*[Grand Hotel „Abgrund”, Világosság,
no.8/9, 1977, p.572-79; trad. it. in La responsabilità sociale del
filosofo, a c. di V. Franco, Pacini Fazzi, Lucca 1989] Da: https://gyorgylukacs.wordpress.com/
Si
ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.
Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.
K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito Comunista.
Hell wogt der saal vom spiel der seidnen suppen.
Doch eine berg ihr fieber unterm mehlle
Und sah umwirbelt von den tollen gruppen
Dass nicht mehr viel am aschermittwoch fehle.
Doch eine berg ihr fieber unterm mehlle
Und sah umwirbelt von den tollen gruppen
Dass nicht mehr viel am aschermittwoch fehle.
Sie schleicht hinaus zum öden park, zum flachen
Gestade. winkt noch kurz dem mummenschanze
Und beugt sich frostelns übers eis. ein krachen
Dann stumme kälte, fern der ruf zum tanze.
Gestade. winkt noch kurz dem mummenschanze
Und beugt sich frostelns übers eis. ein krachen
Dann stumme kälte, fern der ruf zum tanze.
Keins von der artigen rittern oder damen
Ward sie gewahr bedeckt mit tang und kieseln.
Doch als im frühling sie zum garten kamen
Erhob sich oft vom teich ein dumpfes rieseln.
Ward sie gewahr bedeckt mit tang und kieseln.
Doch als im frühling sie zum garten kamen
Erhob sich oft vom teich ein dumpfes rieseln.
Die leichte schar aus scherzendem jahrundert
Vernahm wohl dass es drunten seltsam raune.
Nur hat sie sich nicht sehr darob gewundert
Sie hielt es einfach für der wellen laune.
Vernahm wohl dass es drunten seltsam raune.
Nur hat sie sich nicht sehr darob gewundert
Sie hielt es einfach für der wellen laune.
S. George, Die Maske1
L’accostamento di queste due citazioni sorprenderà
sicuramente la maggior parte dei lettori. In effetti, esse possono andare insieme
solo in quanto sono entrambe espressione chiara e pregnante dei due poli del
movimento di dissoluzione ideologica di una classe dominante in un periodo di
crisi rivoluzionaria. L’intellighenzia, cioè quello strato
della società che a causa della divisione sociale del lavoro fa della
produzione e della propaganda ideologica un’occupazione di vita, il fondamento
materiale e spirituale della propria esistenza, reagisce con straordinaria
prontezza e sensibilità a tutte le svolte che si compiono nella realtà
materiale della società. Ma proprio perché fa della produzione della ideologia
la sua massima occupazione, all’interno della società di classe essa reagisce
sempre con una falsa coscienza; e tanto più è falsa quanto più è sviluppata la
divisione sociale del lavoro, quanto più è avanzata la dissoluzione materiale
della classe dominante. La divisione sociale del lavoro comporta
necessariamente che gli ideologi si ricolleghino sempre alle ideologie
immediatamente precedenti o contemporanee, che la loro critica del presente si
compia nella forma di una critica delle ideologie presenti e passate. E nella
maggior parte dei casi non è una faccenda semplicemente formale. Il produttore
borghese di ideologie, proprio in ragione delle necessità materiali della sua situazione
sociale, è vissuto nell’illusione che le trasformazioni sociali siano nella
loro essenza trasformazioni ideologiche e che, in ultima analisi, vengano da
queste provocate. Da questa illusione deriva anche la sua credenza del ruolo
guida, a livello sociale, dello strato a cui appartiene. Dalla contraddizione
tra questa illusione e la situazione materiale del suo sorgere e della sua
esistenza deriva una delle cause più importanti delle oscillazioni di questa intellighenzia.
Reagendo ai rapidi alti e bassi dello sviluppo economico, della lotta tra le
classi decisive della società – la borghesia e il proletariato – con
straordinaria rapidità e violenza, e tuttavia con più o meno falsa coscienza,
essa da un lato rispecchia l’oscillazione della piccola borghesia tra
rivoluzione e controrivoluzione e le dà una forma ideologica, dall’altro però,
nella sua produzione ideologica esprime – almeno in parte – la propria
situazione specifica nella lotta di classe. La sua reazione immediata ai nuovi
mutamenti, alle nuove tendenze, che la fa sempre andare avanti rispetto alla
media della sua classe, le dà l’illusione di aver prodotto essa stessa tali
tendenze. E come se si considerasse il termometro causa del freddo e del caldo
o il barometro causa del buono e del cattivo tempo.
Questa situazione generale dei produttori di ideologia si
inasprisce fortemente nel periodo di decadenza della loro classe. Sul piano
economico, la decadenza è dovuta al fatto che i rapporti di produzione, e
quindi anche l’intera sovrastruttura, sono divenuti le catene delle forze
produttive che su di essi si erano sviluppate, al fatto che l’economia della
classe sinora dominante è stata battuta da quella della classe che rappresenta
il futuro. Sul piano ideologico, e specialmente nei produttori di ideologia,
questa situazione si rispecchia nel fatto che essi sono costretti a riflettere
profondamente sull’ideologia della classe rivoluzionaria, ad assumere elementi
di quest’ultima nella propria e quindi a ricostruirla come se fossero loro a
realizzare l’aspirazione progressiva della società. Quanto più è avanzato il
processo di decadimento di una classe, tanto meno essa è disposta a sostenere e
spesso a difendere la propria ideologia originaria, un tempo rivoluzionaria. La
classe non crede più nel carattere progressivo dei suoi fondamenti economici e
perciò crollano anche le sue precedenti categorie ideologiche fondamentali. E
ovvio che essa continui a difendere fino all’ultimo sangue la sua vecchia
economia, il suo antico metodo di sfruttamento. Ma la difesa più brutale e
cinica dello sfruttamento può compiersi solo nella forma demagogica
dell’occultamento, del mascheramento delle sue forme mediante qualcosa di
completamente opposto. I produttori di ideologia, che rispecchiano sul piano
ideologico questo processo spontaneo, dal punto di vista soggettivo spesso in
maniera del tutto onesta, rendono anche – spesso involontariamente – i più
grandi servizi al mantenimento di forme sclerotizzate di sfruttamento e di
dominio. Mutuando gli elementi della critica della società dall’ideologia della
classe rivoluzionaria, diventano da un lato strumento della demagogia della
classe dominante e dall’altro ricadono anch’essi nell’illusione generale,
tipica della piccola borghesia, di stare non in mezzo alle classi decisive,
bensì al di sopra di tutte le classi sociali.
Questo processo di decadenza produce necessariamente
un’ideologia pessimistica, disperante. La disperazione è, infatti, in questi
ideologi particolarmente forte e si sviluppa talvolta addirittura prima che ne
emergano in tutta la loro chiarezza e ampiezza le cause economiche. Essa spinge
la parte più onesta di loro a tentare di staccarsi dall’ideologia della classe
di origine. E però il loro essere sociale rende questo processo di separazione
assai complicato, ineguale e contraddittorio. Il partire dall’ideologia,
l’arrestarsi ai problemi ideologici, rende straordinariamente difficile proprio
per degli ideologi una cosa in sé molto semplice: la chiara individuazione del
punto essenziale della lotta di classe, della divisione fra le classi, della
rivoluzione e della controrivoluzione: la questione dello sfruttamento. E fin
quando non si sarà trovato questo punto archimedico, essi sono per forza
soggetti a una continua oscillazione. Se per ideologi quali Bernard Shaw e
Upton Sinclair, che avevano sempre fatto professione di fede socialista e che
per un certo tempo si erano anche mossi decisamente nell’ambito del pensiero
socialista, fu possibile essere impressionati il primo dal «socialismo» di
Mussolini e di Hitler, il secondo da quello di Roosvelt, diventa chiaro come
l’oscillazione, lo zig-zag tra rivoluzione e controrivoluzione, dovesse essere
molto più impetuosa e ampia in ideologici meno coscienti, in quelli che si sono
occupati ancora meno dei problemi economici del presente e che più si sono
arrestati alla mera ideologia. E quanto più profonda diventa la crisi del
sistema capitalistico, quanto più fortemente emerge la barbarie delle forme
fasciste di mantenimento dello sfruttamento capitalistico, tanto maggiore deve
divenire la disperazione di quegli ideologi che non vogliono prestarsi a
diventare sicofanti di un sistema fascista e che però non riescono a decidersi
a compiere il salto vitale2 dalla
parte della classe rivoluzionaria.
Salto vitale e disperazione totale sono evidentemente poli
estremi che, proprio per questo, si verificano relativamente di rado nella
realtà. Tra di essi vi è il movimento degli intellettuali nelle forme più
diverse della disgregazione, dell’autocritica, del restare saldamente
aggrappati alle svuotate ideologie del passato della loro classe (la democrazia
borghese), dell’autostordimento e dell’autoinganno mediante immagini mitiche,
ecc. L’approfondirsi della crisi generale del capitalismo, la crescente energia
della lotta di classe proletaria e quindi la maggiore diffusione dell’ideologia
rivoluzionaria mediante soprattutto l’esempio luminoso dell’emergente società
senza classi in Unione sovietica, agiscono con forza crescente all’interno di
questo sviluppo ineguale nella direzione di avvicinare gli elementi migliori
dell’intellighenzia alla lotta di classe rivoluzionaria del
proletariato, di farne un suo alleato. Significherebbe tuttavia disconoscere la
situazione sociale oggettiva degli ideologi pensare che questo processo di
disgregazione dell’ideologia borghese avvicini spontaneamente, «da sé»,
automaticamente, l’intellighenzia al proletariato in lotta. No,
questo sviluppo è molto ineguale, vi sono molte svolte e molte stazioni
intermedie sulla strada che va dal distacco della borghesia al proletariato. E
queste stazioni intermedie sono disposte in maniera tale da trattenere una
parte dell’intellighenzia – in stato di disperazione cronica,
sull’orlo dell’abisso –, da indurla ad arrestarsi; in maniera tale, cioè, che
una parte di essa – nello stato di disperazione cronica, sull’orlo dell’abisso
– si stabilisce qui e non vuole più procedere oltre.
Per meglio dire: ha il gesto di chi prosegue in maniera
radicale, la presunzione – spesso sincera – di procedere in maniera radicale.
Ma nei fatti gira continuamente su se stessa, nello stato di disperazione
cronica sull’orlo dell’abisso.
Posizione e allestimento dell’Hotel
Si tratta qui della letteratura degli ideologi per gli
ideologi. Quindi di una letteratura la cui influenza sulle masse è a-priori
piuttosto improbabile e che si rivolge direttamente all’élite dell’intellighenzia. Questo
suo carattere specifico non deve però indurci a minimizzare aprioristicamente
la sua efficacia. E innanzitutto perché in certi casi è possibile che questi
libri abbiano un effetto di massa. (Si pensi solo alla Montagna
incantata di Thomas Mann, la cui tiratura in Germania ha superato il
milione). In secondo luogo, essi possono avere un’influenza indiretta
relativamente vasta e le idee che vi sono espresse, mediante la volgarizzazione
su giornali, riviste, ecc., possono essere adattate e rese accessibili alla
grande massa della piccola borghesia. Questa letteratura per l’élite intellettuale
borghese è dunque parte di quei dispositivi di sicurezza ideologici che, si
potrebbe dire, funzionano automaticamente e che la società borghese produce
ininterrottamente. È evidente che la parte del leone dell’autodifesa ideologica
della borghesia viene da essa prodotta coscientemente: la diffamazione del
proletariato rivoluzionario e della sua teoria, il materialismo dialettico, le
varie forme dell’apologetica dell’economia e dell’ideologia capitalistiche, la
falsificazione delle conseguenze ideologiche delle scienze naturali in
religione e dell’intera storia in leggende storiche reazionarie, ecc. vengono
compiute da manovali ideologici più o meno ben pagati, a servizio della
borghesia. È comunque chiaro che questi dispositivi di sicurezza, specialmente
in periodi di crisi, non sono sufficienti ad impedire alla piccola borghesia e
all’intellighenzia di staccarsi dal capitalismo. Si rendono perciò
necessari metodi più raffinati, più mediati e complicati che la società
capitalistica produce spontaneamente in virtù della sua divisione sociale del
lavoro e che la borghesia sfrutta più o meno abilmente per il proprio scopo. In
questo sfruttamento un appoggio diretto ed esplicito da parte della borghesia
non è affatto necessario, anzi è talvolta persino dannoso. Non si tratta perciò
di fare degli intellettuali dei seguaci troppo entusiasti dell’ordine sociale
borghese, dei fanatici ammiratori della cultura attuale. Al contrario. Questa
letteratura corrisponde in tutto agli scopi della borghesia quando, per suo
tramite, a uno strato dell’intellighenzia,che in seguito agli effetti
della crisi economica e culturale è divenuto un nemico e un denigratore della
società attuale, viene impedito di tirare tutte le conseguenze pratiche di
questa posizione. Questa parte degli intellettuali può dunque tranquillamente
occupare un posto nell’opposizione radicale alla società e alla cultura.
Quando questa opposizione non è diretta al superamento dello
sfruttamento, quando tutta la sua linea ideologica mira ad «approfondire» la
critica e l’analisi della crisi culturale in maniera tale che in questa
«profondità» scompaia completamente un fenomeno così «superficiale» come lo
sfruttamento economico, allora una tale opposizione può essere molto ben
accetta alla borghesia. E in certi casi lo è tanto più, perché maggiormente
efficace, quanto più è radicale la linea che persegue.
Questa situazione non muta per il fatto che tali oppositori
devono talvolta sopportare delle persecuzioni. È ben noto dalle grandi lotte di
classe, quale importante ruolo svolgano nella conservazione del sistema
capitalistico le manovre diversive delle opposizioni apparenti. Si pensi solo
alla socialdemocrazia. Hitler o Dollfuss possono anche sciogliere
l’organizzazione socialdemocratica e rinchiudere i suoi funzionari nei campi di
concentramento, la socialdemocrazia resta pur sempre, in Germania o in Austria,
il principale sostegno sociale della borghesia, proprio perché, col suo
atteggiamento di opposizione solo apparente, ha frenato le masse lavoratrici
nella loro lotta di classe realmente rivoluzionaria contro il sistema fascista;
da qui la particolare pericolosità della «sinistra» socialdemocratica e delle
sue frasi «rivoluzionarie». Ciò non significa che la letteratura che qui stiamo
caratterizzando debba essere usata come parallelo meccanico della socialdemocrazia.
I suoi esponenti migliori – solo con questi vale la pena di confrontarsi – sono
critici e detrattori sinceramente convinti della cultura attuale e non corrotti
impostori come i capi socialfascisti. Non si deve tuttavia dimenticare che
nell’epoca imperialistica i confini tra l’opposizione ideologica più onesta sul
terreno della borghesia e la corruzione diretta o indiretta ad opera del
capitalismo sono talvolta molto fluidi e si presentano sotto varie forme
intermedie difficilmente definibili. L’emergenza di un largo strato di
intellettuali parassitari, la penetrazione del capitalismo in tutti i campi
dell’industria dei mezzi di consumo e quindi, contemporaneamente, in tutti i
campi della produzione materiale della cultura ha trasformato radicalmente la
situazione materiale dei movimenti di opposizione borghesi. Mentre, nei periodi
precedenti, gli ideologi di opposizione dovevano superare un lungo periodo di
gavetta prima di riuscire a imporsi oppure a capitolare di fronte agli
orientamenti dominanti o ad arrivare con questi a un compromesso, nell’epoca
imperialistica molte correnti di opposizione vengono invece fin dall’inizio
finanziate dal capitalismo, ricevono un anticipo materiale sulla loro validità
futura, e talvolta può persino essere vantaggioso per un imprenditore
capitalista finanziare le correnti di opposizione in letteratura o nell’arte,
anche quando è molto probabile che la loro efficacia non vada al di là di una
ristretta cerchia di intellettuali. Non si tratta del fatto che con ciò per le
correnti di opposizione, in specie nell’ambito della letteratura e dell’arte,
viene creato uno spazio di partecipazione più ampio e apparentemente più libero
che nei periodi precedenti. Non vi è tuttavia dubbio che, proprio per questo,
la libertà diviene più apparente che mai. Il che non va inteso, almeno in
moltissimi casi, nel senso della corruzione diretta. La corruzione più
raffinata e non intenzionale, la riduzione delle opposizioni ideologiche a
parte costitutiva dell’intero sistema parassitario, nasce proprio da questa
illusione di disporre di uno spazio più ampio di attività libera,
dall’illusione, materialmente e moralmente certa, di poter esercitare una
critica radicale e appassionata della situazione esistente. La corruzione
raffinata e non intenzionale consiste proprio in questo, che la tendenza
naturale dell’intellighenzia, dei produttori di ideologia, a limitare
«aristocraticamente» la loro critica del presente all’ambito della mera
ideologia riceve un sostegno invisibile, ma all’occorrenza assai brutale e
tangibile. Il limite che in quest’ambito è invisibile e che separa il lecito
dall’illecito, ciò che è sopportabile per la borghesia da ciò che non lo è,
l’opposizione – oggettivamente – apparente dai veri rivoluzionari, diventa in
questo modo il limite della tolleranza materiale da parte della borghesia, un
problema di esistenza materiale di questo strato di intellettuali. E
l’esperienza nel campo delle misure di repressione ideologica dei movimenti di
opposizione dimostra che tali meccanismi materialmente consolidati di
autocensura sono talvolta più raffinati e affidabili di una repressione diretta
e brutale dell’espressione delle opinioni. Specialmente quando, all’interno di
questi limiti invisibili, sono consentiti senza nessuna rappresaglia il
radicalismo più rumoroso, la critica più ingrata della situazione esistente, il
convincimento rivoluzionario più appassionato. Questo limite invisibile si
allarga o si restringe a seconda del livello della lotta di classe. Ma è certo
anche che questo movimento non procede meccanicamente in una direzione
rettilinea. Nello sviluppo della borghesia vi sono periodi in cui la sua
esistenza viene messa in pericolo, perciò il suo punto di vista è: «chi non è
contro di me è con me», altri, come l’attuale fascismo in Germania, in cui
questa parola d’ordine suona al contrario: «chi non è con me è contro di me».
Tra questi due estremi, vi sono ovviamente numerosissimi e molteplici passaggi.
E naturalmente è anche possibile, nonostante le rappresaglie, installare queste
stazioni ideologiche di passaggio, queste organizzazioni di intercettazione. E
oggi è anche possibile arredarle comodamente sia materialmente che
spiritualmente. L’elemento decisivo e comune a questi stadi intermedi è proprio
il limite invisibile che abbiamo sottolineato, e che in nessun caso può essere
valicato, entro cui è tuttavia concesso il radicalismo più rumoroso e audace.
È questa la situazione sociale del Grand Hotel «Abisso». I
problemi del capitalismo in dissoluzione diventano sempre più chiaramente
insolubili. Strati sempre più vasti della parte migliore dell’intellighenzia non
possono più nascondere a se stessi quest’incubo dell’insolubilità di quei
problemi la cui soluzione è il loro specifico motivo di vita e le risposte ai
quali costituiscono il fondamento materiale e spirituale della loro esistenza.
Proprio la parte migliore e più seria di loro è giunta sino all’abisso della
visione dell’insolubilità di questi problemi. All’abisso da cui scorge una
doppia prospettiva: da una parte, l’irrimediabile vicolo cieco intellettuale,
l’autosuperamento della propria esistenza intellettuale, la caduta nell’abisso
della disperazione; dall’altra, il salto vitale nel campo del proletariato
rivoluzionario, verso un futuro luminoso. Per gli ideologi questa scelta è in
ogni caso straordinariamente difficile. Eppure, proprio loro, più di ogni altro
strato sociale, dovrebbero trasformarsi spiritualmente in misura sempre
maggiore, per essere in grado di compiere questo salto. Dovrebbero liberarsi di
quell’illusione che è stata il prodotto necessario della loro situazione di
classe e la base di tutta la loro Weltanschauung ed esistenza
spirituale: l’illusione della priorità dell’ideologia rispetto all’elemento
materiale, all’economico; dovrebbero abbandonare l’«aristocratica» altezza del
modo in cui sinora hanno posto e risolto i problemi e imparare a vedere come il
modo «brutale», «ordinario», «grossolano» di porre i problemi economici nella
vita quotidiana costituisca l’unico punto fermo a partire dal quale i problemi
finora considerati insolubili possono trovare una soluzione.
Il Grand Hotel «Abisso» è stato – involontariamente – creato
per facilitare questo salto. Abbiamo già parlato dei comforts, certamente
relativi, che può offrire ai suoi oppositori ideologici la borghesia
parassitaria dell’epoca imperialistica. Ma il carattere relativo di questi
comforts materiali, la loro modestia e incertezza rispetto a quelli che essa
offre ai suoi manovali ideologici diretti sono elementi di comfort spirituale.
Essi rafforzano l’illusione di indipendenza dalla borghesia e soprattutto di
essere al di sopra delle classi, l’illusione del proprio eroismo, della propria
abnegazione, di aver già rotto con la borghesia e la sua cultura, mentre si è
ancora con tutti e due i piedi sul suo terreno! Il comfort spirituale
dell’Hotel si concentra allora sulla stabilizzazione di questa illusione. In
esso si vive nella più dissoluta libertà spirituale: tutto è permesso, niente
si sottrae alla critica. Per ogni tipo di critica radicale – sempre all’interno
dei limiti invisibili – viene creato uno spazio specifico. Se uno vuole fondare
una setta per la soluzione ideologica brevettata di tutti i problemi culturali,
gli sono messi a disposizione i relativi spazi per le riunioni. Se c’è un tipo
«solitario» che, incompreso da tutti, cerca da solo la sua strada, riceve la
sua stanza riservata ben arredata, in cui può vivere circondato da tutta la
cultura del presente, sia egli «nel deserto» o nella «cella di un convento». Il
Grand Hotel «Abisso» è accuratamente arredato per tutti i gusti e per tutte le
tendenze. È lecita ogni forma di ubriacatura intellettuale, ma nel contempo
anche ogni forma di ascetismo e di autoflagellazione, e non solo ciò è
permesso, ma vi sono bar splendidamente attrezzati per i primi e attrezzature
da ginnastica di eccellente produzione e camere di tortura per il bisogno dei
secondi. Ci si preoccupa non solo della solitudine, ma anche della socievolezza
di ogni tipo. Ognuno può essere testimone non visto dell’attività di tutti gli
altri, ognuno può avere la soddisfazione di essere l’unica persona ragionevole,
in una torre di Babele della follia generale. La danza macabra delle ideologie
che si svolge in questo Hotel tutti i giorni e tutte le sere diventa, per i
suoi abitanti, una piacevole ed eccitante jazz band, in cui trovano ristoro
dopo una giornata faticosa. È un miracolo se molti intellettuali alla fine di
una strada faticosa e disperata, per venire a capo dei problemi della società
borghese, dal punto di vista borghese irrisolvibili, giunti sull’orlo di questo
abisso, si stabiliscono in questo Hotel piuttosto che spogliarsi delle vesti
splendenti e osare il salto vitale al di là dell’abisso? È un miracolo se
questo Hotel, così splendidamente arredato per le cime più elevate dell’intellighenzia,
trova i suoi imitatori meno brillanti e più provinciali specialmente nell’intellighenzia e
nella borghesia? Nell’attuale società borghese vi sono una serie di passaggi,
che vanno dalla jazz band finemente orchestrata della danza macabra delle
ideologie fino alle orchestre e ai grammofoni dei veri bar, dove –
completamente ignorati dai piccoli borghesi attuali – si suona e si beve alla
danza macabra delle ideologie borghesi.
Il Grand Hotel «Abisso» non chiede ai suoi ospiti nessuna
legittimazione, se non quella dei livelli spirituali. Ma proprio in questa
libertà totale agisce al massimo il limite invisibile. Per l’intellighenzia borghese,
il livello spirituale consiste proprio nel considerare i problemi ideologici in
maniera puramente ideologica, nel restare avvinti nel circolo incantato
dell’ideologia. Queste stazioni intermedie sulla strada dal passato al futuro
per l’intellighenzia ci sono sempre state, sin da quando il
proletariato è entrato nella lotta di classe come forza autonoma e la questione
del superamento dello sfruttamento è diventata la parola d’ordine di battaglia
della lotta delle «due nazioni». Marx ha riconosciuto chiaramente questa
ideologia al suo nascere e l’ha aspramente criticata nei giovani hegeliani
radicali. E la sua critica costituisce la base di qualsiasi altra critica di
queste stazioni intermedie e del loro significato politico sociale. Scrive
Marx: «Poiché questi giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i
pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza da loro fatta
autonoma, come le vere catene degli uomini (…), s’intende facilmente che i
giovani hegeliani devono combattere soltanto contro queste illusioni della
coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni
loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotti della loro
coscienza, i giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come
postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana,
critica o egoistica, e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa
richiesta, di modificare la coscienza, conduce
all’altra richiesta, d’interpretare diversamente ciò che esiste, ossia
di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione (il corsivo è
mio, G.L.). Nonostante le loro frasi che, secondo loro, «scuotono il mondo» gli
ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra
loro hanno trovato l’espressione giusta per la loro attività, affermando di
combattere soltanto contro delle frasi. Dimenticano soltanto che a queste frasi
essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo
realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo (…). A
nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il nesso esistente
tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il
loro proprio ambiente materiale»3.
Questo singolare riconoscimento dell’esistente mediante una
critica della coscienza e un salto radicale al rivoluzionamento della coscienza
ha assunto già nei giovani radicali, in Bruno Bauer e Stirner, la forma di
voler superare la teoria del proletariato rivoluzionario quanto a radicalità
nella riflessione su tutti i problemi. Con l’inasprirsi della lotta di classe,
questa tendenza si manifesta in forme sempre nuove. La discrepanza della
situazione sociale della piccola borghesia comporta necessariamente che quelle
ideologie che l’allontanano dal proletariato rivoluzionario si muovano verso
l’estremo opposto. Mentre il piccolo bottegaio di fronte alla perdita della sua
bottega trema e di fronte al socialismo si spaventa perché con esso vengono
socializzate anche le donne, il piccolo borghese, divenuto furente, deve essere
ideologicamente guidato «al di là del socialismo». Gli si deve dimostrare
quanto sia inconseguente, dogmatico e meschino il socialismo del movimento
operaio, come uno «spirito libero» debba cercare e trovare qualcosa di molto
più radicale, se vuole che i problemi siano risolti «realmente» e non in
maniera compromissoria come nel socialismo. È questo il motivo per cui il
radicalismo è straordinariamente adatto alla critica ideologica. Dunque, da un
lato non vi è qui alcun limite alla progettazione utopica; dall’altro, il
rovesciamento così progettato è incomparabilmente «più profondo» della
rivoluzione proletaria, giacché non vengono rivoluzionati solo i fenomeni
economici «superficiali» della vita (o meglio, questi non lo sono), ma anche
l’uomo, l’anima, lo spirito, la concezione del mondo. E siccome il
rivoluzionamento economico «superficiale» viene considerato indifferente, può
partecipare a questo «rivoluzionarismo radicale» qualsiasi parassita
redditiero, senza dover temere che la rivoluzione, «la giusta rivoluzione»,
metta in pericolo il godimento della sua rendita.
Questo «andare al fondo delle cose in maniera radicale» si
esprime ideologicamente nella trasformazione della dialettica oggettiva in
sofistica soggettiva, in un relativismo radicale. Dice Lenin: «La differenza
tra il soggettivismo (scetticismo, sofistica, ecc.) e la dialettica consiste
nel fatto che nella dialettica (oggettiva) anche la differenza tra relativo e
assoluto è relativa. Per la dialettica oggettiva anche nel relativo è contenuto
l’assoluto. Per il soggettivismo e la sofistica, il relativo è solo relativo ed
esclude l’assoluto»4.
L’esclusione radicale di qualsiasi assoluto dal pensiero non è solo un
grandioso gesto rivoluzionario, che agli occhi degli abitanti dell’Hotel e dei
loro ammiratori si lascia molto indietro la teoria «dogmatica» del proletariato
come qualcosa di piccolo borghese. Essa crea anche quell’atmosfera dello stare
eternamente in sospeso, di timidezza di fronte a qualsiasi decisione derivante
dall’«onestà intellettuale», dalla scrupolosità scientifica, dalla profondità
etica, che rende così piacevole la vita nell’Hotel «Abisso», perché si è
riusciti felicemente a stravolgere la propria incapacità di scegliere tra le
classi in lotta in superiorità rispetto alle piccole lotte di ogni giorno. E il
fatto che con ciò si sia compiuta una scelta – quanto più inconsapevole tanto
meglio – e che la scelta sia caduta sul partito degli oppressori e degli
sfruttatori, giustifica proprio il valore che questo Hotel e i suoi abitanti
hanno per la borghesia in determinati periodi.
Ma, nonostante tutto, il valore di questo relativismo per la
conservazione dell’ordine borghese e della sua ideologia non si è ancora
esaurito. Lo stare in sospeso della scepsi radicale può essere mantenuto in
maniera conseguente solo in periodi molto particolari e solo eccezionalmente.
L’assoluto cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Si tratta però di un
altro assoluto. Si allontana dal pensiero l’assoluto della realtà oggettiva e
ciò che si introduce di soppiatto è il finto assoluto del mito religioso. Se è
scientificamente indimostrabile se è la terra a girare intorno al sole o il
sole intorno alla terra, stanno per il momento allo stesso livello di
indimostrabili «ipotesi di lavoro» la storia della creazione di Mosè e la
teoria di Kant e Laplace. Si può tuttavia affermare subito che, delle due
ipotesi, quella mosaica è superiore quanto ai valori umani, morali, metafisici.
Ed è in particolare chiaro che le «esperienze» religiose dei profeti o dei
santi sono «fatti» esattamente come quelle dei fisici o dei chimici durante i
loro esperimenti. Poiché in entrambi i casi viene «posto fra parentesi», in
maniera scettica e relativistica, il contenuto di verità, il riferimento alla
realtà oggettiva, è possibile indagare in maniera imparziale queste esperienze
religiose e il loro contenuto «umano generale» o eticamente esemplare, senza
fondarlo ulteriormente in una concezione relativistica (William James, Scheler,
ecc.). Nasce così a poco a poco, in maniera «scrupolosamente scientifica», una
nuova religione per i dotti. Per coloro che sono già divenuti inaccessibili per
il pesante e costante stordimento religioso della chiesa. È perciò lo stesso se
viene creata una nuova religione settaria oppure si predica una forma di
ateismo religioso, poiché in entrambi i casi questa nuova religiosità ha la
stessa funzione sociale della vecchia, si rivolge solo a quegli strati che non
possono più essere da loro conquistati. «Un prete cattolico che violenti
fanciulle (…) è molto meno pericoloso per la democrazia di uno senza abiti
sacri, di uno senza religione grossolana, un prete ideale e democratico che
predica la creazione di un nuovo Dio. Poiché smascherare il primo prete è
facile, non è difficile condannarlo e scacciarlo, ma il secondo non si lascia
scacciare così semplicemente, è mille volte più difficile smascherarlo e nessun
piccolo borghese fragile e incostante si dichiarerà disposto a condannarlo»5.
Questo slittamento del relativismo scettico nella mistica
reazionaria acquista sempre più significato col progredire del processo di
decadenza della borghesia. Tale processo ha il suo riflesso ideologico nella
crescente disgregazione dell’ideologia borghese del progresso. Nel periodo di
ascesa della borghesia, l’idea di progresso fu criticata – talvolta in maniera
molto spiritosa – solamente dagli ideologi delle classi feudali e semifeudali
in declino e spodestate. L’intellighenzia che si è staccata dalla
borghesia, posta tra questa e il proletariato, da un lato ha lottato contro la
limitata uniformità e il limitato ottimismo di questa idea di progresso,
dall’altro ha tentato di superare quest’ultima in radicalismo. (Che questo
radicalismo non porta necessariamente all’idea materialistica di progresso,
che, anzi, all’opposto, può trasformarsi in posizione reazionaria, lo dimostra
l’esempio della critica di Marx a Bruno Bauer).
Nella crisi generale del capitalismo anche questo problema
acquista tratti nuovi. Già col parassitismo imperialistico l’ideologia del
progresso ha perso la sua forza attrattiva anche all’interno della borghesia.
Fra gli intellettuali la generale incredulità riguardo al progresso è cresciuta
in maniera incredibilmente rapida; e, nel contempo, è cresciuta, parallelamente,
la tendenza sempre più accentuata a civettare con le ideologie reazionarie. La
crisi generale del capitalismo fa emergere questo complesso di problemi dal
ristretto circolo dell’intellighenzia e lo pone al centro
dell’arena della lotta di classe. La piccola borghesia, minacciata e scossa nei
suoi fondamenti materiali dalla crisi generale, passa in uno sconvolgente lasso
di tempo a un anticapitalismo spontaneo e confuso. Nasce su questo terreno,
spontaneamente, un’ideologia reazionaria nella forma e nel contenuto, che
tuttavia ha come elemento specifico la possibilità di sbarazzarsi in ogni
momento del suo contenuto reazionario e trasformarsi in rivoluzionaria. La
tendenza a questo cambiamento viene accelerata, oggettivamente, dalla crisi generale,
che diventa sempre più profonda, del sistema capitalistico; soggettivamente,
dall’influsso crescente del partito comunista. La borghesia deve impiegare ogni
mezzo per mantenere questo movimento su un terreno reazionario e impedire la
chiarificazione della confusione spontanea. Non possiamo qui analizzare,
nemmeno per cenni, l’intero sistema di questi sviamenti e inganni dal
socialfascismo al fascismo aperto. Ma è chiaro che in questa situazione la
compenetrazione di relativismo e misticismo all’interno dell’Hotel «Abisso»
deve diventare sempre più forte e che lo scetticismo relativistico dell’élite intellettuale
deve trasformarsi sempre più velocemente in una mitologia religiosa mascherata
da radical-rivoluzionaria. E proprio all’interno di una tale crisi, che mina
sempre più le vecchie autorità, e in cui le masse, anche quelle
piccolo-borghesi, sono desiderose di un nuovo orientamento e di una guida per
trovare una via d’uscita dalla loro situazione divenuta insopportabile, devono
accrescersi il valore ed il significato che l’Hotel «Abisso» ha per la
borghesia. Dunque, finché la lotta oscilla così spesso, finché la crisi del
sistema diviene chiara alle masse, è per la borghesia una questione vitale
tenere lontano dalla lotta aperta contro il sistema quello strato che essa non
riesce a conquistare alla difesa dichiarata del suo sistema. Solo il fascismo
appena giunto al potere si immagina di non usare più tali appoggi. Esso tenta
con tutti i mezzi dell’ubriacatura demagogica della folla di indurre la suggestione
dell’avvento di una nuova epoca, che non ha niente a che vedere con la vecchia
«borghesia liberale». Finché i fascisti credono che questa suggestione regge,
l’intellighenzia disgregata viene scacciata o repressa e il Grand
Hotel «Abisso» demolito. Ma la necessità sociale della sua esistenza non
scompare. Nell’emigrazione sono già sorte filiali e dependences del
vecchio Hotel, sia pure arredate materialmente in maniera meno splendida. Ma
non appena diverranno pubbliche la diminuzione e la dissoluzione della sua base
sociale, anche il fascismo dominante sarà costretto a erigere un nuovo Hotel
«Abisso» – sia pure con un’altra facciata e con una diversa disposizione
interna – o almeno a non impedirne più la costruzione.
Il progredire della crisi economica e culturale,
l’inasprimento della lotta di classe, il crescente influsso del partito
comunista, la crescente forza attrattiva della costruzione socialista e della
rivoluzione culturale nell’Unione sovietica devono perciò necessariamente agire
sull’ideologia borghese sempre più in dissoluzione. Il miscuglio eclettico
delle ideologie reazionarie dell’epoca imperialistica, che il fascismo
dominante «sintetizza» in teoria e prassi della barbarie, non può in nessun
modo soddisfare l’onesta intellighenzia svegliatasi solo a
metà strada. Essa deve cercare un nuovo orientamento, si deve muovere tra
borghesia e proletariato, e quanto più questo movimento diventa forte, tanto
più grande deve divenire il bisogno di portarlo a un punto di arresto, di
evitare che si avvicini al proletariato rivoluzionario. E, proprio in questo
periodo di controrivoluzione fascista, il fatto che l’orizzonte spirituale sia
limitato alla mera ideologia e la Weltanschauung sia
coerentemente idealistica acquista un accresciuto significato di classe. La
demagogia sociale del fascismo, il «socialismo tedesco» è perciò possibile solo
sul fondamento ideologico di un’accentuata supremazia dell’ideologia rispetto
alla base materiale. Uno smascheramento e una distruzione reali dell’ideologia
fascista sono possibili solo sulla base del contrasto materialmente elaborato
tra parole e fatti. Ma ogni ideologia che impedisce il risveglio delle masse
per quest’unico punto di vista, che corrisponde ai loro interessi reali, va ad
appoggiare – volente o nolente – la demagogia sociale, distoglie le masse da
una sua reale comprensione. Poiché il relativismo sofista del periodo
imperialistico è sorto sul terreno di tutte quelle tendenze ideologiche
(agnosticismo, irrazionalismo, «filosofia della vita», mito, sostituto più
moderno della religione, ecc.) che il fascismo ha riunito ecletticamente in una
sua filosofia della barbarie; poiché questo relativismo sofista ha resistito
proprio contro queste tendenze, in tutti i suoi gesti ipercritici e
iperradicali, nella confusione ideologica più totale, allora esso non può
condurre una reale lotta ideologica contro il fascismo. Su questo terreno
ideologico, il Grand Hotel «Abisso» deve necessariamente risorgere sempre di
nuovo, spontaneamente, non importa se nell’emigrazione o nell’illegalità della
Germania di Hitler, oppure magari tollerata in forme nuove dal fascismo.
Diventa sempre più forte la necessità di una rottura radicale con questo
allestimento ideologico della vita interiore, la necessità di distruggere
questo allestimento e di compiere il salto vitale della salvazione. Essa è
avvertita in maniera sempre più forte dagli elementi migliori dell’intellighenzia tedesca.
Il radicamento nel capitalismo di una parte considerevole dell’élite intellettuale
è dunque così forte che il Grand Hotel «Abisso» non può essere in realtà
distrutto nemmeno dal fascismo.
La danza macabra delle ideologie
Di tutto ciò che diciamo in genere non va bene niente!
Robert Musil
Robert Musil
Il grande romanzo di Robert Musil, ancora incompiuto6,
costituisce un paradigma dell’ideologia dell’élite intellettuale
tedesca che abbiamo sinora analizzato in generale, e cioè di quella parte di
questa intellighenzia che non intende – almeno consapevolmente
– fare concessioni alla generale fascistizzazione della vita spirituale in
Germania. Nella sua carriera di scrittore non si manifesta alcuna concessione
al gusto del grande pubblico, alle tendenze di moda dominanti. Egli è sempre
stato un convinto scrittore per l’élite, per gli stendhaliani «happy
few».
Schernisce di continuo, nel modo culturale e letterario che
gli è proprio – e che conosceremo subito più da vicino –, la maggior parte
delle tendenze dominanti fra gli intellettuali e nella letteratura moderna.
Egli si è sempre contrapposto ai suoi contemporanei anche sul piano stilistico:
non ha partecipato né della confusione impressionistica, né dell’affettazione
espressionistica della prosa tedesca, scrive in uno stile quasi
scientificamente trasparente, chiaro, semplice ed equilibrato di chi ha
dimestichezza coi classici, nonostante la grande plasticità delle sue figure e
delle sue descrizioni. E anche per questo che col suo ultimo romanzo è però
divenuto una celebrità «esoterica» per gli iniziati, per l’avanguardia
spirituale dell’intellighenzia di sinistra degli anni precedenti
alla presa del potere da parte di Hitler.
La scientificità del suo stile non è qualcosa di esteriore.
Musil si differenzia dalla maggior parte dei suoi contemporanei e dei suoi
compagni di classe per il fatto che nel periodo dell’imperialismo e della
fascistizzazione egli non partecipa del disprezzo crescente della filosofia
della vita per l’intelletto. Egli si rifiuta di accettare l’indimostrabile,
vuole sempre avere il terreno solido sotto i piedi; è un razionalista. La particolarità
della tematica letteraria e quindi del metodo creativo di Musil consiste invece
nel fatto che, con questa Weltanschauung e con questo metodo,
si avvicina ai problemi spirituali dell’odierna élite intellettuale.
Coi metodi di una scienza esatta, così come egli la intende, vuole verificare
quale intima coerenza e quale contenuto di verità contengono questi problemi
spirituali. Egli è dunque uno sperimentatore precisissimo, un ingegnere che
razionalizza le più raffinate emozioni dell’éliteintellettuale
contemporanea. Niente si sottrae alla sua critica acuta, non vi è niente che
egli consideri così sacro e indimostrabile da non sottoporlo all’analisi più
esatta.
Tuttavia, questo radicalismo intellettuale, che non si
arresta di fronte a nulla, si arresta proprio di fronte alle questioni
fondamentali. E cioè, Musil accetta questo suo oggetto di indagine
acriticamente, come un fatto. Non gli viene nemmeno in mente di domandarsi in
generale su quale terreno reale possano sorgere queste emozioni spirituali che
egli analizza. Esse vanno, secondo lui, assunte come già date nei singoli
individui viventi, come fatti da analizzare. Non che in questo modo ricada in
un empirismo volgare. Egli confronta esattamente tali fatti gli uni con gli
altri, fa emergere con acutezza l’elemento comune, il tipico, anche nei
fenomeni apparentemente distanti gli uni dagli altri. Non gli sfugge mai, come
vedremo, che i fenomeni spirituali sono legati al mondo economico-sociale, che
tra l’atteggiamento spirituale e le azioni sociali di un uomo esistono
relazioni contraddittorie, paradossali e tuttavia tipiche. Ma tutto questo si
svolge per lui nell’ambito dello spirito. Ciò che egli persegue non è dunque
l’indagine della genesi reale di tali fenomeni, né la loro derivazione reale dalle
loro cause effettive, bensì una esattezza immanente e una fondatezza
delle emozioni spirituali. Egli cerca l’«autenticità»
delle esperienze spirituali della vita interiore dell’uomo nel nostro tempo,
distrugge con la critica più acuta tutto ciò in cui nasconde un’intima
contraddizione, una menzogna consapevole o inconsapevole, un autoinganno più o
meno consapevole, ecc. Questa critica è però puramente immanente. Essa vuole
fondare esattamente questi stessi contenuti e queste stesse forme della vita spirituale,
vuole trovare in questa vita spirituale un fondamento solido
per i medesimi, o molto simili, sentimenti, esperienze, pensieri, azioni. Egli
dice del suo eroe, in chiusura della parte sinora pubblicata: «Ulrich sapeva di
non avere infatti un’idea chiara. Non intendeva né una vita di sperimentatore
né una vita “alla luce della scienza”, bensì una “ricerca del sentimento”
simile alla ricerca della verità, solo che non si trattava della verità». E
proprio in questo senso, in un «dialogo sacro» con sua sorella, il protagonista
dice a proposito dello scopo delle sue ricerche, della sua vita: «Mi addottrino
sulle vie della vita santa (…) Non c’è niente da ridere. Non sono religioso;
considero la strada della santità chiedendomi se non la si potrebbe percorrere
anche in automobile».
Musil difende dunque qui una particolare nuance dell’ateismo
religioso. I contenuti immediati delle vecchie religioni per lui, come per la
maggior parte dei migliori esponenti del suo ceto, non sono più seriamente
presi in considerazione. Per contro, egli, come la maggioranza di questo ceto,
ha un’esperienza molto viva di come la vita interiore dell’uomo odierno (che
Musil in maniera ingenuamente inconsapevole identifica per lo più con
l’intellettuale) sia divenuta inconsistente, disgregata, insincera e di come la
morale delle vecchie religioni abbia dato ad essa una grande stabilità. Si
tratta dunque della solita nostalgia romantica per la religione
dell’intellettuale disgregato. È una reazione spontanea e immediata, non
ulteriormente analizzata, di questo ceto alla decadenza ideologica nel periodo
di declino del capitalismo, che qui si manifesta in maniera ovviamente
immediata e spontanea nell’ambito ideologico e specialmente in quello morale. I
fenomeni conseguenti al declino del capitalismo vengono vissuti in modo molto
violento, le sue cause restano ignote e quindi la reazione spontanea è una fuga
nell’ideologia precapitalistica. Considerato socialmente, questo fenomeno è
analogo all’assalto ai grandi magazzini da parte dei piccoli commercianti. E
nonostante la differenza del livello culturale dell’argomentazione, il
contenuto sociale, il livello dell’indagine delle cause sociali della
condizione della propria classe, disgregata dal capitalismo, restano gli
stessi. Certo, in Musil il caso è qualcosa di diverso che nella maggior parte
dei suoi contemporanei e compagni di classe, i quali, di fronte alla
dissoluzione dell’ideologia borghese nella crisi generale del capitalismo, si
rifugiano a precipizio nelle vecchie religioni o nei nuovi miti del generale
movimento di fascistizzazione. La fuga è tuttavia presente anche in Musil. Solo
che egli – da intellettuale soggettivamente onesto – non vuole abbandonare il
terreno traballante dell’ideologia senza trovare col suo metodo di misuratore
ingegneristico delle più sottili disposizioni dell’anima un terreno solido, un
ponte che resista a tutte le prove circa tali materiali e tali carichi. Il
protagonista, che diventa sempre più identico a lui, studia perciò
accuratamente tanto le vecchie esperienze «religiose» dei santi e dei profeti,
quanto quelle dei contemporanei che accettano ciecamente il mistico-religioso.
Anch’egli, come costoro, dalle prescrizioni morali religiose crea norme morali
per la critica del presente. Perciò sospira scettico: «È un gran peccato che
gli studiosi di scienze esatte non abbiano delle visioni!». Fin qui, finché
tale questione resta non chiarita e finché la «vita santa» non è costruita in
maniera tanto solida da poterla percorrere in automobile, Musil ed il suo eroe
restano sospesi in un posizione tutta relativistica e radicalmente scettica.
Questa scepsi di Musil è però una scepsi satirica e
battagliera. Egli disprezza profondamente gli intellettuali moderni che, molto
alla leggera e senza provarne la resistenza, costruiscono un ponte fra la
religione e i bisogni degli uomini moderni, che per la dissolutezza dei
sentimenti o persino per scopi egoistici, ingannevoli o autoingannevoli,
praticano la confusione impura e inesatta fra religione e scienza, fra religione
e bisogni umani odierni. Il suo odio più profondo – e qui si manifesta la
personale onestà del suo sentimento inconsapevolmente anticapitalistico – si
concentra su quei tipi che si servono di questa confusione fra sentimento e
pensiero per fare l’apologia del sistema vigente, per operare la «sintesi» tra
affari e anima, tra capitalismo e religione. Nel suo romanzo Musil raffigura
questo tipo – mutuando tratti facilmente riconoscibili da Walter Rathenau per
descriverne il mondo di idee e il destino esteriore – come un «commerciante
principesco» che vuole intrecciare in un’unità armonica «affari e idealismo»,
«idee e potere», «anima ed economia». Musil vede molto chiaramente che la base
di una tale sintesi nella Weltanschauung è l’esatta
separazione nella vita. Egli dice di Arnheim (così egli chiama la figura di
Rathenau nel suo romanzo): «Quando in uno dei suoi uffici direttoriali
esaminava un bilancio preventivo si sarebbe vergognato di ragionare altrimenti
che da mercante e da tecnico; ma appena il denaro della ditta non era più in
gioco si sarebbe vergognato di non ragionare nel modo opposto e di non
proclamare che l’uomo deve essere reso idoneo a elevarsi per una strada diversa
da quella ingannevole della metodicità, della regola, dell’unità di misura e simili,
i cui risultati sono affatto esteriori e in ultima analisi senza importanza.
Non v’è dubbio che quell’altra strada si chiama religione; egli aveva scritto
libri sull’argomento».
Questa religione è allora per Arnheim-Rathenau un eccellente
mezzo per ottenere personalmente fama mondiale di scrittore, per brillare come
uomo di fama internazionale in alcuni salotti europei e, nel contempo, usare la
gloria di queste relazioni per una grandiosa diplomazia commerciale. L’acuto
occhio satirico di Musil, che qui chiarisce il nesso fra irrazionalismo
imperial-fascista e commercio nel capitalismo monopolistisco, mostra tuttavia
subito come egli si limiti alla mera ideologia non appena abbandona il campo
delle pure e giuste osservazioni. Infatti, la sua satira non si rivolge al
parassita dall’anima bella del capitalismo monopolistico reazionario in
dissoluzione, bensì alla mancanza di «onestà intellettuale» di Arnheim; non
odia in lui lo sfruttatore, l’apologeta del capitalismo, disprezza
semplicemente la sua confusione di pensiero e sentimento, la bassezza dei suoi
principi morali. Ma, nonostante tutto, qui si raggiunge una satira talvolta
brillante. Musil dà diversi primi piani di questo suo personaggio. Lo
rappresenta, fra l’altro, in una conversazione col suo dio e lo fa esprimere in
questi termini sull’organizzazione migliore del mondo: «“Il capitalismo, come
organizzazione dell’egoismo secondo il grado della capacità di procurarsi
denaro è l’ordinamento più grandioso e tuttavia più umano che noi abbiamo
saputo elaborare in Tuo onore; la condotta umana non porta in sé una misura più
esatta”. E Arnheim avrebbe suggerito al Signore di organizzare il Regno
millenario secondo i criteri commerciali e di affidare la sua amministrazione a
un grande uomo di affari che avesse naturalmente anche cultura filosofica ed
educazione mondana». La satira di Musil su questo tipo risulta perciò –
nonostante i limiti a cui abbiamo accennato – sottile, ben riuscita e vivace,
in quanto non solo descrive la separazione esatta fra commercio e anima nella
vita e il predominio dell’anima nel pensiero, ma al tempo stesso dimostra
sempre di nuovo come nei sentimenti, nelle azioni e nei sublimi pensieri di
Arnheim, dietro il mantello metafisico con cui è coperto, riaffiori sempre il
calcolo capitalistico. Così egli fa dire ad Arnheim, dopo una grande tragedia
d’amore: «Un uomo cosciente delle proprie responsabilità quando fa dono della
sua anima può sacrificare soltanto gli interessi e giammai il capitale».
Queste due figure, le cui continue schermaglie costituiscono
una parte importante del romanzo musiliano, sono inserite in un’azione la cui
invenzione dimostra le non indifferenti qualità satiriche di Musil. Il romanzo
è ambientato negli anni immediatamente precedenti alla guerra e descrive i maggiori
esponenti intellettuali dell’alta società austriaca. Tratta di una grande
«Azione patriottica» che, ideata da un aristocratico austriaco, viene
realizzata dall’alta burocrazia e dall’intellighenzia. L’Azione
consiste nel dover preparare una grande festa nazionale per il settantesimo
giubileo dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe I. Tutti sono
entusiasti di questa «grande festa». Si tratta solo di trovare un’idea
concreta, un contenuto concreto per questa azione. Davanti a noi si agitano
vorticosamente tutti i tipi dell’éliteculturale austriaca, ciascuno
avanza proposte «straordinariamente spirituali» o «particolarmente profonde» e
tutte vengono discusse a fondo e con partecipazione, al massimo livello della
spiritualità moderna, e tutte le volte si conclude che non si possono ancora
prender decisioni definitive, che è necessario nominare un comitato apposito
che elabori una proposta definitiva, che è necessaria una preparazione
particolare. Tutti dicono che l’«idea centrale» della grande azione deve
nascere subito, ma nessuno sa dire quale debba essere questa idea. Tutti dicono
che qualcosa deve accadere subito, ma nessuno è in grado di dire che cosa.
La forza satirica di questa azione principale si esprime
innanzitutto nel fatto che Musil è capace di far esibire tutti i circoli della
più alta spiritualità, dal clero all’alta burocrazia, ai letterati e ai
professori universitari, nel fatto che in ogni discussione essi mettono in
azione l’intera flotta delle loro ideologie, che vengono eseguiti tornei
spirituali al livello più alto su tutte le questioni che interessano gli
intellettuali e che da tutto questo non viene mai fuori niente. Già il
contrasto tra il grande sfoggio culturale e la ridicolaggine aulico-burocratica
dell’occasione produce forti effetti satirici. Effetto che è vieppiù
accresciuto dal contrasto fra la serietà degli sforzi spirituali e la totale
improduttività dei loro risultati. L’«impotenza dello spirito», su cui Max
Scheler nel dopoguerra ha scritto cose che hanno avuto molta influenza,
l’impotenza dello spirito intellettuale borghese di fronte ai problemi più
semplici della realtà pratica forse in nessun altro romanzo moderno è stata
rappresentata con tanta efficacia. Musil sembra stare al di sopra di tutti i
suoi personaggi. Egli è capace di esprimere, nel modo intellettualmente e
culturalmente più elevato, ogni sfumatura ideologica dell’odierna intellighenzia borghese,
in maniera tale che non solo viene espressa adeguatamente la tendenza
ideologica in questione, ma viene anche chiarita in chiave satirica la sua
dialettica immanente: vengono così chiaramente in luce tanto le sue
contraddizioni interne, quanto le contraddizioni rispetto alla realtà. Intorno
all’«Azione patriottica», ugualmente ridicola all’esterno e all’interno, si
svolge una vera e propria danza macabra delle moderne ideologie borghesi.
Ciascuna sfumatura ideologica insegue se stessa e quella avversaria in un
girotondo fra il serio e l’ironico verso la morte e scopre impietosamente la
nullaggine, l’assenza di contenuti e l’intima insincerità propria e degli
avversari.
La grottesca ridicolezza di questa danza macabra viene ancor
più accresciuta dal fatto che i partecipanti fanno convergere nell’azione tutti
i loro interessi privati e di affari. Il «commerciante principesco» Arnheim
tiene nei saloni le conferenze più brillanti sul regno dell’anima al fine di
acquistare per la sua ditta, con l’aiuto e dietro il paravento dell’Azione, i
giacimenti di petrolio galiziani e ottenere certe ordinazioni dal ministero
della guerra. Un dotto generale del Ministero della guerra partecipa in maniera
tanto assidua quanto goffa a tutte le discussioni, si sforza di capire i
diversi orientamenti culturali, però si serve dell’Azione anche per ottenere
finanziamenti per il Ministero della guerra e incrementare l’artiglieria. E
l’aristocratico conservatore, che aveva avuto l’idea dell’azione, la usa
d’altro lato per rovesciare, attraverso intrighi di corte, il ministro degli
interni a lui antipatico. Intorno a questi intrighi maggiori, se ne svolgono
molti altri amorosi e carrieristici. Il grande rogo delle ideologie serve
praticamente a cuocere minestre private.
La satira sociale e di critica ideologica di Musil sarebbe
dunque interessante, coraggiosa e bella. Ma quel limite invisibile, di cui
abbiamo parlato dettagliatamente, riaffiora di continuo e spezza proprio le
punte decisive di ogni slancio satirico. Tale limite non è il risultato di un
compromesso, bensì il limite proprio della sua concezione del mondo. Egli
ironizza acutamente sull’Austria del periodo prebellico e la sua satira si
estende a tutte le questioni attuali dell’intellighenzia tedesca
nel periodo di fascistizzazione. Ma questa ironia è lo spirito di uno che sta
dentro alla cosa fino in fondo, di un uomo il cui orizzonte non va più in là di
quello di coloro su cui ironizza. Egli schernisce, ad esempio, il dilettantismo
politico del suo aristocratico per quel che riguarda la questione nazionale
austriaca. Quando però, come autore, a queste fantasie dilettantesche vuole
contrapporre lo stato di cose reale, vengono fuori i luoghi comuni degli
editoriali dei giornali liberali, solo formulati ironicamente e
autoironicamente travestiti. E così in tutte le altre questioni. È, ad esempio,
molto spiritoso che Musil faccia fare a un’isterica dilettante d’arte la
proposta di celebrare l’anno del giubileo come l’anno di Nietzsche. Ma alcune
pagine prima o dopo affiorano idee e metodi nietzschiani, con o senza
riferimento esplicito a Nietzsche, su cui Musil non ironizza affatto, ma anzi
considera come una seria applicazione della condotta di vita etica da lui
cercata.
Il fatto che l’autore resti impigliato dentro i limiti
invisibili rende discorde l’intera opera. E, in particolare, il personaggio
principale. Questi (Ulrich) deve essere l’oppositore intellettuale onesto di
questo cabaret delle ideologie, il suo onesto cercare un fondamento solido deve
rappresentare il contrasto dal quale vengono ironicamente illuminate la
nullità, la stupidaggine e la disonestà degli altri. Ma che cosa Ulrich
contrappone praticamente alla farsa dell’«Azione patriottica?» Innanzitutto,
egli si trova a partecipare all’Azione per varie disavventure personali;
diviene segretario dell’aristocratico da cui era partita l’iniziativa e quindi
segretario di tutta l’azione. Naturalmente, egli stesso non prende troppo sul
serio questo suo ruolo. Raccoglie tutti gli incartamenti e le proposte che
arrivano e riferisce al suo conte nella forma ironica: «Pare che il mondo
intero s’attende da noi miglioramenti e riforme e una metà incomincia con le
parole: “Bisogna abolire…” mentre l’altra metà proclama: “Bisogna instaurare…”
Ho qui esortazioni che vanno da “basta con l’influsso di Roma” fino a “è giunta
l’ora dell’orticoltura!” Lei che cosa sceglierebbe?» Ma questo sabotaggio
ironico, questa partecipazione con riserva canzonatoria non significa affatto
che le convinzioni più serie di Ulrich siano a un livello di conoscenza delle
connessioni reali più elevato rispetto a quello di coloro che egli irride e sui
quali ironizza. Si scopre, infatti, che egli pensa e presenta con riserva
ironica anche le sue convinzioni più serie e che ne fa continuamente scherno. E
tuttavia questo scherno è amaramente impotente. Musil, infatti, da vero
artista, una volta voluto e creato un personaggio, fa venir fuori tutto ciò che
vi sta dentro e solo questo ed è costretto a dare una certa direzione alla
linea di sviluppo del pensiero del suo eroe, nonostante la continua autoironia
e la riserva ironica. E questa direzione è molto significativa non solo per il
personaggio, ma anche per lo stesso Musil, in quanto in esso si esprimono
chiaramente i limiti del suo pensiero, il restare all’interno dell’orizzonte
del mondo che irride.
In un’importante conversazione privata fra i massimi
rappresentanti dell’Azione, Ulrich avanza la seguente proposta: «…porre mano a
un inventario generale dello spirito! Dobbiamo fare suppergiù quello che
sarebbe necessario se il 1918 fosse l’anno del Giudizio Universale e bisognasse
farla finita con lo spirito antico e dare vita a uno spirito più alto.
Istituisca in nome di Sua Maestà un segretariato terreno dell’esattezza e
dell’anima; tutti gli altri problemi prima di questo sono insolubili o sono
soltanto problemi apparenti!» E più avanti, in uno dei «dialoghi sacri» con sua
sorella, l’unica persona che egli ami e prenda sul serio, spiega questa
proposta nei termini seguenti: «che cosa si dovrebbe fare? Una volta, in casa
di nostra cugina, io suggerii al conte Leinsdorf di istituire un Segretariato
mondiale dell’esattezza e dell’anima affinché anche coloro che non vanno in
chiesa sappiano che cosa devono fare. Naturalmente lo dissi soltanto per
scherzo, perché già da gran tempo abbiamo creato la scienza per il bisogno di
verità, ma se si volesse pretendere qualcosa di simile per quel che rimane
scoperto, bisognerebbe oggi quasi vergognarsi di una pazzia. Eppure tutto ciò
che noi due abbiamo detto finora, ci condurrebbe a quel Segretariato!» In una
successiva conversazione fra le stesse personalità dell’Azione, egli ritorna
ancora su questa proposta: «Lei nota, dice al suo conte, che il mondo non
ricorda oggi quello che voleva ieri, che le sue disposizioni d’animo cambiano
senza un motivo convincente, che è in perpetua agitazione, che non giunge mai a
un risultato; e che se ci si figurasse raccolto in un solo cervello quel che
accade nei cervelli degli uomini, ne risulterebbe innegabilmente una serie di
manifestazioni deteriori che si potrebbero definire di imbecillità».
Vediamo dunque che si tratta del percorrere in automobile la
strada santa. Ulrich ironizza continuamente sulla morale odierna in favore di
una morale più elevata, di una «fantastica esattezza». Ciò che vi contrappone
è, però, semplicemente questa «esattezza fantastica». Musil dice delle sue
intenzioni: «La morale per lui non era né costrizione né saggezza, bensì
l’infinito complesso delle possibilità di vivere. Egli credeva a un potere
d’accrescimento della morale… Egli credeva nella morale senza credere in una
morale definita. Di solito s’intende per essa una specie di regolamento di
polizia che serve a mantenersi in ordine la vita; e poiché la vita non
obbedisce neppure a tali regole, esse appaiono quasi impossibili a seguirsi, e,
pur in questo modo meschino, acquistano l’apparenza di un ideale. Ma non è lecito
mettere la morale su questo piano. La morale è fantasia… E in secondo luogo: la
fantasia non è arbitrio. Se abbandonata all’arbitrio, la fantasia si vendica».
Ulrich vuole dunque porre ordine nella confusione ideologica del periodo di
decadenza del capitalismo mediante questo «segretariato terreno dell’esattezza
e dell’anima», attraverso la morale, e questa sua intuizione non è solo una sua
convinzione profonda e onesta, ma anche – nonostante tutta l’autoironia –
quella del suo autore.
Dove porta questa strada? Abbiamo visto che Musil incalza la
confusa stupidaggine delle ideologie intellettuali borghesi con l’ironia più
amara. E, in particolare, un nemico dichiarato del disprezzo dell’intelletto e
dell’esattezza, della dissoluzione dei sentimenti, dell’irrazionalismo mistico,
della canonizzazione della razza, in una parola di tutte quelle correnti
ideologiche che più tardi sono confluite nel fascismo. A giudicare dalle sue
intenzioni, egli è dunque tutto tranne che un reazionario o un oscurantista. E,
in quanto intellettuale di livello culturale superiore, egli disprezza
altrettanto gli insignificanti residui dell’ideologia liberal-borghese. Ma,
poiché egli cerca la sua strada in questo groviglio e ha come bussola solo la
sua «fantastica esattezza», deve necessariamente approdare nelle vicinanze del
misticismo religioso. Che poi questo misticismo sia ateo non cambia nulla nella
realtà dei fatti. Abbiamo già sentito che il famoso segretariato terreno ha il
compito di sostituire, per gli uomini divenuti irreligiosi, i comandamenti
della chiesa, la soggezione dei loro atti a quest’ultima. L’aristocratico
conservatore e religioso di cui è segretario non si lascia ingannare dai
paradossi ironici di Ulrich. E con la perfetta coscienza di classe di un
convinto reazionario gli dice: «Del resto ho sempre saputo che lei, in fondo in
fondo, non è affatto un cattivo cattolico!» E Ulrich ribatte: «Pessimo! Io non
credo che Dio sia venuto, bensì che debba ancora venire. Ma solo se gli si
renderà il cammino più breve di quanto sia stato finora!». E in una
conversazione con sua sorella egli fa la seguente confessione: «Mi hai chiesto
che cosa credo. Credo che anche se mi si dimostra mille volte che, per i motivi
in vigore, una cosa è buona oppure è bella, io sono e rimango indifferente, e
l’unico segno sul quale regolerò il mio giudizio è: se la sua presenza mi
abbassa o mi innalza… Ma anch’io non posso dimostrare nulla. E anzi sono
convinto che un uomo che cede a questo, è perduto. Si smarrisce nel crepuscolo.
Nella nebbia e nella puerilità. In una noia indistinta. Se tu togli dalla
nostra vita l’univoco, non resta che uno stagno di carpe senza carpione… Dunque
io non credo! Non credo, prima di tutto, all’inibizione del male mediante il
bene, che rappresenta il miscuglio della nostra civiltà e mi fa schifo! Dunque
io credo e non credo! Ma forse credo che fra un po’ di tempo gli uomini saranno
parte molto intelligenti e parte dei mistici. Forse avverrà che anche ai nostri
giorni la morale si divida in queste due componenti. Potrei anche dire: in
matematica e mistica. In miglioramento pratico e avventura ignota!».
Dove porta allora questa strada? Abbiamo visto che essa
ideologicamente porta a una relazione ironica, da buon vicinato, con la
reazione colta, spiritualmente altolocata. I reazionari intelligenti capiscono
molto bene che la nuance matematica dell’ateismo religioso di
Musil, della creazione di Dio come massima occupazione per gli intellettuali è
un ottimo apparecchio di sicurezza per il sistema esistente. Nonostante tutti i
suoi paradossi ironici, questo Ulrich (e il suo autore) resta un supporto della
società. Il ruolo conservatore del suo iperradicalismo intellettuale viene alla
luce con chiarezza ancora maggiore se diamo un breve sguardo anche al suo modo
di agire. Abbiamo già visto il suo ruolo di segretario dell’«Azione
patriottica». Contemporaneamente, egli ha delle banali avventure con donne,
movimentate solo da ironiche osservazioni. Il disprezzo per la morale vigente
lo induce a protestare un paio di volte.
Il disprezzo per la morale gli rende talvolta attraente il
delitto e colui che lo commette. Gli viene così l’idea di salvare l’omicida di
una prostituta condannato a morte. Ma anche questa azione, la cui insensatezza
non ha bisogno di commento, si dissolve nell’ironico e diventa per lui persino
scomoda e spiacevole, quando viene spinta oltre il dovuto da un’isterica
ammiratrice. Allo stesso modo, insieme con la sorella egli si trastulla con
l’idea della vendetta contro l’odiato e filisteo cognato. Quando però sua
sorella prende sul serio la vendetta e falsifica il testamento del padre in
maniera che il cognato venga estromesso, anche questa azione nella sua mente si
dissolve in riflessioni ironiche e autoironiche.
Dunque, non accade nulla. Nemmeno nell’ambito ristretto
della vita privata. Quando uno stupido amico di gioventù in una conversazione
gli rimprovera che tutta la sua filosofia sfocia in pratica in quella del
«tirare a campare» della vecchia Austria, va molto vicino alla verità. Il
misticismo scettico di Ulrich (e di Musil) conduce persino a una sanzione
teorica del non fare nulla. Il suo radicalismo intellettuale si concentra
spesso nella formula della «abolizione della realtà», cioè sull’esigenza di
forgiare e vivere la realtà come fa la poesia; in altre parole, sul principio
della rigida e inconciliabile contrapposizione fra interpretazione e
trasformazione della realtà, in un rifiuto radicale del tentativo di
trasformazione come un’attività vuota e solo apparentemente importante. (Negli
esempi pratici del mondo che egli fa vi è naturalmente il giudizio di Musil).
L’iperradicalismo di Ulrich opera nella maniera più peculiare e significativa
proprio in questo rifiuto di qualsiasi prassi. Non solo nella disgregazione e
dissoluzione ironiche della vuota attività degli uomini, dell’insensatezza del
loro fare e del loro impulso, ma anche in linea di principio. «Perché una
persona buona, dice Ulrich, non migliora affatto il mondo, né influisce in
alcun modo su di esso; se ne allontana soltanto!». E dopo una lunga
conversazione ironico-mistica con sua sorella sul «Regno millenario», fra i due
si svolge il seguente dialogo: «Viviamo in un tempo in cui la morale è in crisi
o in dissoluzione. Ma dobbiamo mantenerci puri, in vista di un mondo che può
ancora venire! — Credi che questo influisca sul suo avvento o non avvento?,
interrogò Agathe. — No, non lo credo purtroppo. Tutt’al più credo questo: se
gli uomini che vedono e intendono non agiscono rettamente, quel mondo non verrà
certo e la decadenza non si potrà arginare! — Che cosa t’importa se fra
cinquecento anni le cose saranno cambiate o no? — Ulrich esitò. “Io faccio il
mio dovere, capisci? Come un soldato, direi”».
Dove porta dunque questa strada? La risposta non è tanto
difficile, crediamo: diritti in una bella camera del Grand Hotel «Abisso».
L’intero dispiegamento di energia intellettuale, morale e poetica di Musil in
questo romanzo – che rappresenta la sintesi degli sforzi ideali e letterari di
tutta la sua vita – serve semplicemente a mantenere gli intellettuali,
disperati per la crisi culturale e all’inizio della loro dissoluzione da parte
della cultura capitalistica, in una disperazione narcisistica e autocompiaciuta,
a insegnar loro a stabilirsi sull’orlo dell’abisso e a guardare dall’alto i
compagni di classe che non sono capaci di innalzarsi all’altezza di questo
pessimismo ironico-quietistico, che non si accontentano di contribuire col loro
«restar puri» all’avvento del «Regno millenario», al quale neppure loro
credono.
E' un destino tragicomico di Musil che egli, che odia tanto
la dissolutezza dei sentimenti dell’intellighenzia disgregata, che
durante tutta la sua attività di scrittore si è rifiutato tenacemente di
offrire passatempi intellettuali a degli sfaccendati, offra invece
oggettivamente nient’altro che divertimento a dei parassiti. Egli considera la
danza macabra delle ideologie moderne da lui rappresentata in un modo
amaramente serio e amaramente tragico. Non costituisce un suo difetto personale
il fatto che ciò che egli ha descritto come una grande «tragedia comica» del
presente sia oggettivamente diventata una Jazz-Band intellettuale del Grand
Hotel «Abisso». Infatti, all’interno dei limiti invisibili del suo modo di
porre i problemi, Musil sta al livello più alto che sia possibile raggiungere
alla sua classe, sia per la capacità artistica e intellettuale di dominare la
materia che per l’onestà e sincerità delle sue convinzioni personali. Il carattere
relativamente così elevato della sua produzione fa della sua opera un esempio
interessante della situazione spirituale di una determinata parte dell’élite dell’intellighenzia tedesca.
E d’altro canto, proprio questa elevatezza della sua opera dà la misura della
profondità della crisi culturale della borghesia odierna, della profondità del
livello che ha raggiunto il generale processo di decadenza della sua classe.
Non è pertanto difficile mostrare questo processo di decadenza nella produzione
media degli scrittori contemporanei; esso è molto evidente. Ma qui, dove tutti
i dettagli sono realmente elaborati sia sul piano intellettuale che su quello
artistico, emerge con chiarezza impressionante a che cosa ha già condotto tale
processo di decadenza. Non parliamo della disperazione, né
dell’autodissoluzione delle ideologie. La letteratura borghese già da tempo ha
prodotto opere la cui tendenza fondamentale è stata la distruzione di tutti i
possibili punti di vista e le prese di posizione della classe dominante. Bouvard
et Pécuchet e La tentation de Saint Antoine di
Flaubert, Wildente di Ibsen valgano qui da esempi
particolarmente pregnanti di tali tendenze alla disperazione. Ma Flaubert e
Ibsen erano realmente e sinceramente in una situazione di disperazione verso la
loro classe, hanno realmente e sinceramente odiato la loro classe e la sua
ideologia, hanno realmente e sinceramente cercato una via d’uscita da essa; la
loro disperazione è dunque profonda e commovente poiché sta alla fine di uno
sforzo disperato quanto vano di staccarsi dalla classe odiata e di elevarsi al
di sopra del suo orizzonte. La tendenza parassitaria, che – come ha dimostrato
Lenin – è la tendenza fondamentale generale dell’epoca imperialistica, nel
nostro caso consiste nel fatto che da un lato la dissoluzione oggettiva
dell’ideologia della classe è divenuta molto più violenta, per cui per ogni
possibilità oggettiva ne è stata data una maggiore di superare i limiti
ristretti dell’orizzonte borghese. Ma, dall’altro lato, il parassitismo si manifesta
proprio nel fatto che l’autocritica della dissoluzione, la non credenza
nell’ideologia della propria classe, il rifiuto e il disprezzo delle sue forme
sociali perdono in veemenza e pathos, nel fatto che tale tendenza si adegua con
compiaciuta ironia al sistema che disprezza ed escogita un’ideologia che
consenta loro, nonostante tutto il disprezzo per la propria classe, la pacifica
tolleranza del permanere del suo dominio e del disfacimento che esso comporta.
Ci si salva la coscienza intellettuale e morale con una critica ironica
radicale, ma ci si arresta a questa ironia. Nei primi anni del dopoguerra
Thomas Mann ha scritto qualcosa di simile a un romanzo ideologico-parassitario,
sia pure non del livello intellettuale di quello di Musil, La montagna
incantata. Anche qui le varie ideologie borghesi si dissolvono
reciprocamente in un nulla. Ma Thomas Mann è ancora un ideologo consapevole
della borghesia: alla generale e totale dissoluzione intellettuale egli
contrappone il semplice e laconico «comportamento» di un semplice cittadino e
fa guarire moralmente i suoi personaggi, distrutti in interminabili e sterili
discussioni, nei «bagni ferruginosi» della guerra mondiale. In Musil il
processo di dissoluzione si trova a uno stadio molto più avanzato. Davanti ai
suoi occhi non vi è più niente di borghese che abbia un valore positivo, ma
proprio da questa disperazione generale egli trae i suoi argomenti
scettico-mistici sull’esistente tanto disprezzato. Per il mondo borghese che
egli vede, e il modo in cui lo vede, esiste ancora solo il problema: con quale
ideologia critica o ribelle ci si adatta praticamente all’esistente; e dunque
solo il dilemma se questo adattamento debba avvenire nella forma filistea o
patologica, in quale mistura di autoinganno consapevole o inconsapevole.
L’onestà personale e di scrittore di Musil è fuori discussione, la sua opera
non è però altro che una sofistica dominata con strumenti notevoli: «Di tutto
ciò che diciamo in genere non va bene niente».
1 Chiara ondeggiata la sala per
il gioco delle bambole di seta/Però una nasconde la sua febbre sotto la
farina/E ha visto circondata dai gruppi scatenati/che non mancava più tanto
alle Ceneri./Lei esce di soppiatto verso lo spoglio parco, verso la
piatta/Riva; fa ancora brevi cenni con la mano verso la festa in maschera/E si
inchina infreddolita sul ghiaccio, uno scricchiolio/La raffredda muta, lontano
il richiamo alla danza. Nessuno dei cortesi cavalieri o delle dame/La scorgeva
coperta dalle alghe e alla ghiaia/Però quando in primavera si dirigevano verso
il giardino/si alzava spesso dallo stagno un cupo mormorio. La leggera schiera
del secolo scherzoso/Ben percepiva laggiù questo strano bisbigliare/Solo non se
ne meravigliava/Lo considerava semplicemente un rumore delle onde. (Stefan
George, La maschera).
2 In italiano nel testo.
3 K. Marx, F. Engels, Opere,
cit., V, p. 16.
4 Lenin, La questione
della dialettica, XIII, p. 376 [Cfr. Lenin, Quaderni filosofici,
a cura di I. Ambrogio, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 363].
5 Lenin a Gorki, 14 novembre
1913.
6 I primi due volumi del romanzo
sono apparsi nel 1930 e nel 1933 presso l’editore Rohwolt di Berlino [Le
citazioni nel testo sono tratte dalla traduzione it. di Anita Rho, L’uomo
senza qualità, Einaudi, Torino 1962].
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