Le costituzioni sono patti di convivenza, sorrette da un
consenso generale. La Costituzione di Renzi, invece, è una costituzione che
divide, non essendo neppure di maggioranza, ma di minoranza
Le ragioni del No al referendum sull’aggressione in atto
alla nostra Costituzione investono sia il metodo con cui la riforma è stata
approvata, sia i suoi contenuti.
Anzitutto le ragioni di metodo. Questa riforma, cambiando 47
articoli su 139, non è una “revisione” dell’attuale costituzione, ma un’altra
costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non
consente l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di
un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima
maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della Costituzione è un
potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito.
Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere
di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente
non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
In secondo luogo questa nuova costituzione, per il modo in
cui è stata promossa e approvata, è un oltraggio non tanto e non solo alla
Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea
stessa di Costituzione. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono
le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e
minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu
quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. Servono a unire, e non a
dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a
qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di
tutti.
La Costituzione di Renzi, invece, è una costituzione che
divide, non essendo neppure di maggioranza, ma di minoranza – la minoranza
rappresentata dall’attuale coalizione di governo, trasformata in maggioranza
dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale –
approvata e imposta, però, con lo spirito arrogante delle maggioranze. Non è
con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Per il
metodo con cui è stata approvata – su iniziativa e pressione del governo,
strozzando il dibattito con “tagliole” e “canguri”, rimuovendo i parlamentari
dissenzienti, fino all’approvazione conclusiva in un’aula semivuota per
l’Aventino delle opposizioni – questa legge di revisione deve essere perciò
respinta indipendentemente dai contenuti. Questa nuova costituzione sarà
infatti percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza
e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione
non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della
rottura del patto implicito in ogni momento costituente. Indipendentemente,
ripeto, dai suoi contenuti.
Ma sono proprio i contenuti l’aspetto più allarmante di
questa riforma. Per votare No basterebbe leggerla, o meglio tentare di leggerla
visto il carattere confuso e talora contraddittorio del testo. Ma questa
lettura e questa conoscenza saranno impedite ai cittadini dal quesito
ingannevole e accattivante su cui saranno chiamati a votare, trasmesso
ossessivamente in televisione e perciò in grado di compromettere l’autenticità
del voto: “approvate… il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione
del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi” della politica e altre
piacevolezze. I contenuti della legge sono infatti, come i pochi informati ben
sanno, assai più gravi e certamente diversi.
I sostenitori del Sì difendono il quesito dicendo che esso
riproduce il titolo della legge, come prevede l’art. 16 della legge n. 352 del
1970 istitutiva del referendum. Ma è proprio qui l’imbroglio: questo titolo è
stato preordinato dal governo al fine di trarre in inganno gli elettori. Siamo
perciò di fronte a un condizionamento premeditato dell’esercizio della
sovranità popolare nel quale consiste il referendum costituzionale. Il governo
ha dato alla sua legge di revisione il titolo accattivante riportato in quei
quesiti al fine di ingannare gli elettori chiamati a pronunciarsi sul
referendum oppositivo previsto dalla legge medesima. Giacché ciò su cui i
cittadini voteranno non è il titolo della legge di revisione, ma le norme in
essa contenute.
Ebbene, quali sono questi contenuti, e quali le ulteriori
ragioni del No, relative ai contenuti? Sono innumerevoli. Mi limito a ricordare
tre assurdità. In primo luogo la complicazione del procedimento legislativo,
dato che il bicameralismo perfetto non è affatto soppresso, bensì sostituito
con cinque o sei tipi di bicameralismo imperfetto quanti sono i procedimenti
legislativi diversi introdotti dal nuovo art. 70 e differenziati sulla base
delle diverse materie assegnate alla loro competenza, con l’inevitabile
incertezza in materia di fonti e gli interminabili contenziosi che ne
seguiranno.
In secondo luogo l’assurda configurazione del Senato, non
più elettivo ma composto da membri eletti dai consigli regionali secondo i
criteri incerti e contraddittori formulati nell’art. 57 e di fatto, se preso
sul serio, non in grado di funzionare per il groviglio di scadenze – 10, 15, 30
giorni entro i quali andranno esercitate le diverse funzioni legislative – che
costringeranno i consiglieri-senatori e i sindaci-senatori a rimanere in
permanenza in Senato. In terzo luogo la riduzione delle autonomie delle regioni
ordinarie, in contrasto con il decantato “Senato delle autonomie”,
simultaneamente, peraltro, al rafforzamento di quelle a statuto speciale.
Ma l’aspetto più grave della riforma è la trasformazione
della nostra democrazia parlamentare, che dovrebbe preoccupare soprattutto
quanti temono la vittoria del No, in un sistema politico basato sulla
centralità e l’onnipotenza del governo. L’eventuale vittoria del Sì
consegnerebbe infatti al vincitore delle prossime elezioni politiche – Renzi, o
Grillo, o Berlusconi o Salvini o chiunque altro – una maggioranza assoluta e,
di fatto, un potere illimitato e incontrollato, vincolato non più alla fiducia
del Parlamento ma alla fiducia del suo solo partito.
Grazie all’azione congiunta della riforma costituzionale e
della legge elettorale maggioritaria – l’Italicum, ma anche qualunque
altra legge maggioritaria, quale quella prospettata da chi oggi ne prevede la
riforma – verrà infatti sostanzialmente soppresso il tratto distintivo delle
costituzioni antifasciste del secondo dopoguerra: il loro ruolo di limitazione
del potere politico e la stessa garanzia della rigidità costituzionale, cioè
l’impossibilità di modificare la Costituzione se non con larghissime
maggioranze. Se questa riforma passerà, chi vincerà le elezioni entrerà in
possesso, di fatto, dell’intero assetto costituzionale.
Ma le elezioni saranno vinte dalla maggiore minoranza:
nell’attuale sistema tripolare, da un partito o da una coalizione votati,
verosimilmente, dal 25 o dal 30% dei votanti, corrispondenti, tenuto conto
delle astensioni, al 15 o al 20% degli elettori. Grazie alla legge elettorale
maggioritaria, questa infima minoranza otterrà la maggioranza assoluta dei
seggi, con la quale potrà fare ciò che vuole, incluse le manomissioni della
Carta costituzionale. Questo, del resto, è esattamente ciò che ha fatto la
maggiore minoranza presente in questo Parlamento, approvando la sua riforma con
la maggioranza fittizia conferitagli dal Porcellum pur
dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale e sostanzialmente riprodotto
dal cosiddetto Italicum.
Non solo. L’artificiosa maggioranza assoluta assegnata
automaticamente e rigidamente alla maggiore minoranza consentirà al vincitore
delle elezioni di eleggere da solo, a sua immagine e somiglianza, tutte le
istituzioni di garanzia: il Presidente della Repubblica, i membri di nomina
parlamentare della Corte costituzionale, del Consiglio Superiore della
Magistratura e delle altre autorità cosiddette “indipendenti”. L’intero sistema
politico ne risulterà squilibrato per il venir meno di tutti gli checks
and balances, cioè dell’intero sistema dei freni e contrappesi. Le
istituzioni di garanzia non saranno più tali, cioè in grado di limitare e
controllare i poteri di governo, ma saranno ridotte a espressioni della
maggioranza e del suo governo e, di fatto, con questo solidali.
Ne risulta smentita anche la tesi, ripetuta dai sostenitori
del Sì, che la riforma non tocca la prima parte della Costituzione, cioè i
diritti fondamentali e le garanzie, ma solo la seconda parte, dedicata
all’ordinamento della Repubblica. Formalmente, questo è vero. Nella sostanza,
purtroppo, è vero il contrario. Alla fittizia maggioranza assoluta generata
dalla legge elettorale maggioritaria e dalla nuova Costituzione, sarà possibile
cambiare anche la prima parte della Costituzione e i diritti in essa stabiliti.
Di più: l’aggressione ai diritti fondamentali, e in particolare ai diritti
sociali – alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla sussistenza –
potrà avvenire, come l’esperienza insegna ma come avverrà assai più agevolmente
con questa nuova costituzione, anche senza alterare la prima parte del testo
costituzionale.
È infatti la “governabilità”, ripetono i sostenitori del Sì,
la grande conquista realizzata da questa riforma. Riservando la fiducia al
governo alla sola Camera, nella quale la maggiore minoranza avrà
automaticamente la maggioranza assoluta dei seggi, la sera delle elezioni
sapremo non solo chi ha vinto, come ripetono i sostenitori della riforma, ma
anche chi sarà il capo che ci governerà per cinque anni, senza limiti, né
controlli, né compromessi parlamentari.
Matteo Renzi ripete che non c’è nessuna norma nella riforma
che aumenti i poteri del presidente del Consiglio. Di una simile norma,
infatti, non c’è affatto bisogno, essendo l’aumento e la concentrazione dei
poteri nel governo e nel suo capo l’ovvio risultato dell’esautorazione del
Parlamento, della neutralizzazione delle istituzioni di garanzia e
dell’indebolimento delle autonomie regionali. Grazie a questo squilibrio nei
rapporti tra i poteri, la nostra democrazia parlamentare si trasformerà in un
sistema autocratico, verticalizzato e personalizzato, ben più di quanto accada
in qualunque sistema presidenziale, per esempio gli Stati Uniti, dove è
comunque garantita, oltre alla separazione tra Stati federati e governo
federale, la totale indipendenza del Congresso dal Presidente e perciò la
separazione del potere legislativo in capo al primo dal potere esecutivo in
capo al secondo.
Domandiamoci allora, cosa vuol dire questa decantata
governabilità? Può voler dire capacità di governo. In questo senso, certamente,
la massima governabilità si è avuta nei primi 35 anni della Repubblica:
allorquando – grazie a questa Costituzione, al sistema elettorale
proporzionale, alla centralità e rappresentatività del Parlamento e, insieme,
alla più forte opposizione e al conflitto di classe più aspro di tutto
l’occidente capitalistico – è stata costruita la democrazia e lo Stato sociale
e l’Italia, che era tra i paesi più poveri dell’Europa, è diventata la quinta o
sesta potenza economica mondiale.
Ma “governabilità”, nel lessico politico odierno, vuol dire
soltanto potere di comando, senza limiti dal basso, grazie alla smobilitazione
sociale dei partiti, e senza limiti e vincoli dall’alto, grazie al venir meno
dei freni e contrappesi e la scomparsa della Costituzione dall’orizzonte della
politica. È questa la governabilità inseguita da 30 anni – prima da Craxi, poi
da Berlusconi e oggi da Renzi – attraverso la semplificazione e la
verticalizzazione dell’assetto costituzionale intorno al governo e al suo capo:
una governabilità necessaria alla rapida e fedele esecuzione dei dettami dei
mercati.
“Ce le chiede l’Europa”, ripetono i nuovi costituenti a
proposito delle loro riforme. Domandiamoci: perché? Perché mai i mercati,
l’Unione Europea, l’ambasciatore degli Usa, le agenzie di rating, il gigante
finanziario americano JP Morgan si preoccupano della riforma costituzionale
italiana, delle nuove competenze del nostro Senato e della nostra legge
elettorale? Evidentemente l’Europa, e tramite l’Europa i mercati, ci chiedono di sostituire alla centralità
del Parlamento la centralità del governo e del suo capo perché solo così può
realizzarsi questa agognata governabilità, cioè l’onnipotenza della politica
nei confronti dei cittadini e dei loro diritti, necessaria perchè si realizzi
la sua impotenza nei confronti dei grandi poteri economici e finanziari.
Solo se avrà mani libere nei tagli alle spese sociali, il governo potrà
trasformarsi in un fedele esecutore dei dettami di quei nuovi sovrani invisibili,
anonimi e irresponsabili nei quali si sono trasformati i cosiddetti “mercati”.
Si capisce allora il nesso tra la lunga crisi della
democrazia italiana nell’ultimo trentennio e l’aggressione alla Costituzione
del 1948. All’aggravarsi di tutti gli aspetti della crisi – il discredito e lo
sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla
finanza, l’opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in
materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro, nei
tanti tentativi di riforma, il progetto di indebolire il Parlamento e di
rafforzare il governo tramite modifiche sempre più gravi delle leggi elettorali
e della seconda parte della Costituzione repubblicana.
Di nuovo, come sempre, ciò che accomuna tutti questi
tentativi, oltre all’argomento della “governabilità”, è l’intento del ceto di
governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità
della propria inettitudine. Del resto queste riforme costituzionalizzano ciò
che di fatto in gran parte è già avvenuto. Già oggi, tra decreti-legge, leggi
delegate e leggi di iniziativa governativa, la schiacciante maggioranza delle
leggi è di fonte governativa. Già oggi, grazie alle mani libere dei governi, si
è prodotto un sostanziale processo decostituente in materia di lavoro e di
diritti sociali, con l’abbattimento dell’ultima garanzia della stabilità dei
rapporti di lavoro – l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – e la
monetizzazione di farmaci e visite che pesa soprattutto sui poveri, al punto
che ben 11 milioni di persone nel 2015 hanno dovuto rinunciare alle cure.
Ebbene, l’attuale riforma punta alla legittimazione popolare
e al perfezionamento istituzionale di questo tipo di governabilità, nonché del
processo decostituente che ne è seguito, interamente a spese dei soggetti più
deboli. Si parla sempre del Pil come della sola misura della crescita e del
benessere; mentre si tace sulla crescita delle disuguaglianze e della povertà e
sul fatto che, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono diminuite
le aspettative di vita delle persone.
Dall’esito del referendum dipenderà dunque il futuro della
nostra democrazia: la conservazione sul piano normativo e la rivendicazione
popolare della restaurazione di fatto del suo carattere parlamentare, oppure la
legittimazione e lo sviluppo dell’attuale deriva anti-parlamentare; la
riaffermazione della sovranità popolare, oppure la consegna del sistema
politico alla sovranità anonima, invisibile e irresponsabile dei mercati; la
legittimazione del governo dell’economia e della finanza, oppure la
riaffermazione e il rilancio del progetto costituzionale; lo sviluppo degli
attuali processi decostituenti, oppure il rafforzamento, contro future
aggressioni, della procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo
138, rivelatasi debolissima ed esposta a tutti gli strappi e a tutte le
incursioni più avventurose nel nostro tessuto istituzionale.
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