** King’s College, London
Leggi anche: http://contropiano.org/interventi/2016/06/30/generazione-erasmus-working-poor-generation-081084
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La disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti in
Europa occidentale. I salari sono in discesa e si intensificano gli attacchi
all’organizzazione dei lavoratori. Nel 2013 quasi un quarto della popolazione
europea, circa 92 milioni di persone, era a rischio povertà o di esclusione
sociale. Si tratta di quasi 8,5 milioni di persone in più rispetto al periodo
precedente la crisi.
La povertà, la deprivazione materiale e il
super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno
ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.
La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con
esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori
poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della
soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la
situazione in futuro.
Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e
contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima
tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha
dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo
è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto
questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud
dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud
del mondo. L’impoverimento e l’austerità in Europa sono le due facce della
stessa medaglia, e riflettono una tendenza strutturale all’impoverimento e
profondi cambiamenti dell’economia globale.
In una società capitalista i profitti provengono dal
lavoro-vivo. L’aumento della produttività non è finalizzato a migliorare i
livelli di vita, ma ad abbassare il salario relativo, ossia la differenza tra
il valore prodotto e il valore appropriato dai lavoratori. L’accumulazione di
capitale tende perciò a una crescente polarizzazione tra povertà e ricchezza,
una polarizzazione che può coesistere con un aumento dei livelli di vita per
alcune sezioni della classe lavoratrice.
Questa dinamica e il rapporto sociale tra lavoratori e
capitalisti su cui essa si basa, però, non sono confinati all’interno dei
confini nazionali. Per Marx l’impoverimento non è solo una questione di salari
reali della classe lavoratrice nel Nord del mondo: l’impoverimento riguarda
aspetti quantitativi e qualitativi delle condizioni di lavoro e di vita dei
lavoratori alla scala globale piuttosto che nazionale.
L’espansionismo economico e militare è parte integrante
dell’accumulazione capitalistica. Mediante gli investimenti esteri e le
migrazioni esso permette di espandere a livello globale l’esercito industriale
di riserva e la forza-lavoro sfruttabile. L’espansione dell’esercito
industriale di riserva permette al capitale di abbassare i salari e di
prolungare la giornata lavorativa, riducendo così la domanda di forza-lavoro ed
ingrossando ulteriormente la riserva di forza-lavoro, in un circolo vizioso di
super-sfruttamento e disoccupazione/sotto-occupazione dispiegato alla scala
globale.
Integrazione europea
e globalizzazione
Queste dinamiche aiutano a spiegare perché da metà anni
Settanta, durante una delle più grandi rivoluzioni nelle tecnologie della
comunicazione e del trasporto, il mondo ha conosciuto un rapido aumento della
povertà globale.
Perfino la Banca mondiale ammette che, se si esclude la
Cina, tra il 1981 e il 2004 la povertà estrema (persone che vivono con meno di
1,25$) è aumentata in ogni “regione in via di sviluppo”. Una recente ricerca
del Pew Research Center ha concluso che, a dispetto delle radiose visioni di
un’emergente classe-media mondiale, se prendiamo come metro di riferimento la
soglia di povertà negli Stati Uniti, nel 2011 era povero l’84% della
popolazione mondiale (che viveva con meno di 20$ al giorno).
Negli ultimi trent’anni la quota dei salari sul PIL è
diminuita nella maggior parte dei paesi del mondo: questo indica un
peggioramento della condizione del lavoro di fronte al capitale, un
peggioramento che ha avuto luogo perfino in aree dove recentemente la povertà
estrema è diminuita, come Cina, America Latina ed Est Europa.
Questi processi d’impoverimento vanno visti nel contesto
dell’affermazione del neo-liberismo a partire da metà anni Settanta, coi
relativi programmi di aggiustamento strutturale imposti da istituzioni
finanziarie controllate dai paesi del Nord del mondo, come il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca mondiale. Insieme alle guerre imperialiste e alle
catastrofi ecologiche che hanno avuto luogo in alcuni paesi, il neoliberismo ha
causato un’accelerazione nei processi di espropriazione rurale, privatizzazione
e ristrutturazione della produzione, andando ad aumentare il numero di
lavoratori “vulnerabili” e disoccupati. Secondo l’Organizzazione Internazionale
del Lavoro questo esercito industriale di riserva comprende oggi circa 2,4
miliardi di persone.
Nel 2010, circa 942 milioni di lavoratori poveri – uno su
tre lavoratori a livello mondiale – viveva sotto la soglia di povertà di 2$ al
giorno. Era solo una questione di tempo prima che questo processo di
impoverimento iniziasse a farsi sentire seriamente anche in Europa occidentale.
C’è un certo numero di fattori da tener presente in questo
processo. In risposta alla crisi di profittabilità del capitale, il rilancio
del processo d’integrazione europea iniziato a metà anni Ottanta e
l’allargamento dell’UE verso Est negli anni 2000 hanno contribuito
all’internazionalizzazione del capitale europeo. Un’altra grande spinta è
venuta dall’apertura della Cina al mercato mondiale e dal suo ingresso nel WTO
nel 2000. L’introduzione dell’euro non ha solo impedito agli stati membri del
Sud Europa di ricorrere alla svalutazione competitiva per favorire le
esportazioni; ha anche abbassato il costo delle transazioni ed eliminato le
incertezze nei tassi di cambio, accelerando così i flussi di capitali verso gli
stati membri dell’Europa centrale e orientale e, in misura crescente, verso
l’Asia. Nel contempo, l’immigrazione netta verso l’UE-15 è aumentata, e con
essa è aumentata l’offerta di forza-lavoro.
Il conseguente aumento della disoccupazione in Europa
occidentale è stato compensato solo in parte e solo inizialmente dalla tanto
celebrata espansione del lavoro atipico e del settore dei servizi.
Deregulation, privatizzazioni e riforme del lavoro e delle pensioni hanno tutte
contribuito ad aumentare l’offerta di forza-lavoro, e questo è avvenuto mentre
le varie riforme riducevano la capacità d’azione sindacale ed erodevano il
tasso di sindacalizzazione e la copertura della contrattazione collettiva, producendo
crescenti disparità salariali e bassi salari.
Le politiche migratorie restrittive e razziste dell’epoca
neoliberista non hanno mai avuto lo scopo di bloccare l’immigrazione verso la
“Fortezza Europa”; hanno invece prodotto illegalità e un sistema differenziale
di diritti finalizzato a stratificare e dividere la classe operaia.
L’Inghilterra della Thatcher ha aperto la strada al resto
dell’Europa. In seguito ad una radicale deindustrializzazione e riconversione
economica verso i servizi, in Gran Bretagna sono quasi raddoppiati i tassi di
povertà e del lavoro a basso salario (lavoratori dipendenti che guadagnano due
terzi o meno della retribuzione media nazionale). A differenza del resto
d’Europa, in Gran Bretagna la condizione di povertà dei lavoratori ha
cominciato a crescere già negli anni Ottanta, e gli orari di lavoro si sono
fortemente polarizzati – in Gran Bretagna i lavoratori a tempo pieno hanno
tuttora l’orario di lavoro effettivo settimanale più lungo di tutta l’Europa
occidentale (nel 2008: 42,4 ore alla settimana contro le 37,3 previste dalla
contrattazione collettiva).
Dopo la riunificazione, la Germania ha seguito un percorso
analogo. Anche se ha conservato la quota relativamente più alta di occupati
nell’industria in Europa occidentale, dalla fine degli anni Novanta
l’internazionalizzazione del capitale ha avuto un importante ruolo nella
crescita dell’export della Germania, e lo stesso ruolo ha avuto l’immigrazione.
Nel 2003-2005, con le “riforme” Hartz I-IV è cominciata una politica sul lavoro
che costringe i disoccupati ad accettare qualunque lavoro a qualunque
condizione.
Il risultato di queste trasformazioni è stato che in
Germania il settore del lavoro a basso salario è cresciuto dal 13% di metà anni
Novanta al 20% del 2005, e con esso è aumentata la quota di lavoratori poveri.
La precedente tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro si è invertita: tra
il 2003 e il 2008 l’orario di lavoro effettivo dei lavoratori a tempo pieno è
cresciuto mediamente di 0,8 ore.
L’Italia ha conosciuto analoghe tendenze alla
ristrutturazione della produzione, all’immigrazione e all’aumento del lavoro
atipico, e da fine anni Ottanta anche in Italia si è polarizzato l’orario di
lavoro; nel 2008 i lavoratori a tempo pieno lavoravano in media 39,2 ore alla
settimana, 0,7 ore più che nel 1995. Fino a tempi recenti, diversamente che in
Gran Bretagna e in Germania, l’Italia non aveva conosciuto una profonda
deregolamentazione del lavoro. La quota di lavoro a basso salario nel settore
formale (9,5%) era più bassa che in Germania, che nel 2008 esibiva la seconda
quota più alta di lavoro a basso salario nell’UE-15 (20,2%), subito dopo la
Gran Bretagna (20,6%). L’Italia, però, aveva una delle quote più elevate e
stabili di lavoratori poveri in Europa occidentale – stimata intorno al 10% dei
lavoratori e concentrata soprattutto nel Sud.
La stabilità e le dimensioni del fenomeno dei lavoratori
poveri in Italia sono il risultato dell’imposizione di politiche di
precarizzazione e privatizzazione del lavoro senza alcuna compensazione in
termini di welfare, e riflettono la specializzazione internazionale del sistema
produttivo italiano.
Conseguenze
involontarie?
La riorganizzazione e il ri-orientamento verso Est
dell’industria europea, dell’industria tedesca in particolare, hanno
ri-direzionato le attività produttive e gli scambi dal Sud all’Est dell’Europa.
Gli stati del Sud hanno continuato a importare dai paesi del Nord e dell’Est
Europa senza trovare degli sbocchi alternativi per il loro export. Di
conseguenza, la produzione e i servizi ad alta densità di capitale si sono
sempre più concentrati nel Nord dell’Europa, mentre la produzione degli stati
del Sud è andata incontro a un processo di downgrading.
La globalizzazione produttiva e l’unione monetaria hanno
acuito, piuttosto che alleviare, le diseguaglianze tra i modelli di
specializzazione delle regioni del Nord e del Sud Europa, aumentando gli
squilibri tra i paesi con un surplus nell’export e quelli in deficit.
Molti studiosi, anche a sinistra, interpretano questi
squilibri come il segno di una mancanza di competitività delle economie del Sud
Europa rispetto a quelle del Nord. Quest’analisi, però, restringe il proprio
orizzonte alla sola Europa, e trascura che ciò che un paese produce ed esporta
è importante. Il punto è che, a causa della specializzazione internazionale
delle loro strutture produttive, gli stati membri del Sud come la Grecia, il
Portogallo, la Spagna e in parte l’Italia sono sempre più in competizione con i
paesi in via di sviluppo, non con quelli del Nord Europa.
Di fronte a una pressione crescente nella produzione a basso
e alto contenuto tecnologico, dai primi anni 2000 l’UE ha perso quote di
mercato in favore dei BRICS, della Cina in particolare, che è diventata il più
grande esportatore di merci e sta salendo la catena del valore. Anche se la
delocalizzazione produttiva verso i paesi con bassi salari è fondamentale per
la competitività delle aziende europee, la crescita della Cina e di altri paesi
asiatici sta creando crescenti difficoltà per le economie più deboli dell’UE.
Ciò aiuta a comprendere le conseguenze acute, ma
estremamente diversificate, della recente crisi finanziaria ed economica sui
vari settori e paesi dell’UE-15. Il settore manifatturiero europeo è uno dei
più duramente colpiti, con 4,5 milioni di posti di lavoro persi tra il 2008 e
il 2012 (corrispondenti al 12% dell’occupazione industriale). I livelli di
de-industrializzazione variano notevolmente all’interno e tra i vari paesi, e
secondo l’UNCTAD i flussi di investimenti diretti esteri si rivolgono sempre
più verso i mercati emergenti dell’Asia. Mentre nelle economie avanzate gli
investimenti produttivi sono ridotti, i mercati emergenti sono diventati la
principale destinazione a livello mondiale dei flussi di investimenti diretti
all’estero, e nel 2013 hanno assorbito il 54% dei flussi globali.
Per conservare la propria competitività e i profitti in
questo clima, dal 2011 l’UE ha aumentato la sorveglianza sulle politiche di
bilancio degli stati membri e ha iniziato a intervenire direttamente su nuovi
ambiti, come le politiche salariali. Questo interventismo economico è
strettamente connesso con l’imposizione di politiche di austerità e di riforme
strutturali in Europa occidentale. L’attacco al settore pubblico, il taglio
della spesa pubblica, lo smantellamento del sistema di contrattazione
collettiva e la crescente polarizzazione dell’orario lavorativo sono tutti
finalizzati a rafforzare il capitale europeo davanti alla crescente
competitività internazionale.
Questi fattori strutturali e politici aiutano a spiegare le
differenze senza precedenti nei livelli di disoccupazione e dei salari reali in
Europa occidentale a partire dallo scoppio della crisi economica. Nel primo
quadrimestre del 2015 la disoccupazione variava dal 4,7% della Germania al 5,4%
della Gran Bretagna, il 12,4% dell’Italia e il 25,6% della Grecia (Eurostat).
La Germania è l’unico paese dell’UE-15 [Stati dell’Europa occidentale, che già
erano nell’UE tra il 1995 e il 2004, prima della sua espansione ad Est] dove i salari
reali medi sono diminuiti tra il 2000 e il 2009. Ma dal 2010 la situazione si è
praticamente rovesciata: i salari medi reali sono aumentati del 4,4% in
Germania, mentre sono scesi del 2,3% in Italia, del 4,1% in Gran Bretagna e del
23,6% in Grecia.
Il caso dell’Italia è particolarmente significativo. Con la
Cina come suo secondo principale concorrente dopo la Germania, in Italia la
profittabilità ha iniziato a cadere molto prima della Grande recessione. Dal
2008 la produzione industriale è scesa di almeno il 25% e la capacità
produttiva del 13%. Il sistema occupazionale italiano sta declinando, con una
forte crescita del lavoro atipico e a basso salario e la diminuzione delle
occupazioni ad alta retribuzione.
In Italia gli interventi dell’UE nel 2011 hanno eroso
ulteriormente il sistema della contrattazione collettiva e hanno favorito
l’implementazione di politiche di riforma del lavoro. Rilanciando gli attacchi
portati da Berlusconi al lavoro organizzato, i governi Monti e Renzi hanno
abolito il diritto dei lavoratori a venire riassunti in caso di licenziamenti
senza giusta causa, ed hanno generalizzato la precarizzazione del lavoro.
In Gran Bretagna, la produzione industriale è ancora al di
sotto dei livelli pre-crisi, e la crisi e l’austerità hanno esaurito la
capacità del settore pubblico di compensare la perdita di impiego nel settore
privato. Gli aumenti di occupazione nel settore privato si sono concentrati in
lavori part-time, temporanei e autonomi – mentre l’austerità ha colpito salari,
condizioni di lavoro e spesa sociale.
In Germania, l’evoluzione relativamente positiva
dell’occupazione e dei salari reali è soprattutto dovuta alla specializzazione
della sua industria in settori ad alto valore aggiunto, il cui mercato si sta
espandendo nei BRICS. Ma anche in Germania i salari crescono ad un tasso
inferiore alla produttività, e il lavoro temporaneo e a basso salario è in
aumento. Questa compressione salariale spiega come mai in Germania i lavoratori
poveri siano quasi raddoppiati tra il 2005 e il 2013, passando dal 4,8 al 8,6%.
In Gran Bretagna il tasso di povertà dei lavoratori è più
alto, ma relativamente più stabile che in Germania. Questo trend, però, dipende
dal fatto che in Europa i tassi di povertà sono calcolati rispetto al reddito
medio nazionale, che è in calo in molti paesi – e il calo del reddito medio
riduce anche la soglia di povertà. Se guardiamo ai livelli di grave
deprivazione materiale, la tendenza in Gran Bretagna è peggiore. Tra il 2007 e
il 2013 la percentuale di lavoratori occupati in condizioni di grave
deprivazione materiale è aumentata del 250%, passando dall’1,9 al 4,8%. In
Italia i tassi di grave deprivazione materiale sono raddoppiati tra il 2007 e
il 2013, passando dal 4,3 al 8,6%, e la percentuale di lavoratori poveri era
dell’11%: una percentuale più alta della media dell’Europa occidentale e in
aumento malgrado il declino della soglia di povertà.
A questo processo d’impoverimento – unitario ma
differenziato – si accompagna una chiara tendenza all’allungamento dell’orario
di lavoro dei lavoratori a tempo pieno. In Germania l’orario di lavoro è
tornato al livello pre-crisi appena al di sotto di 41ore alla settimana, e la
Gran Bretagna vede oggi un ritorno della “cultura dei tempi di lavoro lunghi”:
mentre quasi un occupato su cinque è a basso salario, un quinto degli occupati
a tempo pieno lavora regolarmente più di 45 ore alla settimana.
In Italia la percentuale di lavoratori occupati a tempo
pieno che lavorano più di 45 ore alla settimana (16,3% nel 2011) è quasi
raddoppiata rispetto al 2002.
La nostra risposta
Per il capitale dell’Europa occidentale l’impoverimento e lo
sfruttamento crescenti dei lavoratori sono fattori essenziali per incrementare
la profittabilità e mantenere la propria posizione nella divisione internazionale
del lavoro. Per questo le politiche di austerità devono proseguire indiscusse e
indisturbate, e per questo la Troika si è dimostrata così implacabile con il
primo governo Syriza.
L’Unione Europea ha voluto dare una lezione esemplare ai
lavoratori greci, colpevoli d’aver alzato la testa e detto no all’austerità; e
questo è stato tanto più necessario alla luce della crescita della opposizione
all’austerità in Spagna e, in qualche misura, anche in Germania e Gran
Bretagna. Quello che le classi dominanti europee più temono, in fatti, è la
radicalizzazione delle lotte dei lavoratori e la loro unificazione in Europa e
a livello internazionale. Nel contempo, l’assenza di un programma di rottura
radicale col capitalismo ha spinto il governo di Tsipras verso moderazione e
arretramenti, dissipando così il potenziale di lotta presente tra i lavoratori.
I movimenti emersi in paesi come la Grecia e la Spagna,
però, hanno dimostrato di poter abbattere le divisioni interne alla classe
lavoratrice e sviluppare forme di potere alternative alla politica
istituzionale. Questi movimenti sono però rimasti isolati e hanno ricevuto
scarso sostegno dai lavoratori nel resto d’Europa.
La solidarietà alla Grecia ha avuto una portata limitata e
non è diventata parte di vere mobilitazioni sindacali nel resto d’Europa. Gli
scarsi tentativi di sviluppare un movimento sindacale a scala europea (come lo
sciopero generale del novembre 2012) sono rimasti confinati nel Sud
dell’Europa, e le poche iniziative fatte per organizzare un coordinamento nelle
trattative sindacali sono state largamente inefficaci.
Ma la solidarietà internazionale non è qualcosa di
secondario, che può essere rinviato a uno stadio “più avanzato” di lotta. Siamo
di fronte a una crisi internazionale e strutturale, e tale dev’essere anche la
nostra risposta. In Europa i lavoratori si trovano davanti ad un processo
d’impoverimento unitario, ma estremamente differenziato, che riguarda anche
paesi apparentemente in ripresa come la Germania e la Gran Bretagna. La lotta per
la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è fondamentale per
combattere alla radice la povertà crescente, e per costruire una solidarietà
tra occupati e disoccupati, tra lavoratori più e meno precari, tra uomini e
donne, tra lavoratori immigrati e non. La riduzione dell’orario di lavoro non è
una rivendicazione meramente economica. Per realizzarla il movimento operaio
deve rigettare la logica della competitività e affrontare di petto le proprie
stratificazioni e divisioni.
La condizione dei lavoratori dell’Europa occidentale è
direttamente legata a quella dei lavoratori e delle classi popolari dell’Europa
dell’Est e del Sud del mondo. L’opposizione all’imperialismo europeo e
occidentale è quindi fondamentale per rafforzare la resistenza della classe
lavoratrice in Europa. Lo stesso vale per la lotta contro l’escalation del
razzismo di stato e dell’Islamofobia, e per l’abrogazione della legislazione
razzista che facilita il super-sfruttamento dei lavoratori immigrati.
Queste rivendicazioni possono realizzare il potenziale di
classi lavoratrici sempre più multinazionali, unificando il movimento dei
lavoratori a livello nazionale e internazionale.
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