità superiore all'equivalente della spesa in salari sostenuta per la sua produzione. La cosa può essere espressa in due modi. Lo scambista riceve ora sul mercato più lavoro di quanto ne offra, perché la merce che vende ha richiesto meno lavoro di quelle che ottiene in cambio. O, alternativamente - dato il valore del lavoro (il salario) - con il ricavato della vendita della propria merce egli può ora "mettere in movimento" più lavoratori di quanti ne erano stati necessari per produrre quanto ha venduto. Nel primo caso, si sottolinea che dietro lo scambio di merci vi è indirettamente uno scambio di lavoro (oggettivato). Nel secondo caso, si sottolinea invece che in conseguenza dello scambio di merci è possibile acquistare direttamente sul mercato del lavoro più lavoro (vivo).

E' stato spesso rilevato come l'argomentazione di Smith nasconda un circolo vizioso, in quanto fa dipendere il valore di scambio dal livello del salario, e dunque da un valore esso stesso. Ciò è senz'altro vero. Ma -  riguardato non dal punto di vista di una teoria della determinazione dei prezzi relativi, ma dal punto di vista di una teoria che si interroghi sulla natura dello scambio e del capitale - il ragionamento di Smith è tutt'altro che incoerente. La definizione del valore come lavoro comandato è valida, per Smith, in qualsiasi stadio della società. Essa rimanda senza equivoci al primato della dimensione sociale nella sua visione della natura umana: infatti, quella definizione non fa che ribadire l'universalità della originaria "disposizione a trafficare"; e mette in evidenza le conseguenze della tesi smithiana che quella inclinazione trova la sua piena realizzazione solo in epoca moderna. 

Lo sforzo ricorrente del quinto e del sesto capitolo del primo libro della Ricchezza delle Nazioni è quello di generalizzare il punto di vista dello scambio. Si pensi alla circostanza singolare per cui Smith, quando deve spiegare il valore nello stadio rozzo e primitivo, non procede nel modo che potrebbe apparire più lineare. Non lo definisce cioè come il tempo di lavoro contenuto nella merce stesso. Egli mantiene piuttosto la spiegazione generale: lo determina, dunque, come il tempo di lavoro che la merce comanda nello scambio tra produttori indipendenti, e introduce solo a mo' di specificazione la considerazione che, nelle condizioni istituzionali delle società primitive, tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto sono identici. Smith è insomma costretto a interpolare nella descrizione dello stadio "rozzo e primitivo" caratteristiche "moderne", come la presenza di uno scambio di merci non occasionale ma ripetuto e la compiuta affermazione del meccanismo concorrenziale: condizioni entrambe necessarie per poter giustificare l'affermazione che tipi diversi di lavoro vengano effettivamente equiparati nella vita di tutti i giorni, e che dunque il tempo di lavoro possa costituire la base del valore. 

All'interno della stessa logica, ed in modo del tutto analogo, il valore del prodotto del "lavoro dell'uomo isolato" è determinabile vedendo in quest'ultimo non il produttore autonomo ma lo scambista:  immaginando, cioè, "l'uomo solo" come un soggetto che scambi con se stesso. Ed anche in questo caso, Smith anticipa al produttore indipendente categorie distributive moderne, facendone un percettore di di salario.

3.3. La ricchezza come potere: lavoro comandato e disuguaglianza

In generale, per l'individuo il "valore reale di ogni cosa" è "la pena e il disturbo che essa può risparmiargli imponendola ad altri". La ricchezza è dunque non solo un insieme di valori d'uso destinati al consumo ma anche e soprattutto potere sull'altro, comando sul suo lavoro:

"La ricchezza, come dice Hobbes, è potere. Ma la persona che si procura una grande fortuna o la eredita non deve necessariamente procurarsi o ricevere in eredità un qualche potere politico, civile o militare. La sua fortuna può forse fornirgli i mezzi di procurarsi l'uno e l'altro, ma il semplice possesso di quella fortuna non se li porta dietro necessariamente. Il potere che quel possesso si porta dietro immediatamente e direttamente è il potere di comprare, cioè un certocomando su tutto il lavoro, ovvero su tutto il prodotto del lavoro che si trova sul mercato. La sua fortuna è maggiore o minore in proporzione esatta all'estensione di quel potere: ovvero alla quantità sia del lavoro di altri uomini sia, che è lo stesso, del prodotto del lavoro di altri uomini che esso lo mette in grado di comprare o di comandare. Ilvalore di scambio di ogni cosa deve essere sempre esattamenteuguale all'estensione di questo potere che esso conferisce a chi lo possiede." (Ricchezza, p. 33)

In origine, quando il prodotto appartiene interamente al lavoratore, questo potere è reciproco e non in contrasto con l'eguaglianza. Fuori dallo stadio "rozzo e primitivo", la presenza di deduzioni dal prodotto del lavoro rivela invece l'esistenza di classi che non lavorano: di classi che possono attribuire ad altri la "pena e il disturbo" della produzione della ricchezza. Per queste classi, la ricchezza come consumo è funzione della ricchezza come potere diseguale. Nella società "progredita", il sovrappiù può essere destinato ad un impiego produttivo: può, cioè, essere reinvestito nell'acquisto di lavoratori che producono altra merce. Di conseguenza, dopo la vendita il capitalista non solo tornerà in possesso del valore anticipato come monte salari, ma otterrà anche una eccedenza, nella forma di un profitto lordo (che eventualmente spartirà con il proprietario fondiario, pagandogli una rendita). In tal modo, "quell'oggetto o, il che è lo stesso, il prezzo di quell'oggetto, può successivamente, se necessario, mettere in moto una quantità di lavoro uguale a quella che lo ha originariamente prodotto"(Ricchezza, p. 323). 

Da questo angolo visuale, la teoria del valore-lavoro comandato esprime, in modo del tutto adeguato, la prospettiva dello scambista in un mercato capitalistico: una prospettiva che, per quanto abbiamo detto sin qui, è da Smith resa universale. Detto altrimenti: Smith, facendo valere "all'indietro" la categoria del lavoro comandato, è in grado di individuare e sottolineare lo slittamento che la prospettiva dello scambista subisce quando si passa da una società di produttori indipendenti ad una società capitalistica.

Al centro del quadro è ora la classe capitalistica. Nella società moderna, chi acquista dopo aver venduto non è più soltanto il lavoratore diretto, ma è anche e soprattutto un "mercante", un "padrone", o "imprenditore". Per il primo le cose, dal punto di vista del tempo di lavoro comandato, non sono cambiate: il lavoratore compra ancora merci il cui costo salariale è identico a quello delle merci che egli stesso produce in quanto operaio; per lui il lavoro comandato continua ad essere uguale al lavoro contenuto. Per il "padrone", invece, è tutto diverso.  Il fatto che egli percepisca un profitto rivela che egli è in grado di far lavorare altri per sé, che può procurarsi "le cose necessarie e comode della vita" non mediante il lavoro ma mediante il comando sul lavoro, sia oggettivato che vivo. Eppure, paradossalmente,  il desiderio di arricchire della classe imprenditoriale invece di condurre i suoi membri ad un consumo opulento, si traduce in investimento, e quindi in un aumento del consumo di una massa crescente di "poveri che lavorano". 

La ricchezza come potere di pochi finisce per questa via, che è la via dell'accumulazione - della parsimonia, cioè dell'astensione dal consumo; della divisione del lavoro; del reinvestimento del profitto, e dell'allargamento della popolazione lavoratrice - per conciliarsi con la ricchezza come benessere materiale di tutti.    

3.4. Lavoro comandato e produzione                 

La lettura della teoria del valore-lavoro comandato come teoria dello scambio ha posto l'accento sul mutamento di senso, da egualitario a disegualitario, del termine "comando" nell'espressione "comando sul lavoro". Si tratta - potremmo dire - di una teoria del cambiamento, che proietta  all'indietro, sullo stadio "rozzo e primitivo", le caratteristiche proprie della società moderna: lo scambio come comando sul prodotto del lavoro dell'altro; e, appunto, il comando sul lavoro in senso stretto, nel mercato del lavoro e nelle fabbriche.

Ma il fatto che Smith insistentemente intenda come sinonimi il comando sul prodotto del lavoro ed il comando sul lavoro ci dice anche qualcosa d'altro. Ci induce a concentrare l'attenzione su quel "lavoro" che è l'oggetto del comando. Quel lavoro che, per Smith, si configura sempre e comunque come una lotta con la materia, in buona misura immutabile e immutata dallo stato originario alla società moderna. La lettura della teoria del valore-lavoro comandato è ora l'opposto della precedente: vista come teoria della produzione, essa è una teoria della permanenza. Proietta sulla società moderna l'ombra del "lavoro dell'uomo isolato":

"In ogni tempo e luogo, uguali quantità di lavoro si può dire abbiano uguale valore per il lavoratore. Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d'animo, al livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa quota del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità . . . In ogni tempo e luogo , è caro ciò che è difficile da raggiungere, ovvero che costa molto lavoro per procurarselo; ed è a buon mercato ciò che si può avere facilmente o con pochissimo lavoro."(Ricchezza, p. 35)

La prospettiva, adesso, è cambiata: non è più quella dello scambista capitalista: di colui che acquista lavoro oggettivato sul mercato delle merci, o gli operai sul mercato del lavoro. Il punto di vista - lo dichiara lo stesso Smith - è ora quello del lavoratore: del lavoratore all'interno del processo di produzione. Direbbe Marx: del lavoratore come erogatore di lavoro vivo. E' per lui che uguali quantità di lavoro sono sempre di uguale valore, quale che sia il salario. La fatica e la pena del lavoro, per lui, non si sono modificate rispetto alla condizione di isolamento e autosufficienza del lavoratore nello stato originario. 

Per Smith, il lavoro è, sempre, la fonte di ogni ricchezza: il "primo prezzo" con cui sono state comprate in origine tutte le ricchezze del mondo. E' per questo motivo - perché il lavoro è l'unica fonte della ricchezza materiale , di cui muta solo l'organizzazione - che

"il lavoro è la sola misura universale del valore, oltre che la sola precisa, ovvero che è la sola unità di misura per mezzo della quale possiamo paragonare i valori di diverse merci in tutti i tempi e in tutti i luoghi" (Ricchezza, p. 38)

Il ragionamento, insomma, ruota tutto attorno alla tesi che, quale che sia la "ricompensa reale del lavoro", cioè "la quantità reale di cose necessarie e comode della vita che esso può procurare al lavoratore" (p. 77) - una ricompensa che è indubbiamente aumentata a causa della divisione del lavoro - non cambia la "pena del proprio corpo" (p. 32) nel tempo di lavoro:

"Il prezzo  che egli paga deve essere sempre lo stesso , qualunque  sia la quantità di beni che ne riceve in cambio" (Ricchezza, p. 35)

E' l'intrinseca invariabilità del lavoro come "sacrificio" nel corso della storia che spiega come per Smith le condizioni della distribuzione siano parimenti irrilevanti quando si tratta di individuare la misura appropriata del valore:

"il lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita e quella che si risolve in profitto" (Ricchezza, p. 51)
                                                                                                               
Al centro dell'attenzione sono l'uomo come agente attivo della trasformazione della materia ed il lavoro vivo in quanto lavoro naturale. E' soltanto il lavoro l' "oggetto" che l'ineguaglianza può, direttamente o indirettamente, redistribuire tra le classi. Non vi è dunque contraddizione tra, da un lato, l'affermazione di Smith che vede nel salario, nel profitto e nella rendita le tre "fonti originarie" del valore di scambio e, dall'altro lato, la riconduzione della ricchezza al solo lavoro. Ciò che Smith vuole dire è che il valore di scambio, che sappiamo da lui definito essenzialmente come un potere d'acquisto, dipende dai redditi: ma quello che i redditi acquistano dipende a sua volta dal lavoro. Ritroviamo qui la duplicità - ma non, si badi, l'aporia - di Smith: diviso, ancora una volta, tra il principio "sociale" dello scambio e il principio "naturalistico" del lavoro. Non c'è dubbio insomma che, per lui, dietro il "valore di scambio" c'è sempre e comunque il "prezzo reale", il lavoro.

3.5. Ancora sulla divisione del lavoro

L'argomentazione di Smith ha così compiuto una perfetta rivoluzione su se stessa. La definizione del valore-lavoro comandato, inconcepibile al di fuori di una prospettiva centrata sullo scambio, nasconde una più fondamentale teoria del lavoro come necessario ed unico costo reale della produzione.

Ce lo conferma un ulteriore sguardo all'analisi smithiana sull'origine della divisione del lavoro. Partita come una rivendicazione del primato causale dello scambio sul lavoro diviso, approda infine alla tesi di un primato del lavoro dell'uomo isolato sullo scambio: lo scambio non può modificare rispetto alla situazione originaria la natura del lavoro, ma soltanto accrescerne la produttività. Il lavoro diviso, "sociale",  è - insomma - una specificazione del lavoro individuale. Un risultato tanto più rilevante se si pensa che in Smith l'indagine sulla divisione del lavoro ha una larga autonomia dalla problematica del valore, di cui in qualche modo costituisce il presupposto: sia nel senso che essa è già pienamente formulata in quegli scritti preparatori della Ricchezza delle Nazioni in cui la teoria del valore-lavoro non fa ancora la sua comparsa; sia nel senso che anche nell'opera maggiore i capitoli dedicati alla divisione del lavoro precedono quelli sul valore.

Nelle società primitive dedite alla caccia e alla pesca, i lavoratori benché vivano in società riproducono la situazione ipotetica del lavoratore isolato: effettuano tutti lo stesso lavoro e sono adibiti agli stessi compiti. 

Smith spiega in due modi - addirittura nella stessa pagine - l'emergere della divisione del lavoro nello stadio "rozzo e primitivo". Comincia con l'osservare che una pur limitata diversità dei "talenti naturali" è sufficiente a mettere in moto il processo della specializzazione:

"In una tribù di cacciatori e di pescatori, un individuo fa per esempio archi e frecce con più rapidità e destrezza degli altri e li dà spesso ai suoi compagni in cambio di selvaggina o bestiame. Alla fine si accorgerà che in questo modo può avere più bestiame e selvaggina di quanto ne avrebbe se fosse andato a caccia di persona, sicché in base al semplice interesse egoistico la fabbricazione di armi e frecce si trasformerà nella sua occupazione principale ed egli diventerà una specie di armaiolo."(Ricchezza, p. 19)

La diversità delle abilità individuali, e perciò la presenza di un ventaglio di produttività, conduce i lavoratori - in quanto soggetti "egoisti" - a percepire la convenienza della separazione dei compiti e della cooperazione nella produzione: dividendosi i compiti allo scopo di sfruttare le differenze nelle rispettive abilità, essi possono produrre più di prima. Ogni lavoratore vedrà probabilmente migliorata la propria situazione: potrà infatti aumentare il consumo rispetto alla situazione di partenza, tanto del bene alla cui produzione si è specializzato, quanto degli altri beni che potrà procurarsi dagli altri lavoratori scambiando con loro l'eccedenza sul proprio autoconsumo.

In questo ragionamento la divisione del lavoro ha la precedenza sullo scambio, di cui costituisce la condizione. Ma Smith rovescia subito la sequenza:

"La differenza tra i talenti naturali degli uomini è in effetti molto minore di quel che si pensa; e in molti casi, le diversissime inclinazioni che sembrano distinguere in età matura uomini di diverse professioni sono piuttosto effetto che causa della divisione del lavoro. La differenza tra due personaggi tanto diversi come un filosofo e un volgare facchino di strada, per esempio, sembra derivi non tanto dalla natura quanto dall'abitudine, dal costume e dall'istruzione"(Ricchezza, p. 19)

Qui la divisione del lavoro è piuttosto vista come un risultato dell'inclinazione allo scambio. E' perché gli uomini comunicano, è perché "scambiano" col linguaggio, che sono poi indotti a scambiarsi i prodotti del proprio lavoro, e dunque ad affinare diverse abilità, che rompono l'eguaglianza originaria e creano i presupposti della disuguaglianza storica. 

Smith sembra dare la preferenza alla seconda spiegazione, integrandovi la prima. Coerentemente con la propria filosofia morale, ribadisce la precedenza della dimensione sociale su quella tecnica nell'attivazione del processo di crescita materiale della ricchezza. Va rilevato, peraltro, che il progresso della divisione del lavoro - pur così essenziale nel discorso smithiano - non modifica in nulla la descrizione che egli dà dei caratteri della divisione del lavoro né sembra avere conseguenze sulla sua visione del lavoro. Vi è un preciso parallelismo tra ciò che Smith scrive dell'una e dell'altro nello "stadio rozzo e primitivo" e nella società "progredita". In un passo già citato, per esempio, Smith ripete per la fabbrica la descrizione della divisione del lavoro in un società di caccia e pesca. In un paese "civile e fiorente, come conseguenza della divisione del lavoro nelle manifatture:

"Ogni operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità, e dal momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente nella stessa situazione, è in grado di scambiare una grande quantità dei suoi beni con una grande quantità dei beni degli altri, oppure, che è lo stesso, con il prezzo di questa quantità." (Ricchezza, p. 15)

Ad essere cambiata è dunque solo la scala del processo, che ora è molto più estesa. Una volta che il capitale si è accumulato, la divisione del lavoro può essere spinta ai suoi estremi: sia perché è possibile anticipare un salario ai molti operai parziali, adibendoli a mestieri sempre più frammentati; sia perché è possibile aumentare le dimensioni delle unità produttive in conseguenza della frantumazione sempre più spinta del ciclo lavorativo. Ma il ciclo lavorativo stesso continua ad essere il medesimo del lavoratore isolato, solo ripartito tra più braccia: 

"ciò che è opera di un sol uomo in uno stadio primitivo della società diviene infatti opera di parecchi in una società progredita."(Ricchezza, p. 11) 

Insomma: il lavoro 'sociale' della manifattura è lo stesso lavoro dell'individuo isolato: semplicemente, ognuna delle operazioni dello stadio primitivo è divenuta l'attività unica dell'operaio moderno, sicché essa è svolta con più destrezza, in minor tempo, e facilitata dalle macchine. 

L'identità di natura posta da Smith tra la divisione del lavoro nelle società primitive e la divisione del lavoro manifatturiera è rilevante anche per un'altra ragione. Essa consente di equiparare la relazione tra operai nella fabbrica moderna alla relazione di scambio tra produttori indipendenti. Vi è qui un collasso tra divisione tecnica e divisione sociale del lavoro, che - già nel primo capitolo del primo libro della Ricchezza delle Nazioni - apre la strada al sorprendente isomorfismo tra la famosa descrizione della fabbrica di spilli (p. 9-10), con la sua necessaria sequenza di fasi lavorative concatenate, e quella integrazione tra industrie che deve essere assicurata dal mercato affinché venga prodotto anche il più umile dei beni di consumo (p. 15-16). 

Una confusione che sembra rendere cieco Smith di fronte alla contraddizione tra, da un lato, l' organizzazione pianificata del lavoro dentro le unità produttive e, dall'altro lato, la separazione e il conflitto concorrenziale tra queste ultime sul mercato. Per lui, separazione e cooperazione governano ugualmente imprese e scambio. La società moderna finisce con l'essere così ridotta, squarciato il velo del mercato, ad una unica grande fabbrica. Un quadro che, come vedremo, non poteva non inquietare lo stesso Smith.

4. Il mercato e i "poveri che lavorano". La giustificazione storica del capitale.

"Può forse essere il caso di notare che è nello stato di prosperità, quando la società sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa ha acquisito tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora, cioè della grande massa del popolo, sembra essere più felice e confortevole. Essa è dura nello stato stazionario, e miserevole in quello di decadenza. Lo stato di progresso è in realtà lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della società."
Adam Smith, Ricchezza , p. 81

4.1. Mano invisibile ed equità sociale

Tiriamo le fila del discorso. Gli imprenditori sono mossi dal movente egoistico del profitto: vogliono divenire ricchi, non accrescere le capacità produttive del lavoro, né soddisfare meglio i bisogni degli operai. Ciononostante, è proprio l'impulso a migliorare la propria condizione, accoppiato all'operare impersonale del mercato, che garantisce  che sia questo il risultato delle loro azioni, al di là delle loro intenzioni. Il "chiaro ed evidente interesse di ogni individuo" è infatti "un principio potentissimo" che fa sì che nessuna parte della quota di reddito risparmiata possa "mai essere impiegata se non per mantenere lavoratori produttivi", pena "una evidente perdita per colui che la distogliesse in tal modo dalla sua giusta destinazione"(Ricchezza, p. 333). La "parsimonia", dunque, tende ad aumentare il numero dei lavoratori. Ed anche il loro consumo, perché "ciò che ogni anno si risparmia viene regolarmente consumato", non direttamente ma indirettamente, "dai lavoratori, dai manifatturieri e dagli artigiani, i quali riproducono con un profitto il valore del loro consumo annuo"(ivi).

Il ragionamento è chiaro. Il profitto fa della produzione un mezzo per l'ulteriore accumulazione del capitale; lo stesso consumo dei lavoratori è un consumo "produttivo" finalizzato coscientemente all'accrescimento senza limiti del valore, al perseguimento di uno smodato desiderio di arricchimento. Ma, a sua volta, l'accumulazione è il mezzo per ottenere il benessere della grande massa della popolazione. La massimizzazione dell'accumulazione è la via più sicura per rendere massimo il consumo dei "poveri che lavorano". Il capitalismo realizza così, senza saperlo, una vera e propria missione civilizzatrice: grazie alla divisione del lavoro, porta al pieno sviluppo le caratteristiche razionali e comunicative della cultura umana, e rende massima la crescita della ricchezza;  attraverso l' "inganno" di un risparmio finalizzato all'acquisizione futura di una ricchezza che non verrà però mai consumata da chi lo effettua, trasforma dei poveri "oziosi" in lavoratori "operosi"; garantendo la disuguaglianza con la "giustizia", cioè tutelando giuridicamente la proprietà dei pochi, li spinge ad una accumulazione accelerata che ha l'effetto di redistribuire nel modo più favorevole ai molti quanto si è prodotto. E' da questo punto di vista che si comprende bene il giudizio negativo che Smith dà della condizione di stato stazionario, che consegue alla caduta del saggio del profitto. 

L'argomentazione smithiana su quella che abbiamo definito la giustificazione storica del capitale la si ritrova, con poche variazioni, tanto nella Teoria dei sentimenti morali  come nella Ricchezza delle nazioni. Bastino due passi:

"I ricchi pescano nel mucchio solo ciò che è più prezioso e più piacevole. Consumano poco più dei poveri, e nonostante il loro egoismo e la loro rapacità naturali, benché pensino solo al loro interesse  e il solo scopo che si prefiggono dalle fatiche delle migliaia di persone cui danno lavoro sia la gratificazione dei propri desideri vani ed insaziabili, essi dividono con i poveri il prodotto di tutti i loro progressi. Sono portati da una mano invisibile a operare quasi la stessa distribuzione delle necessità della vita che avrebbe avuto luogo se la terra fosse stata divisa in parti uguali fra tutti i suoi abitanti; e così, senza volerlo e senza saperlo, fanno l'interesse della società e forniscono i mezzi per moltiplicare la specie." (Teoria dei sentimenti morali, cit. in Michael Ignatieff, I bisogni degli altri, Il Mulino, Bologna 1986, p. 198)

"La ricompensa reale del lavoro, la quantità reale di cose necessarie e comode della vita che esso può procurare al lavoratore, è forse aumentata durante questo secolo in misura maggiore del suo prezzo in moneta . . . Questo progresso nelle condizioni dei ceti più bassi del popolo deve essere considerato un vantaggio o un inconveniente per la società? La risposta sembra a prima vista estremamente agevole. Servi, lavoratori e operai di diverso genere rappresentano la parte di gran lunga maggiore di ogni grande società politica. Ma tutto ciò che fa progredire le condizioni della maggioranza non può mai essere considerato un inconveniente per l'insieme. Nessuna società può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile. Oltretutto, è semplice questione di equità il fatto che coloro che nutrono, vestono e alloggiano la gran massa del popolo debbano avere una quota del prodotto del loro stesso lavoro tale da essere loro stessi passabilmente ben nutriti, vestiti e alloggiati (Ricchezza, pp. 77-78)

Sinteticamente - e provocatoriamente, rispetto alla vulgata di uno Smith apologeta di un capitalismo liberista disposto ad immolare gli uomini di oggi sull'altare di un benessere futuro; quando invece, se la lettura che qui è suggerita è corretta, sarebbe vero esattamente l'opposto - potremmo dire: il profitto come mezzo del salario. Smith, insomma, come il teorico dell'accumulazione: ma soltanto perché una accumulazione sempre più veloce si traduce, appunto, in una economia di alti salari e di massima occupazione. O ancora, Smith come teorico della libera concorrenza: ma soltanto perché la rivalità e la competizione tra "mercanti", impedendo il monopolio, rendono minimi i profitti (date le rendite e gli interessi), e danno luogo a prezzi delle merci i più bassi possibili (alzando dunque, coeteris paribus, la retribuzione reale del lavoro).

Vediamo il ragionamento sul salario. I comportamenti coscienti della classe capitalistica e del governo mirano, ineluttabilmente, a colpire la condizione operaia: "I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale"(Ricchezza, p. 67); d'altro canto, "Tutte le volte che il legislatore cerca di regolare le controversie fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni"(Ricchezza, p. 141). In questa situazione, è l' "anarchia" del mercato l'unica carta che può - paradossalmente - giocare a favore dei lavoratori. Tanto più è rapido e variabile il ritmo dell'accumulazione del capitale, tanto più è elevato il saggio di crescita della domanda di lavoro; e tanto meno efficaci le coalizioni degli imprenditori, costretti a farsi concorrenza l'uno con l'altro (Ricchezza, p. 85-6). Di conseguenza, nel breve periodo il salario fissato dal mercato del lavoro tende a eccedere il livello naturale, "il più basso compatibile con la natura umana". Ma, se l'accumulazione procede e lo scarto tra salario di mercato e salario naturale permane abbastanza a lungo, è convinzione di Smith che la sussistenza stessa finirà con l'essere trascinata verso l'alto. Il meccanismo che regola la "produzione di uomini" al variare del salario reale rispetto alla sua norma, pur continuando ad operare, non è talmente forte da annullare gli effetti positivi dell'accumulazione.

Peraltro, gli alti salari non sono soltanto l'effetto ma anche, almeno in parte, la causa del "progresso" economico. Vi è, per Smith, un vero e proprio circolo virtuoso tra  crescita del salario e aumento della produttività: il maggior costo del lavoro è messo in moto dallo stesso meccanismo che spinge gli imprenditori ad un approfondimento della divisione del lavoro; e l'impulso alla divisione del lavoro ha - come sappiamo - dei benefici effetti di ritorno sulla prosperità di tutta la società:

"Tuttavia la stessa causa che eleva i salari, cioè l'aumento dei fondi, tende a fare aumentare le capacità produttive del lavoro e a far sì che una minor quantità di lavoro produca una maggiore quantità di prodotti. Il proprietario dei fondi che impiegano un gran numero di lavoratori deve sforzarsi, nel suo stesso interesse , di organizzare una divisione e una distribuzione del lavoro tale da metterlo in grado di produrre quanto più è possibile. Per la stessa ragione egli si sforza di fornire ai lavoratori le macchine migliori che sia lui stesso sia loro possono escogitare. Ciò che avviene tra i lavoratori di una particolare casa di lavoro, avviene per la stessa ragione nell'insieme della società." (Ricchezza, p. 86)

Con terminologia moderna, potremmo dire che l'aumento della produttività rende "compatibile" un corrispondente aumento del salario. Nella stessa logica, non c'è che un passo per intravedere, in un aumento del salario, il mezzo attraverso cui l'accumulazione riproduce se stessa, governando il tasso di innovazioni nelle imprese. "L'aumento dei fondi, mentre innalza i salari, abbassa i profitti" (Ricchezza, p. 87), scrive Smith. Quando la concorrenza è massima, i profitti ordinari saranno ridotti al minimo possibile (Ricchezza, p. 94). Mentre, infatti, "il prezzo di monopolio è in ogni occasione il più alto che si possa ottenere, al contrario, il prezzo naturale è il più basso che possa essere accettato, se non proprio in ogni occasione, almeno per un periodo considerevole." (Ricchezza , p. 62).

4.2. I costi della divisione del lavoro

Smith vede dunque nell'accumulazione capitalistica un mezzo per rendere più felici i lavoratori in quanto consumatori. Non gli sfugge, però, che le cose stanno ben diversamente se si guarda a ciò che ne è dei lavoratori in quanto produttori. Riemerge qui, in altra forma, la duplicità di Smith, teorico dello scambio e teorico del lavoro.

I brani che Smith dedica agli effetti negativi della divisione del lavoro sono giustamente famosi, ma meritano una rilettura:

"Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l'occupazione della stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l'intelligenza della maggioranza degli uomini è necessariamente la loro occupazione ordinaria.Un uomo che spenda tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni, i cui effetti oltretutto sono forse sempre gli stessi, o quasi, non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva  a scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non incontra mai . . . La sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo acquisita a spese delle sue qualità intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo"(Ricchezza, pp. 769-770)

Il "povero che lavora", la cui condizione era qualificata come la più felice e confortevole quando si analizzavano gli effetti dell'accumulazione sull'occupazione e sul consumo, è ora un soggetto senza virtù civiche o marziali, istupidito ed impoverito nelle sue capacità da quella stessa divisione del lavoro che rende florida la società. Riemergono qui accenti rousseauiani: nelle 
            
"società barbare . . . le svariate occupazioni di ogni uomo lo costringono a esercitare le sue capacità e a inventare espedienti per superare le difficoltà che incontra continuamente. L'inventiva è mantenuta viva e la mente non è lasciata cadere in quella sonnolenta stupidità che in una società civile, sembra ottenebrare l'intelligenza di quasi tutti i ceti inferiori del popolo. In queste cosiddette società barbare . . . ogni uomo è un guerriero ed è in una certa misura anche un uomo di stato, e può formarsi un discreto giudizio sull'interesse della società e sulla condotta di coloro che lo governano."(Ricchezza, p. 770)

Certamente, queste note pessimistiche non sono sufficienti a rovesciare il giudizio che Smith aveva formulato sulla divisione del lavoro. Nelle società moderne, è vero, la ricchezza è ottenuta a spese della virtù. Ma, se è vero che nelle società primitive vi è 

"molta varietà nelle occupazioni di ogni individuo, non c'è molta varietà in quelle della società nel suo complesso . . . Al contrario, in uno stadio avanzato della civiltà, sebbene ci sia poca varietà nelle occupazioni  della maggior parte degli individui, c'è una varietà quasi infinita in quelle del complesso della società." (Ricchezza, p. 771)

Il ragionamento è chiaro. La divisione del lavoro comporta un costo elevato per gli individui appartenenti alle classi più povere, cioè per la gran massa della popolazione. Più precisamente, si tratta di una vera e propria caduta nell'eteronomia, nei processi di lavoro e nella società politica. Un destino senza ritorno, si potrebbe dire, perché la fabbrica manifatturiera costruisce un nuovo tipo d'uomo, integrato agli altri nel consumo ma ignorante ed incapace di giudizio. Ma ciò che perde l'individuo lo guadagna, con l'interesse, la società. Aumentando le attività, aumentano le abilità, e dunque le capacità del corpo sociale collettivo. Può goderne quella frazione ristretta della popolazione che ha mantenuto un qualche tenue legame con la condizione originaria, in cui "ognuno fa, o è capace di fare, quasi tutto ciò che chiunque altro fa, o è capace di fare". Si tratta dei "filosofi", la cui collocazione particolare nella divisione del lavoro era stata sottolineata già nel primo capitolo del libro: la loro specificità consiste non "nel fare qualche cosa, ma nell'osservare ogni cosa" (p.14). E' a loro che deve riferirsi l'osservazione di Smith secondo cui la moltiplicazione delle mansioni e la frantumazione del lavoro "presentano una varietà quasi infinita di oggetti alla contemplazione di quei pochi che, non essendo essi stessi impegnati in nessuna occupazione particolare, hanno tempo libero e predisposizione per esaminare le occupazioni degli altri." (Ricchezza , p. 771) Aumenta dunque l'intelligenza della società: e con essa il numero di invenzioni e innovazioni, dal momento che è dall'osservare ogni cosa che può svilupparsi la facoltà "di combinare e unificare le possibilità insite negli oggetti più dissimili e lontani fra loro" (Ricchezza , p. 15).

La stupidità - se non addirittura l'infelicità - dell'individuo è il prezzo da pagare per allentare il vincolo della scarsità, e per consentire ai pochi un' "intelligenza progredita e raffinata" (p. 771). Il discorso di Smith assume qui un accento spietatamente realistico: amaro, certamente, ma che di nuovo non mi sentirei di definire apologetico. Non tanto per la cura, in verità un po' superficiale, che l'autore scozzese propone: un intervento statale che imponga una istruzione di base alle classi più povere sarebbe poco più di un lenitivo, per un processo dalle tinte così fosche. E nemmeno per il pessimismo che conduce Smith a concludere che, in ogni caso, "tutti i tratti più nobili del carattere umano possono essere in gran parte cancellati ed estinti nella gran massa del popolo" (Ricchezza, p. 771): un pessimismo troppo frammisto alla rivendicazione con cui viene, a ragione o a torto, lamentata l'esclusione della propria corporazione, dei "filosofi", dalle leve del comando ("a meno che a questi pochi non capiti di essere collocati in situazioni molto particolari, le loro grandi capacità, per quanto onorevoli per loro, possono contribuire ben poco al buon governo o alla felicità della società." (Ricchezza , p. 771).

Quello che più conta è che nella Ricchezza delle Nazioni  l'abbrutimento della classe lavoratrice appare non come un destino di natura ma come un risultato storico: di una storia, per di più,  che sarebbe potuta svolgersi in tutt'altro modo. Il capitalismo della "rivoluzione industriale" non è insomma per Smith il capitalismo "naturale", quel capitalismo che si sarebbe potuto realizzare con altre leggi ed altre istituzioni. E' certamente, sotto gli ordinamenti storici dell'Europa a lui contemporanea, il migliore dei mondi possibili: non però il mondo in cui vorrebbe vivere, né quello che, con altri presupposti e con una piena libertà commerciale, avrebbe potuto aver luogo.

E' con alcune citazioni da uno Smith così inconsueto e poco frequentato, almeno dagli economisti - uno Smith il cui peccato non è l'apologia ma semmai l'utopismo - che chiuderò la parte di questo saggio dedicata all'autore scozzese.

4.3. Innaturalità del capitale

E' nella natura delle cose che la sussistenza preceda la "comodità e il lusso", e dunque "l'attività che procura la prima deve necessariamente aver preceduto quella che fornisce i secondi"(Ricchezza, p. 374). La sequenza naturale dello sviluppo economico e del progresso della divisione del lavoro dovrebbe dunque andare, per Smith, dal "miglioramento e dalla coltivazione della terra" - che determina la creazione di un sovrappiù in agricoltura il quale a sua volta garantisce alla città cibo e materie prime - al conseguente aumento della domanda di manufatti, che stimola la produzione nelle città, alla ricerca di sbocchi all' estero:

"Quindi, secondo il corso naturale delle cose, la maggior parte del capitale di ogni società che comincia a formarsi è diretta prima all'agricoltura, poi alle manifatture, e infine al commercio estero . . . Ma per quanto quest'ordine naturale delle cose debba aver avuto luogo in qualche misura in ogni società, in tutti i moderni stati europei esso è stato sotto molti aspetti completamente rovesciato. Il commercio estero di alcune delle loro città vi ha introdotto manifatture più raffinate, cioè quelle adatte per la vendita in luoghi remoti e le manifatture e il commercio estero insieme hanno dato occasione ai principali miglioramenti dell'agricoltura" (Ricchezza, p. 377)

"Quest'ordine di cose innaturale  e retrogrado": così Smith definisce la sequenza storicamente data, quella per cui le manifatture invece di essere figlie dell'agricoltura sono figlie del commercio estero. 
Non è questo il luogo per affrontare alcune questioni, peraltro di notevole interesse, suggerite dal modo con cui Smith sviluppa la sua argomentazione. Quale, per esempio, il senso da darsi alla sua "storia congetturale", che fa delle città il luogo primo di quella emancipazione dal dominio dei grandi proprietari fondiari che poi si estende alla campagna, in forza del graduale ed impersonale diffondersi dello scambio. O quale, ancora, il riconoscimento dell'esistenza di vie alternative all'industrializzazione: quella che è stata definita "semi-naturale", che pur attivata dal commercio internazionale vede uno sviluppo dell'agricoltura precedente lo sviluppo delle manifatture secondo la sequenza commercio estero-agricoltura-manifatture, ed è dunque incentrata su un equilibrio tra settori che salvaguarda il lavoro indipendente tanto nelle campagne quanto nelle città; e quella "storica", sbilanciata a favore delle fabbriche e delle concentrazioni operaie secondo la sequenza commercio estero-manifattura-agricoltura, che finirà con il prevalere. Un contrasto che si riflette in quello tra crescita "proporzionale", quando le città si sviluppano secondo le capacità di estrazione di sovrappiù della campagna che le circonda, e crescita "non proporzionale", quando le manifatture si liberano dal vincolo costituito dalla domanda interna per inseguire quella estera.

Vorrei piuttosto limitarmi a ricordare gli eroi di questo capitalismo naturale di Smith: l'agricoltore proprietario e l'artigiano indipendente. E' indubbio da che parte stiano le simpatie di Smith; come è indubbio che l'inedito capitalismo, agrario e  di libera concorrenza, che ha in mente manterrebbe, a suo parere, i tratti positivi dell'efficienza produttiva e dell'allocazione ottima delle risorse, senza i tratti negativi della divisione del lavoro e di una eccessiva mobilità del capitale. 
Dai grandi proprietari terrieri non ci si può aspettare grandi miglioramenti, dediti come sono al consumo di lusso; ma meno ancora da chi lavora alle loro dipendenze ("una persona che non può acquisire proprietà, non può avere altro interesse oltre quello di mangiare il più possibile e lavorare il meno possibile": Ricchezza, p. 382):

"Un piccolo proprietario, però, che conosce ogni palmo del suo piccolo terreno, che lo guarda tutto con l'affetto che la proprietà, e specialmente quella piccola, naturalmente ispira, e che per tale motivo trae piacere non solo a coltivarlo, ma anche ad adornarlo, è in generale il più industrioso, il più intelligente e il più fortunato fra tutti coloro che attendono ad apportare miglioramenti alla terra"(Ricchezza, p. 410)

La premessa del giudizio di Smith è che si dia una maggiore produttività del lavoro agricolo, in quanto quest'ultimo è favorito dalla collaborazione della natura. Di norma, dunque, la redditività dell'agricoltura è superiore a quella delle manifatture, e lo sviluppo delle campagne dà il via a quello delle città. Se non vi fossero retaggi storici o vincoli istituzionali a deviare il corso delle cose, lo stesso meccanismo concorrenziale dovrebbe imporre uno sviluppo trainato dal capitale agrario. La peculiare collocazione geografica dell'Inghilterra, che ne favorisce i rapporti con l'estero, giustifica che la crescita sia stata qui attivata dalle esportazioni, ma non che l'inversione della sequenza naturale sia così completa: il commercio internazionale avrebbe potuto comunque privilegiare la campagna prima della città, mentre invece è avvenuto proprio l'opposto. 

Un elemento che certamente concorre nella valutazione positiva che Smith dà di una crescita caratterizzata da un primato dell'agricoltura sulla manifattura, di questa possibilità non percorsa dallo sviluppo economico, è che il capitale del proprietario terriero "è fissatonei miglioramenti della sua terra"(Ricchezza, p. 375) e, di conseguenza, è "il più sicuro, per quanto lo consente la natura delle vicende umane". Al contrario, il "mercante non è necessariamente cittadino di un particolare paese", e "il capitale che viene acquisito da un paese con il commercio e le manifatture costituisce un possesso molto precario e incerto." (Ricchezza, p. 413) Ed ancora: mentre i mercanti e i manifatturieri sono mossi da "bassa rapacità" e da uno "spirito di monopolio", e dunque "il loro interesse è sempre direttamente opposto a quello della gran massa della popolazione" (Ricchezza, p. 483), "i gentiluomini di campagna e gli agricoltori sono, a loro grande onore, tra tutta la popolazione i meno soggetti al meschino spirito del monopolio".

Né va trascurato che per Smith il lavoro dell'agricoltura è per sua natura meno soggetto alla suddivisione del lavoro (Ricchezza, p.11): se questa circostanza di per sé rallenta l'aumento della produttività nelle campagne, è certo però che il lavoratore agricolo è appunto per ciò più tutelato dalle conseguenze nefaste della specializzazione:

"Al comune aratore, generalmente considerato un campione di stupidità e di ignoranza, è raro manchino questo giudizio e quest' avvedutezza. Certamente egli è meno pratico di relazioni sociali di quanto lo sia il meccanico che vive in città, la sua voce e il suo linguaggio sono più incolti e più difficili da capire per coloro che non vi sono abituati, ma il suo intelletto, essendo abituato a considerare una grande varietà di cose, è in genere molto superiore a quello di coloro la cui attenzione è interamente occupata, da mattina a sera, nel fare una o due operazioni semplicissime"(Ricchezza, p. 127)

Lo sviluppo della città a rimorchio della campagna ha un ultimo vantaggio. Si tratta di un processo caratterizzato non dalla presenza di grandi opifici e dall'impiego di lavoro salariato ma dalla predominanza nei centri urbani del lavoro artigiano indipendente. Una situazione in cui virtù e ricchezza sembrano, finalmente, poter andare di concerto:

"Nulla può essere più assurdo, comunque, dell'immaginare che gli uomini in generale lavorino meno quando lavorino per se stessi che quando lavorino per altri. Un bravo operaio indipendente sarà in genere più attivo  anche di un giornaliero che lavori a cottimo. L'uno gode dell'intero prodotto della sua attività, mentre l'altro lo spartisce col suo padrone. L'uno, nella sua situazione di isolamento e di indipendenza, è meno soggetto alle tentazioni delle cattive compagnie che nelle grandi manifatture rovinano tanto spesso i costumi dell'altro. La superiorità dell'operaio indipendente sui servi pagati a mese o ad anno, i salari e il mantenimento dei quali restano identici sia che facciano poco o molto, è probabilmente ancora maggiore." (Ricchezza, p. 83-4)

Ritroviamo uno Smith diviso. La storia realizzata, il capitalismo realmente esistente, hanno al loro attivo non solo la crescita materiale, ma anche la creazione di un ordine politico fondato sull'ordine e il buon governo. E' grazie allo sviluppo "distorto" delle città e delle manifatture che si è passati dalla dipendenza servile e dalla soggezione personale  alla dipendenza dal mercato ed alla libertà individuale. Il giudizio che Smith dà è inequivocabilmente positivo, anche se vede i costi del processo; ed anche se non si stanca di sottolineare la possibilità di accelerare l'accumulazione rimuovendo "i cento inconsulti ostacoli con cui la follia delle leggi umane" (Ricchezza, p. 532) intralcia la spontaneità delle leggi di mercato. Gli ordinamenti politici possono ormai solo rallentare ma non arrestare il cammino verso la ricchezza e il progresso: quel cammino  che è retto dai "principi potentissimi" dell'egoismo e dell'inclinazione allo scambio; e che è certo nella sua direzione anche se non nella sua velocità, una volta garantite libertà personale e sicurezza della proprietà. 

Ma Smith non nasconde l'esistenza di un'altra storia, di una storia possibile. Una storia che, come rivela l'ultima citazione, percorrendo, parzialmente o integralmente, la sequenza naturale dello sviluppo avrebbe consentito di far permanere nella "società commerciale" non solo, per così dire, il lato negativo ma anche quello positivo del "lavoro dell'uomo isolato". Non solo la pena e il sacrificio del lavoro, ma anche l'autonomia e l'indipendenza personale: massima nel caso dell'agricoltore piccolo proprietario, comunque superiore a quella dei "poveri che lavorano" nel caso dell'artigiano indipendente.
Una storia non percorsa dall'Europa, ma che potrebbe essere il presente ed il futuro di quello che è il vero modello di Smith: le nuove colonie, l'America:

"Nelle nostre colonie americane, dove la terra incolta si può ancora avere a buone condizioni, non si è stabilita in nessuna città nessuna manifattura per la vendita in luoghi lontani. Quando nell'America del Nord un artigiano ha acquisito un po' più dei fondi sufficienti a condurre la sua attività rifornendo la campagna vicina, egli con quei fondi non tenta di fondare una manifattura per la vendita in luoghi più remoti ma li impiega invece nell'acquisto e nel miglioramento della terra incolta. Da artigiano diventa piantatore, e né gli alti salari, né la facile sussistenza che quel paese concede agli artigiani possono indurlo a lavorare per altri invece che per se stesso. Egli sente che un artigiano è il servo del suo cliente , dal quale trae la propria sussistenza, e che un piantatore che coltiva la propria terra e trae la sua necessaria sussistenza dal lavoro della propria famiglia è in effetti un padrone ed è indipendente da tutto il mondo ." (Ricchezza, p. 376)


5. Cambiare la natura umana. John Stuart Mill e John Maynard Keynes oltre la passione per il denaro.

"nel contemplare ogni movimento di progresso, non illimitato nella sua natura, la mente non è soddisfatta soltanto dal fatto di tracciare le leggi del suo movimento; non può infatti fare a meno di porsi l'altra domanda: a quale fine? Verso quale punto tende in definitiva la società con il suo progresso produttivo? Quando il progresso giunge al termine, in quali condizioni ci si deve attendere che lasci il genere umano?"
John Stuart Mill, Principi di economia politica , Utet, Torino 1983, p. 997

5.1. Smith smembrato: ricardiani e neoclassici.

La conciliazione che Smith opera tra le due visioni dell'accumulazione che attraversano la sua opera - quella di un processo autoreferenziale per cui la produzione è fine a se stessa, e quella di una produzione che ha per risultato il consumo sempre più ricco di un numero crescente di lavoratori - è una conciliazione possibile solo sulla base della sua filosofia etica e della sua filosofia della storia. Il suo schema teorico si regge infatti tutto sull'ipotesi che l'egoismo che spinge i capitalisti alla massimizzazione del profitto sia un benefico "inganno" che la Natura ha ordito per realizzare il suo ordine: quell'inganno che, mettendo in moto il meccanismo della divisione del lavoro, e dispiegando al massimo grado il principio sociale dello scambio, fa della produzione per la produzione il mezzo della massimizzazione del benessere. E' la medesima ipotesi che fa sì che non appaia immediatamente contraddittorio il fatto che il fine storico, il consumo dei "poveri che lavorano", sia nel processo accumulativo nient'altro che un mezzo del suo mezzo. Un consumo "produttivo", necessario al fine dell'accrescimento del valore.

Il pensiero economico successivo, abbandonando i presupposti filosofici di Smith, si scinderà in due tronconi. Da un lato, abbiamo il filone classico-ricardiano che, radicalizzando la riduzione del lavoratore a mezzo di produzione, vedrà nel processo capitalistico un processo circolare, di "produzione di merci a mezzo di merci". Dall'altro lato, il filone neoclassico, che ricomporrà le due massimizzazioni smithiane - quella "individualistica" del profitto, e quella "sistemica" del consumo dei "poveri" - sotto il cappello di una universale massimizzazione dell'utilità di un generico agente economico; ma quest'ultima a sua volta, in quanto massimizzazione del consumo mediante l'impiego efficiente di risorse scarse disponibili per usi alternativi, verrà intesa come nient'altro che l'espressione particolare di un più generale ed astorico aspetto della condotta umana, in quanto condotta razionale, cioè della massimizzazione di una funzione obiettivo sotto vincolo. 

In entrambi i casi, perde di senso l'argomentazione smithiana sulla giustificazione storica del capitale. Nel caso di Ricardo, per l'insensatezza stessa di una interrogazione sulla qualità di un processo che ha la sua essenza nella riduzione di tutto a quantità. Nel caso dei neoclassici, per la naturalizzazione e universalizzazione della razionalità calcolante tipica del capitalismo. L'economia politica - ridotta ad economica, e dunque a teoria della scelta - può ormai descrivere qualsiasi contesto istituzionale e qualsiasi forma di agire, sicché finisce con il dissolversi l'oggetto stesso del giudizio storico di Smith, la "società commerciale".

Sarebbe però interessante invertire la prospettiva, e chiedersi quale giudizio dare di questi sviluppi teorici prendendo come punto di partenza il discorso smithiano sulla missione civilizzatrice del capitale. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, quale conclusione trarre quando con Ricardo si dimostra che l'accumulazione può procedere indisturbata pur in presenza di una riduzione tanto dei consumi che dell'occupazione dei lavoratori: se, insomma, una autonomizzazione dell'accumulazione dai "poveri che lavorano" non segnali un esaurirsi della funzione storica svolta dal modo di produzione capitalistico. Ci si potrebbe chiedere, ancora, che contributo alla conoscenza dia una teoria come quella neoclassica incapace di distinguere, come invece Smith era in grado di fare, tra realtà moderna e realtà premoderne, attribuendo solo alla prima l'attributo di "società" in senso proprio. 

Ci si potrebbe chiedere, insomma, se l'impostazione ricardiana e quella neoclassica non escano dalla filosofia della storia smithiana solo perché - in modi certamente opposti - fanno del capitale un pezzo di natura. Solo perché, dunque, si reggono implicitamente su filosofie della storia altrettanto arbitrarie di quella: che semplicemente negano che possano esistere storie diverse; e, per questo, che mirano entrambe a fare dell' economia una scienza "esatta" come la geometria o la  fisica.

5.2. Lo stato stazionario: John Stuart Mill.

L'argomentazione smithiana sulla giustificazione storica del capitale non scompare però totalmente dal discorso economico. Essa riappare ovviamente, nella forma che vedremo, nell'opera di Marx. Ma fa anche la sua comparsa in altri due momenti di svolta cruciali della storia d'Europa: l'esplosione rivoluzionaria del 1848, e la crisi successiva alla "grande guerra".

Nel libro quarto dei Principi di economia politica  di John Stuart Mill, dedicato all' "Influenza del progresso su produzione e distribuzione", si incontrano due capitoli successivi, strettamente intrecciati e da leggere insieme: il capitolo VI, molto citato, dedicato allo stato stazionario; ed il capitolo VII, meno frequentato, che discute "del probabile avvenire delle classi lavoratrici". La ripresa di temi smithiani è puntuale, ma la prospettiva è ora cambiata. Mill riconosce al capitale il ruolo di momento necessario del progresso: ritiene però che alla fase attuale, caratterizzata dall'egoismo e dal primato della produzione, possa seguirne un'altra che sostituisca a questo "falso ideale" del genere umano fini più desiderabili:

"Confesso che non mi piace l'ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale, sia la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei più tristi sintomi di una fase del processo produttivo. Esso può indubbiamente rappresentare una fase necessaria  del progresso della civiltà, e quelle nazioni europee che finora hanno avuto la fortuna di esserne quasi esenti può darsi che la debbano attraversare. E' un incidente di sviluppo e non un segno di decadenza . . . Ma non è comunque un genere di perfezione sociale che i filantropi futuri possano desiderare di vedere realizzato. Molto più auspicabile è invece, finché la ricchezza continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile continuerà ad essere oggetto dell'ambizione universale, che la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti, senza favori o parzialità. Ma la condizione migliore per la natura umana è quella per cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare." (Principi, pp. 999-1000)

"Come primo passo da uno stadio semplicemente animale a uno stato umano, dallo sconsiderato abbandono agli istinti bruti alla prudente preveggenza e al dominio di se stessi, questa condizione morale può essere guardata senza dispiacere. Ma se si desidera lo sviluppo dello spirito pubblico, di sentimenti generosi, o della vera giustizia e della vera eguaglianza, è l'associazione e non l'isolamento degli interessi, la scuola alla quale queste virtù si possono sviluppare. Lo scopo del processo dovrebbe essere non soltanto di porre gli esseri umani in condizioni nelle quali essi siano in grado di fare a meno gli uni degli altri, ma di consentire loro di lavorare con  gli altri e per  gli altri in rapporti che non implichino una dipendenza." (Principi, p. 1015).

Per Mill, dunque, il capitalismo è la fase necessaria di transizione da uno stato primitivo e "animale" ad uno stato veramente umano".  Nello stato primitivo la cooperazione, se c'è, è legata alla soggezione personale. Anche nelle condizioni moderne il lavoro sotto padrone costringe gli operai ad abusi che la crescente educazione culturale e politica  - frutto della stessa associazione coatta nelle fabbriche - renderà sempre meno praticabili. Mill vede con favore che i lavoratori prendano nelle proprie mani il loro destino, e vogliano passare dal lavoro salariato al lavoro cooperativo; ma l'associazione tra eguali tenderà a prevalere non soltanto nella fabbrica, ma anche nella politica come nella famiglia. 

L'evoluzione spontanea ed inintenzionale dell'economia è, insomma, un processo che ha come fine la realizzazione di una situazione opposta. Compie una autentica "rivoluzione morale" (Principi, p. 1043), ed una incruenta e graduale rivoluzione politica: sostituisce all'individuo egoista l'individuo altruista; al soggetto dipendente il soggetto indipendente. Fa di tutti degli "esseri razionali" (Principi, p. 1009): in grado di scegliere la cooperazione, e non condannati invece ad una competizione tra agenti isolati, che verrà piuttosto mutata in "amichevole emulazione"(Principi, p.1043). La mano invisibile, si potrebbe dire, crea le condizioni di una società fondata sul consenso cosciente. L'evoluzione cede il passo al contratto.
Smith è mantenuto e rovesciato. Il dualismo etico di egoismo e simpatia diviene successione storica. "La sproporzionata importanza attribuita al semplice aumento della produzione", che è in Smith il mezzo per una generalizzazione passabilmente equa del benessere, diviene solo lo strumento per raggiungere quel livello della ricchezza materiale che è la precondizione per una migliore distribuzione e per una trasformazione della natura umana:

"Finché le menti sono rozze esse richiedono stimoli rozzi, ed è bene che li abbiano. Intanto però quelli che non accettano l'attuale stadio iniziale del progresso umano come il suo modello definitivo, possono essere scusati se rimangono relativamente indifferenti al tipo di progresso economico che suscita di solito le congratulazioni dei politici; il semplice incremento della produzione e della accumulazione."(Principi, p. 1000)

Sullo sfondo di questa visione, non stupisce che il giudizio di Mill sullo "stato stazionario" sia, diversamente che in Smith e negli altri classici, improntato all'ottimismo. Mentre per "gli economisti delle ultime generazioni", scrive Mill, lo stato stazionario è 

"una prospettiva spiacevole e scoraggiante, dal momento che il tono e la tendenza delle loro speculazioni sono quelli di identificare tutto ciò che è economicamente desiderabile con lo stato progressivo . . . [io] sono propenso piuttosto a credere che, nel complesso, esso rappresenterebbe un considerevole miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali." (Principi, p. 999)

La riduzione del tasso di crescita della produzione, se accompagnata alla riduzione della crescita della popolazione, non significherebbe per nulla l'esaurirsi del progresso umano. L'aumento assoluto della produzione materiale cederebbe semmai il passo allo sviluppo culturale ed al perfezionamento dell' "arte della vita"(p. 1002). L'industria continuerebbe certamente ad essere retta da leggi astoriche ed immutabili; ma, a differenza che nella situazione attuale, le innovazioni

"produrrebbero il loro effetto legittimo, quello di abbreviare il lavoro. Finora è dubbio se tutte le invenzioni meccaniche compiute sino a questo punto abbiano alleggerito la fatica quotidiana dell'uomo. Esse hanno piuttosto consentito a una maggiore popolazione di vivere la stessa vita di schiavitù e di prigionia, e a un maggior numero di industriali e altri di accumulare fortune. Esse hanno indubbiamente accresciuto gli agi delle classi medie, ma non hanno ancora cominciato a operare quei grandi mutamenti nel destino umano che per loro natura sono destinati a compiere. Soltanto quando accanto a giuste istituzioni, l'accrescimento del genere umano sarà posto deliberatamente sotto la guida di una saggia previdenza, le conquiste sui poteri della natura compiute dall'intelletto e dall'energia degli scienziati potranno diventare il retaggio comune della specie umana, e il mezzo per migliorare ed elevare la sorte dell'umanità ."( Principi, p. 1003).

Mill spera che l'umanità scelga lo stato stazionario prima di esservi costretta dal destino che le assegna la ineluttabile caduta del saggio del profitto. In realtà, nonostante questa sua affermazione, la sua posizione non può non risultare intimamente contraddittoria a meno di legarsi ad una evoluzionismo meccanicistico.

Paladino di una visione che separa le leggi ferree della produzione dalle leggi storiche della distribuzione, Mill non dispone di argomentazioni teoriche a favore della auspicata trasformazione della natura umana: deve ancorare quest'ultima, di necessità, alla dinamica deterministica della produzione. Alla luce della sua separazione dicotomica di produzione e distribuzione rimane infatti misterioso cosa potrebbe originare una metamorfosi così radicale, pur nella sua gradualità, del carattere umano quale egli delinea nel suo "ideale del futuro" - se non intervenisse ad imporla, appunto, il corso stesso delle cose; in questo modo ribadendo però, contro le intenzioni, un permanente primato dell'evoluzione materiale sul progresso culturale.

E' per la stessa ragione che Mill deve limitare gli effetti del processo all'ampliamento del tempo di non lavoro: cioè, a ben vedere, ancora ad una misura meramente redistributiva. La sua prospettiva di una riduzione del primato dell'economico si configura dunque, coerentemente, soltanto nei termini di una più equa ripartizione e, al limite, di un'uscita dal lavoro. 

Il solo altro sostegno della sua visione di società dell'avvenire - l'unico che nel suo sistema giustificherebbe la speranza che "i nostri discendenti si accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi costretti ad esso dalla necessità" (Principi, p. 1002) - avrebbe potuto essere il compimento del progetto, da lui lungamente accarezzato, di costruire una scienza del carattere umano, l'etologia. Individuate le leggi generali della formazione e del mutamento del carattere umano, si sarebbe anche mostrato come la trasformazione potesse essere il prodotto congiunto delle condizioni esterne e della volontà degli individui. Ma, come è noto, quel libro Mill non riuscì a scriverlo mai.

5.3. Il doppio inganno è rivelato:  John Maynard Keynes.

Ben maggiore consapevolezza di queste difficoltà ha Keynes quando, tra le due guerre mondiali, riproporrà l'utopia di Mill. 

Come Smith e Mill, Keynes ritiene che il capitalismo presupponga condizioni culturali (oltre che istituzionali) particolari, decadute le quali esso è destinato ad entrare in crisi. A differenza dell'uno e dell'altro, sottolinea però che l'avverarsi di quelle condizioni non solo è stato in grande misura casuale, ma ha dato luogo ad un sistema sociale ed economico instabile (contro Smith), ed il cui esaurirsi non significa di per sé un indolore ed automatico passaggio ad uno stadio più alto dell'evoluzione umana (contro Mill).

Appena terminata la "grande guerra", nel paragrafo delle Conseguenze economiche della pace intitolato "La psicologia della società", Keynes riprende l'immagine di Smith che vede nella "parsimonia" un inganno ordito a danno dei singoli ma favorevole alla società. E, come Smith, individua nella traduzione del risparmio in investimento e nella conseguente, sempre maggiore, soddisfazione dei bisogni fondamentali la giustificazione storica dell'ineguaglianza e del capitale.

La corrispondenza con i temi smithiani è talmente pronunciata che vale la pena di citare ampi brani:

"L'Europa [dopo il 1870 e prima della guerra] era socialmente ed economicamente organizzata in modo da permettere la massima accumulazione di capitale. Mentre vi era un certo continuo miglioramento nelle condizioni quotidiane di vita della massa della popolazione, la società era organizzata in guisa che una gran parte del reddito di nuova formazione veniva a cadere sotto il controllo della classe che era meno incline a consumarlo . . . era precisamente la 'ineguaglianza' di distribuzione della ricchezza che rendeva possibili quelle vaste accumulazioni di ricchezza fissa e di sviluppo di capitali  che distinguono quel periodo da ogni altro. E qui sta, in fatto, la principale giustificazione del sistema capitalistico. Se i ricchi avessero speso la loro ricchezza di nuova formazione nei godimenti personali, il mondo già da un pezzo avrebbe trovato questo sistema intollerabile. Ma, come api, essi risparmiavano ed accumulavano a vantaggio anche della comunità, perché essi stesso avevano di mira fini più ristretti. . . . Lo sviluppo di questo rimarchevole sistema dipendeva perciò da un doppio inganno. Da un lato le classi lavoratrici accettavano, per ignoranza o per impotenza, o erano costrette, persuase o indotte dal costume, dalla convenzione o dall'autorità e dal ben regolato ordine sociale, ad accettare una situazione per la quale esse potevano chiamare propria una ben piccola parte della torta che esse stesse e la natura e i capitalisti avevano cooperato a produrre. dall'altro lato era consentito ai capitalisti di considerare propria la miglior parte della torta ed essi erano teoricamente liberi di consumarla, nella tacita, sottintesa condizione che in pratica ne avrebbero consumato una ben piccola porzione. Il dovere di 'risparmiare' divenne celebrata virtù e l'ingrossamento della torta oggetto di vera religione . . . Ciò dicendo io non riprovo necessariamente il metodo di quella generazione. Negli inconsci recessi del suo essere la società sapeva quello che si faceva." (Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Sellier, Torino 1983, pp. 34-35)

Il soggetto è dunque la società, ed i comportamenti degli individui sono - di nuovo come in Smith - dettati dalla propria collocazione di classe determinati dalle leggi di riproduzione di quel sistema. Il mezzo è il capitale; fini sono il superamento della scarsità, ed il passaggio ad una economia dell'abbondanza e dell'ozio:

"forse sarebbe venuto un giorno in cui ce ne sarebbe stato finalmente abbastanza per tutti e la posterità avrebbe potuto cominciare a godere  il frutto delle 'nostre' fatiche"(Conseguenze, p. 36)
Il futuro è però incerto. Il processo può incepparsi prima di aver raggiunto il suo termine: la "torta" può essere insufficiente per una eccessiva crescita della popolazione, come in Mill; oppure, come è avvenuto, a causa di una guerra. Ma l'effetto principale della guerra non è stato tanto materiale, quanto culturale: ha dissolto quelle 

"condizioni psicologiche instabili, che non si possono riprodurre . . La guerra ha rivelato a tutti la possibilità del consumo immediato ed a molti la vanità dell'astinenza. Così l'inganno è rivelato; le classi lavoratrici possono non essere più disposte a così larghe rinunzie e le classi capitalistiche, non più fiduciose nel futuro, possono avere voglia di godere in modo più completo la loro libertà di consumo fin quando essa duri, precipitando così l'ora della sua confisca." (Conseguenze, p. 36)

La questione sarà affrontata di nuovo nel 1930, nelle "Prospettive economiche dei nostri nipoti". Questa volta, ad essere impressionanti non sono solo le corrispondenze con Smith, ma anche quelle con Mill.
In analogia con quanto scriveva nel 1919, Keynes ritiene che la velocità dello sviluppo sia tale che "scartando l'eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di una soluzione, nel giro di un secolo" ("Prospettive economiche per i nostri nipoti", in Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 272; corsivo nel testo).

Il sintomo della nuova situazione è il diffondersi di una nuova malattia, la disoccupazione tecnologica. La causa, l'essere ormai vicino il soddisfacimento completo dei bisogni "assoluti", "quelli che sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili" - bisogni che, a differenza di quelli "relativi", caratterizzati dal bisogno insaziabile di superiorità sugli altri, possono raggiungere la saturazione ("Prospettive", p. 272). La via di uscita: la riduzione dell'orario di lavoro: "Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo."("Prospettive", p. 274-275)

Come in Smith, la storia della società sino al capitalismo è una storia sotto il segno della lotta per la sussistenza. Come in Mill, l'evoluzione naturale del sistema ha uno scopo di cui l'azione dei singoli è inconsapevole - la soluzione del problema economico - ma che una volta raggiunto deve lasciare spazio ad attività il cui fine sia cosciente: "per la prima volta dalla sua creazione l'uomo si troverà di fronte al suo vero , costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero" ("Prospettive", p. 221). Ancora come in Mill, il meccanismo dell'accumulazione conduce oltre il lavoro, al tempo stesso modificando - sino a rovesciarlo rispetto a Smith - il codice morale:

"Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo  avere il coraggio di assegnare alla motivazione 'denaro' il suo vero valore. L' amore per il denaro come possesso, e distinto dall'amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po' ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali" ("Prospettive", p. 275)

Muta rispetto a Mill, come avevamo preannunciato, la coscienza della drammaticità della transizione. Una drammaticità che nel testo del '30 sembra soprattutto localizzata al livello della cultura della società, cui viene imposta una trasformazione troppo accelerata:

"Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell'uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni. . . . Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere." ("Prospettive", pp. 273-274)

Già nel '36, nelle "Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria generale  potrebbe condurre", la preoccupazione di Keynes si sarà radicalizzata. L' "amore per il denaro" costituisce uno sfogo per tendenze aggressive ben radicate nell'essere umano, come amaramente dimostrano i fascismi. Pretendere di cancellarlo in poco tempo può essere più un male che un bene: 

"E' meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini; e mentre talvolta si denuncia il primo quale un mezzo per raggiungere il secondo, talaltra almeno ne è un'alternativa." (Teoria generale dell'occupazione , dell'interesse e della moneta , Utet, Torino 1978, p. 545)

La difficoltà di Mill si presenta ora sotto nuove spoglie: come conciliare il compito di trasformare la natura umana con il compito di governarla, quando i mezzi necessari al secondo scopo ostacolano il primo, perché si fondano proprio su quelle passioni che occorrerebbe estirpare affinché prevalgano i valori della vita?

Può essere utile fare un passo indietro, per indicare un altro aspetto della questione. La distinzione operata da Keynes tra i bisogni assoluti e quelli relativi - una distinzione che è anche separazione ed indipendenza dei primi dai secondi - non può non richiamare alla mente la distinzione di Smith tra bisogni "naturali" (cibo, vestiario e riparo) e desiderio di "quelle comodità che sono richieste dalla raffinatezza e delicatezza del nostro gusto" (si vedano, per esempio, le Lezioni di Glasgow ). I primi, potremmo dire, sono comuni agli esseri umani in quanto eguali, siano essi soli o in società; i secondi, che pongono l'accento sulle differenze reciproche, sono necessariamente relazionali e posizionali.
A differenza del Keynes di questi brani, però, Smith mette in relazione i due tipi di bisogni, ed anzi crea un effetto di ritorno dei secondi sui primi. Non soltanto perché lo scopo del processo capitalistico, il sempre migliore soddisfacimento dei bisogni naturali, è per lui il risultato inintenzionale di attività che sono invece rivolte all'obiettivo impossibile di esaudire il desiderio di distinzione, attraverso l'impulso che esse danno alla divisione del lavoro e alla crescita economica. C'è di più. Quei beni, dapprima prodotti come "comodità" per i ricchi, finiranno con il tempo - quando le classi superiori se ne saranno stancate - con il passare alle classi più povere, soddisfacendo i loro bisogni naturali. Che, dunque, sono in realtà sempre meno autonomi, e vanno a rimorchio del desiderio dei ricchi.

Qui l'antico si rivela più attuale del moderno. I fenomeni di induzione e imitazione del consumo sembrano confermare più l'intuizione di Smith che la tesi di Keynes. L'economia ha più a che fare con i bisogni relativi che con quelli assoluti: sia perché le necessità fondamentali sono sempre più determinate dal contesto storico e sociale; sia perché è la produzione stessa a plasmare la domanda. Ma allora, se le cose stanno così, non si vede perché l'espansione "artificiale" dei bisogni non possa costringere ancora l'essere umano nel mondo del lavoro e dell'economia, contrariamente a quanto scrive Keynes. E, d'altronde, una ulteriore riprova di ciò la si ritrova nella stessa forma che ha poi assunto proprio l'intervento keynesiano, quando si è proposto di rimuovere i limiti che il capitalismo "puro" poneva alla piena utilizzazione delle risorse, limiti che intralciavano la strada che conduce al superamento del problema economico. Quell'intervento si è infatti configurato come un'immissione di domanda aggiuntiva da parte dello Stato che ha sostenuto, direttamente ed indirettamente, la domanda privata, ed in particolare la quota dei consumi sul reddito. Vista da questo punto di vista, la politica economica eretta sulle basi della Teoria generale  - qui non importa con quanta fedeltà - è la smentita più radicale del futuro preconizzato da Keynes, dal momento che si traduce in un ulteriore salto nell' "artificialità" del consumo. Una "artificialità" che un commentatore, malevolo ma certamente acuto, come Schumpeter mette in risalto con perfidia in una tempestiva recensione al libro di Keynes:

"Chi accetta il messaggio lì esposto potrebbe riscrivere la storia dell' ancien régime  francese grosso modo nei termini seguenti. Luigi XV fu un monarca molto illuminato. Percependo la necessità di stimolare la spesa, egli si procurò i servizi di spenditori esperti quali M.me de Pompadour e M.me du Barry. Esse si misero all'opera con un'efficacia insuperabile. La conseguenza avrebbe dovuto essere la piena occupazione, indi il massimo di produzione e in ultimo un generale benessere. In verità si trova invece miseria, infamia e, alla fine di tutto, un fiume di sangue. Ma ciò fu una coincidenza del caso." ("Review of Keynes's General Theory ", trad. it. in Schumpeter, a cura di Marcello Messori, il Mulino, Bologna 1984, p. 357)

Certo, Schumpeter è incapace di prevedere l'efficacia dell' interventismo keynesiano, e perciò la possibilità che su di esso si fondi la tregua sociale tra capitale e lavoro che vedrà la luce nel secondo dopoguerra. Ai nostri scopi, però, è proprio l'innaturalità dei bisogni soddisfatti dal capitalismo - cui approdano, da sponde diverse, tanto lo Schumpeter della Teoria dello sviluppo quanto il Keynes della Teoria generale, ad essere di un qualche significato. Un meccanismo capitalistico di questo tipo, in cui è la produzione  a tirar dietro di sé la domanda, riproduce, invece che superare, il problema economico. 

6. Come se avesse l'amore in corpo. Marx e l'enigma del lavoro.

"La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine."
Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale , Adelphi, Milano 1983, pp. 77

Il discorso smithiano sulla giustificazione storica trova la sua ripresa ed il suo rovesciamento in Marx. I brani probabilmente più rappresentativi sono i due seguenti:

"Dal punto di vista storico, questa inversione [di soggetto e oggetto] appare come il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l'inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana. Passare attraverso questa forma contraddittoria è necessario come, in un primo tempo, l'uomo deve dare alle proprie forze intellettive la forma religiosa di potenze indipendenti da sé." (Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 21)     

"I rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la secondaforma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio"(Grundrisse, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1968-70, pp. 98-99)

In questa sezione cercherò di mostrare come la riconduzione dell'incivilimento dell'umanità allo sviluppo della produttività del lavoro portato dal capitalismo e l' individuazione di tre fasi della storia umana - della dipendenza personale; della indipendenza personale  fondata sulla dipendenza materiale; della affermazione della libera individualità - non configurano né una concezione economicistica ed escatologica della storia, né una ontologia; benché, certamente, siano fondate su una particolare visione dell' "essenza" dell' essere umano, ed affermino la possibilità di dare un senso alla storia.

6.1. Il lavoro come essenza dell'essere umano

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx svolge la sua critica del modo di produzione capitalistico a partire dalla tesi che in esso viene ad essere alienata l'essenza stessa dell'essere umano, costituita dal lavoro. Per il Marx dei Manoscritti, la specificità dell'essere umano è di essere un ente, al contempo, naturale e generico. Naturale: l'essere umano è, infatti, egli stesso una parte della natura, ed ha una natura fuori di sé, di cui vive; dalla natura trae i propri mezzi di sussistenza, e la materia con cui appronta gli strumenti e l'oggetto del lavoro. Generico: in quanto essere pensante, e dunque dotato di ragione, è l'indifferenza di tutte le differenze; non è perciò legato ad alcuna determinazione particolare, ma può in potenza, attraverso il lavoro, progettare e rendere oggettiva ogni determinazione. Agendo secondo le leggi della natura ed in rapporto con gli altri, in società, l'essere umano produce la stessa realtà che lo circonda secondo una misura universale:

"La libera attività consapevole è il carattere specifico dell'uomo . . . L'animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa . L'uomo fa della sua attività vitale stessa l'oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c'è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L'attività vitale consapevole distingue l'uomo direttamente dall'attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico . . . La pratica produzione di un mondo oggettivo , la lavorazione  della natura inorganica è la conferma dell'uomo come consapevole ente generico, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche etc. . Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l'uomo si realizza quindi come un ente generico . Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa come opera sua , dell'uomo, e sua realtà. L'oggetto del lavoro è quindi l' oggettivazione della vita generica dell'uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. (Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili , Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 199-200. Corsivi di Marx. Sottolineature mie)
  
In un lavoro autenticamente umano si mediano la genericità dell'attività, che non è fissata in uno scopo determinato, e la sua naturalità, la dipendenza da un mondo naturale ed oggettivo. La realtà viene appresa trasformandola: è un "in sé" che può essere colto come tale, nella sua indipendenza, solo nella misura in cui è al contempo reso un "per noi". Ma il passaggio al lavoro salariato inverte qui, nel cuore stesso della sua essenza sociale, la natura del lavoro. Separa il lavoratore dal mezzo di lavoro, facendo anzi del primo uno strumento del secondo. Separa, ancora, il lavoratore dal prodotto del suo lavoro, che non soltanto non è di sua proprietà ma gli è indifferente. Separa, di conseguenza e per ultimo, il lavoratore dal suo stesso lavoro, che diviene così una maledizione. 

Alla originaria dipendenza della natura segue una altrettanto cieca dipendenza da meccanismi sociali incontrollati. Invece di trovare nel lavoro il luogo di uno sviluppo universale delle proprie capacità, l'individuo vive nel lavoro il massimo di estraneazione. Come si sa, gli interpreti si dividono tra chi ritiene che il Marx maturo, "scientifico", abbia abbandonato queste tesi del Marx giovane, "filosofo" troppo influenzato dalla critica che Feuerbach muove ad Hegel. Ed anche chi sostiene la tesi della continuità si trova quasi sempre a leggere il discorso di Marx sul lavoro come essenza dell'essere umano come una generalizzazione mentale, oppure come la descrizione di una realtà metastorica. In quanto tale, esso andrebbe visto come la base di un giudizio - o pregiudizio, se si preferisce - filosofico, che stigmatizza la realtà del capitale  in quanto deviazione da una essenza, appunto, "naturale". Credo che le cose stiano molto diversamente. Che il Marx maturo trasformi ma non abbandoni la visione giovanile. Che però in questa trasformazione avvenga un mutamento di grande portata: l'universalità e la socialità del lavoro sono ora ritenuti fenomeni integralmente storici: essi fanno la loro apparizione, sia pure in forma rovesciata ed astratta, soltanto con il modo di produzione capitalistico. E' con quest'ultimo, infatti, che trovano pratica conferma il carattere sociale della produzione e la possibilità di non essere costretti permanentemente in una ed una sola attività - elementi cruciali della definizione di  quella genericità che costituisce il tratto distintivo di quel particolare ente naturale che è l'essere umano. In questa luce, il discorso sul lavoro come essenza dell'essere umano non è più, come nel 1844, il fondamento di una critica filosofica ed esterna della realtà esistente, ma diviene parte di una scienza che vuole totalmente immanente il punto di vista della critica. Vediamo meglio.

Il luogo più opportuno per accertare la posizione del Marx maturo è, a me pare, la parte dei Grundrisse dedicata alle "forme economiche precapitalistiche". E' qui, nella discontinuità tra il mondo del capitale e ciò che lo precede, che Marx sottolinea come nella storia venga a compimento quel cambiamento radicale della configurazione del rapporto tra essere umano e natura che si riflette nella realtà del lavoro, e dunque anche nella riflessione su di esso. 

Nelle forme economiche precapitalistiche, l'essere umano intrattiene un rapporto particolare e determinato con la natura, che irrigidisce gli stessi rapporti personali dentro i vincoli della tradizione. Prima del capitalismo, la natura non soltanto appare, ma ancora in larga misura effettivamente è, una condizione esterna, non mediata, dell'attività umana. Ne impone i ritmi, e ne segna il limite. L'agricoltura è in queste condizioni il centro dell'organizzazione economica. La terra come natura è presupposta al lavoro, "la principale condizione obiettiva del lavoro non si presenta essa stessa come prodotto, ma esiste come natura " (Forme economiche precapitalistiche, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 83). Il rapporto con la terra è mediato dall'esistenza dell'individuo come membro di una comunità, ed egli deve riprodursi in questo ruolo determinato:

"In tutte queste forme la riproduzione  di rapporti dati in precedenza - più o meno naturali, o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali - del singolo con la propria comunità, e una esistenza che sia oggettiva, determinata, predeterminata nei suoi confronti sia in rapporto alle condizioni di lavoro che ai suoi collaboratori, membri della sua tribù, ecc. - è il fondamento dello sviluppo, che fin dal principio è pertanto limitato , ma con l'eliminazione delle limitazioni diventa rovina e decadenza . . . All'interno di una determinata cerchia, possono qui verificarsi grandi sviluppi. Le individualità possono apparire grandi. Ma non c'è qui da pensare a uno sviluppo libero e completo né dell'individuo, né della società, in quanto un tale sviluppo è in contraddizione con il rapporto originario." (Forme, p. 86. Corsivi nel testo. Sottolineatura mia.) 

La divisione del lavoro è in queste forme economiche, come anche nella produzione artigianale precapitalistica, una divisione del lavoro "naturale-spontanea". Il lavoro del singolo, in quanto lavoro utile, è un lavoro immediatamente sociale. Ma, si badi, soltanto in quanto esso è al contempo lavoro parziale in una comunità ristretta, che mira a riprodursi in quanto tale. La separazione del lavoratore dalla proprietà dei mezzi di produzione, dalla terra come "laboratorio naturale", e quindi anche dai mezzi di sussistenza, è per Marx una condizione storica necessaria per emancipare l'essere umano dalla destinazione ad una forma di attività limitata, che ne fa un ente particolare, non universale. L'universalità del lavoro capitalistico va intesa in modo duplice. Si tratta, innanzitutto, del fatto che nelle nuove condizioni il lavoro diviene sociale solo attraverso la mediazione del mercato: attraverso, cioè, un processo di equiparazione nello scambio, che realmente separa ed oppone il lavoro vivo del salariato - in quanto produttore di denaro, e dunque in quanto lavoro sociale-astratto in potenza - rispetto ai lavori utili-concreti dei medesimi operai - che sono invece immediatamente privati, e disomogenei gli uni rispetto agli altri. 

Ma vi è anche un secondo aspetto. Una volta che la ricchezza non è più costituita dai valori d'uso, ma da una ricchezza astratta, la produzione non ha più un limite esterno dato dalla finalizzazione al consumo della classe dominante, o dalla riproduzione di rapporti già dati e fissi. Diviene autovalorizzazione del capitale, massimizzazione dell'estrazione del pluslavoro, produzione per la produzione. La stessa struttura tecnica della produzione viene incessantemente rivoluzionata, allo scopo di ottenere il profitto il più elevato possibile. In tal modo, peraltro, il capitale finisce con l'infrangere all'interno della produzione stessa il legame tra lavoratore singolo e mansione lavorativa. Autonomizza la produzione capitalistica dalle abilità particolari dell'individuo - un punto che segna un vero e proprio rovesciamento della posizione di Smith sulla divisione del lavoro. Nell'universalità del lavoro capitalistico vi è dunque una doppia separazione dalla naturalità. Nello scambio generalizzato è stata soppressa ogni traccia del lavoro utile, produttore di beni concreti, ed il lavoro si è realmente ridotto ad una pura astrazione, a creazione di ricchezza generica. Nel processo lavorativo non vi è quasi più rapporto tra le abilità particolari dell'operaio, ormai tendenzialmente annullate o ridotte all'insignificanza, e gli specifici valori d'uso prodotti. 

Il modo di produzione capitalistico è così l'espressione di una contraddizione. Costituisce, per la prima volta nella storia, la società come effettiva universalità di relazioni nello scambio; fa ciò però isolando i produttori e contrapponendoli nella concorrenza. Rende il lavoro del singolo funzione della cooperazione sociale; gli impone però quest'ultima come risultato di una scienza e di una organizzazione capitalistica, di cui diviene un accessorio vivente:

"quello che compera il capitalista e che il lavoratore vende è il valore d'uso della capacità di lavoro, vale a dire il lavoro stesso, la forza che crea e accresce il valore. Perciò la forza che crea e che accresce il valore appartiene non al lavoratore ma al capitale. Incorporandosela esso diventa vivo e comincia to work "come se avesse amore in corpo" [J.W.Goethe, Faust, vv. 2130-2149]" (Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 114)

6.2. Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx.  

Poche altre citazioni basteranno a confermare la nostra interpretazione. Marx riprende da Smith la tesi che l'unica vera società è quella capitalistica, e ne ammette la superiorità rispetto alle forme precedenti. Ma ne sottolinea la contraddittorietà, e la possibilità che essa apre: che l'evoluzione spontanea lasci il posto alla libera individualità, la quale fa della società il suo progetto.

"Si è detto e si può dire che il lato magnifico sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. Altrettanto certo è che gli individui non possono subordinare a sé i loro stessi nessi sociali prima di averli creati. Ma è anche insulso pensare quel nesso soltanto materiale come un nesso naturale, inscindibile dalla natura dell'individualità (in antitesi al sapere e al volere riflessi) e ad essa immanente. Esso invece ne è un prodotto. E' un prodotto storico. Appartiene ad una determinata fase del suo sviluppo. L'estraneità e l'autonomia in cui esso ancora si trova rispetto a loro, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita sociale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. Quella naturale è la connessione di individui nell'ambito di determinati e limitati rapporti di produzione di produzione. Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l'universalità dello sviluppo della capacità in cui questa individualità diventa possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l'universalità, l'alienazione dell'individuo da sé e dagli altri, ma anche l'universalità e l'organicità delle sue relazioni e delle sue capacità." (Grundrisse, vol I, p. 104)

Per Marx, il modo di produzione capitalistico va visto dunque come il momento di passaggio tra due fasi della storia dell'essere umano: la prima "naturale", dove nel rapporto tra l'essere umano e la natura è il secondo elemento che prevale; la seconda "storica", dove è predominante l'attività dell'essere umano su una natura che, pur rimanendo esterna, è però sempre più sotto il suo dominio e la società è propriamente tale, cioè generale. 

A queste due fasi corrispondono necessariamente due diverse configurazioni del lavoro. Nella prima, lo scopo del lavoro è dettato dalla necessità naturale, mentre nella seconda è posto dall'essere umano stesso (e lo stesso vale, in certa misura, per gli ostacoli che il lavoro inevitabilmente incontra).
La libera individualità è peraltro sociale non solo, per così dire, a valle, ma anche a monte. Le relazioni sociali non sono soltanto il prodotto di un nuovo tipo di individualità, ma esse entrano nella sua stessa costituzione. Si tratta nuovamente di un risultato reso possibile dall'epoca borghese. Infatti, il capitalismo che nello scambio riunifica unità produttive separate ed antagonistiche, dissolve però nella produzione l'isolamento dell'individuo e ne fa un essere generale, collettivo. Marx nega, di conseguenza, tanto che lo stadio primitivo possa essere caratterizzato, come in Smith, dal "lavoro dell'uomo isolato", quanto che la divisione del lavoro si limiti a frantumarne l'unità mantenendone però immutata la natura. La storia può piuttosto essere letta come il passaggio dal gregarismo primitivo all'autentica socialità del futuro, attraverso la fase contraddittoria dell'atomismo concorrenziale, da un lato, e della cooperazione nella produzione, come anche della solidarietà tra i lavoratori, dall'altro lato: 

"L'essere umano si isola attraverso il processo storico. Originariamente egli si presenta come essere sociale, tribale, animale gregario - anche se assolutamente non come uno zwon politixon nel senso politico. Lo scambio stesso è uno dei mezzi principali di questo isolamento. esso rende superfluo il gregarismo e lo dissolve. Non appena le cose si svolgono in modo tale che egli in quanto individuo isolato si ponga ormai in rapporto solo con se stesso, i mezzi per affermarsi come isolato consistono però nel suo farsi essere generale e collettivo." (Forme, p. 99. Corsivi nel testo. Sottolineature mie)
Che il capitalismo, giunto allo stadio del macchinismo, produca per un verso il massimo arricchimento potenziale delle capacità dei lavoratori, "liberandoli" dalle rigidità del mestiere e facendone in potenza gli ideatori e i controllori di una produzione universale, e per l'altro verso il loro massimo impoverimento, legandoli alla determinazione particolare impostagli dalla macchina di cui divengono mero strumento ed appendice, è affermato a chiare lettere nel Capitale, di nuovo in implicita contrapposizione a Smith:

"S'è visto che la grande industria elimina tecnicamente la divisione del lavoro di tipo manifatturiero con la sua annessione d' un uomo intero ad una operazione parziale vita natural durante, mentre allo stesso tempo, la forma capitalistica della grande industriariproduce in maniera anche più mostruosa quella divisione del lavoro, nella fabbrica vera e propria, mediante la trasformazione dell'operaio in accessorio consapevole e cosciente d'una macchina parziale . . . Finché l'artigianato e la manifattura costituiscono il fondamento generale della produzione sociale, la subordinazione del produttore a un ramo esclusivo della produzione, cioè la distruzione della molteplicità originaria della sua occupazione, è un momento necessario dello sviluppo. Su quella base ogni branca particolare della produzione trova empiricamente la configurazione tecnica che le si confà, la perfeziona lentamente e la cristallizza rapidamente appena è raggiunto un dato grado di maturazione. Quel che provoca qua e là dei cambiamenti è, oltre qualche nuovo materiale di lavoro, fornito dal commercio, la graduale modificazione dello strumento di lavoro. Una volta raggiunta la forma confacente secondo l'esperienza, anche lo strumento di lavoro si irrigidisce, come dimostra il suo passare, spesso per millenni, dalle mani di una generazione in quelle della seguente. . . La industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione era sostanzialmente conservatrice . . . Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell'operaio in tutti i sensi. Dall'altra parte essa riproduce la antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica . . . Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro: sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con l'altro." (Il Capitale, Libro primo, 2, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 196-201)

Ben s'intende, sulla base di questa analisi, come Marx avesse elevato nei Grundrisse un inno al capitale tale da far impallidire qualsiasi cosa scritta da Smith.

"Perciò la vecchia concezione secondo cui l'uomo anche se inteso in un senso molto limitato dal punto di vista nazionale, religioso, politico, è sempre lo scopo della produzione, appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell'uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Ma, in fact, una volta gettata via la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, dei consumi, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz'altro presupposto che il precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane, non misurate su di un metro già dato. Nella quale l'uomo non si riproduce entro un modo determinato, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualche cosa di divenuto, ma è nell'assoluto movimento del divenire?" (Forme, p. 87-88. Corsivi nel testo. Sottolineature mie.)

6.3. Una filosofia della storia?     

Non ci aiuta ad intendere il senso della riflessione marxiana interpretarla come una ontologia, dove la critica concreta della realtà sociale viene fatta dipendere da una previa comprensione speculativa del lavoro in quanto "modello" generale dell'agire umano. Non credo neanche che sia corretto leggerla come una filosofia della storia: almeno se con questo termine si intende, come è d'uso per i critici di Marx, una concezione "forte", aprioristica e teleologica, che dispone le fasi dello sviluppo del genere umano secondo un ordine orientato secondo la realizzazione di un Fine, imposto dalla Ragione o dalla Materia poco importa; una concezione in cui quindi la spiegazione si colora dei tratti della giustificazione. A questo schema Marx corrisponde altrettanto poco di Smith, Stuart Mill o Keynes, per i quali il capitalismo era un "caso", sia pure fortunato. In modo analogo, il riconoscimento da parte di Marx di un "senso" della storia, ricostruibile grazie a certe categorie generali, è più sotto il segno della possibilità che della necessità

Confesso che mi è sempre apparsa convincente la posizione di Alfred Schmidt, che legge in tutt'altri termini il discorso marxiano. Marx individua, a partire dalla sua analisi - scientifica e critica - di questa società, la differenza specifica tra il capitalismo e le forme precapitalistiche di produzione, differenza consistente nel fatto che:

"nel mondo preborghese il rapporto tra l'elemento naturale e lo storico rientra nel grande contesto della natura; nel mondo borghese, anche per quanto concerne la natura non ancora appropriata, quel rapporto rientra nella storia"(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1973, p. 171)

L'attribuzione marxiana della "naturalità" alle formazioni sociali precapitalistiche è data, insomma, solo nel confronto con la società borghese, e sulla base della comprensione teorica dei moderni rapporti di produzione. Così, anche la fase della libera individualità sociale non costituisce tanto il fine cui tende linearmente l'evoluzione sociale, ma può essere il risultato di una prassi emancipativa:

"Solo alla considerazione teoretica la modificazione di una forma si dimostra come suo sviluppo superiore pur senza esserne il necessario prodotto. Il corso della storia per Marx è quindi molto meno lineare di come viene concepito generalmente; esso non obbedisce ad alcuna idea che ne costituisca l'unità e il senso, bensì si ricompone continuamente a partire da singoli processi originali. In questo modo alla formazione della società borghese spetta nel materialismo dialettico un ruolo metodologicamente decisivo, in quanto a partire da essa si dischiudono tanto il passato quanto anche le possibilità del futuro. Marx è tutt'altro che un semplice evoluzionista. Ogni momento storicamente superiore si fonda su quello inferiore, ma l'alterità qualitativa dell'inferiore rispetto al superiore che da esso scaturisce può essere compresa soltanto quando questo momento superiore si è pienamente dispiegato, ed è diventato oggetto di una critica immanente"(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, p. 171)

"Il materialismo marxiano è critica alla filosofia perché attribuisce al mondo un significato soltanto nella misura in cui gli uomini sono riusciti a realizzarlo attraverso le loro istituzioni sociali. Il materialismo rifiuta di trasfigurare il continuo negativo della storia movendo dal concetto di una natura umana comune a tutti e immutabile o di un fondamento ontologico che il singolo dovrebbe scoprire in se stesso"(Alfred Schmidt, "Ontologia esistenziale e materialismo storico in Herbert Marcuse", in Risposte a Marcuse , a cura di Jürgen Habermas, Laterza, Bari, p. 46)

7. Orfeo e Narciso contro Prometeo. La fuga dal lavoro.

"Un singolo essere umano, puro e semplice, non mescolato con altri esseri umani, non esiste. Ogni personalità è un mondo in sé, una società di molti . . . Noi facciamo parte gli uni degli altri."
Joan Rivière, "La fantasia inconscia di un mondo interno riflessa in esempi tratti dalla letteratura", in Nuove vie della psicoanalisi, a cura di Melanie Klein, Paula Heimann, Roger Money-Kyrle, il Saggiatore, Milano 1966, pp. 460-461.

7.1. La positività del finito.

La contraddittorietà del modo di produzione capitalistico si esprime, secondo Marx, nel fatto che, benché esso misuri la ricchezza sul tempo di lavoro, ha la tendenza a ridurre al minimo il tempo di lavoro che la società dedica alla produzione della ricchezza.

Di solito, Marx viene rinchiuso dagli interpreti in posizioni estreme, entrambe caricaturali. Secondo taluni, Marx sarebbe il teorico della esaltazione del lavoro, all'interno di una visione della storia che riconduce le leggi di movimento di qualsiasi formazione sociale in un vero e proprio determinismo tecnologico, e fa del comunismo la condizione in cui si generalizza la figura del salariato. E' una tesi che ha, di fatto, attraversato tanto la Seconda quanto la Terza Internazionale. Altri ne hanno fatto, all'opposto, il teorico del rifiuto del lavoro, all'interno di una visione della rivoluzione come salto nell'assoluto. Come uscita, cioè, dai limiti di un finito alienato, in cui il lavoro sarebbe costitutivamente intrappolato, allo scopo di realizzare un agire, quello sì autenticamente umano, dai caratteri a priori indeterminati. Salto, dunque, dal finito all'infinito, da un lavoro condizionato ad un'attività incondizionata. E' questa, per esempio, l'interpretazione di autori così diversi come Franco Rodano, che ne fa la base di una critica di Marx, o come Toni Negri, che ne fa il fondamento di una apologia del sabotaggio della produzione e dell' esproprio "proletario".

Si tratta di un duplice, grottesco, travisamento della posizione di Marx. L'interpretazione "lavorista" inverte, rispetto a Marx, il nesso di causalità tra determinazioni tecniche e relazioni sociali, facendo comandare le prime sulle seconde; e non vede che in Marx la centralità della produzione e il discorso sul lavoro come essenza dell'essere umano sono antitetici, nel senso che la realizzazione del secondo può avvenire solo in un mondo in cui la prima sia stata superata. 

L'interpretazione "antilavorista" compie un errore idealistico, speculare a quello oggettivistico implicito nella precedente. Confonde, infatti, oggettivazione e alienazione: il Marx di questa lettura riterrebbe che qualsiasi attività che si svolge entro una materialità condizionante vada per ciò stesso ritenuta alienante. Ma, come scrisse Claudio Napoleoni all'inizio degli anni settanta, per Marx

"il finito non è negativo, ma è reso tale da una situazione sociale determinata. La rivoluzione, nel senso di Marx, ne risulta allora caratterizzata come la riconquista della positività del finito, come quella riappropriazione dell'essere umano per cui il limite proprio dell'ente naturale generico, e perciò del lavoro, è solo limite e non anche alienazione e sfruttamento." ("Quale funzione ha avuto la Rivista Trimestrale", in Rinascita, 6 ottobre 1972)

Rimane, comunque, il problema di individuare quale possa essere, in una prospettiva marxiana, la conciliazione tra riduzione del tempo di lavoro e "libero sviluppo dell'individualità", una volta che l'aumento della produttività sociale abbia esaurito il ruolo storico della centralità della produzione. Quale, insomma, la relazione tra economia e società, una volta superata la forma contraddittoria del capitalismo. 

La riflessione più recente dello stesso Claudio Napoleoni può esserci anche qui di aiuto. In alcuni scritti di questo autore, infatti, viene proposta una rilettura della prospettiva marxiana di superamento del capitalismo che riprende esplicitamente le argomentazioni di Mill e Keynes. Dopo aver ribadito che:

"la centralità dell'economico, da un certo punto di vista, non può che essere constatata . . . Però, all'interno di quello che possiamo continuare a chiamare un compito, questa centralità va negata."("La libertà del finito. Conversazione con Claudio Napoleoni", in Palomar. Quaderni di Porto Venere, n. 3, 1987, p. 15)

osserva:

"Questo però è un discorso aperto, e allora qui vengono concetti molto delicati, come quello di 'scarsità', e il suo corrispettivo in negativo, che è l'abbondanza. Insomma, l'economia come scienza della scarsità - anche questo è un paradosso - è stata pensata così da chi pensava di dare una definizione generale, non connessa a un sistema sociale dato. Invece, secondo me, si potrebbe mostrare che questa definizione è strettamente legata al sistema sociale dato; e che, se invece si volesse tentare una definizione non così condizionata, bisognerebbe probabilmente pensare ad un'economia in cui il momento dell'abbondanza - perciò della quiete, in qualche modo della tranquilla fruizione di ciò che si è conseguito - non si configura solo come necessaria base per andare avanti, ma come pacificazione, almeno relativa, rispetto ad una certa condizione storica. Questo concetto avrebbe altrettanta legittimità di essere elemento costitutivo di una definizione dell'economia, di quanta ne abbia la scarsità."("La libertà", pp. 15-16)

Proprio perché incapaci di intravedere una definizione diversa di economia, prosegue Napoleoni, Stuart Mill e Keynes avrebbero inteso l'uscita dal capitale come una uscita dall'economia tout court. Piuttosto, si tratterebbe di vedere che in tal modo viene a terminare solo una particolare modalità dell'economia. Un ragionamento, ed un suggerimento, suggestivi: ma che rimandano, inevitabilmente, ad un chiarimento ulteriore, che riempia di contenuto l'economia dell'abbondanza, della "tranquilla fruizione di ciò che si è conseguito". 

Vale la pena di seguire tre possibili piste, tutte in qualche modo consentite dal percorso dell'ultimo Napoleoni - anche se, come dirò, le prime due non possono in alcun modo essere da sole viste come rappresentative della sua posizione.

7.2. Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?

La prima possibile interpretazione è quella di leggere nel recupero operato da Napoleoni della nozione greca di "scholé", di contemplazione, come dimensione dell'essere umano altrettanto essenziale del lavoro, nient'altro che il rovesciamento rivoluzionario della posizione conservatrice di Augusto Del Noce. 
La situazione contemporanea viene definita in termini di completa secolarizzazione, e quindi di crisi dei valori tradizionali: tale crisi andrebbe intesa però non come definitivo tramonto ma come temporanea eclissi. Il "compito" di cui parla Napoleoni potrebbe allora essere ridetto in questo modo: si tratta di superare insieme la riflessione preborghese, che ritiene che la vera umanità possa esplicarsi soltanto fuori dal lavoro, e l'assolutizzazione del lavoro realizzata dalla società borghese. Il ruolo storico del capitale, all'interno di questa lettura, sarebbe stato quello di costruire le condizioni materiali per estendere a tutti la "scholé". Il gigantesco progresso tecnico portato dall'industrialismo libera gli individui dal lavoro come sacrificio, e lo dispone ad "altro", ad attività in senso lato spirituali. Una prospettiva non troppo dissimile dal Keynes che, chiedendosi in cosa consista la fine dell'economia, si trova a citare il vangelo di Matteo (2, 26-30): 

"Vedo quindi gli uomini tornare ad alcuni dei principi più solidi ed autentici della religione e della virtù tradizionali: che l'avarizia è un vizio, l'esazione dell'usura una colpa, l'amore per il denaro spregevole, e che chi meno s'affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all'utile." ("Prospettive", p. 276) 

7.3. Marxismo e psicoanalisi. Un nuovo principio di realtà?

Una seconda interpretazione, non necessariamente alternativa alla precedente, è quella di vedere l'uscita dal capitalismo come la condizione del superamento della contrapposizione tra principio della realtà e principio del piacere. Questa lettura può prendere lo spunto da alcune considerazioni di Napoleoni stesso:

"Io credo che una linea di ricerca molto proficua è quella del collegamento, che finora è stato tentato soltanto in modo superficiale, tra il marxismo e una parte della psicoanalisi, della psicoanalisi come interpretazione della storia. C'è un punto in cui avviene un possibile congiungimento, che è proprio il punto del lavoro. Il primo Freud, quello che contrappone principio della realtà e principio del piacere, si è posto il problema del lavoro in maniera molto precisa, cioè il problema del processo attraverso il quale, per ragioni attinenti essenzialmente alla sussistenza fisica, l'uomo abbia dovuto sviluppare una facoltà - appunto il principio della realtà, cioè il lavoro - che è stata la negazione di una altra sua facoltà, con una frattura al suo interno che ha determinato, nello stesso momento, sul terreno sociale la necessità della repressione, e sul terreno della vita individuale la costituzione graduale dell'inconscio. Poi Freud ha abbastanza cambiato le sue idee su questo terreno. Però una problematica di questo tipo è molto vicina, secondo me, a quella che Marx affrontò già nei Manoscritti : perché anche in Marx c'è il problema del lavoro come opposto ad altre facoltà, lo sviluppo delle quali viene da lui visto, non a caso, come possibile in una fase in cui il lavoro è diventato meno necessario di quanto fosse all'origine." ("Marx e la critica dell'economia politica", in "An.archos", 2, 1979, pp. 104-105)

Tra i "tentativi superficiali" cui fa riferimento Napoleoni vi è forse da annoverare quello di un autore, cui peraltro egli ha sempre prestato molta attenzione: mi riferisco al Marcuse di Eros e civiltà. Accanto al testo di Marcuse, non privo di interesse è un altro libro degli anni cinquanta, dalle tesi non molto dissimili: si tratta de La vita contro la morte di Norman Brown, che dedica uno dei suoi capitoli centrali - intitolato "lo sporco denaro" - all'irrazionale razionalità dell' homo oeconomicus , e che fonda gran parte della sua argomentazione sui brani di Keynes, dalle Conseguenze economiche della pace, che abbiamo citato. Vale la pena di soffermarsi un attimo su questa particolare versione di marxismo psicoanalitico. 
Basteranno poche citazioni per cogliere il senso della filosofia della storia proposta da Marcuse e Brown:

"Per Keynes, l'arte di vivere, che in un'età di abbondanza e di tempo libero dovrà prendere il posto dell'arte di accumulare i mezzi di sussistenza, è un'arte difficile che richiede una raffinata sensibilità, come quella dei membri del Bloomsbury Group immortalato nell'opera di Virginia Woolf. Per questo Keynes guarda con terrore all'emancipazione dal lavoro dell'uomo comune. Ma dal punto di vista di Freud ogni uomo ha gustato il paradiso del gioco durante l'infanzia; sotto le abitudini al lavoro, in ogni uomo c'è l'immortale istinto del gioco. Nell'inconscio rimosso esistono già le fondamenta su cui costruire l'uomo del futuro; non bisogna crearle dal nulla, basta recuperarle." (Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia , Garzanti, Milano 1986, p.53)

"nel nostro tentativo di mettere in luce la portata e i limiti della repressività che domina nella civiltà contemporanea, dovremo descriverla nei termini dello specifico principio della realtà che ha governato le origini e la crescita di questa civiltà. Gli abbiamo dato il nome di principio di prestazione per dare rilievo al fatto che sotto il suo dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. (Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1968, p. 87)

"Il pretesto della penuria , che ha giustificato  la repressione istituzionalizzata fin dai suoi inizi, diventa meno plausibile man mano che le conoscenze dell'uomo e il suo controllo della natura aumentano i mezzi per soddisfare i bisogni umani con una fatica minima"(Marcuse, Eros e civiltà, p. 127)

"Il regno della libertà è prospettato come al di là del regno della necessità : la libertà non sta nella 'lotta per l'esistenza', ma al di fuori di questa. Il possesso e la conquista dei mezzi necessari all'esistenza, sono il prerequisito, più che il contenuto, di una società libera. Il regno della necessità, del lavoro faticoso, manca di libertà poiché in questo regno l'esistenza umana è determinata da obiettivi e funzioni che non le sono propri, e che non consentono il libero gioco delle facoltà e dei desideri dell'uomo." (Marcuse, Eros e civiltà, p. 213)

"Quanto più completa è l'alienazione del lavoro, tanto maggiore è il potenziale di libertà: l'optimum sarebbe un'automatizzazione totale. E' la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione, ed è la possibilità di determinare l'esistenza umana in base ai valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di prestazione." (Marcuse, Eros e civiltà, p. 181)

"Se Prometeo è l'eroe civilizzatore della fatica, della produttività e del progresso per mezzo della repressione, i simboli di un altro principio di realtà vanno cercati al polo opposto . . . Orfeo e Narciso sono simboli di realtà, esattamente come Prometeo . . . Ora siamo in grado di trovare qualche conferma della nostra interpretazione nel concetto freudiano di narcisismo primario . . . con esso, si rivelò l'archetipo di un'altra relazione esistenziale con la realtà . Il narcisismo primario è più che autoerotismo; esso assorbe l' 'ambiente' integrando l'Io narcisistico col mondo oggettivo. . . [in quanto sentimento di estensione senza limiti, e identità con l'universo (senso oceanico)] il narcisismo può contenere il germe di un differente principio di realtà."(Marcuse, Eros e civiltà, p. 185-191. Corsivi nel testo; sottolineature mie) 

Il ragionamento è chiaro. Il principio di realtà viene identificato con il principio di prestazione, cioè con il lavoro. La civiltà si è potuta sviluppare, a partire dalla sua originaria situazione di penuria, solo in forza della repressione del principio di piacere: la desessualizzazione del corpo è stata necessaria per costringere al lavoro. Ma il superamento della scarsità, determinato dallo stesso capitalismo, rende possibile lo stabilirsi del nuovo principio di realtà, il ritorno del rimosso. La condizione di una società liberata è che vengano recuperati gli istinti infantili repressi, che spingono verso l'autosoddisfazione e la fusione con l'altro.

In un saggio di qualche anno fa, raccolto recentemente in volume ("Beyond Drive Theory: Object Relations and the Limits of Radical Individualism", in Theory and Society, n. 13, 1985, ora in Feminism and Psychoanalytic Theory , Polity Press, Oxford 1989), Nancy Chodorow ha sviluppato una critica distruttiva di queste tesi, che rivela insospettate convergenze con il filo di discorso che sto perseguendo.
Secondo la Chodorow, Marcuse e Brown assolutizzano il punto di vista del bambino. In tal modo, non si rendono conto che il principio di realtà non è integralmente riducibile ad una civilizzazione repressiva basata sul principio di prestazione. Esso è anche, ed in primo luogo, la soggettività di altri - per il bambino, la soggettività della madre. I bisogni degli altri divengono un problema solo per l'adulto, e nel corso del processo di crescita. 

Negando l'altro, si nega in primo luogo la donna. Svalutando la relazione sessuale di tipo 'genitale', Marcuse e Brown concepiscono il piacere soltanto in quanto non separazione dall'oggetto d'amore: ma è proprio a partire dalla separazione che è possibile l'incontro con i desideri dell'altro, che acquistano quasi la stessa importanza dei propri. Ancora, il rifiuto dell'elemento procreativo nella sessualità (che entrambi gli autori riprendono da Nietzsche) esprime una negazione dell'esperienza della maternità (e, più in generale, della genitorialità), la quale richiede un agire che combina razionalità teleologica, senso della realtà, accoglimento dei bisogni dell'altro. La donna è qui negata, dunque, tanto come soggetto di desiderio, quanto come madre-persona che insieme gratifica e limita l'onnipotenza infantile. Al più compare - sulla scorta di Totem e tabù di Freud - come oggetto sessuale (proprietà comune della donna); o viene, addirittura, annullata in quanto singola ed identificata con il mondo (senso oceanico), in una fusione che configura una relazione asimmetrica di asservimento dell'altro a sé.

Non a caso, rileva la Chodorow,  gli eroi di Marcuse e Brown sono Orfeo e Narciso: uomini che incorporano in sé il femminile, ma non hanno relazioni con donne. La liberazione, in questa prospettiva di individualismo radicale, è in primo luogo liberazione dall'altro, dalla donna (un individualismo da cui, sia detto tra parentesi, non sfugge, come vorrebbe, la critica che alla "cultura del narcisismo" viene da autori come Cristopher Lasch, i quali, contrariamente a Marcuse e Brown, imputano alla società contemporanea l'allentarsi delle forme di controllo culturale tradizionale; ma in fondo non stupisce che ad un "es" asociale si contrapponga un "super-io" altrettanto asociale). Su queste basi, di rifiuto del processo di crescita e del principio di realtà, il recupero del narcisismo primario difficilmente può far da base ad una teoria della società non individualistica, ed a suo modo repressiva.

All'opposto, psicoanalisi e femminismo possono essere visti come l'affermazione di una diversa fondazione psicoanalitica per una teoria sociale alternativa: si tratta di rifarsi ad un "individualismo relazionale", che sottolinei come gli individui siano costituiti dalle relazioni con gli altri, a partire da quella primaria con la madre. La nostra struttura psichica è sin dal principio costruita socialmente. I soggetti possono sfuggire all'alternativa tra solipsismo e fusione, se accettano la separazione e una "matura dipendenza" dall'altro come condizione della propria individuazione e del perseguimento del proprio desiderio. 

Da questo punto di vista, si potrebbe dire che tanto la visione della società del futuro come ripresa dei valori tradizionali à la  Del Noce quanto il ritorno della natura istintuale à la  Marcuse-Brown condividono, sia pure in forma a loro peculiare, la prospettiva smithiana dell' "uomo solo". Con la specificazione, ora, che alla solitudine dell'individualismo corrisponde un genere sessuale non casualmente maschile. E si potrebbe forse aggiungere che a partire da questa diversa prospettiva, fondata su una necessaria intersoggettività e sul ruolo cruciale della relazionalità (a partire da quella primaria e fondamentale, quella con la madre), sarebbero possibili diverse filosofie della storia. Per esempio, sarebbero possibili una visione della storia che vede nell'intersoggettività e nella relazionalità (appunto, se si vuole, perché ha origine in un legame apparentemente "naturale" come quello madre-figli) un tratto permanente, che porta dunque a criticare tutte le filosofie che trascurano tale elemento; oppure una visione della storia che interpreta l'intersoggettività e la relazionalità (e, addirittura, la stessa relazionalità "materna") come un prodotto storico - una posizione che evidentemente finirebbe con l'intersecare le tesi di Marx. 

In effetti, se il discorso su Marx che ho svolto nelle sezioni che precedono ha una qualche plausibilità, la natura umana resa possibile dal capitalismo ha caratteri sorprendentemente simili a quelli indicati dalla Chodorow: in particolare, una essenziale socialità dell'individuo (nel lavoro), una intrinseca relazionalità, che rende ormai improponibile il paradigma dell' "uomo solo". Non può non colpire la corrispondenza tra la descrizione che Marx dà - nei suoi "Estratti dagli Élémens d'économie politique di James Mill", del 1844 - di un lavoro autenticamente umano, e quella che la Chodorow offre di una relazione sessuale e di una maternità (e paternità) mature. Sia l'una che l'altra sottolineano come l'altra persona entri in qualche misura realmente dentro di noi; come l'individuo sia, davvero, anche comunità:

"Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile  e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque d'aver oggettualizzato l'essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D'essere stato per te l' intermediario fra te ed il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te stesso come un'integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D'aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d'aver confermato  e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comuneed umana."(Marx, Opere , vol. III, 1843-1844, Editori Riuniti, Roma, p. 247. Corsivi nel testo)

Una descrizione che, d'altronde, è ripetuta da Marx nei Manoscritti, con termini quasi identici, in riferimento al rapporto dell'uomo alla donna: quel rapporto "da cui si può, dunque, giudicare ogni grado di civiltà dell'uomo"; quel rapporto in cui si mostra "fino a che punto l' altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l'uomo, e fino a che punto l'uomo, nella sua esistenza la più individuale è a un tempo comunità."(Manoscritti, p. 225. Corsivi nel testo)

La visione di Marx è, insomma, caratterizzata da un pessimismo non lontano da quello di Freud. L'essere umano, per vivere, deve trasformare, ma perciò anche in una certa misura dominare, una natura esterna a sé; il lavoro a sua volta, cioè la realizzazione della propria natura storica, comporta una rinuncia al pieno dispiegarsi della propria natura istintuale. E' in questa rinuncia, peraltro, che l'essere umano può raggiungere la sua autentica umanità - una umanità definita, come abbiamo visto, non metastoricamente, ma nell'attuale e contraddittorio svolgersi della dinamica capitalistica. E' in questa rinuncia, ancora, che l'essere umano diviene davvero un essere sociale, un individuo segnato ab origine dalle relazioni con gli altri. 

La prospettiva di Marx non può allora essere la negazione del lavoro, o la sua riduzione a gioco, come vorrebbe Marcuse: semmai, la sua integrazione con le altre facoltà umane, quali la contemplazione e il piacere. La libertà reale non si nega ma si afferma in quel "superare gli ostacoli" che è tipico del lavoro. Lo stesso lavoro caratterizzante il regno della necessità - le necessità della riproduzione materiale al livello dato delle forze produttive e delle relazioni sociali - può divenire lavoro libero, autorealizzazione dell'individuo:

"Il lavoro di produzione materiale può acquistare questo carattere solamente 1) se è posto il suo carattere sociale, 2) se è di carattere scientifico, e al tempo stesso è lavoro universale, se è sforzo dell'uomo non come forza naturale appositamente addestrata, bensì come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma meramente naturale, primitiva, ma come attività regolatrice di tutte le forze naturali." (Grundrisse, II, p. 278-279)

L'atto d'accusa di Marx al capitalismo è, appunto, quello di avere creato le condizioni di possibilità di questo sviluppo universale e relazionale dell'essere umano, mentre al tempo stesso ne impedisce la realizzazione. La società contro cui Marx si scaglia non schiaccia i diritti dei lavoratori: più radicalmente, ne violenta la natura. E', in questo senso - ormai del tutto alieno alla filosofia politica anglosassone - una società non giusta. 

Un punto colto lucidamente da un'autrice estranea al canone classico del marxismo, come Simone Weil. Il linguaggio dei diritti, scrive, può forse essere adeguato al rapporto tra acquirente e venditore sul mercato delle merci. Non alla condizione del lavoratore dentro la fabbrica nel regime attuale, in tutto analoga a quella di una giovane donna condotta al bordello: "chiunque parlasse in tal caso dei suoi diritti utilizzerebbe una parola che suona ridicolmente inadeguata." ("La Personne et le sacré", in Ecrits de Londres et dérnieres lettres, Gallimard, Paris 1957)

                 
8. Dobbiamo disperare? Ancora su Marx, tra macchine e antagonismo.

"Compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica" 
Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx , Laterza, Bari 1973, p. 189

Vorrei proporre una terza interpretazione del suggerimento di Napoleoni che individua come "compito" una ridefinizione della nozione stessa di economia; una interpretazione in sintonia con quel Marx che mantiene al lavoro, anche materiale, un ruolo essenziale oltre il capitalismo. 

Si può partire da questo giudizio, contenuto nello stesso testo in cui quel suggerimento è avanzato:

"La produzione come dominio è la 'fissazione' in senso psicotico; l'ossessione del superamento di ogni e possibile scarsità: sempre, senza che questo abbia fine. Ecco: qui c'è proprio la possibilità di un momento di riflessione razionale; e quindi di ricostruzione di un'economia - e perciò di una regola - che si dovrebbe dare all'intenzionalità morale - che comunque non può mancare ogni volta che si parla di 'compito' - un punto di riferimento che non sia solo uno scatenamento soggettivistico." (La libertà del finito, p. 23)

Come intendere questa "regola" - questo principio di realtà, dunque, che non si contrappone, ma nemmeno si identifica, con il principio di piacere, configurando uno 'scatenamento soggettivistico'? Credo si tratti di intendere questa "regola" in continuità con queste altre osservazioni che Napoleoni formula, proprio criticando la visione di Stuart Mill e di Keynes di una fine del primato dell'economico da intendersi come uscita dal lavoro:

"Che il lavoro sia un fatto puramente negativo, un mero costo, rispetto al quale non si potrebbe porre altro problema che quello di liberarsene, è un'immagine che sorge appunto sulla base della storia data. Se questa storia viene criticata, se quindi non si pensa che essa sia stata l'espressione compiuta delle facoltà umane, allora si può pervenire all'idea che il lavoro non soltanto potrebbe essere cosa diversa da ciò che è stato finora, ma potrebbe anzi essere l'attività mediante la quale l'uomo si realizza nella sua 'libertà e felicità'. Entro questa impostazione, lo stesso processo di 'liberazione' dal lavoro a cui il capitalismo darebbe luogo . . . comporta un giudizio diverso da quelli che si è portati a dare sulla base di un'impostazione, per intendersi, smithiana: si dovrebbe infatti dire che ciò a cui quel processo perverrebbe sarebbe una situazione di 'tempo libero' che gli uomini, appunto perché negati nella loro personalità quando lavorano, non saprebbero come riempire, fino a giungere (e l'esperienza dei paesi più sviluppati ne dà una conferma) alla disperazione. Questo significa che il traguardo di un lavoro come attività libera e realizzatrice (che, come tale, potrebbe addirittura diventare, nell'immagine datane da Marx, il 'primo bisogno') non dovrebbe essere spostato in un futuro indeterminato, ma dovrebbe essere preparato fin da ora." (Elementi di Economia politica, 3° edizione, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 219-220)

Una diversa economia presuppone, al tempo stesso, un lavoro diverso e un diverso "consumo" - una diversa produzione, insomma, è la condizione di un autentico recupero delle dimensioni della contemplazione e del piacere. Credo che quest'ultima lettura sia la più fedele alle intenzioni di Napoleoni. Pure, penso che non sia senza significato che anche le precedenti interpretazioni abbiano comunque una qualche plausibilità. Le oscillazioni del Napoleoni più recente trovano infatti la loro origine in difficoltà della posizione di Marx, e nel particolare contesto storico-sociale in cui ci troviamo.

Per quanto riguarda Marx, si tratta di ciò. Un lavoro diverso nel "regno della necessità" richiede per lui che i soggetti siano in grado di riappropriarsi della propria produttività sociale alienata al capitale, del sapere sociale generale, che si erge loro contro nella forma di macchine usate capitalisticamente allo scopo di estrarre il massimo possibile di plusvalore. Marx, ovviamente, sa benissimo che l'introduzione delle macchine è determinata dall'antagonismo fondamentale tra capitale e lavoro. La ricchezza capitalistica è il pluslavoro, il tempo di lavoro vivo erogato dai lavoratori produttivi in eccesso rispetto al lavoro oggettivato nel salario reale che essi percepiscono: ma perché questa ricchezza sia ottenuta, il capitalista deve garantirsi sia che il lavoro sia effettivamente prestato, sia che sussista una differenza "soddisfacente" tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro. Le macchine sono appunto disegnate in modo da sottrarre il più possibile agli operai il controllo della prestazione lavorativa trasferendolo all'impresa, e da consentire lo sfruttamento massimo.

Se le cose stanno così, però, ci si può chiedere in che misura sia possibile distinguere tra un uso capitalistico ed un uso non capitalistico delle macchine. Come Marx stesso sembra sospettare, il processo storico che ha dato nascita ad un determinato tipo di base tecnica della produzione segna quest'ultima in modo indelebile. "Quelle" macchine non potranno essere impiegate altrimenti che per il dominio delle cose sull'essere umano. 

D'altro canto, si potrebbe sostenere con molte ragioni che la missione storica del capitale è la costituzione delle condizioni del lavoro sociale non dal lato oggettivo - dal lato della scienza e della tecnica - ma dal lato soggettivo. L' "individuo relazionale" costruito nella produzione non sarebbe allora altri che il lavoratore, non in quanto singolo ma in quanto collettività solidale che lotta per l'eguaglianza e l'autonomia contro il meccanismo sociale che lo sfrutta. Se si vuole: l'unico comunismo realmente conosciuto è il tempo libero, l'ozio produttivo, la dignità, riconquistati qui ed ora, dentro e fuori dai luoghi di lavoro, da chi ha lottato contro un sistema che annulla le soggettività. Un comunismo la cui legge di movimento è stata sinora quella di procedere attraverso sconfitte. Ma qui la difficoltà si presenta in altra forma: il processo capitalistico, che nasce dall'antagonismo, tende però sistematicamente ad abolirlo. Da questo punto di vista, Marx non può che dar ragione a Ricardo: immanente al sistema capitalistico è il periodico tentativo di ridurre il lavoratore ad elemento della produzione in tutto analogo al bestiame; a merce che produce altre merci.

La realtà italiana degli anni ottanta può essere interpretata come un'illustrazione storica esemplare di tutto ciò. Ha rivelato nei fatti la capacità del sistema capitalistico di abbattere una opposizione operaia interna ed antagonistica al processo produzione della ricchezza sociale. Lo strumento di questa distruzione di soggettività è stato un salto tecnologico. E' il "progresso" nel sistema di macchine ad avere non soltanto espulso donne e uomini dalla fabbrica, ma ad avere ridotto ad atomo chi vi rimaneva. Su questo sfondo, non stupisce che la prospettiva marxiana di integrazione tra lavoro e bisogni vada persa; che il soggetto possa essere recuperato solo fuori dal lavoro. Ma non è detto, come oggi troppo facilmente si pensa, che sia una strada senza ritorno.

La liberazione di tempo per la società cui stiamo assistendo si fonda, come altre volte nella storia del capitale, su quella negazione di umanità dentro il processo di produzione materiale che è, a detta di Simone Weil, un autentico sacrilegio compiuto sulla carne e lo spirito dei lavoratori. La domanda che essa si pose all'inizio degli anni trenta è ancora la nostra: "Dobbiamo disperare, allora?". Così, credo, deve esserlo la sua risposta: "Certamente, non ce ne mancherebbero le ragioni . . . ma, d'altro canto, la nostra debolezza può impedirci di vincere, ma non di comprendere la forza da cui siamo abbattuti. Nulla al mondo può impedirci di pensare chiaramente." (Simone Weil, "Perspectives. Allons nous vers la révolution prolétarienne?" in Révolution prolétarienne, n. 158, 25 agosto 1933). 

Nota bibliografica

Può essere di qualche utilità indicare i testi che più strettamente mi sono stati di ausilio nel delineare il percorso logico della mia argomentazione. Un contributo di grande rilievo sui temi qui trattati è il capitolo "Economia e filosofia" di Claudio Napoleoni, in Filosofia. Storia del pensiero occidentale, diretta da Emanuele Severino, Armando Curcio editore, Milano 1987. Di Napoleoni, come è ovvio, ho anche tenuto presente il capitolo su Smith in Smith, Ricardo, Marx, Boringhieri, Torino 1970. 

La mia lettura di Smith - che non ha esclusivamente pretese di maggiore correttezza filologica, ma anche e soprattutto l'obiettivo di illuminare aspetti del suo pensiero centrali e pure trascurati dalla vulgata liberista - ha come riferimento principale più la letteratura secondaria sull'economista scozzese prodotta da filosofi politici, antropologi, e storici, che non le interpretazioni avanzate tra gli economisti. Si vedano, per esempio, per quanto riguarda i filosofi politici Wealth and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, edited by Istvan Hont e Michael Ignatieff, Cambridge University Press, Cambridge 1983 (di Ignatieff va citato anche lo splendido I bisogni degli altri. Saggio sull'arte di essere uomini tra individualismo e solidarietà, Il Mulino Bologna 1986), che vede nella "mano invisibile" ciò che concilia disuguaglianza sociale e assistenza ai più poveri; e per quanto riguarda gli antropologi Louis Dumont, Homo aequalis. 1. Genesi e trionfo dell'ideologia economica, Adelphi, Milano 1984 (ed. orig. 1977), il quale individua in Smith una tensione tra un momento ontologico e naturalistico che rimanda al primato della produzione e del lavoro dell'uomo isolato, e un momento sociale in cui il valore di scambio è determinato sul mercato.

Tra i numerosi lavori di storici, segnalo in particolare Maxine Berg, The age of manufactures. Industry, innovation and work in Britain 1700-1820, Fontana Press, London 1985, per quanto riguarda la questione delle diverse vie all'industrializzazione, e E.A.Wrigley, People, Cities and Wealth. The Transformation of Traditional Society, Blackwell, Oxford 1987, per quanto riguarda i limiti naturali allo sviluppo. Parte da questi due testi l'ottima rassegna critica di Maria Luisa Pesante, "La rivoluzione industriale, gli storici, e la ingannevole concretezza dei classici", in Metamorfosi, seconda serie, n. 8, 1988 (di Pesante ho anche tenuto presente - non soltanto per quanto riguarda le sezioni su Smith, ma anche quella dedicata a John Stuart Mill e a John Maynard Keynes - il non facile ma stimolante Economia e politica, Franco Angeli, Milano 1986). Va visto anche, pur con qualche forzatura, David McNally, Political Economy and the Rise of Capitalism. A Reinterpretation, University of California Press, Berkeley 1988, che a partire dalle posizioni controverse di Robert Brenner sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo vede in Smith piuttosto il campione di un capitalismo agrario che non l'interprete della rivoluzione industriale.

Tra le analisi di Smith avanzate da economisti me ne sono state utili due che non a caso fanno storia a sé: quella ormai classica di Giulio Pietranera, La teoria del valore e dello sviluppo capitalistico in Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1963, e quella più recente di Carlo Benetti, Smith. La teoria economica della società mercantile, Etas, Milano 1979. Un'attenzione alle molteplici sfaccettature della filosofia morale di Smith è suggerita da Amartya Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988 (ed. orig. 1987). Il lettore economista intuirà una qualche consonanza tra quanto sostengo e quanto scrive Albert O. Hirschman, "Interpretazioni rivali della società di mercato: civilizzatrice, distruttiva o debole?", in Idem, L'economia politica come scienza morale e sociale, con un saggio di Luca Meldolesi, Liguori, Napoli 1987, per quanto riguarda in particolare la tesi del doux commercee la tesi dell'autodistruzione (su questo libro, e su Hirschman più in generale, si veda la mia recensione su questa rivista, "Hirschman: domande e inquietudini", Teoria politica, n. 1, 1988). Ovviamente, di Hirschman rimane fondamentale il suo Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano 1979 (ed. orig. 1977), recentemente ristampato. Un cenno va fatto anche all'articolo di Nathan Rosenberg, "La divisione del lavoro in Adam Smith: due concezioni o una?", originariamente apparso su Economica nel 1965 e ora incluso in L'economia classica. Origini e sviluppo (1750-1848), a cura di Riccardo Faucci ed Enzo Pesciarelli, Feltrinelli, Milano 1976.

Due monografie di impianto marxiano muovono anch'esse alcuni passi in direzione della linea che ho esposto. Si tratta di Norman Fischer, Economy and Self. Philosophy and Economics from the Mercantilists to Marx, Greenwood Press, Westport, Connecticut 1979, e soprattutto, di David Levine, "Political Economy and the Argument for Inequality",  numero monografico di una rivista americana molto valida ma poco conosciuta (Social Concept, September 1985). Si vedano anche, sulla stessa rivista, i commenti al saggio di Levine di Anna Yeatman e Greeg O. Kvistad (June 1986), ed il dibattito tra David Gleicher e David F. Weiman sulle origini della teoria classica del valore (March 1985).

Su Stuart Mill, a parte i testi già richiamati, va vista soprattutto l'introduzione di Giacomo Becattini ai Principi di economia politica, Utet, Torino 1983. Per quanto riguarda Keynes, pur nella differenza di alcune valutazioni mi è stato di notevole stimolo lo scritto di una anglista: Alessandra Marzola, Retorica e immaginario nel discorso economico e politico di J.M.Keynes, raccolto in AA.VV., L'altro Keynes: linguaggio ed economia, Pierluigi Lubrina editore, Bergamo 1990. Tra Stuart Mill e Keynes salta agli occhi l'assenza (del tutto ingiustificata) di Alfred Marshall, che pure alle questioni qui trattate dedicò non poco spazio nella sua riflessione. Anche in questo caso rimando a Giacomo Becattini, "Mercato e comunismo in Alfred Marshall", in Teoria dei sistemi economici, a cura di Bruno Jossa, Utet, Torino 1989. Qualche ragione ha invece la non considerazione di Karl Polanyi, la cui critica all'identificazione della nozione di economia (valida per società non di mercato) con il concetto di "economico" (modellato sulle categorie della scienza economica) segnala una rottura più  drastica con la problematica smithiana di quanto non sia il caso degli altri autori analizzati. La trattazione anche di Marshall e Polanyi avrebbe allungato eccessivamente un articolo già non breve.

La sezione su Marx riprende e sviluppa alcune tesi che avevo già sostenuto in "Il concetto di lavoro in Marx", in Ricerche economiche, n. 3-4, 1979, e in "L'enigma del lavoro", Collegamenti, n. 23-24, 1989, dove si trovano più dettagliati riferimenti bibliografici. L'interpretazione che avanzo, oltre che ai lavori di Alfred Schmidt, si appoggia sulla ricostruzione della teoria marxiana suggerita nei primi anni settanta da Lucio Colletti e da Claudio Napoleoni in scritti largamente noti (ho provato a dare una sintesi delle posizioni del Napoleoni di quel periodo in Un programma di ricerca incompiuto. La ripresa dell'economia politica critica in Claudio Napoleoni: 1970-1976, relazione al Convegno "La lezione di Claudio Napoleoni. Politiche, teorie economiche, e critica dell'economia", Rovigo, 27-28 maggio, di prossima pubblicazione, a cui rimando per ulteriori indicazioni bibliografiche). Debbo però almeno ricordare la lucida introduzione di Cristina Pennavaja a Karl Marx, L'analisi della forma di valore, Laterza, Roma-Bari 1976, che sottolinea l'importanza della distinzione marxiana tra "divisione del lavoro naturale-spontanea" e "divisione del lavoro naturale-spontanea sociale". Più in generale, questa introduzione è un ottimo frutto di una fase di rinascita di studi marxisti in Italia sull'onda delle traduzioni di lavori fondamentali quali quelli di Rubin, Rosdolsky, Reichelt, Sohn-Rethel, Krahl, Backhaus; fase ormai lontana, e che contrasta con la superficialità della discussione attuale. Sulla concezione della storia di Marx sono di grande chiarezza le poche pagine del capitolo "Social change" contenute nel volume di Wal Suchting, Karl Marx: An Introduction, Wheatsheaf Books, Brighton 1983.

La tensione tra un Marx affascinato dal dinamismo esasperato e distruttore del capitalismo e un Marx critico dell'atomizzazione borghese, cui egli contrappone un agire collettivo e i vincoli comunitari prodotti contraddittoriamente dallo stesso capitalismo, deve molto al bel libro di Marshall Berman, L'esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna 1985 (ed. orig. 1982). La "soluzione" che suggerisco alla contraddizione individuata da Berman - "se la visione globale della modernità [di Marx] è esatta, perché le forme di comunità prodotte dall'industria capitalistica dovrebbero rivelarsi più solide di qualsiasi altro prodotto capitalistico? Tali collettività non potrebbero dimostrarsi, come qualsiasi altro elemento di questo contesto, meramente temporanee, provvisorie, forgiate per invecchiare?" - consiste proprio nella possibilità e desiderabilità che la comunità operaia antagonista si percepisca quale è, cioè autodissolventesi essa stessa, e sia dunque capace di far spazio all'altro da sé, in significativo contrasto con la totalità capitalistica. E' una soluzione che non fa altro che sviluppare un suggerimento dello stesso Marx in "La sacra famiglia" ("Se vince, il proletariato non diventa perciò il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso e il suo opposto"), e che ripropone l'autentico nodo problematico della teoria politica comunista: la necessità cioè di tenere insieme la centralità del lavoro salariato nella teoria della crisi sociale del capitalismo, riconoscendo la "gerarchia" reale presente nell'attuale costituzione della società, e la pari dignità dei soggetti quale base materiale di una autentica democrazia - qualcosa che fa confusamente capolino nel dibattito attuale su eguaglianza e differenze.

Un inquadramento delle diverse posizioni di Claudio Napoleoni che richiamo nel testo all'interno del suo itinerario di riflessione lo si può trovare nei miei "Un economista critico. Il percorso intellettuale di Claudio Napoleoni", in Rivista di storia economica, n. 1, 1989, e "Un' economia politica per la liberazione", in Il Ponte, n. 3-4, 1989. La posizione conservatrice di Augusto Del Noce ha una nitida presentazione in Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano. L'interpretazione di Franco Rodano è soprattutto consegnata agli articoli pubblicati sulla Rivista trimestrale. Tra i molti scritti di Toni Negri in cui viene condotta una lettura antilavorista di Marx segnalo per tutti Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano. 

La parte finale del mio scritto è molto influenzata, come è reso del tutto esplicito, da alcune tesi di Simone Weil, di cui, oltre ai testi citati nel testo, vale la pena di vedere nella stessa linea: Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983 (ed. orig. 1955), e la recensione a Materialismo e empiriocriticismo di Lenin, originariamente pubblicato in La Critique sociale, n. 10, 1933, e ora ristampato in Simone Weil, Oeuvres complètes, II, Écrits historiques et politiques, tome I: L'engagement syndical (1927-juillet 1934), Gallimard, Paris 1988. Sul piano interpretativo mi sono stati utili il saggio di Anna Scattigno, "La volontà di conoscere", originariamente comparso in Memoria, n. 5, 1982, e ora ripubblicato in Paola Melchiori-Anna Scattigno, Simone Weil. Il pensiero e l'esperienza del femminile, la salamandra, Milano 1986 (si tratta della più equilibrata e attenta introduzione al pensiero della Weil di cui sono a conoscenza), e Peter Winch, Simone Weil. "The just balance", Cambridge University Press, Cambridge, 1989. Quest'ultimo testo mette bene in luce la differenza, e addirittura la possibile opposizione, tra una visione della filosofia politica incentrata sul linguaggio dei "diritti", quale è quella del filone oggi egemone e di cui l'esponente più noto è John Rawls, ruotante attorno ad una nozione astratta ed astorica del "contratto sociale" stipulato da soggetti autointeressati e calcolanti dietro un 'velo di ignoranza', e il linguaggio della "giustizia" di cui invece parla la Weil, che rimanda piuttosto in senso forte ad una nozione di "natura umana" e alla contingenza storica. 

Una visione della filosofia morale che recupera anch'essa la nozione di natura umana, con un minore piglio polemico nei confronti della tradizione liberale di quanto sia nella Weil, l'ho ritrovata in due libri di Richard Norman, che mi sono stati di molto aiuto: The Moral Philosophers. An Introduction to Ethics, Clarendon Press, Oxford 1983, e Free and Equal. A Philosophical Examination of Political Values, Clarendon Press, Oxford 1987. Le ultime sezioni di questo lavoro sono anche state influenzate dal giudizio di Hannah Arendt, che condivido, secondo cui non potrebbe certamente esserci niente di peggio di una società di lavoratori senza lavoro (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, ed. orig. 1958, p. 5), giudizio che però lei impiega erroneamente. Ad Hannah Arendt si deve anche il termine "ozio produttivo", che utilizzo per designare i momenti di liberazione che configurano oggi il solo comunismo possibile. 

Indice

1. Introduzione.

2. Migliorare la propria posizione. Natura e storia in Smith.
2.1. La filosofia morale.
2.2. Il problema: ineguaglianza e benessere.
2.3. La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio.
2.4. Ancora sulla filosofia morale.

3. Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio rozzo e primitivo alla grande società.

3.1. Il lavoro dell'uomo isolato.
3.2. Lavoro comandato e scambio.
3.3. La ricchezza come potere: lavoro comandato e diseguaglianza.
3.4. Lavoro comandato e produzione.
3.5. Ancora sulla divisione del lavoro.

4. Il mercato e i "poveri che lavorano". La giustificazione storica del capitale.
4.1. Mano invisibile ed equità sociale.
4.2. I costi della divisione del lavoro.
4.3. Innaturalità del capitale.

5. Cambiare la natura umana. John Stuart Mill e John Maynard Keynes, oltre la passione per il denaro.

5.1. Smith smembrato. Ricardiani e neoclassici.
5.2. Lo stato stazionario: John Stuart Mill.
5.3. Il doppio inganno è rivelato: John Maynard Keynes.

6. Come se avesse l'amore in corpo. Marx e l'enigma del lavoro.

6.1. Il lavoro come essenza dell'essere umano.
6.2. Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx.
6.3. Una filosofia della storia?

7. Orfeo e Narciso contro Prometeo. La fuga dal lavoro.

7.1. La positività del finito.
7.2. Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?
7.3. Un nuovo principio di realtà? Marxismo e psicoanalisi.

8. Dobbiamo disperare? Ancora su Marx, tra macchine e antagonismo.

Nota bibliografica.

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