domenica 13 novembre 2016

Lenin lettore di Hegel*- Stathis Kouvélakis

*Da:     https://traduzionimarxiste.wordpress.com/        Link all’articolo in francese Période

 
Come spiegare il fatto che al cospetto del disastro della Prima guerra mondiale Lenin si sia ritirato per dedicarsi allo studio della Logica di Hegel? Si tratta di un interrogativo che non ha cessato di turbare il marxismo del primo dopoguerra. Secondo Stathis Kouvelakis, svelare l’enigma dei Quaderni filosofici di Lenin, manoscritti frammentari ed eterogenei, equivale a pensare questo testo come una rettifica del pensiero del movimento operaio europeo. Vero e proprio presupposto alla sua riflessione strategica, la quale condurrà all’Ottobre 1917, il lavoro di Lenin segna un rigetto del positivismo, del meccanicismo e del materialismo volgare della Seconda internazionale. Tale ritorno a Hegel implica una rinnovata istanza rispetto alla dimensione pratica della conoscenza, alla dialettica di salti e inversioni, o ancora, all’attività in quanto processo sociale. Di fronte al crollo della socialdemocrazia, alla necessità di una ripresa, una deviazione nel campo della teoria si rende talvolta indispensabile al fine di poter ricominciare.


Il disastro

Irruzione del massacro di massa nel cuore dei paesi imperialisti dopo un secolo di relativa «pace» interna, il momento della prima guerra mondiale è anche quello del crollo del suo oppositore storico, il movimento operaio europeo, essenzialmente organizzato nella Seconda internazionale. In questo senso, appare adeguata la definizione di «disastro», termine utilizzato da Badiou per significare l’esaurimento della verità di una forma della politica emancipatrice testimoniata da un altro crollo, più recente, ossia quello dei regimi «comunisti» dell’Europa dell’est (1). Considerando che questo secondo disastro va a colpire quella stessa verità politica nata come risposta al primo, e nota come «Ottobre 1917», nonché: «Lenin», è stato allora il ciclo del «secolo breve» ad essersi chiuso su questa disastrosa ripetizione. Paradossalmente, quindi, non si tratta del momento sbagliato da scegliere, per ritornare là dove tutto ciò ha avuto inizio, nell’istante in cui, nel fango e nel sangue che sommergevano l’Europa in quell’estate del 1914, il secolo è sorto.

Catturate dal vortice del conflitto, le società europee e extra-europee (2) sperimentano per la prima volta la «guerra totale». L’insieme della società, combattenti e non combattenti, economia e politica, stato e «società civile» (sindacati, chiesa, media) partecipano integralmente a questa mobilitazione generale assolutamente straordinaria nell’intera storia mondiale. La dimensione traumatica dell’avvenimento non è comparabile con alcun confronto armato precedente. È la sensazione generalizzata della fine di un’intera «civilizzazione» ad emergere dalla carneficina delle trincee, vera e propria industria del massacro, altamente tecnologizzata, dispiegata nei campi di battaglia e ben al di là di questi ultimi (bombardamenti di civili, spostamenti di popolazione, distruzione mirata di aree situate al di fuori del fronte). L’industria della morte di massa stessa si aggroviglia strettamente ai dispositivi di controllo della vita sociale e delle popolazioni, direttamente o indirettamente esposte ai combattimenti. Una tale atmosfera apocalittica, la cui eco risuonerà con forza in tutta la cultura dell’immediato dopoguerra (la quale nasce nel conflitto stesso: Dada, poi il surrealismo e le altre avanguardie degli anni Venti e Tenta), permea tutti i contemporanei. È possibile, ancora oggi, farsene un’idea attraverso la lettura della Juniusbroschure di Rosa Luxemburg (3), uno dei testi più straordinari della letteratura socialista, ogni pagina del quale porta testimonianza del carattere inedito della barbarie in corso.

La dimensione della brutalità raggiunta dell’insieme dei rapporti  sociali, per quanto terrificante dovesse sembrare all’ora come oggi, non deve tuttavia occultare le innovazioni di enorme portata delle quai il conflitto fu portatore. Certamente, si tratta di un fatto ben noto, ogni guerra costituisce un vero e proprio laboratorio per la «modernizzazione» dei rapporti sociali (4), ma il carattere «totale», e «totalitario», di questa conferisce a tale processo un’ampiezza senza precedenti. A partire dall’istituzione su larga scala dei campi di concentramento e della politica di deportazione delle popolazioni nonché di pulizia etnica dei territori (fino ad allora riservati alla colonizzazione: il conflitto mondiale consente, infatti,  di importare nella metropoli il tipo di violenza da essa sino ad’ora sperimentata nella sua periferia imperiale), per giungere a forme di pianificazione e controllo statale dell’economia – compresa l’integrazione dei sindacati nell’economia di guerra (la quale assume alcuni aspetti di razionalizzazione capitalistica integrale, così come teorizzata da Rathenau). Dal ricorso alla mano d’opera femminile nell’industria, (con tutte le conseguenze di un fatto simile, combinate all’assenza degli uomini impegnati al fronte, a livello della struttura familiare e della dominazione maschile nella vita sociale) sino alle forme di condizionamento su vasta scala esercitate sui combattenti e sull’opinione pubblica, tramite un impressionante dispositivo di controllo dell’informazione e lo sviluppo di nuovi mezzi (radio e cinema), senza dimenticare i cosiddetti governi di «union sacrée», i quali assicurano l’integrazione dei partiti operai ai vertici dello stato, oltre ad adeguarsi alle forme di pianificazione/consenso al livello dell’economia. Non un solo aspetto della vita collettiva e individuale rimane indenne rispetto a questa esperienza radicale.

Niente, dunque, sarà più come prima, innanzitutto per il movimento operaio. Il collasso della Seconda internazionale, la sua totale impotenza rigurdo al frangente della guerra imperialista, in realtà, non fa altro che rivelare delle tendenze profonde, e di gran lunga precedenti la guerra mondiale, verso «l’integrazione» delle organizzazioni di tale movimento ( e di larga parte della loro base sociale) nei compromessi che sostengono l’ordine sociale e politico (in particolare nella sua dimensione imperialista) dei paesi del centro. «Il fallimento», per riprendere la formula usata da Lenin, è quindi quello dell’insieme della pratica operaia e socialista, costretta ormai a dei ripensamenti radicali: «la guerra mondiale ha modificato le condizioni della nostra lotta e ha cambiato noi stessi radicalmente» scrive la Luxemburg, prima di fare appello «all’autocritica impietosa», «diritto vitale» e «dovere supremo» della classe operaia (5).

Lenin, pur non essendo certo tra i più impreparati (ma, in qualche modo, non ne è ancora consapevole), è tuttavia tra coloro sorpresi con maggiore immediatezza dal disastro. La sua incredulità di fronte al voto unanime per i crediti di guerra da parte della socialdemocrazia tedesca, e più in generale al crollo dell’Internazionale e del centro ortodosso «kautskyano», la lentezza e la rarità dei suoi primi interventi posteriori all’agosto 1914, la dicono lunga. Non tanto su una (presunta) mancanza di lucidità (pur essendo vero che la sua aspirazione «all’ortodossia», al’opposto della Luxemburg, ha pesato sull’illusione retrospettivamente rivelata dal disastro) bensì circa il carattere veramente senza precedenti di ciò che sta accadendo.

Questo ritardo nell’intervento politico, l’evoluzione della sua posizione  riguardo l’attitudine dei socialisti rivoluzionari rispetto alla guerra imperialista lo segnala ancor più nettamente. Nel momento in cui scoppia la guerra, e «l’orrore» del fallimento dell’Internazionale si rivela il più penoso da sostenere, il più doloroso di tutti, il dirigente bolscevico lancia «a caldo» una parola d’ordine che si richiama ancora alla cultura anti-guerra della defunta internazionale. È la parola d’ordine democratica (e giacobino-kantiana) della «trasformazione di tutti gli Stati europei in Stati uniti repubblicani d’Europa», trasformazione che implica il rovesciamento delle dinastie tedesca, zarista, austroungarica ecc. (6). Poco dopo (nel 1915), tale posizione verrà abbandonata a causa del suo problematico contenuto economico (suscettibile di essere interpretato come sostegno a un possibile imperialismo europeo unificato), e del rigetto categorico di ogni concezione eurocentrica della rivoluzione. Un rigetto che si traduce senza dubbio in una valutazione assai pessimistica dello stato del movimento operaio europeo: «Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo riguardava soltanto l’Europa è passato senza ritorno» (7). La concomitante affermazione del «disfattismo rivoluzionario», linea radicalmente innovativa per la cultura del movimento operaio internazionale, appare in tal modo indissociabile dalla riflessione sulle conseguenze devastanti dell’implosione politica dell’agosto 1914. Più precisamente: dalle insolite occupazioni cui Lenin si dedica nel corso dei mesi successivi ai suddetti avvenimenti.

Solitudine di Lenin

In effetti, è in un simile contesto di apocalisse generalizzata, da affrontare in tutta la sua urgenza (come di consueto, ciò si tradurrà in un primo momento nel ricorso a vecchie ricette, la vera innovazione è, appunto, di là da venire), che Lenin si ritira nella calma di una biblioteca svizzera per immergersi nella lettura di Hegel. Beninteso, questo momento è anche, concretamente, quello in cui l’isolamento politico di Lenin, di fatto l’isolamento della minoranza del movimento operaio che si è erta contro la guerra imperialista, è maggiore. Tale presa di distanza, tale solitudine, constatabile spesso nei momenti di rivolgimento non solo tra i pensatori puri ma anche tra gli uomini d’azione, è una fase assolutamente necessaria del processo evenemenziale stesso: la cesura dell’evento primario (la guerra) si amplifica nel vuoto, nella distanza, vuoto dal quale sorgerà, forse, l’iniziativa, l’apertura verso il nuovo. Solo alla luce di quest’ultimo il processo potrà apparire, retrospettivamente, come necessario, incrocio tra l’autocritica del pensiero e delle cose, che essa riconosce come proprie, senza ridurre la parte di contingenza di un simile incontro, la sua totale mancanza di garanzie preventive.

La frequenza di questi momenti di solitudine nella vita di Lenin (8), vita segnata da lunghi esili e lotte controcorrente pressoché permanenti, è in tal senso indicatrice del loro valore come eventi. Ecco perché, lungi dal dileguarsi, risorgono installandosi nel cuore stesso del periodo più decisivo, quello che si estende dall’inizio della guerra mondiale all’Ottobre 1917. Un fatto agevole da constatare: circa un anno di letture «filosofiche», prevalentemente consacrate ad Hegel, successive all’agosto 1914, un’enorme documentazione sull’imperialismo (800 pagine di note oltre al celebre saggio), un lavoro teorico ostinato sulla questione dello stato, il quale culminerà nel Quaderno blu (9) e nella redazione di Stato e rivoluzione, nel ritiro forzato in Finlandia, con l’incontro tra discorso e realtà nella Rivoluzione d’ottobre stessa. Tutto avviene dunque, come se Lenin, nella sua ostinazione, riesca a immobilizzare, o meglio a catturare, un tempo storico che non cessa di accelerare vertiginosamente.

I più competenti tra i biografi di Lenin l’hanno sottolineato a sufficienza: «forse il periodo più sconcertante e inesplicabile della vita di Lenin, dal punto di vista di coloro […] che vorrebbero farci credere egli fosse un politico prevalentemente istintivo e pratico, è quello rappresentato dalle sue attività durante i turbolenti mesi seguenti la caduta dell’autocrazia nel febbraio 1917 […] invece di dedicare il proprio tempo a manovre politiche finalizzate all’ottenimento di vantaggi tattici per il suo partito in Russia, egli concentrò le proprie energie su uno studio esaustivo, quasi accademico, del pensiero di Marx ed Engels circa la questione dello stato, nella prospettiva di delineare gli obiettivi strategici di lungo termine della rivoluzione socialista mondiale» (10). Prende forma, in tal modo, l’altra faccia di questa solitudine: né ritiro contemplativo, né pausa temporanea allo scopo di recuperare le forze prima di passare nuovamente al’azione, bensì distanza, strappo necessario rispetto all’immediatezza al fine di ripensare radicalmente (alla radice) le condizioni dell’agire. Detto in altri termini: se per catturare, per cogliere la congiuntura, per tracciare le linee d’intervento, è necessario riprendere e ricostruire i punti di riferimento teorici (il marxismo non come dogma ma come «guida per l’azione» secondo l’adagio favorito di Lenin), allora, di fronte al disastro, non sarebbe questione di un ritorno ai fondamenti quanto di una rifondazione teorica del marxismo.

Il che spiega senza dubbio non solo l’eccezionale intensità dell’intervento teorico di Lenin nel corso del periodo aperto dalla Prima guerra mondiale, ma anche la sua portata rifondatrice nonché, vi ritorneremo in seguito, autocritica: il ritorno sistematico ai testi di Marx ed Engels si combina ad un enorme sforzo di aggiornamento teorico e analisi delle condizioni inedite determinate dalla guerra totale imperialista. L’impressionante accumulazione di documentazione empirica va di pari passo col riesame dello statuto stesso del marxismo, a fronte di un’ortodossia andata irrimediabilmente in frantumi. La rottura causata dalla situazione si prolunga in rottura teorica: la crisi, il disastro medesimo possono pertanto, nella loro imprevedibilità, porsi come una ripresa, divenire costruttivi. È in tutto ciò  Lenin si ritrova solo, e una comparazione con le migliori menti del movimento rivoluzionario europeo, la Luxemburg, Trotsky e Bucharin inclusi, ne dà conferma facilmente. Non a caso nessuna di queste figure, peraltro eminenti pensatori e dirigenti del movimento operaio internazionale, ha fatto, durante questo periodo cruciale, riferimento ad Hegel e più in generale agli aspetti cosiddetti «filosofici» e teorici del marxismo.

La svolta

Lenin, dunque, si avvicina a questo nuovo periodo tramite una lettura di Hegel finalizzata a pensare sino in fondo la rottura con la Seconda internazionale, della quale la guerra a segnato il «fallimento». Gli autori che popoleranno la sua solitudine, in primo luogo Hegel, saranno dunque oggetto di una lettura di tipo particolare, indissociabile dai risvolti politici della filosofia.

Se, come egli stesso ammette nella sua prima reazione «a caldo» (in un testo che non sarà pubblicato che postumo), «Al socialista, più che gli orrori della guerra – noi siamo pur sempre per la “santa guerra di tutti gli oppressi per la conquista delle loro patrie!”, – pesano gli orrori del tradimento perpetrato dai capi del socialismo contemporaneo, gli orrori del fallimento dell’attuale Internazionale» (O, XXI, 13), tale «disagio» confessato serve allora come motore a un processo di critica interna, di autocritica, già in corso. La scelta, solitaria e, quantomeno in apparenza, altamente improbabile, di Hegel, e più precisamente della Scienza della logica, quale terreno privilegiato , e quasi esclusivo per il periodo decisivo dall’agosto al dicembre 1914 (11), di questa rottura deve essere esso stesso inteso come un incontro tra molteplici serie di determinazioni eterogenee, alle quali solo l’effetto retrospettivo dell’incontro conferisce unitarietà e convergenza. Anche se, riguardo a tale itinerario, il compito già evocato da Michael Löwy, in un testo memorabile, resta da assolvere («un giorno andrà ricostruito l’itinerario che conduce Lenin dal trauma dell’agosto 1914 alla Logica di Hegel» ) (12), avanzeremo alcune ipotesi (più precisamente quattro) al fine di ricostruirne alcuni aspetti. In particolare quelli derivanti dalla duplice intuizione formulata da Löwy nel testo già citato: il ricorso ad Hegel è frutto della «semplice volontà di ritornare alle fonti del pensiero marxista, o della lucida intuizione per la quale il tallone d’Achille metodologico del marxismo della Seconda internazionale risiedeva nella mancata comprensione della dialettica?» (13). Senza dubbio l’una e l’altra, precisando immediatamente che l’approccio del «ritorno alle fonti» non ha niente di «semplice», in quanto segno più certo della portata radicale del gesto di Lenin.

1. Un gesto da intendere in primo luogo come reazione quasi istintiva alla svalutazione, o meglio al rigetto di Hegel e della dialettica che erano segno distintivo del marxismo della Seconda internazionale, in generale, e del suo rappresentante russo, ossia Georgij Plechanov (con quali sfumature sarò discusso a breve). Rammentiamo semplicemente a questo proposito che, basandosi principalmente sugli scritti dell’ultimo Engels, essi stessi oggetto di una certa semplificazione, la dottrina ufficiale della Seconda internazionale, da Mehring a Kautsky, passando per lo stesso Plechanov, consisteva in una variante dell’evoluzionismo scientista e di un determinismo dalle pretese materialiste, contestato solo (se si esclude Labriola) dai «revisionisti» dell’Internazionale (di destra o sinistra, da Bernstein a Sorel e Karl Liebknecht), quasi sempre da posizioni neo-kantiane. In realtà, tale matrice era pienamente partecipe del clima intellettuale tipico dell’epoca, il XIX secolo positivista, imbevuto di fede nel progresso e nella missione della scienza, nonché nella civilizzazione europea all’apogeo della sua espansione coloniale. Non è esagerato affermare che, nella sua variante russa, proveniente da un paese dalla modernizzazione assai «tardiva» e ancora dominato dalle forze oscurantiste dell’ancien régime, simili tratti si sono considerevolmente rafforzati. Plechanov inscrive apertamente Marx nella linea del materialismo del barone D’Holbach e di Helvetius (14), e in continuità con una tradizione feuerbachiana russa,  più precisamente quella di Černyševskij, egli proclama Feuerbach – che Marx non farebbe altro, nell’essenziale, che prolungare – il grande vincitore dell’idealismo hegeliano.

Certo, si potrebbe dire, è stata proprio questa reazione a portare Lenin sul terreno della filosofia: si veda Materialismo ed empiriocriticismo, contraccolpo della mancata rivoluzione del 1905 nell’ambito del  Kampfplatz filosofico (15). Tuttavia, la comparazione tra i due gesti risulta eloquente: lungo tutta l’opera del 1908, nel confronto tra il «materialismo» da lui professato e l’empiriocriticismo che attacca, Lenin non cessa di mobilitare Plechanov, l’autorità filosofica sino ad allora incontestata (fino alla «crisi» aperta dalla disfatta del 1905, per la precisione) fra tutti i socialdemocratici russi. Plechanov, quali che fossero le sue divergenze con Kautsky, ne era l’omologo strutturale in Russia, la fonte indiscussa dell’armatura speculativa, persino metafisica, di tale ortodossia andata irrimediabilmente in pezzi dopo l’agosto 1914.

Sei anni dopo, è proprio alla bestia nera di tutto questo «materialismo» che si rivolge Leinin: Hegel. E soprattutto, verso la sua dialettica così ingombrante, poiché è ad essa, dunque al culmine dell’idealismo hegeliano, che si richiama Marx secondo le modalità ben note del «rovesciamento» e del «rimettere coi piedi per terra». Dialettica alla quale Plechanov (che, ribadiamolo, è lontano dall’essere un’eccezione; e all’epoca considerato come specialista in filosofia della Seconda internazionale), tra migliaia di pagine di storia e polemica filosofica, dedica scarsissima attenzione, come constaterà il dirigente bolscevico qualche mese dopo il suo lavoro sulla Logica (16). Il poco che egli scrive mostra, del resto, a quale punto il suo universo intellettuale, quello di tutta un’epoca, se non di un’intera realtà, era divenuto estraneo alla tradizione dell’idealismo tedesco. Nel suo articolo «Per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel» (17), il solo pubblicato dalla Neue Zeit, in tale occasione (il che la dice lunga sullo stato della discussione filosofica all’interno della socialdemocrazia tedesca), Plechanov tratta, nelle modalità di una compilazione enciclopedica, il punto di vista di Hegel sulla storia universale, la filosofia del diritto, la religione ecc. «I fondamenti geografici della storia universale» (18) riscuotono un po’ della sua attenzione – egli vi scorge senza dubbio un «germe di materialismo» – laddove la questione della dialettica viene letteralmente relegata a meno di una pagina (19), la quale serve peraltro da introduzione alle due o tre citazioni canoniche di Marx in proposito. Oggetto del rifiuto, quindi, non è tanto Hegel in quanto tale (in un certo senso quest’ultimo è stato respinto molto meno dall’intellighenzia russa, compreso Plechanov, che altrove in europa), bensì la questione della dialettica in Hegel, il «lato della cosa» come dirà Lenin, regolando i conti filosofici con Plechanov, poco dopo la sua lettura della Logica (20).

2. La seconda ipotesi circa il ricorso ad Hegel in questa congiuntura estrema rinvia alla concezione propriamente leniniana del’intervento in campo filosofico. È necessario, infatti, vedere anche l’altro lato di quest’immagine quasi invertita tra l’intervento pubblico nella disputa filosofica, nella crisi del 1908, e la ricerca privata, quasi segreta, attraverso i sentieri più ardui della metafisica suscitata dal disastro del 1914. Sebbene li divida un «abisso», per riprendere le parole di Henri Lefebvre, e gli argomenti «continuisti» caratterizzanti un certo «leninismo» (21) non reggano né alla lettura dei testi né a una percezione anche minima delle congiunture, ciò non toglie che Lenin abbia appreso qualcosa dalla sua precedente discesa nell’arena della filosofia. Vale a dire, in condizioni di «crisi», la cui specificità risiede nelle forme assunte dal ripetersi di essa nel soggetto rivoluzionario stesso («una terribile disfatta ha colpito l’organizzazione socialdemocratica»), la battaglia filosofica può collocarsi sulla prima linea della lotta ,poiché le sue implicazioni teoriche influenzano direttamente lo stato della pratica politica.

Nella congiuntura scaturita del «disastro» del 1914, tale sillogismo ruota in qualche modo su se stesso: l’implosione dell’intera politica socialdemocratica cambia tutto nel dominio della teoria. L’ortodossia, nella figura emblematica del Giano bifronte kautso-plechanoviano, è anch’essa sprofondata nel voto ai crediti di guerra e nel riallineamento all’union sacrée. Allo scopo di pensare un simile fallimento, e distruggere teoricamente la matrice della Seconda internazionale, è necessario iniziare dalla distruzione della metafisica di ciò  di cui l’organizzazione socialdemocratica rappresentò la tecnica (22). E «l’anello debole» della metafisica socialdemocratica è Hegel. Non un Hegel  qualsiasi, non quello che ha potuto interessare, di passaggio, un Plechanov: non l’Hegel degli scritti più immediatamente, esteriormente, politici, bensì il cuore speculativo del sistema, il metodo dialettico consegnato alle pagine della Scienza della logica.

Lenin, in altri termini, comprende come la vera posta in gioco nel «sistema» di Hegel vada ricercata non nei testi più esplicitamente politici o storici, ma in quelli più «astratti», più «metafisici», in quelli maggiormente «idealisti». Egli, così, rompe in maniera irrevocabile col modo di trattare le questioni filosofiche ereditato dal vecchio Engels e consacrato da tutta la Seconda internazionale, compresa la sua «coscienza filosofica anteriore»: la divisione della filosofia in due campi opposti e fondamentalmente estranei l’uno all’altro, il materialismo e l’idealismo, i quali esprimono letteralmente gli interessi di classi antagoniste. Tuttavia, e vedremo in seguito che ciò non manca di suscitare alcuni interrogativi, va detto che è proprio qui si trova il punctum dolens dei Quaderni, infatti, se la distinzione materialismo/idealismo viene recuperata dialetticamente, e dunque, in un certo senso, relativizzata, non viene per questo rigettata, quanto (vi ritorneremo) riformulata, riattivata, o più esattamente: radicalizzata nel senso di un materialismo del tutto nuovo. In altre parole: nel lasciare le sponde dell’ortodossia, Lenin non attua un «cambio» di «campo» filosofico, non diviene idealista, tanto meno aderisce a uno dei tanti «revisionismi» filosofici disponibili, né inventa una propria variante. Ciò che ha sempre categoricamente rifiutato è precisamente questo, una «terza via», mediana o conciliatrice, «tra» il materialismo e l’idealismo, o «al di là» della loro opposizione (23). Una simile presa di posizione porterebbe, del resto, a conservare i termini stessi del dispositivo teorico che si tratterebbe di ricusare in quanto tale.  Lenin tenta «semplicemente», ma beninteso è proprio qui tutta la difficoltà, di leggere Hegel da materialista e di aprire così la via a un nuovo inizio, una vera e propria rifondazione del marxismo stesso.

3. Di fronte al disastro, Lenin cerca di risalire al momento costitutivo, al testo stesso di Marx. Per quanto commissionatogli, lo scritto destinato al Dizionario enciclopedico Granat (O, XXI, 34-79) gioca a tal riguardo un ruolo rivelatore: cavalcando il momento del disastro, egli resta fedele, nei punti essenziali dell’esposizione, all’ortodossia engelsiana-kautskyana (in particolare nella ripresa delle definizioni canoniche di «materialismo»). Se ne distingue, ciò nonostante, per lo spazio accordato alle questioni «filosofiche», collocate all’inizio dell’esposizione, fatto inconsueto di per sé (specie nel contesto di uno scritto di carattere pedagogico), nonché per la presenza di un sottocapitolo separato intitolato «la dialettica». Pur riprendendo, anche qui, le formule tipiche dell’ortodossia, in particolare il primato «dell’evoluzione» e «dello sviluppo» nella natura e nella società, in appoggio delle quali vengono evocati (nel più puro stile plechanoviano) lo sviluppo moderno della chimica e della biologia» e persino «la teoria elettrica della matteria», cionondimeno si caratterizza per la volontà di smarcarsi dal «materialismo «volgare»». Espressione assai sospetta, non va dimenticato, agli occhi dell’ortodossia della Seconda internazionale, per la quale qualsiasi materialismo andava bene. Lenin non esita a definirlo «metafisico, cioè antidialettico» , accusa pressoché inconcepibile per un Plechanov, secondo il quale l’antico materialista è tutt’al più «inconseguente», insufficientemente materialista o fedele al monismo della «materia», e al determinismo «dell’ambiente» socio-naturale, o ancora, al limite, «unilaterale» (24).

Nel medesimo testo, Lenin si cura ugualmente di distinguere, con un insistenza non comune, «l’evoluzione» secondo Marx  «dall’idea corrente di evoluzione», in quanto evoluzione segnata «da salti, catastrofi, rivoluzioni» [la parola chiave è qui ovviamente «catastrofi» (25)]; insiste sulla «dialettica» come «parte rivoluzionaria della filosofia di Hegel», ed evita di riprendere la distinzione canonica tra metodo e sistema. Il suo riferimento alle «tesi su Feuerbach», per quanto parziale e deformato possa essere, è davvero altra cosa rispetto ai commenti ortodossi, sopratutto plechanoviani. In modo significativo, consente di chiudere il sottocapitolo dedicato al «materialismo dialettico» con un riferimento alla nozione, rigorosamente scartata dall’evoluzionismo determinista dell’ortodossia (26), di «attività rivoluzionaria pratica».

Lenin, dunque, prende coscienza della necessità di risalire al nodo teorico Feuerbach-Hegel al fine di riprendere la questione del marxismo dai suoi fondamenti, così da sbarazzarsi definitivamente dell’ortodossia e della sua vulgata, ciò che Marx definirà «Il punto di vista del vecchio materialismo» (decima tesi su Feuerbach). Non sorprende, quindi, che egli chieda, in corso di edizione, e nel momento in cui ha iniziato a leggere la Scienza della logica, di poter modificare alcune parti dell’articolo, in particolare quelle concernenti la dialettica.

4. Un altro elemento interviene, tuttavia, nel configurarsi di questo momento di rifondazione: nella radicalità teorica garantitagli dalla sua solitudine, Lenin si trova a doversi confrontare con la necessità di una ricostruzione del rapporto con la tradizione rivoluzionaria nazionale, la famosa «eredità», secondo la definizione usata in seno all’intellighenzia d’opposizione, delle figure fondatrici dell’Aufklärung russa e della democrazia rivoluzionaria. Un’eredità alla quale egli si è sempre richiamato fieramente, rifiutandone allo stesso tempo il monopolio da parte della corrente populista della sua epoca, affermando la legittimità, e la necessità, di una sua riconsiderazione critica. Altrimenti detto, è la solitudine della sala di lettura bernese a consentire a Lenin di dialogare liberamente, tramite Hegel in un certo senso, con i grandi antenati, e più particolarmente con la figura fondatrice di Herzen.

Questo rinvio da un gesto fondatore ad un altro, riattivato da questo rapporto ricostruito nel presente, e pienamente assunto come tale, va inteso in un duplice senso: Herzen è innanzitutto l’anello di collegamento tra l’eredità rivoluzionaria russa con le grandi correnti delle rivoluzioni europee del 1848. Imbevuto di hegelismo, più esattamente giovane hegelismo (27) (fenomeno di «anacronismo» caratteristico di un paese «tardivo»: quando Hegel arriva in Russia, vi giunge al contempo precocemente e tardivamente, è già lo Hegel del movimento dei giovani hegeliani), segnato più particolarmente dalla lettura rivoluzionaria favoritane da Bakunin e Heine, incontrati durante il suo esilio parigino, Herzen è incontestabilmente il primo a impostare i termini di quello che verrà in seguito designato come problema della «non-contemporaneità russa» (28). Riformulando, non più nel contesto euforico pre-quarantottesco bensì in quello della sconfitta e della disperazione, la tematica «tedesca» del rovesciamento del «ritardo» – estremo – (della Russia) in potenziale «avanzamento» (rispetto agli altri paesi europei), egli traccia i contorni di una «via russa» come singolare percorso d’accesso all’universale. Protetta, in virtù del suo stesso ritardo, dagli effetti congiunti della repressione della rivoluzione democratica e dello sviluppo capitalistico, la Russia, dalle forme sociali comunitarie ancora vivaci nella sua immensità rurale, è dunque passibile di aprire la via ad un’emancipazione più avanzata ancora di quella inaugurata dalla Rivoluzione francese del 1789, concretamente intravista nel 1793-1794, e la cui sconfitta sanguinosa del 1848 ha suonato la campana a morto per il resto del continente spazzato dall’ondata reazionaria. Nella solitudine della disfatta, nel vuoto creato dalla controrivoluzione ovunque trionfante, Herzen scopre, secondo le sue stesse parole, una nuova via, un’opportunità storica del tutto inedita: «le mie scoperte mi provocavano una vertigine, un abisso si apriva ai miei occhi, e sentivo la terra cedere sotto i miei piedi» (29).

Un tale potenziale di apertura storica radicale è sin dall’inizio correlato, come abbiamo visto, al ruolo storico di Herzen nella ricezione di Hegel, già prima del 1848, in Russia (30). Negli anni Quaranta dell’Ottocento, contro la generazione precedente dell’intellighenzia moscovita, imbevuta di Schelling, egli difende la Logica hegeliana. Nutrito di sansimonismo ancor prima di darsi allo studio della filosofia, lettore di August Cieszkowski, la cui idea di una «filosofia dell’azione» lo entusiasma, prima di aver letto Hegel, segue da vicino, al pari di altri intellettuali russi (in particolare Belinsky), l’evoluzione della sinistra hegeliana attraverso le due riviste di riferimento fondate da Arnold Ruge (Les Hallische Jahrbücher, che diverranno dopo l’espulsione dalla Sassonia i Deutsche Jahrbücher). Convinto del ruolo rivoluzionario della filosofia, della sua capacità di intervento attivo nell’attualità politica, Herzen punta dal 1842 sul proletariato come attore principale della rivoluzione a venire (prima di distaccarsene a seguito dei massacri del giugno 1848 e della sconfitta generalizzata). È lui notoriamente a coniare l’espressione «algebra della rivoluzione» a proposito della dialettica hegeliana, formula che Plechanov amava ripetere, e da quest’ultimo senza dubbio trasmessa a Lenin, pur trasformandola spesso in «algebra dell’evoluzione» (31).

Giovane hegeliano radicale ben prima di divenire hegeliano, Herzen introduce nel bastione del dispotismo europeo l’insieme delle problematiche sollevate dai giovani hegeliani, compreso Feuerbach. Le conseguenze di un simile gesto sono incalcolabili per tutte le generazioni dell’intellighenzia radicale russa. Ciò piega perché, nel clima di reazione generalizzato che segue allo scacco delle rivoluzioni del 1848, e nel quale il riflusso di Hegel serve da esempio di riallineamento su scala europea (a partire dalla Germania, dove viene trattato come «un cane morto» secondo le celebri parole della prefazione del Capitale), lo spirito quarantottardo sopravvive precisamente in questa periferia europea, in piena Russia zarista (32).

Dopo la disfatta, Herzen si dedica in particolare allo studio delle scienze (33), scrivendo Le lettere sullo studio della natura, immerse in un clima di finalismo naturalista, dove la  Naturphilosophie hegeliana si contende lo spazio con un panteismo dagli accenti feuerbachiani quando non apertamente schellinghiani. Tuttavia, la questione in gioco è nettamente politica: di fatto, Herzen fornisce una narrazione che fonda la possibilità dell’azione umana e i suoi effetti trasformatori nel più ampio racconto dei processi naturali, colti nella loro finalità interna e nelle loro mediazioni riflessive. Anche in questo caso, egli compie un’opera fondatrice, ed è possibile affermare che il materialismo russo, il quale si collocherà in continuità con  Le lettere sullo studio della natura accentuandone l’aspetto feuerbachiano, ne condivide l’ambiguità costitutiva. Černyševskij (il cui impatto su Lenin sarà, è cosa ben nota, considerevole) rappresenta in questo senso un caso emblematico, al pari di Plechanov, il quale gli dedica numerosi studi, tra cui un’opera accuratamente annotata da Lenin tra il 1910-1911. Il riferimento a Herzen riconduce, in tal modo, e in maniera molteplice, al nodo teorico Hegel/Feuerbach, mediato dall’eccezionale tradizione russa di ricezione dei due pensatori. Ed è proprio in questi termini, quelli del rapporto tra materialismo e rivoluzione, che Lenin, pur rimanendo nel contesto dell’ortodossia, fa il bilancio su Herzen nel suo articolo del 1912 dedicato «alla sua memoria». Vi si ritrova il Lenin precedente il disastro, il quale, ricordandone l’ «assimilazione della dialettica di Hegel», condensata nella formula «algebra della rivoluzione», loda l’editore di komokol, secondo la più stretta ortodossia plechanoviana, perché «Andò più in là di Hegel, seguì Feuerbach verso il materialismo» (34). Questo nel momento in cui, poco prima della redazione di questo testo, le note marginali di Lenin dedicate all’opera di Plechanov su Černyševskij, rivelano quanto egli fosse cosciente del carattere fondamentalmente contemplativo di tale materialismo, sino a riconoscerne le traccie nello stesso Plechanov (35). Rimane la constatazione, persistente, che in tutta la discussione sulla via rivoluzionaria russa, Hegel e la sua discendenza intellettuale sono implicati sin dall’inizio.

Il cammino di Lenin verso Hegel ci conduce così agli altri tre, certo secondo le sue modalità, ma anche per una necessità tutta interna. Indipendentemente l’uno dall’altro, e tuttavia derivanti in gran parte da un ceppo teorico comune, Herzen e Marx si trovano a dover risolvere lo stesso enigma politico, ossia quello della non-contemporaneità delle rispettive formazioni sociali, del rovesciamento del loro ritardo in avanzamento, da cui l’iniziativa che trasformerà i termini stessi del troppo presto e del troppo tardi, al fine di porre l’attualità propria del processo rivoluzionario in una congiuntura determinata. Ma tutto ciò, Lenin lo riscopre a sua volta, non è altro che la questione della dialettica.

Trame

Eccoci dunque giunti al testo dei Quaderni dedicato alla Logica. Prima di affrontare ciò che Lenin trova nel corso di tale lettura di Hegel, è utile attardarsi brevemente su quello a cui la maggior parte dei commentatori accennano solo brevemente, quando non lo riducono ad un semplice limite del testo, o ad una deviazione dalle norme filologiche ineludibili in un commento filosofico. Si dovrebbe quindi cominciare dicendo che i Quaderni di Lenin sulla Scienza della logica di Hegel non esistono! Essi condividono, da questo punto di vista, lo statuto di altri testi mitici della tradizione marxista, e non solo (36), vale a dire, quello di essere manoscritti a uso privato, o quantomeno non destinati alla pubblicazione nello stato in cui li conosciamo. In questi casi, la stessa forma della loro pubblicazione costituisce sempre una sfida teorica in sé, nonché una sfida direttamente politica, soprattutto per i testi della tradizione marxista, e più particolarmente per i Quaderni: vanno inclusi, diluiti direbbe qualcuno, in una massa di altre note e materiali, di periodi assai diversi, come faranno i primi editori sovietici? Separarti al fine di valorizzarli al meglio, come nel tentativo pionieristico di Lefebvre e Guterman (37)? Adottare una soluzione di compromesso come nelle edizioni sovietiche a partire da una certa data (1955) e, sulla loro scia, in quelle promosse dal movimento comunista internazionale?

Vi è tuttavia molto di più in simili questioni di natura formale: i Quaderni sulla Logica sono un testo molto strano, del tutto unico anche nella tradizione marxista. In quanto insieme di note e di montaggi di estratti dall’opera di Hegel, si presentano come un incredibile collage, un testo costitutivamente frammentato, eterogeneo poiché costituito da molteplici livelli che si sovrappongono continuamente, funzionando come altrettanti testi, sottotesti o intertesti relativamente autonomi. Essi stessi rinviano in modo permanente ad altri, e in particolare a un (sotto)testo assente, ovvero, tutto ciò che non è ricopiato dalla Scienza della logica. L’aspetto radicalmente frantumato e incompiuto, o meglio interminabile del testo, il suo effetto montaggio, nel senso del cubismo sintetico o del cinema vertoviano, viene ulteriormente accentuato dalla babele linguistica che lo caratterizza: trattandosi, in effetti, di un misto di estratti da Hegel generalmente in tedesco, ma talvolta tradotti in russo, con le annotazioni riferiti ai suddetti estratti, in russo ma anche, e tra le più importanti, in francese, in tedesco, a volte con frammenti di frase in inglese… per non parlare della loro forma in quanto tale, le annotazioni di Lenin, infatti, ricorrono ad ogni sorta di schemi, tabelle, grafici, mescolando spensieratamente il riassunto quasi scolastico al commento più elaborato, e il tutto condito con un arte consumata dell’aforisma. Vi si ritrova il Lenin che non esita a far ricorso all’ironia, oltreché all’insulto.

L’ipotesi che voglio arrischiare qui, è che la assai improbabile costruzione dei Quaderni, questa trama materiale dell’oggetto, non può non essere in rapporto con lo statuto esplicitamente rivendicato dal loro autore, ossia quello di una lettura materialista di un testo canonico della filosofia classica tedesca. Detto in altro modo, è nella loro stessa forma, o meglio nella loro totale assenza di forma prestabilita, nella loro dimensione integralmente sperimentale, che i Quaderni sono l’espressione del paradosso rappresentato dall’emergere di qualcosa come il «materialismo» nella filosofia (ma si dovrebbe senza dubbio dire: all’interno delle sue «crepe», delle sue ferite interne).

Prima di riprendere la questione del materialismo, non è inutile abbozzare una prima presentazione delle linee di forza attorno alle quali sono organizzati questi materiali così disparati. Cosa suscita dunque l’interesse di Lenin nella Scienza della logica, quali sono i punti in cui il suo gesto radicale e solitario di ripresa teorica incrocia, oltre a scontrarcisi, il testo hegeliano? Sembra possibile distinguerne almeno tre, tutti posti sotto il segno della dialettica come logica della contraddizione, che permette loro di comunicare con le note dedicate al resto della letteratura filosofica esaminata da Lenin nello steso periodo (38). Essi segnalano altrettanto le linee di rottura tanto con l’ortodossia quanto con la sua coscienza filosofica passata.

1. La dialettica non come «metodo» esterno al suo oggetto, o dissociabile dal «sistema» (secondo la formulazione dell’ultimo Engels) (39), bensì come la posizione stessa dell’immanenza, l’automovimento delle cose colto dal pensiero attraversato da questo medesimo movimento, e che ritorna su se stesso. Essendo ogni cosa al contempo se stessa e altra da sé, la sua unità esplode, essa si scinde nel riflettersi in se stessa e diviene altra, strappandosi a questo momento della differenza stessa, annullandola, in qualche modo, nell’affermazione della propria identità «assoluta» nel movimento della sua stessa automediazione.

2. Questo automoviemento va inteso non nel senso triviale di un «flusso», del corso delle cose, e ogni sorta di altra metafora idraulica cara all’ortodossia, ma come unità degli opposti, contraddizioni interne alle cose stesse e dispiegamento di tale contraddizione nella più stretta immanenza. Dunque, posizione degli estremi e risalita agli estremi, passaggio da un estremo all’altro nel movimento stesso che li oppone, rovesciamento brutale delle situazioni. L’affermazione della potenza creatrice della scissione, dell’attività del negativo, elimina qualsiasi visione evoluzionista del «passaggio», in particolare dei «salti» come accelerazione dell’«evoluzione» e degli «opposti» come semplici termini complementari all’interno di una totalità.

3. L’automovimento è attività trasformatrice e coglie questa stessa attività nella sua processualità, come pratica rivoluzionaria.

Questo terzo punto è il più delicato: tocca direttamente le questioni della lettura materialista alla quale Lenin intende sottoporre il testo hegeliano. Per esprimersi in modo schematico, Lenin tenta di appoggiarsi al «lato attivo/soggettivo» del concetto hegeliano, che lega direttamente alla valutazione data del «lato attivo/soggettivo» dell’idealismo in generale nelle tesi su Feuerbach (40). Ma egli rifiuta categoricamente, in nome del materialismo, l’abolizione dell’oggettività nell’automovimento delle categorie, l’onnipotenza di un pensiero capace, nel suo dispiegamento interno, di sovrastare sino a fagocitarlo il reale stesso. Al fine di spezzare ogni tentazione ontologica nella modalità di esposizione delle categorie, Lenin reintroduce in questo tentativo inedito, un pezzo proveniente dal dispositivo anteriore dell’intervento filosofico, la teoria del «riflesso» di Materialismo ed empiriocriticismo. E peraltro un pezzo centrale, adorno di tutti i crismi dell’ortodossia engelsiana e plechanoviana, la quale e d’altra parte è il bersaglio dei Quaderni filosofici. Questa non-contemporaneità delle problematiche, al cuore stesso della lettura della Logica, ha storicamente concentrato tutte le difficoltà dell’interpretazione del gesto leniniano, rigettato alternativamente a titolo del fraintendimento persistente del senso delle categorie hegeliane, o al contrario, lodato per la continuità fondamentale col «materialismo» del Lenin del 1908.

Ed è su tale punto che è necessario introdurre l’ipotesi che ci guiderà nei successivi itinerari. Incontestabilmente, i Quaderni tenuti da Lenin durante la lettura della Logica sono il «giornale di bordo» di un’esperienza che si presenta contemporaneamente come una scoperta di e una resistenza a Hegel. Non è illogico, in quest’ordine di idee, vedere nella presenza della categoria di «rispecchiamento», posta sin dall’inizio come pietra di paragone della «lettura materialista» che Lenin si propone di condurre, un elemento di «materialismo primario», di residuo dell’ortodossia plechanoviana che Lenin si sforza altresì di superare, in breve, il segno stesso del limite della sua lettura di Hegel, o in altri termini, della sua rottura con l’ortodossia della Seconda internazionale.

I termini della questione sono riassunti in modo chiaro in queste osservazioni di Slavoj Zizek: “Il problema nella “teoria del riflesso” di Lenin risiede nel suo implicito idealismo: la sua compulsiva insistenza circa l’esistenza indipendente della realtà materiale al di fuori della coscienza va letta come uno slittamento sintomatico, destinato a dissimulare il fatto che la coscienza stessa è implicitamente posta come esterna alla realtà che “riflette” […] Solo una coscienza che osservi la realtà dall’esterno potrebbe vedere l’intera realtà “come essa realmente è” […] , esattamente come uno specchio può riflettere perfettamente un oggetto solo se questo gli è esterno […] Il punto non è l’esistenza di una realtà autonoma là fuori, esterna a me stesso; il punto è che io, me stesso, sono “là fuori”, parte di tale realtà” (41). Per dirla nel linguaggio della Logica Hegeliana, ciò che Lenin non coglie, sulla base di questo argomento, è che tale esteriorità primaria dell’essere e della coscienza viene superata/abolita dall’attività soggettiva, la quale connota precisamente il concetto. E il «rispecchiamento» si comprende, in tal modo, non come una copia della realtà esteriore, bensì quale momento della mediazione, del negativo: del movimento che, nella molteplicità dei suoi momenti, esibisce il presupposto reciproco dell’esteriorità e dell’interiorità, e l’immanenza della prima alla seconda, in quanto realmente posta come interiore, mediazione interna essenziale: non cosa altra dall’essere, ma l’essere stesso rivelato, ricollocato, nel movimento riflettente della propria profondità.

Eppure sappiamo che ciò cui è rivolto in maniera decisiva l’interesse di Lenin nella Scienza della logica, è proprio l’economia della «logica soggettiva» («la teoria del concetto»), in quanto razionalità della pratica, del lavoro e dell’attività conoscitiva quali modalità della trasformazione del reale colte in quanto tali. Il punto decisivo sul quale insistere è che proprio nel resistere ad Hegel, Lenin trasforma le proprie categorie e se stesso. Si intuisce così la vera funzione di quello straordinario «collage» che sono i Quaderni: condurre un’esperienza di pensiero introducendo, con le modalità di una scandalosa paratassi, del «materialismo volgare» nel cuore stesso della Summa Theologica dell’idealismo, alla maniera di un Adorno intento a riaffermare, specie nei suoi scritti di estetica, tramite dei rapporti di classe assai diretti e dei riferimenti decisamente «ortodossi» circa il primato dell’oggetto, l’onnipresenza della totalità sociale (repressiva e persino terrificante) nella tram stessa degli elementi che cercano di spezzarla (42). Se così è, allora la persistenza di un elemento di «materialismo volgare», all’interno dei Quaerni, va intesa essa stessa come la traccia della violenza, senza precedenti, portata dall’irruzione della guerra imperialista in seno al più «astratto» dei dispositivi dell’impresa filosofica moderna, la scienza pura, o scienza del pensiero puro, della quale la Logica di Hegel si è voluta come compimento.

In questo modo, la nozione di «rispecchiamento», rimarchiamolo subito, non verrà abbandonata, bensì, come avremo modo di vedere in seguito, «dialettizzata», in un dispositivo a doppio innesco: far emergere il contenuto di verità della logica di Hegel al fine di ricostruire il rapporto Hegel-Marx, rigettato massivamente dall’ortodossia, e restituire allo stesso tempo la portata autenticamente rivoluzionaria del marxismo stesso, il suo cuore dialettico. Nel corso di tale processo, il «rispecchiamento» diverrà tutt’altra cosa rispetto all’iniziale affermazione (contenuta nelle prime pagine dei Quaderni sulla Logica) dell’esteriorità della materia rispetto alla coscienza, o dell’irriducibilità della natura allo spirito. Anticipando un po’, il risultato al quale perverrà Lenin è che il vero «rovesciamento materialista» di Hegel non risiede, come riteneva l’ultimo Engels e come ripeterà in abbondanza Plechanov insieme ad altri guardiani del tempio della Seconda internazionale, nell’affermazione del primato dell’essere sul pensiero, quanto nella comprensione dell’attività soggettiva consegnata nella «Logica del concetto» come «rispecchiamento», idealista, dunque rovesciato, della prassi rivoluzionaria, la quale trasforma il reale svelandovi il risultato dell’intervento del soggetto. Ed è precisamente ciò in cui Hegel è infinitamente più prossimo al materialismo che i «materialisti» dell’ortodossia (o delle sue versione precedenti, pre-marxiane, del materialismo), poiché egli è maggiormente vicino al nuovo materialismo, quello di Marx, il quale afferma non il primato della «materia» ma dell’attività di trasformazione materiale come praxis rivoluzionaria. la promessa di una «lettura materialista di Hegel» sarà in tal modo mantenuta, ma secondo modalità assai distanti rispetto a quelle originariamente previste dal suo autore.

Itinerari

Nelle sue note d’esordio sul primo libro della Logica, «La dottrina dell’essere», Lenin fissa il suo protocollo di lettura in un riquadro che inizia con la seguente esclamazione: «Idiozie sull’assoluto» e prosegue così: «Io mi sforzo in generale di leggere Hegel materialisticamente. Hegel è il materialismo messo testa all’ingiù (secondo Engels) – vale a dire, elimino in gran parte il buon Dio, l’assoluto, l’Idea pura ecc.» (QF, 92). Alla fine del suo esame dell’opera, e sopratutto: dopo aver dedicato decine di pagine di note a ciò che si era appunto prefissato di eliminare (ossia, la terza sezione, «L’idea», della «Logica soggettiva», la maggior parte nel suo terzo e ultimo capitolo: «L’idea assoluta» che occupa, comunque, meno di due terzi di questa sezione), Lenin si concede queste celebri osservazioni conclusive: «Va notato che in tutto il capitolo sull'”Idea assoluta” non si fa quasi parola di Dio […] inoltre il capitolo – NB questo – non ha quasi affatto per contenuto specifico l’Idealismo, il suo argomento principale è piuttosto il metodo dialettico. Il compendio e il riassunto, l’ultima parola e il nocciolo della Logica di Hegel è il metodo dialettico  – cosa estremamente importante. E ancora un’osservazione: in quest’opera di Hegel che è la più idealistica vi è il meno di idealismo, e il più di materialismo. È «contraddittorio,» ma è un fatto!» (QF, 232). È sulla base di questo vero e proprio ribaltamento di prospettiva che si può misurare il cammino percorso da Lenin (43). La trasformazione messa in atto della categoria di «rispecchiamento» ci farà da segnale, indicando i risultati ottenuti in ciascuna delle tappe attraversate.

Poco dopo l’enunciazione del protocollo sulla «lettura materialista» di Hegel citata più sopra, il rispecchiamento riceve la sua prima definizione: coestensivo alla «dialettica» stessa, esiste in quanto «rispecchia la onnilateralità del processo materiale e la sua unità», divenendo così «la riflessione esatta dell’eterno sviluppo del mondo» (QF, 99). Vi è dunque, da una parte, il mondo materiale e il suo «eterno sviluppo», dall’altra il «rispecchiamento» del suddetto mondo, e del suo sviluppo, nell’«Elasticità onnilaterale, universale» delle categorie propriamente dialettiche – elasticità «che va fino all’identità degli opposti» aggiunge Lenin. A conclusione delle sue note sulla prima sezione della «Dottrina dell’essenza», Lenin, scosso dagli sviluppi dedicati alla categoria di«rispecchiamento», tenta un’ultima volta di trovarvi la conferma di un «Hegel rovesciato materialisticamente» (44). Questa conferma è strettamente legata alla concezione della dialettica come «immagine del mondo». Ed è la metafora d’ispirazione eraclitea del fiume e delle sue gocce, e dei concetti come «intendimento dei singoli aspetti del movimento» e dei loro componenti, che gli serve da illustrazione (QF, 136). Tale metafora si situa sulla linea «dell’eterno sviluppo del mondo», per riprendere l’espressione già citata, ovvero, un flusso o un movimento fondamentalmente esteriori all’osservatore, il quale altro non fa che osservarli dalla riva. È di questo tipo di movimento si trattava nella definizione iniziale di «rispecchiamento», quella di un mondo assimilato a un tutto enorme dal quale la storia e la pratica umane sembrerebbero stranamente assenti.

Fino a qui, siamo nella più stretta continuità rispetto all’ultimo Engels, in particolare quello del Ludwig Feuerbach, canonizzato dall’ortodossia della Seconda internazionale: distinzione tra il «sistema» (idealista e conservatore) e il «metodo», ovvero, la dialettica, critica e rivoluzionaria, intesa come scienza delle «leggi generali e universali del movimento» e dello sviluppo tanto della natura quanto dell’azione umana. Tali leggi, a loro volta, non sono altro che il rispecchiamento del movimento reale e oggettivo nella testa del pensatore, e non l’inverso come riteneva Hegel, secondo cui l’Idea assoluta si aliena e degrada nella natura. Così «rimessa coi piedi per terra», la dialettica dei concetti è il rispecchiamento cosciente del movimento dialettico del mondo reale e oggettivo (45).

Per Lenin, le cose iniziano tuttavia a complicarsi molto rapidamente, e seriamente, a partire dalla «Dottrina dell’essenza». Certo, le sue note, assai brevi, sulla «Dottrina dell’essere si erano concluse sulle esclamazioni ben note sui «salti» (46) e la loro necessità, quindi su una presa di distanza dal gradualismo che l’ortodossia associava, immancabilmente, alla propria concezione della grande totalità organicamente legata ad un universo in movimento perpetuo. Le sue osservazioni sulla prefazione dell’opera gli avevano ugualmente fatto percepire la difficoltà della dissociazione tra «sistema» e «metodo», nella misura in cui la Logica, secondo Hegel, esige delle «forme che debbono essere forme piene di contenuto, forme dal contenuto vivente, reale, indissolubilmente legate al contenuto» (QF, 81). Ma è con la lettura della dottrina dell’essenza che Lenin comincia a misurarsi col carattere insoddisfacente, a dire il vero ingenuo e sommario, dei suoi dualismi «materialisti», nonché a penetrare il piano dell’immanenza dispiegata dalle categorie della logica hegeliana.

In quanto «rispecchiamento in se stessa». l’essenza s’identifica col movimento riflettente interno all’essere medesimo. L’apparenza esteriore non è che il rispecchiamento dell’essenza in sé, non altra cosa rispetto all’essere, ma quest’ultimo che si pone nell’esteriorità per riconoscere che tale movimento di posizione di sé procede dalla sua interiorità stessa. Tale «ritorno su di sé» non significa che l’esteriorità è semplice proiezione, o duplicazione dell’interiorità, bensì un essere già là, un presupposto già inscritto nell’interiorità stessa e che consente alla totalità di impegnarsi nel movimento della propria determinazione. Riprendendo la metafora del fiume, Lenin comprende che se si possono distinguere la «spuma» e le «correnti profonde», «anche la spuma è un’espressione dell’essenza!» (QF, 116). Detto altrimenti, la parvenza essenziale, «il rispecchiamento», non è un’illusione da ridurre (riportandola reale essere materiale della quale non sarebbe altro che il calco) né l’immagine proiettata di un movimento esterno. Essa costituisce il primo momento di un processo di autodeterminazione che conduce al dispiegamento del reale in quanto effettività (Wirklichkeit). Da qui i problemi di terminologia che Lenin si pone circa la traduzione del termine «reflexion» (47). Sempre da qui deriva il suo entusiasmo, conseguente alla lettura delle pagine dedicate alle tre forme del movimento riflettente – forme che peraltro trova «esposte molto oscuramente» (QF, 122) -, nel momento in cui scopre il vero livello dell’immanenza dispiegato dal «movimento» hegeliano. Non un flusso, lo scorrere dell’universo osservato da una posizione esterna, bensì l'”automovimento” (Selbstbewegung):  «Movimento e “automovimento” – (NB questo! Un movimento di proprio impulso [autonomo], spontaneo, necessario – interno)», ecco il «nocciolo» dell’«hegelianismo», «astratto e astruso» che Marx ed Engels hanno appunto scoperto, compreso, decorticato, ripulito e in tal modo salvato (QF, 129).

Se così è, allora è il concetto di «legge» a dover essere sottratto dalla «semplificazione» e dalla «feticizzazione» (48): è l’oggetto delle osservazioni della sezione successiva della «Dottrina dell’essenza», dedicata al «fenomeno». Lenin comprende appieno la portata antirelativista e antisoggettivista dell’analisi hegeliana dell’Erscheinung, del fenomeno in quanto ripresa dell’essere secondo la sua consistenza essenziale, unità di parvenza ed essenza (laddove il soggettivismo neokantiano si accanisce a dissociarli). Prima espressione dell’essenza come fondamento, è in effetti al livello del fenomeno che si situa il concetto di legge. Per Hegel, la legge è «la riflessione del fenomeno nell’identità con sé», presente in maniera immediata al fenomeno in quanto suo «quieto […] riflesso». Lenin approva: «È un eccellente definizione materialista, assai pertinente (con la parola “quieto”). La legge coglie ciò che è quieto – e per questo la legge, ogni legge, è ristretta, incompleta, approssimativa» (QF, 141-142).
Certamente, è possibile vedere in questi passaggi una ripresa della teoria del «riflesso», coppia approssimativa, e tuttavia più «fedele», «prossima» alla realtà «oggettiva», «materiale» (49). Ma tale percezione del carattere fondamentalmente limitato delle leggi esterne rappresenta uno spostamento considerevole in rapporto alla tesi cardinale dell’ortodossia, martellata in Materialismo ed empiriocriticismo, nel quale si poneva da un lato, «la necessità della natura» come elemento «primordiale», e dall’altro, la «volontà e la coscienza dell’uomo» come «secondarie», «Queste ultime devono, inevitabilmente e necessariamente, adeguarsi alla prima» (ME, O 14, 185; enfasi mia). Da questa ontologia, Lenin deduceva l’esigenza per la «coscienza sociale e la coscienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalistici» di doversi «adattare» alla «logica obiettiva delle leggi economiche», logica che si riflette nello «sviluppo storico» (50). In realtà nel suo recupero della concezione hegeliana di legge nelle annotazioni dei Quaderni, vi è già, agli antipodi del relativismo, una prima ricezione dell’inscrizione della soggettività, dell’attività conoscitiva, nel cuore stesso dell’obiettività, nel movimento interiore dell’essenza: «La legge è un rapporto. NB questo per i machisti e gli altri agnostici e per i kantiani ecc. Rapporto delle essenzialità o tra le essenzialità. [..] Il cominciamento di ogni cosa può essere considerato come un che di interiore, passivo, – e al tempo stesso come un che di esteriore. Ma non questo, bensì qualcosa d’altro è qui interessante: il criterio della dialettica che è inavvertitamente scappato ad Hegel: “in ogni sviluppo naturale, scientifico, spirituale“: ecco un granello di profonda verità nella scorza mistica dell’hegelismo!» (QF, 144-146).

Non è che in seguito, nelle sue note dedicate «Logica soggettiva», che Lenin comprenderà come tale criterio non sia «inavvertitamente scappato» a Hegel, ma come esso rappresenti il «lato attivo» dell’«attività umana sensibile», «sviluppata in maniera unilaterale dall’idealismo» e non dal materialismo, argomento della prima tesi di Marx su Feuerbach. Egli riformulerà, allora, il processo conoscitivo non come riavvicinamento al concreto, ma inversamente, come processo di astrazione crescente (comprendente tra i suoi risultati le leggi naturali in quanto «astrazioni scientifiche»), processo che si apre alla pratica e, colto nel suo insieme, alla conoscenza della verità (51). Non esiterà, dunque, a identificare «il senso vero, il significato e il ruolo effettivi della logica hegeliana» con la rivelazione della potenza del pensiero in quanto astrazione, nella distanza che lo separa dall’oggetto. Distanza che non è, a voler parlare precisamente, distanza del niente, priva di spazio e che designa ormai il «rispecchiamento», assimilato al lavoro del pensiero («La formazione di concetti (astratti) e l’operare con essi») in quanto processo che rivela l’obbiettività della conoscenza soggettiva, l’auto-dispiegamento del mondo) (52).

Aforismi

È questa constatazione che porta Lenin a formulare tre dei più noti «aforismi» (termine che lui stesso impiega) contenuti nei Quaderni: il primo assimila Plechanov, e per suo tramite, implicitamente, la metafisica della Seconda internazionale, al «punto di vista materialistico-volgare» poiché la sua critica di Kant e dell’«agnosticismo» rimane una critica estrinseca, indiferente al lavoro di (auto)rettifica delle categorie compiuto da Hegel nella sua critica a Kant. Il secondo afferma, stavolta esplicitamente, che «I marxisti […] (all’inizio del XX secolo)» hanno criticato «i kantiani e i sostenitori di Hume più al modo di Feuerbach (e di Büchner) che a quello di Hegel» (QF, 170). È senza dubbio qui che andrebbe situato il passo decisivo nel percorso di Lenin. Plechanov, autorità filosofica incontrastata di tutta la socialdemocrazia russa e inventore del «materialismo dialettico», metafisica ufficiale della Seconda internazionale, vine irrevocabilmente destituito. E la radice del suo «materialismo volgare» viene additata: essa risiede nella sua incomprensione della dialettica, la quale lo pone al di sotto del livello raggiunto da Hegel nella sua critica immanente di Kant, divenuta il nuovo modello di riferimento nell’intervento in ambito filosofico (53). Nel rimpiazzare Hegel con Feuerbach (gesto che riscuoteva la piena approvazione di Lenin prima del 1914) (54), Plechanov era di fatto regredito al livello del «materialismo volgare». Il suo «monismo», da lui eretto a fondamento di una filosofia materialista compiuta, risultava, pertanto, inferiore al materialismo di Marx.

Lenin fa di tale constatazione il cardine di un regolamento di conti con la propria «coscienza filosofica passata», e generalizzandone la portata all’insieme dei marxisti della Seconda internazionale. Compreso, certamente, lui stesso, dato il rinvio esplicito, in due occasioni, alla contesa filosofica del decennio precedente (contro il «kantismo e machismo contemporanei», la critica rivolta dai «marxisti […] (all’inizio del XX secolo)» ai «kantiani e i sostenitori di Hume»), battaglia nella quale, con Materialismo ed empiriocriticismo, egli fu uno dei principali protagonisti. In un importante manoscritto, di poco posteriore a queste note di lettura sulla Scienza della logica, Lenin si spingerà sino a prendere le distanze dall’ultimo Engels, al quale rimprovera, così come a Plechanov, di appiattire la dialettica ad una «somma di esempi», e questo per ragioni di «popolarizzazione» (QF, 343).

Il terzo aforisma di Lenin gli permetterà di aprire una pista inedita, del tutto inconcepibile nell’orizzonte intellettuale dell’«ortodossia», quella dello studio della Logica di Hegel come chiave indispensabile per la comprensione del Capitale («e particolarmente il primo capitolo»), il che lo conduce alla celebre conclusione: «Di conseguenza, mezzo secolo dopo, nessun marxista ha compreso Marx!!» (55). La questione del rapporto Hegel/Marx abbandona così il terreno del formalismo e delle generalizzazioni sul «metodo dialettico» e la «gnoseologia», per collocarsi nel cuore delle scoperte fondamentali contenute nella teoria del modo di produzione capitalista. Lenin è, si tratta di un fatto già sottolineato (56), non soltanto il primo marxista del XX secolo ad aprire il cantiere delle letture del Capitale, e più in particolare del suo modo di esposizione, alla luce della Logica hegeliana. Sarà lui stesso a dare alcune indicazioni in merito, sparse lungo tutti i Quaderni, e riprese in seguito in modo più unitario in uno scritto del 1915 dedicato al «Piano della Dialettica (logica) di Hegel» (QF, 237). Vi viene identificato l’oggetto della famosa prima sezione, la merce, al momento dell’Essere, e la coppia valore/prezzo a quella dell’essenza e del fenomeno (QF, 241-242). Intuizioni frammentarie, appena abbozzate, abbondantemente discusse dalla tradizione marxista, e certamente discutibili, che non dovrebbero tuttavia far dimenticare l’essenziale: ovvero, che attraverso questi collage di citazioni e di note raccolte in una biblioteca bernese, qualcosa riguardante l’intero XX secolo ha inizio.

Prassi

Ritorniamo alla mutazione subita dalla categoria di «rispecchiamento»: Lenin è ora in grado di definirla come un processo, colto nell’immanenza del reale in movimento: «La conoscenza è il rispecchiamento della natura da parte dell’uomo. Ma non è un rispecchiamento semplice, immediato, totale, bensì è il processo di una serie di astrazioni, di formulazioni, della formazione di concetti, leggi ecc., i quali concetti, leggi ecc. (il pensiero, la scienza = “l’idea logica”) abbracciano anche condizionatamente , approssimativamente le leggi universali della natura eternamente in movimento e sviluppo» (57). L’idea della conoscenza come processo attivo che si dispiega storicamente inizia ad emergere, ma è con l’approccio, nel corso della sezione seguente («L’oggettività»), dell’analisi hegeliana del lavoro in quanto attività rivolta ad un fine, una finalità (zweckmässig), che Lenin perviene a rielaborare una nozione più soddisfacente di pratica, la quale gli permetterà di ritornare sul processo-rispecchiamento. Nella sua analisi del processo di lavoro come sillogismo, Hegel insiste sull’importanza della mediazione, dello strumento, del mezzo di lavoro in quanto mezzo per superare il carattere esterno e limitato del fine soggettivo, attraverso il manifestarsi del suo contenuto razionale. In questo aspetto, in un certo modo, immediatamente e familiarmente «materialista» dell’analisi («l’aratro è più degno di quanto non lo siano immediatamente i godimenti che vengono procurati tramite esso e che costituiscono gli scopi» scrive Hegel) Lenin vede degli «spunti di materialismo storico», e si spinge sino a porre «il materialismo storico come una delle applicazioni e degli sviluppi delle geniali idee – dei semi che si trovano in germe in Hegel» (58).

Questi aspetti sono abbastanza noti, ma l’essenziale in un certo senso non si trova qui. La conclusione che Lenin si appresta a trarre da tale analisi della razionalità dell’attività teleologica (orientata verso un fine) è duplice. Da un lato, coglie la portata dell’analisi hegeliana dell’attività umana in quanto mediazione verso la «verità», l’identità assoluta del concetto e dell’oggetto, una verità obbiettiva che include e riconosce in se stessa il lavoro della soggettività. È qui dunque, (e non semplicemente per la riabilitazione dello strumento, che non è, dopotutto, nient’altro di una prima forma di mediazione della razionalità del fine soggettivo) che Hegel è «sull’orlo» del materialismo storico definito, sulla scorta della seconda tesi su Feuerbach, come primato della pratica: «l’uomo verifica mediante la prassi l’esattezza oggettiva delle sue idee, concetti, conoscenze, della sua scienza» (59): «l’esattezza» è immanente alle pratiche, le quali producono i loro stessi criteri di validità.

Allo stesso tempo, il «rovesciamento materialista» di Hegel cambia senso: non sono più il rapporto tra natura e spirito, tra pensiero ed Essere, o tra la materia e e l’Idea a essere in gioco, bensì il rapporto, «l’identità» tra la logica e l’attività pratica. È qui che va rintracciato il «contenuto molto profondo, puramente materialista» degli enunciati Hegeliani. Il «rovesciamento materialista» consiste allora nell’affermare il primato della pratica, la quale produce sino agli assiomi della logica stessa (attraverso la ripetizione «miliardi di volte» delle differenti figure logiche nell’attività umana). Lenin formulerà quest’idea in modo più preciso nelle abbondanti note sull’ultima sezione («l’Idea») dell’opera. «Per Hegel l’azione, la prassi, è un “sillogismo” logico, una figura della logica. Ed è vero! Naturalmente non nel senso che la figura della logica avrebbe il suo esser altro nella prassi del’uomo (= idealismo assoluto), ma nel senso viceversa che la prassi dell’uomo, ripetendosi miliardi di volte, si imprime nella coscienza umana sotto forma di figure logiche.» (QF, 211). Viene in tal modo ricusata qualsiasi pretesa onto-logica della Logica, non in maniera «volgare», esteriore, ma partendo dalla sua identità con la pratica e riportandola verso se stessa, cogliendola a partire dalla processualista della prassi, della quale rappresenta un momento di esteriorizzazione, di divenire altro, di «alienazione» anche quando si lascia prendere dalla tentazione onto-teologica.

Vi sono a questo punto tutte le condizioni per un ultimo ritorno alla nozione di «rispecchiamento»: il processo di conoscenza che designa si comprende va inteso ormai come attività di trasformazione materiale del mondo, di cui le categorie logiche «fissano» la matrice concettuale: «il concetto umano coglie, afferra questa verità oggettiva del conoscere e se ne impossessa “definitivamente” solo quando il concetto diviene “essere per sé” nel senso della pratica. Cioè la prassi dell’uomo e dell’umanità verifica l’oggettività del conoscere, ne costituisce il criterio». «È proprio questo il pensiero di Hegel?» si domanda immediatamente Lenin, sentendo l’importanza della questione, prima di concludere questa nota con un significativo «Occorre ritornare su questo punto.» (QF, 205). La risposta verrà data poche righe dopo nel commento dedicato al capitolo II («L’Idea del conoscere») e a quello successivo («L’Idea assoluta»). Tali formulazioni presentano senza dubbio l’espressione più compiuta della rottura con l’ortodossia: «il che significa indubbiamente che la pratica costituisce per Hegel un anello nell’analisi del processo della conoscenza, e precisamente il passaggio alla verità oggettiva (in Hegel: “assoluta”). Marx si ricollega quindi direttamente a Hegel quando introduce il criterio della pratica nella teoria della conoscenza. vedi le Tesi su Feuerbach». E dando il colpo di grazia alla concezione «volgare» del rispecchiamento come adattamento graduale della coscienza ad un’impassibile realtà oggettiva, aggiunge subito a margine: «La coscienza umana non solo rispecchia il mondo oggettivo, ma lo crea anche.» (QF, 205-206).

«Non solo», «ma anche»: in effetti, se la conoscenza è pratica, Lenin non dimentica il richiamo di quelle stesse tesi su Feuerbach circa il suo carattere di trasformazione materiale: se, «contrasto col materialismo», «il lato attivo è stato sviluppato in modo unilaterale dall’idealismo», quest’ultimo «ignora l’attività effettiva [wirklich], sensibile [sinnlich]  come tale» (60). La ripresa della categoria di «rispecchiamento» nei Quaderni funziona come un richiamo alla Sinnlichkeit(«sensibilità»), categoria tipicamente feuerbachiana che Marx ricicla nelle sue tesi, per trasformarla in sensibilità che rompe con la contemplazione (marchio di Feuerbach così come di tutto il materialismo precedente). Viene in tal modo designato il carattere materiale dell’attività trasformatrice «effettiva»  (wirklich) alle prese con un mondo esterno che gli resiste. «Traducendo» in guisa materialista una frase di hegeliana, Lenin scrive in proposito «”L’attività dello scopo non è indirizzata contro di sé”… ma a darsi, tramite l’annientamento di determinati (aspetti, tratti, manifestazioni) del mondo esterno [laddove Hegel parla di «eliminazione delle determinazioni del mondo esteriore» tout court]  la realtà sotto forma di attualità esteriore…» (QF, 207-208). Espressione certamente racconciata, rivista alcune pagine dopo (si veda il passo citato più sotto, dove Lenin riconosce che l’attività umana «toglie i tratti di parvenza, esteriorità» del mondo), ma indicativa sull’utilità attesa da un simile esercizio di recupero.

La conoscenza è dunque un momento (e soltanto un momento) della pratica, essa è trasformazione del mondo secondo le modalità che gli sono proprie. La metafora del rispecchiamento come «quadro oggettivo del mondo» ritorna, ribaltata nella dimensione della prassi: «L’attività dell’uomo che si è fatto un quadro oggettivo del mondo, trasforma la realtà esterna, ne annulla la determinatezza (= trasforma questo o quello dei suoi aspetti, delle sue qualità), e a questo modo le toglie i tratti di parvenza, di esteriorità e nullità, la rende esistente in sé e per sé (= oggettivamente vera).» (QF, 212-213). Non vi è più un «quadro» a voler esser precisi, esso si dissolve, in qualche modo, sotto ai nostri occhi, si abolisce nell’attività materiale della sua fabbricazione. O meglio, come annunciava già, nella pratica, la rivoluzione pittorica di Manet (61), è il quadro stesso a diventare mezzo di conoscenza e intervento sulle apparenze e i significati del  mondo, e in questo senso, processo di trasformazione, di messa alla prova, di questo stesso mondo attraverso la materialità delle tecniche di pittura adoperate dal pittore.

Il vero rovesciamento materialista

Lenin è oramai pronto ad affrontare l’ultimo capitolo, quello dedicato  a «L’Idea assoluta», poiché questo, egli osserva, non è altro che «L’identità dell’idea teorica (della conoscenza) e della prassi – NB questo – e questa unità precisamente nella teoria della conoscenza» (QF, 214). L’unità della teoria e della pratica nella teoria stessa, ecco il punto di vista del «metodo assoluto». «Rimarrebbe ora da considerare non più il contenuto, ma… “l’universale della sua forma, – cioè il metodo“» (ibid): l’universalità quindi va ricercata dal lato della forma e non del contenuto. Ciò che Lenin intravede qui, malgrado i limiti della sua lettura di alcuni punti essenziali di Hegel (62), è il carattere autoreferenziale dell’Assoluto, il fatto che contrariamente a quanto pensava Engels nel Ludwig Feuerbach (63), l’Idea assoluta non è un «contenuto dogmatico» (identificato col «sistema di Hegel» quale fine ultimo della conoscenza), persistente nella sua impassibilità, bensì il processo stesso portato al suo punto di autoreferenza, quello in cui rincontra se stesso attraverso i propri momenti. È l’istante folgorante del rovesciamento di prospettiva, quello nel quale si comprende che «nella» teoria medesima, vi è già sempre l’unità della teoria alla pratica (tesi che Gramsci svilupperà in maniera straordinaria), che la questione della «forma» e del «contenuto» costituisce essa stessa una questione di forma, di forma «assoluta» al di fuori della quale nessun contenuto sussiste.

Cogliere la dialettica in quanto «metodo assoluto», dunque, non significa rendere una somma di categorie «malleabili», fluide, in un costante tentativo di abbracciare un processo debordante dai loro argini, significa «localizzare la forza motrice del loro movimento nell’immanenza della loro propria contraddizione» (64). Ecco perché, in fin dei conti, il capitolo su «L’Idea assoluta», secondo l’osservazione finale di Lenin, «non si fa quasi parola di Dio», «non ha quasi affatto per contenuto specifico l’idealismo». Nessuna necessità in effetti dell’«Idea assoluta», intesa come Verità o Senso ultimo al di là del mondo, poiché questo mondo costituisce già, in se stesso, ridotto al movimento della sua automediazione, la verità che si andava cercando oltre di esso. Questo capitolo, per tanto, fornisce retrospettivamente il senso della Scienza della logica nella sua interezza: «in quest’opera di Hegel che è la più idealistica vi è il meno di idealismo, e il più di materialismo». Il paradosso del «passaggio dall’idealismo al materialismo» non consiste nel «togliere» dall’idealismo ma, al contrario, «nell’aggiungere». Se «Marx si ricollega quindi direttamente a Hegel», per riprendere l’espressione di Lenin, è assolutizzando l’idealismo assoluto stesso.

Detto in altri termini, il rovesciamento materialista si intende come l’avvenimento di cui l’idealismo si rivela essere il portatore: non il passaggio (graduale o brusco) ad un campo avverso, definito in esteriorità, come il riposizionarsi da un’armata ad un’altra, bensì il risultato di una trasformazione interna, innescata dall’irruzione dell’antagonismo in seno stesso al «campo di battaglia» filosofico e sino alla materialità della forma scritta: si veda il contraccolpo della rivolta dei tessitori slesiani dell’estate del 1844 sul Marx dei manoscritti parigini, della guerra mondiale sul Lenin dei Quaderni o del’ascesa del fascismo sul Gramsci dei Quaderni del carcere. Non è un caso se, in ciascuno di questi esempi, ci si ritrova di fronte a scritti che negano la nozione stessa di «opera», frammentari e incompiuti all’estremo, l’estremo di condizioni delle quali portano, o addiritura sono, traccia, e in cui sono chiamati a estendersi, per gli effetti che hanno contribuito a produrre.

Metodo assoluto, la dialettica non è dunque altra cosa che l’insieme dei propri risultati. È buona logica dialettica il fatto che Lenin non scriverà più libri, né a voler esser precisi testi filosofici comparabili a materialismo ed empiriocriticismo. Basti dire che tale posizione inedita acquisita da Lenin, con la lettura di Hegel, non va cercata al di fuori del suo impegno politico e teorico negli anni successivi la Prima guerra mondiale. Per non ripetere cose già brillantemente dimostrate da altri (65), mi limiterò a ciò che mi pare essere il nocciolo irriducibile. Esso risiede nelle due tesi che sigillano la sequenza degli anni 1914-1917:

la tesi della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, nella sua duplice dimensione di lotta di liberazione nazionale nel caso delle colonie colonie e dei popoli oppressi e di rivoluzioni anticapitaliste nella metropoli. Vero e proprio rovesciamento dialettico, questa tesi presuppone la comprensione della guerra come un processo antagonista, e non come un conflitto intestatale classico, nel quale si tratta di «ribaltare» l’irruzione delle masse nella «guerra totale» in insurrezione armata, di invertire, in altri termini, la potenza delle masse canalizzata nell’industria del massacro riversandola contro il nemico interno, potenza coloniale o borghesia dominante.

la tesi della trasformazione della rivoluzione «democratica-borghese» in rivoluzione proletaria formulata nelle «Lettere da lontano» e nelle «Tesi di aprile», che conduce all’iniziativa dell’Ottobre 1917. Ancora una volta si tratta di porsi nell’immanenza delle contraddizioni del processo rivoluzionario, in una situazione determinata, agli antipodi sia della visione «gradualista» dell’ortodossia socialdemocratica (condivisa da Lenin prima della guerra),  che delle visioni astratte (o astrattamente giuste) sull’incapacità della borghesia russa ad assolvere i compiti di una rivoluzione democratica. Il rovesciamento della rivoluzione democratica in rivoluzione proletaria, non è in alcun modo uno sviluppo organico, o una radicalizzazione lineare, passaggio dall’orizzonte del «programma minimo verso quello del «programma massimo», ma decisione vitale al cospetto «dell’imminenza della catastrofe». È nell’inversione delle rivendicazioni immediate, democratiche, non direttamente socialiste, delle masse (la pace, la terra, il controllo operaio e popolare) contro il quadro «democratico borghese», che si risolve concretamente il problema del doppio potere: con un iniziativa delle masse sotto direzione proletaria mirante alla conquista del potere politico, nonché la distruzione dello Stato esistente e la sua sostituzione con uno Stato contraddittorio, portatore della tendenza alla propria estinzione. Come ha sottolineato con forza  Slavoj Zizek, il passaggio dal momento di «Febbraio» a quello di «Ottobre» non è il passaggi o da una «tappa» ad «un’altra», sintomo di «massimalismo» o salto volontaristico al di sopra dell’«immaturità» delle condizioni, bensì rimessa in causa della nozione stessa di «tappa», rovesciamento delle coordinate fondamentali che definiscono i criteri stessi di «maturità» di una situazione.

Nell’avvenimento che porta il nome di Lenin, i Quaderni stessi, manoscritti privati pubblicati cinque anni dopo la sua morte, sono quella «mediazione svanente» (66) che si spegne nella traiettoria che porterà Lenin, secondo l’appropriata formulazione di Michael Löwy, «dalla Grande Logica alla stazione di Pietrogrado», dal disastro dell’estate 1914 al suo rovesciamento nella «grande iniziativa» dell’Ottobre, alle soglie della prima rivoluzione vittoriosa del secolo nascente.

Note

  1. Cfr. Alain Badiou, D’un désastre obscur, La Tour d’Aigues, Ed. de l’Aube, 1991.
  2. Dimensione fondamentale in questo conflitto, da non dimenticare mai quando si tratta di Lenin e dell’Ottobre: la realtà «imperiale» delle forze in campo, la mobilitazione delle popolazioni colonizzate nel conflitto; il carattere di prima rivoluzione per l’emancipazione anticoloniale della Rivoluzione d’ottobre ne consegue direttamente.
  3. Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia.
  4. Oggetto di abbondanti dimostrazioni da parte di Engels , in particolare dei capitoli dell’’AntiD-ühring, raggruppati e rimaneggiati nell’opuscolo Il ruolo della violenza nella storia, resistenze.org, così come in molti altri testi.
  5. Luxemburg, op. cit. 
  6. Testi come «I compiti della socialdemocrazia rivoluzionaria nella guerra europea» e «La guerra e la socialdemocrazia russa», Opere complete, XXI, p. 9 e 15, Editori Riuniti, Roma, 1966.
  7. Eppure, quando quattro anni dopo l’offensiva rivoluzionaria raggiunge il suo culmine in Europa, Lenin constata che «Il movimento in favore dei soviet si estende sempre più, non solo nei paesi dell’europa orientale, ma anche in quelli dell’Europa occidentale» e afferma «il saldo convincimento che la rivoluzione avanzerà più rapidamente e ci recherà vittorie più grandi» (O, XXVIII, 479 e 475).
  8. Cfr. questa opposizione emblematica fra Lenin e Martov già ai tempi dell’Iskrasecondo la testimonianza di Trotsky: «Era lui [Lenin] il direttore politico dell’Iskra, tuttavia Martov era la principale risorsa come redattore. Egli scriveva facilmente e incessantemente, così come parlava. Quanto a Lenin, questi passava lunghe ore alla biblioteca del British Museum, dove lavorava sulla teoria», Leon Trotsky, LénineMarxist Internet Archive.
  9. V. I. Lénine, Le cahier bleu (le marxisme quant à l’État), ed. a cura di Georges Labica, tr. fr. B. Lafite. Bruxelles, Ed. Complexe, 1977.
  10. Neil Harding citato in Kevin Anderson, Lenin, Hegel and Western Marxism. Chicago, University of Illinois Press, 1995, p. 150-151.
  11. Cfr. le stime quantitative della tabella riepilogativa relativa al periodo 1914-1917 in Anderson, Op. cit. p. 109.
  12. Michaël Löwy, «De la Grande Logique de Hegel à la gare finlandaise de Petrograd». In Dialectique et révolution, Parigi, Anthropos, 1973, p. 137.
  13. Ibid.
  14. D’Holbach-Helvetius-Marx, queste sono le tre parti dei suoi Saggi sulla storia del materilaismo.
  15. Le analisi sul 1905 in quanto «prova generale» comportano illusioni prospettiche o retrospettive a seconda dei casi.
  16. Cfr. queste note a margine delle Lezioni sula storia della filosofia di Hegel: «Plechanov ha probabilmente scritto su argomenti di filosofia (dialettica) circa 1000 pagine (Beltov + contro Bogdanov + contro i Kantiani + i Problemi fondamentali ecc. ecc.). In tutte queste pagine , sulla grande Logica, a proposito di essa, del suo pensiero (cioè propriamente della dialettica come scienza filosofica) nil!!», Lenin, Quaderni filosofici, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 277.
  17. In Georgij Plekhanov, Œuvres philosophiques, Mosca, Ed. du Progrès, t. 1, p. 419-448.
  18. Ibid., p. 433 sgg. Cfr. ugualmente Plekhanov, Les questions fondamentales du marxisme. Mosca, Ed. du Progrès, p. 43-45 (Le questioni fondamentali del marxismo, Istituto Editoriale Italliano, Milano, 1945).
  19. Plekhanov, Œuvres philosophiques, t. 1, p. 442.
  20. «La dialettica è appunto la teoria della conoscenza (di Hegel e) del marxismo: proprio a questo lato della cosa ( e qui non si tratta di un “lato,2 ma dell’essenza della cosa) non ha posto attenzione Plechanov, per tacere di altri marxisti.» (QF, 346).
  21. Argomento sviluppato principalmente da Althusser e dai suoi allievi, anche se non esclusivamente, Cfr. per esempio Ludovico Geymonat, «Premiers éléments d’une théorie matérialiste-dialectique de la connaissance», Recherches internationales à la lumière du marxisme, 1976, n° 86 («Travaux philosophiques marxistes en Europe capitaliste»), p. 98-124, oppure Guy Planty-Bonjour, Hegel et la pensée philosophique en Russie, 1830-1917. L’Aia: M. Nijhoff, 1974. Senza dimenticare ovviamente, a tutt’altro livello, la vulgata del DIAMAT.
  22. Riprendo qui le formulazioni dell’opera di Costanzo Preve,  Il convitato di pietra : saggio su marxismo e nichilismo, Milano, Vangelista, 1991.
  23. È il disaccordo che pesa sulla lettura, assai ricca e sistematica peraltro, dei Quaderni fornita dall’allievo di Raya Dunayevskaya, Kevin Anderson, op. cit. Legittimo in sé (come rifiuto di un argomento di autorità), questo approccio finisce per riprodurre un controsenso circa lo statuto della lettura di Lenin (che non è un discorso filosofico su Hegel) e per rimproverargli incessantemente di essere troppo «materialista» e «selettivo» nel suo esame della Logica, ma anche troppo orientato verso «l’azione», e non sufficientemente «umanista», in breve, di essere semplicemente Lenin e non Raya Dunayevskaya.
  24. Cfr. Le questioni fondamentali del marxismo (Feuerbach non è materialista in storia) o Saggi sulla storia del materialismo.
  25. Plechanov è per esempio assai prolisso sull’esistenza di «salti» nel corso «dell’evoluzione» (Cfr. Le questioni fondamentali del marxismo), che illustra indifferentemente con esempi presi dalla realtà naturale o sociale, partendo di preferenza dalla prima. Il «salto» si inscrive «nell’evoluzione», che accelera, la «rivoluzione sociale» non essendo altro che una variante della categoria universale di «salto». La nozione di «catastrofe» e assente da un simile ragionamento. Essa riemergerà con l’avvicinarsi del punto culminante del processo rivoluzionario del 1917, in particolare nel testo intitolato «La catastrofe imminente e i mezzi per scongiurarla».
  26. Non si esagera nell’affermare che tutto il materialismo professato da Plechanov, con tanto di esempi da ogni sorta di lavoro scientifico, dalla geologia, dalla fisica, dalla chimica sino alla storia delle civilizzazioni più antiche o dei «selvaggi» (questa erudizione, tanto pedante quanto profondamente amatoriale, illustra perfettamente il tipo di cultura, dalle pretese scientifiche, degli studiosi della fine del XIX secolo) è fondato su una sola idea, quella della determinazione da parte dell’ambiente naturale e socio-storico delle azioni degli uomini  e dell’insieme dei processi naturali. Al fine di specificare alcuni meccanismi «dell’evoluzione sociale», Plechanov costruisce uno schema di determinazioni a cascata (dall’ambiente geofisico alle fasi dello sviluppo delle forze produttive e da qui all’enigmatica psiche umana) conforme all’idea che egli si è fatto di «monismo». A confronto con la classica questione dello statuto delle idee, Plechanov non esita ad annettere al proprio schema la nozione, a priori ben poco «materialista», e sopratutto, ancor meno compatibile col «monismo», di «psicologia dell’uomo sociale» e di «psiche umana», assicurandosi semplicemente che l’ordine delle determinazioni resti invariato: è la famosa «teoria dei fattori». Risulta a malapena credibile agli occhi di un lettore contemporaneo che tale bizzarra visione, mistura dilettantesca di un secolo al contempo scientista e spiritualista, che  flirta con ogni sorta di elementi spiritualistici e mistici (il darwinismo sociale: «la lotta per l’esistenza» considerata come principio valido per le società, «l’animismo della materia» e la fascinazione per l’elettromagnetismo, la visione storica di Taine, considerata come assai prossima Marx , una visione ingenuamente folcloristica, sfiorante il razzismo, delle società «selvagge» o delle «civiltà antiche», ecc.), abbia potuto fare autorità in materia di «filosofia marxista», per decenni, in seno al movimento operaio. Inutile precisare che questo tipo di «materialismo», a causa della sua totale incapacità a cogliere la reale portata della pratica sociale e del lavoro delle scienze, dimostra il contrario di ciò che pretende, ossia che non è altro che una metafisica rabberciata, in cui la «materia» e «l’ambiente» occupano il posto di «Dio» o dello «spirito».
  27. Cfr. Alexandre Koyré, «Alexandre Ivanovitch Herzen». In Études sur l’histoire de la pensée philosophique en Russie. Parigi, Vrin, 1959, in particolare p. 189 sg. Cfr. ugualmente Franco Venturi, Roots of Revolution. A History of the Populist and Socialist Movements in 19th Century Russia, Londra, Phoenix Press, sopratutto il primo capitolo, «Herzen» (p. 1-35) e il quarto «Tchernychevsky» (p. 129-186) così come Claudio S. Ingerflom, Le citoyen impossible : les racines russes du léninisme. Pargi, Payot, 1988, passim.
  28. L’espressione compare nel corso delle lettere di Marx a Vera Zasulič. Ernst Bloch gli darà ampio spazio, Cfr. Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015.
  29. Citato in C. S. Ingerflom, op. cit., p. 21. Cfr. Machiavelli, «ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio», Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
  30. Cfr. A. Koyré, « Hegel en Russie ». In Études… e G. Planty-Bonjour, Hegel et la pensée philosophique en Russie. Come riassume, Franco Venturi, op. cit., p. 16 : “Il socialismo russo ha avuto negli anni Quaranta dell’Ottocento solide basi nella filosofia di Hegel, il che gli ha conferito un carattere assai particolare”.
  31. Si compari, a titolo di esempio, Le questioni fondamentali… , («l’algebra della rivoluzione») e («l’algebra dell’evoluzione»).
  32. Come sottolinea Franco Venturi: “durante l’impero zarista, lo spirito del 1848 era sopravvissuto, laddove era sparito, o si era trasformato, nei paesi europei”, Ibid.
  33. Atteggiamento che condivide con altri «quarantottardi», Moses Hess in particolare, ma anche, in un certo senso, Engels.
  34. «Alla memoria di Herzen» (O, XVIII, 17).
  35. Plechanov scrive in effetti: «Allo stesso modo del suo maestro (Feuerbach),  Černyševskij concentra la propria attenzione pressoché esclusivamente all’attività “teorica” dell'”umanità”, il che in modo che lo sviluppo intellettuale divenga ai suoi occhi la causa più profonda del movimento storico».
  36. Cfr. due testi marxiani pubblicati postumi e divenuti tra i più celebri del corpus, le «Tesi su Feuerbach» e i manoscritti parigini, noti come Manoscritti economico-filosofici del ’44. Lo stesso vale per i Pensieri di Pascal e per La volontà di potenza Nietzsche, o ancora, più vicino a noi, i Passagenwerk (I Passages di Parigi) di Benjamn.
  37. Cfr. Henri Lefebvre & Norbert Guterman, Lénine: Cahiers sur la dialectique de Hegel[1935]. Parigi, Gallimard, 1967.
  38. Oltre alla letteratura secondaria dedicata a Hegel, si tratta essenzialmente delle parti dedicate ai greci Lezioni sulla storia della filosofia di Hegel, della Metafisica di Aristotele, dell’opera di Lassalle su Eraclito, quella di Feuerbach su Liebniz, così come alcune opere di storia e filosofia della scienza.
  39. Cfr. Frierich Engels, Ludwig feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca.
  40. Più precisamente la prima tesi: «Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto [der Gegenstand], il reale [die Wirklichkeit], il sensibile [die Sinnlichkeit]  è concepito solo sotto la forma di oggetto [Objekt] o di intuizione; ma non come attività umana sensibile [als sinnlich Menschlich Tätigkeit], come attività pratica [Praxis], non soggettivamente [nicht subjektiv]. E’ accaduto quindi che il lato attivo [die tätige Seite] è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale, sensibile come tale [die wirkliche, sinnliche, Tätigkeit als solche]», Tesi su FeuerbachMarxist Internet Archive.
  41. Slavoj Zizek, Revolution at the Gates. Londra : Verso, 2002, p. 179-180.
  42. Cfr. Fredric Jameson, Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica, Manifestolibri, 1994.
  43. È precisamente questa trasformazione di Lenin attraverso la lettura della Scienza della logica ad essere negata nell’interpretazione di Dominique Lecourt in Une crise et son enjeu: essai sur la position de Lénine en philosophie (Parigi, Maspero, 1973). lanciato in una spericolata difesa/esposizione delle tesi di Althusser miranti a squalificare i riferimenti di Lenin a Hegel (erigendo Materialismo ed empiriocriticismo a modllo definitivo di intervento marxista in campo filosofico), Lecourt si abbandoona a una straordinaria contorsione rettorica: se Lenin riprende l’Assoluto Hegeliano contro Kant (punto che impegna, a suo dire, «quasi esclusivamente» il contenuto dei Quaderni del 1914), ciò avviene «conservando la funzione polemica dell’Assoluto» eliminando «il contenuto propriamente hegeliano della nozione» (p. 66). Questo miracolo concettuale avviene grazie attraverso «l’ultima operazione leninista faccia a faccia con Hegel: egli elimina il soggetto assoluto, rifiuta di mantenere l’Assoluto come soggetto» (ibid). Il che non impedisce, in pura ortodossia althusseriana, che ad Hegel venga accreditata l’elaborazione del concetto di «processo senza soggetto». Capisca chi può!
  44. «L’idea fondamentale: della connessione universale, onnilaterale, vivente, di tutto con tutto e del rispecchiamento di questa connessione – Hegel rovesciato materialisticamente – nei concetti dell’uomo che devono parimenti essere affinati, lavorati, pieghevoli, mobili, relativi, reciprocamente collegati, essere uno nelle loro opposizioni, perché il mondo possa essere compreso.» (QF, 136).
  45. Cfr. Engels, Ludwig Feuerbach… .
  46. «Salti!», «Interruzioni della gradualità», «Salti!», «Salti!» (QF, 112-113),  Cfr. Daniel Bensaïd, «titre». In Sebastian Budgen, Stathis Koukélakis & Slavoj Zizek (a cura di), Lenin Reloaded.
  47. «”Die Reflexion ist das Scheinen des Wesens in Sich selbst” (Come tradurre?)» (QF, 121). È chiaro tuttavia che Lenin nono confonde «rispecchiamento» con «riflessione», contrariamente a quanto afferma  Roger Garaudy (Lénine, Parigi, PUF, 1968).
  48. «Qui Hegel “contorce” e “deforma” parole e concetti  per lottare contro l’assolutizzazione del concetto di legge, contro la sua semplificazione, contro la sua feticizzazione. NB per la fisica moderna!!!»(QF, 141).
  49. Engels nel Ludwig Feuerbach, e sulla sua scorta, Plechanov e il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, aveva fatto di questa concezione del rispecchiamento per approssimazioni successive la pietra di paragone della «teoria materialista della conoscenza».
  50. «L’importante è che si sono scoperte le leggi di questi cambiamenti nelle loro linee principali e fondamentali, che si è scoperta la logica obiettiva di questi cambiamenti e del loro sviluppo storico[…] nel senso che l’essere è indipendente dalla coscienza sociale […] Il compito supremo dell’umanità è di cogliere questa logica obiettiva dell’evoluzione economica (dell’evoluzione del’essere sociale) nei suoi tratti generali e fondamentali allo scopo di adattare ad essa, nel modo più netto, più chiaro, più critico possibile, la propria coscienza sociale e la coscienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalistici». Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Opere complete, XIV, Editori Riuniti, Roma, pp. 319-320. È la ragione per la quale è assolutamente impossibile, come tenta Lecourt (Une crise et son enjeu, p. 44-47) trarre dalle variazioni di Materialismo ed empiriocriticismo sul tema del carattere approssimativo e graduale del «rispecchiamento» una teoria dell’«attività del rispecchiamento», o del rispecchiamento come «processo», categorie introvabili in quest’opera. Molto più onesto Henri Lefebvre in Pour connaître la pensée de Lénine (Parigi, Bordas, 1957, p. 156), il quale tenta ugualmente di «salvare» alcuni elementi di Materialismo ed empiriocriticismo, e parla dunque di «rispecchiamento attivo», precisando che «non è altro che un’interpretazione del pensiero leninista… ».
  51. «Per il fatto di salire dal concreto all’astratto il pensiero non si allontana – quando è corretto […] dalla  verità, ma le si approssima. L’astrazione della materia, della legge di natura, l’astrazione del valore ecc., in una parola tutte le astrazioni scientifiche […] riflettono la natura più profondamente, più fedelmente, più compiutamente. Dalla vivente intuizione al pensiero astratto, e da questo alla prassi– questo è il cammino dialettico della conoscenza della verità, della conoscenza della realtà oggettiva.» (QF, 161). Zizek (Revolution…, p. 315) ritiene che in questo passo Lenin rompa momentaneamente con la sua teoria idealista del «rispecchiamento», prima di ricaderci subito, riprendendo la metafora dell’approssimazione asintotica. A noi pare, al contrario, che la persistenza stessa di resistenze e ricadute testimoni il perseguimento di un’opera di dialetizzazione, di cui la trasformazione della categoria di «rispecchiamento» è l’indice. Anche quando viene reintrodotta, la metafora della conoscenza per approssimazione non designa più l’adattamento ad un dato «oggettivo». Tale questione sarà risolta, ci sembra, poco dopo con la redazione i queste note sulla Logica, nel manoscritto «A proposito dell dialettica» (QF, 342-347), nel quale Lenin identificherà la traiettoria descritta dalla conoscenza umana non con una linea retta, bensì con una «spirale», una curva «che si approssima infinitamente a una serie di circoli.» (QF, 347).
  52. «La formazione di concetti (astratti) e l’operare con essi include già in sé la rappresentazione, la persuasione, la coscienza delle leggi oggettive e dell’oggettiva connessione del mondo. […] Hegel è molto più profondo di Kant e altri, quando studia il riflesso del movimento del mondo oggettivo nel movimento dei concetti. Come la semplice forma di valore, il singolo atto di scambio di una data merce con un altra include già in sé in forma non sviluppata tutte le contraddizioni principali del capitalismo – allo stesso modo la più semplice generalizzazione, la prima e più semplice formazione dei concetti […] significa già la conoscenza sempre più avanzata da  parte dell’uomo della profonda connessione oggettiva del mondo. Qui è da ricercare il senso vero, il significato e il ruolo effettivi della logica hegeliana.» (QF, 169-170).
  53. Althusser sottolinea a ragione la ripresa della critica a Kant da parte di Hegel come un punto decisivo nella lettura leniniana della Scienza della logica. Tuttavia compie l’impresa di «dimenticare» al contempo la novità e le ragioni invocate da Lenin per sostenerla. Egli riduce così questa approvazione di Hegel all’affermazione di una «tesi materialista» che è congiuntamente una tesi di esistenza (materiale) e oggettività (scientifica), e che si rivela essere «la posizione stessa di Materialismo ed empiriocriticismo». Così Lenin critica Kant «dal punto di vista della scienza» laddove Hegel lo fa «dal punto di vista del’Idea assoluta, vale a dire, provvisoriamente, del buon Dio» (Lénine et la philosophie suivi de Marx et Lénine devant Hegel. Parigi, Maspero, 1982, p. 84-85).
  54. Materialismo ed empiriocriticismo fa riferimento incessantemente a Feuerbach, la cui «concezione» viene definita «coerentemente materialistica» (ME, O, XIV, 152), vengono citate, abbondantemente, e di prima mano, pagine intere al fine di contrastare le posizioni degli avversari «kantiani», «agnostici» ecc. Lenin parla anche di «tutta la scuola di Feuerbach, di Marx ed Engels» (ME, O, XIV, 201), cita sistematicamente la triade in questo ordine, stabilendo la più stretta continuità tra i loro materialismi. La tesi fondamentale reiterata per tutta l’opera è che si tratta dello «stesso materialismo» (ME, O, XIV, 330) che Marx e Engels hanno applicato «nel campo delle scienze sociali» (Ibid.), o alla «storia» (ME, O, XIV, 237) le questioni di gnoseologia essendo state già regolate dai materialisti che li avevano preceduti (i francesi del XVIII secolo ma sopratutto Feuerbach). Marx ed Engels hanno così innalzato la filosofia materialista nel «completare la costruzione dell’edificio della filosofia materialista» (ME, O, XIV, 237-238), edificato dai loro predecessori. Niente di nuovo in tutto ciò: si tratta di un recupero letterale di temi sviluppati abbondantemente da PLechanov (in particolare in Le questioni fondamentali dl marxismo) secondo il quale «Feuerbach ha rielaborato la base filosofica di quello che si è in diritto di chiamare la concezione del mondo dopo Marx ed Engels». Nello stesso ordine di idee, la «gnoseologia» di Marx è «la stessa di Feuerbach, ma approfondita dalle correzioni geniali di Marx vi ha apportato», le sue «tesi » su Feuerbach «lungi dal rigettare gli enunciati fondamentali della filosofia di Feuerbach si limitano a emendare e, sopratutto, ad esigerne un’applicazione più conseguente». Quanto a Hegel, e al rapporto (liquidato speditamente) con Marx, ovvero la critica della sua filosofia del diritto, l’autore del Capitale non ha potuto intraprenderla «se non nella misura in cui la critica della filosofia speculativa di Hegel era stata già completata da Feuerbach». E il «rimettere coi piedi per terra» la dialettica «non poteva che essere opera di un uomo convinto della giustezza del’enunciato fondamentale di Feuerbach: non è il pensiero a condizionare l’essere, bensì l’essere che condiziona il pensiero». Ma questo, non è forse già fare troppo onore ad un «idealismo filosofico» sul quale «l’etnologia contemporanea» ci insegna che «proviene storicamente dai popoli primitivi»? Come si può vedere, Léon Brunschvig non era il solo a pensare che i sillogismi della logica hegeliana corrispondevano all’età mentale di uno scolaro elementare… Inoltre, Plechanov insiste con forza sulla continuità tra materialismo di Marx, Engels e Feuerbach con quello dell’Illuminismo francese, di La Mettrie, Diderot, D’Holbach, o Helvétius, nonché, di Hobbes o di uno Spinoza «sbarazzato dei suoi orpelli teologici».
  55. QF, 171. Lenin sottolinea che «Non si può comprendere perfettamente il Capitale », «se non si è compresa è studiata attentamente tutta la Logica di Hegel» (Ibid.). Qusto semplice punto è sufficiente a inficiare la tesi di Althusser secondo la quale, per Lenin, il ricorso ad Hegel si limiterebbe alla I sezione. «In pratica, afferma Althusser, Lenin non aveva bisogno di leggere Hegel per comprenderlo, poiché l’aveva già  compreso, avendo letto e compreso Marx» (Lénine et la philosophie, p. 79). Seguendo tale ragionamento, i mesi passati a leggere e annotare Hegel nel pieno del conflitto mondiale non erano altro che un passatempo gratuito e perverso. Non solo, in modo assai poco althusseriano, Lenin pare ammantarsi della virtù quasi mistica di «leggere e comprendere Marx» in un solo colpo, senza che la minima discontinuità (non si provi a dire «rottura») possa minare una simile rivelazione definitiva.
  56. Si tratta di una delle tesi principali di Kevin Anderson, op. cit., che fa di questo ritorno ad Hegel, o alla dialettica, il segno distintivo di quello che si ostina a definire, sulla scorta del suo omonimo Perry Anderson, «marxismo occidentale», dizione con cui s’intendono tutti i marxismi eterodossi europei. Ora, se una conclusione può essere tratta da questo riemergere dialettico nel marxismo, del quale i Quaderni di Lenin sono una testimonianza, è proprio che tali distinzioni tra «marxismo occidentale», supposto filosofico e hegelianeggiante, e «marxismo non occidentale» («orientale» forse?) sono esse stesse poco operative. Il fondo della questione è, senza dubbio, che per Lenin, Gramsci o Lukacs il rimettere la dialettica al centro del marxismo, non è in alcun modo prova di «eterodossia», o di «hegelismo», quanto invece di combattere le posizioni revisioniste e riabilitare il marxismo come teoria rivoluzionaria.
  57. QF, 173. Lenin realizza, o inizia a realizzare qualcosa che è effettivamente «non un rispecchiamento in uno specchio» (H. Lefebvre, Pour connaître…, p. 174). Lecourt, in una serie di affermazioni che faranno un certo rumore, ha parlato di «rispecchiamento senza specchio» in quanto «processo storico di acquisizione delle conoscenze» (Une crise et son enjeu, p. 47). È tuttavia perlomeno strano, come abbiamo già visto, vedere Lecourt ostinarsi a far risalire questa definizione in termini di processo a Materialismo ed empiriocriticismo, senza dare una qualsivoglia indicazione cui appoggiare tale affermazione. E non a caso, dato la dificoltà che avrebbe incontrato nel rintracciare il sia pur minimo riferimento alla categoria di processo nell’opera in questione!
  58. QF, 181. Nell’ultimo Lukacs, quello dell’ontologia dell’essere sociale, è possibile trovare l’eco amplificata di queste brevi annotazioni.
  59. QF, 183. Cfr. la seconda tesi di Marx su Feuerbach: «La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva [gegenständliche Wahrheit] non è una questione teorica, ma pratica [praktisch]. E’ nell’attività pratica [in der Praxis] che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà [Wirklichkeit] e il potere[Macht], il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica. Tesi su Feuerbach, Marxis Internet Archive.
  60. Tesi su Feuerbach.
  61. Prendo ispirazione qui dalle formulazioni di T.J. Clarck, The Painting of Modern Life. Paris in the Art of Manet and His Followers, Londra, Thames & Hudson, 1990, p. XXI : “La pittura costituisce […] un mezzo di investigazione; una via per scoprire quali valori ed emozioni contano nel mondo, trovando nella pratica ciò che è necessario per dipingerli […] La “realizzazione” estende e intensifica […] i significati e le apparenze? O li disperde e li qualifica. O anche, li dissemina, divenendo (in pratica, in miniatura, laddove vengono appiattiti, resi nel dettaglio e giustapposti) qualcosa d’altro? Esiste qualcosa, là fuori (o qui dentro) in grado di superare la prova della rappresentazione? Se la disegno, sopravviverà?”.
  62. In particolare la quadruplicità del processo dialettico, ossia, il fatto che si contino «due negazioni», riferita a se stessa come negazione «assoluta», differenza pura che svanisce nel risultato: «Una distinzione [tra negazione “semplice” e negazione “assoluta”] per me non chiara, la negazione assoluta non è uguale a quella più concreta?» (QF, 226).
  63. Engels, Ludwig Feuerbach…, op. cit.
  64. Slavoj Zizek, Le plus sublime des hystériques. Hegel passe, Parigi, Point hors-ligne, 1988, p. 17.
  65. Sulla questione della guerra e della rivoluzione, si può consultare utilmente lo studio di Georges Haupt, «Guerra e rivoluzione in Lenin», in L’internazionale socialista dalla Comune a Lenin, Einaudi, Torino, 1978, p. 301, così come di Étienne Balibar, «Le moment philosophique déterminé par la guerre dans la politique: Lénine, 1914-1916». In Les philosophes et la guerre de 14, textes réunis et présentés par Philippe Soulez. Saint-Denis, Presses universitaires de Vincennes, 1988, p. 105-120. sulla questione della trasformazione della rivoluzione democratica in rivoluzione proletaria, si può fare riferimento agli studi già citati di Michael Löwy e di Daniel Bensaïd e a Slavoj Zizek, Revolution at the Gates, «Afterword». Per una visione di insieme Cfr. la seconda parte dell’opera di Kevin Anderson, «Lenin on the Dialectics of Revolution 1914-1923», op. cit., p. 123-170.
  66. Cfr. Fredric Jameson, “Max Weber as Storyteller”. 

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