martedì 3 settembre 2019

"MA IL SUO LAVORO È VIVO" - Intervista su Marx a Riccardo Bellofiore

Da: http://www.palermo-grad.com - riccardo.bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. 


Questa intervista che ora pubblica PalermoGrad ha una breve storia che va raccontata per comprenderne la genesi. Alla fine degli anni Novanta la RAI intendeva preparare un ciclo di trasmissioni sulle grandi figure del pensiero economico. Cristina Marcuzzo sfruttava le occasioni convegnistiche per poter intervistare vari economisti, italiani e stranieri. Le interviste duravano poco meno di un’ora, se ricordo bene. Venni così intervistato a Firenze su Marx. Non avevano ancora deciso come costruire effettivamente il programma. La scelta finale, a mio parere felice, fu di mettere da parte le interviste. La trasmissione che andò in onda si chiamò infine La fabbrica degli spilli: un titolo evidentemente smithiano. Ad essere interrogato era il solo Alessandro Roncaglia che stava allora ultimando il suo La ricchezza delle idee per Laterza: lo interrogavano due giornalisti che si alternavano. Uno dei due, ricordo, era Roberto Tesi: più noto come Galapagos, del manifesto. In ogni trasmissione si aprivano due medaglioni con un breve estratto dalle interviste. Nella trasmissione su Marx i medaglioni erano costituiti da Ernesto Screpanti e dal sottoscritto: infelicemente, il lavaggio di capelli la mattina in albergo mi fece apparire con una capigliatura da fare invidia ad Angelo Branduardi o alla primissima Nicole Kidman. Ovviamente, mi preparai. Avevo delle scalette, ma dietro le scalette stavano delle domande (in numero di 10) che avevo buttato giù, corredate di risposte. C’era un ordine imposto dalla produzione, che però col loro consenso sovvertii. La prima domanda doveva essere sulla biografia, e così fu. La seconda sul metodo, e così non fu: sono fermamente convinto che il metodo dipenda dal contenuto dell’oggetto che si indaga, quindi collocai quella domanda verso la fine. Ritenni opportuno integrare con due domande di attualizzazione, in senso lato politiche. A quelle domande non detti risposta nella mia bozza. Ho dunque integrato, riprendendo delle frasi da scritti contemporanei. Ho apportato pochissimi mutamenti alla intervista buttata giù a mano nella mia grafia poco meno incomprensibile di quella di Marx. Per questo ringrazio con molto calore Vincenzo Marineo che è riuscito a decifrarla alla perfezione. Per chi volesse vedersela, la trasmissione su Marx è reperibile a questo link

Il sito www.conoscenza.rai.it dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche/Universo della conoscenza raccoglie molte, anche se non tutte, le trasmissione della Fabbrica degli spilli, che infliggo ancor oggi ai miei studenti, sotto la dizione ahimé scorretta “Storia dell’economia”. In questo caso il link diretto è questo.
rb


1 – Quali sono le tappe più significative della vita di Marx, e quali le sue opere principali?

Marx nasce a Treviri, il 5 maggio del 1818. Il padre, a cui Marx rimase molto legato, era di tendenze liberali, grande estimatore dell’Illuminismo francese. La famiglia era ebraica, benché il padre dovesse convertirsi al cristianesimo quando la Renania del Sud, occupata dalla Francia sotto Napoleone, passò nuovamente alla Prussia.
Marx ebbe una classica educazione umanistica a Treviri, studiò legge a Bonn (nel 1835) e poi a Berlino (nel 1837), dove però i suoi interessi si spostarono verso la storia e la filosofia. È in quegli anni che prende contatto con gli scritti di Hegel. La sua tesi (del 1841) ha ad oggetto il materialismo di Democrito ed Epicuro. Dopo la laurea, le speranze accademiche sfiorirono presto. I primi scritti sono caratterizzati da un radicalismo democratico e dalla lotta contro lo Stato assolutista. Marx vive allora tra Bonn e Colonia. Nel 1843 si sposa con Jenny von Westphalen. Nello stesso anno Marx è costretto ad abbandonare la direzione della Gazzetta Renana, per le pressioni della censura, e coglie l’occasione per mettere in piedi gli Annali franco-tedeschi e trasferirsi nel ’43 a Parigi. Qui matura il suo passaggio al comunismo rivoluzionario. 
Da qualche tempo aveva iniziato a studiare la letteratura socialista francese, in particolare Saint Simon, Fourier e Proudhon, come anche la Rivoluzione francese. Nello stesso periodo, si imbarca in una serrata critica della filosofia del diritto e dello Stato di Hegel, come anche del suo idealismo. Tanto l’attività giornalistica quanto la critica filosofica lo spingono a interessarsi in modo sistematico di economia politica. Sono del 1844 una serie importante di Manoscritti economico-filosofici che vennero pubblicati postumi negli anni Trenta del Novecento, in Unione Sovietica. Vale la pena, peraltro, di sottolineare che Marx è in questo, per così dire, alla rincorsa dell’amico Friedrich Engels, che è in quel periodo conoscitore più fino della letteratura economica di quanto non lo fosse lo stesso Marx. Un altro inedito importante di questi anni sono le Tesi su Feuerbach, che contengono la famosa frase secondo cui i filosofi sinora hanno interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo.

L’amicizia con Engels, per la verità, data dall’agosto del 1844, e ad essa seguì una fruttuosa collaborazione. Negli anni Quaranta i due scrivono insieme La sacra famiglia (pubblicato nel 1845) e l’Ideologia tedesca (abbandonato, nel 1846, alla “critica roditrice dei topi”, e anch’esso pubblicato postumo, in URSS, nel 1932). Nel frattempo, nel febbraio del 1845, Marx era stato espulso dalla Francia, su pressione del governo prussiano, ed era riparato a Bruxelles. Sempre a Bruxelles, nel 1847, contemporaneamente alla costituzione di un comitato comunista, Marx pubblica un violento attacco a Proudhon, che certo non gli facilita i rapporti con il socialismo francese dell’epoca. Più facili i rapporti con l’emigrazione ‘comunista’ a Londra, dove fonda la Lega dei Comunisti. Per questa associazione Marx svolge delle lezioni su Lavoro salariato e capitale, pubblicate nel 1848, lo stesso anno del Manifesto del Partito comunista, redatto assieme ad Engels.

Il 1848, si sa, è l’anno della rivoluzione in Europa. Marx viene espulso dal Belgio ma, per sua fortuna, riammesso in Francia. Soggiorna a Parigi, nel marzo, e torna in Germania in aprile, con Engels. Ma tra il maggio e il giugno del 1849 viene prima espulso dalla Germania, poi bandito da Parigi. Finisce con il trasferirsi a Londra, dove rimarrà sino alla morte.
Marx si dedica dapprima alla riflessione sulla sconfitta del movimento rivoluzionario, in articoli poi raccolti (1850) in volume con il titolo Lotte di classe in Francia 1848-1850 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852). Marx si è reso conto che le rivoluzioni del 1848-49 segnavano le doglie del parto di una società borghese, non la sua crisi finale; e che la classe operaia andava incontro a una lunga fase di formazione sociale, che avrebbe imposto ai comunisti un paziente lavoro di organizzazione politica e approfondimento teorico. Gli anni ’50 e ’60 sono dedicati principalmente alla ricerca teorica, nel mezzo di una condizione personale di grande povertà a cui fa fronte con lavori di ogni genere: l’aiuto principale gli viene da Engels. Di particolare rilievo, però, gli articoli per la New York Daily Tribune. Il primo frutto maturo sono nel 1857-58 i Grundrisse, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, appunti scritti nella sua grafia pressoché incomprensibile, che di nuovo vedranno la luce quasi un secolo dopo. Marx si decide a buttar giù il primo abbozzo di sistema, a partire dagli studi di economia politica ripresi alla British Library dal 1850, in coincidenza con quella che è forse la prima grande crisi del capitalismo, che egli ritiene allora possa condurre ad un crollo.

Ai Grundrisse segue immediatamente la stampa, nel 1859, di Per la critica dell’economia politica, dedicato all’analisi di merce e denaro. Tra i primi anni ’60 e il 1867 Marx approfondisce il confronto con l’economia politica classica: in questi anni redige i Manoscritti economici 1861-63 e butta giù il manoscritto pressoché completo del Capitale (di questo ci restano solo i Risultati del processo immediato di produzione, detto anche il Capitolo sesto inedito). Egli stesso curerà la pubblicazione del primo libro nel 1867, della sua seconda edizione nel 1873, e dell’edizione francese tra il 1872 e il 1875. Engels appronterà la terza (1883) e quarta (1890) edizione, poi darà ordine ai manoscritti inediti di Marx pubblicando il libro secondo (1885) e terzo (1894). I manoscritti originali vedranno la luce molto più tardi. Le Teorie sul plusvalore edite da Kautsky nel primo decennio del Novecento e, in una seconda versione, dall’Istituto Marx-Engels negli anni ’50, erano solo una parte dei Manoscritti 1861-63. I Manoscritti economico-filosofici furono pubblicati in URSS negli anni ’30, come il Capitolo sesto inedito e i Grundrisse. La diffusione in Occidente fu successiva: i manoscritti parigini furono i primi a influenzare la ricezione di Marx, negli anni ’40 e ’50; i Grundrisse e il Capitolo sesto inedito divennero importanti dalla fine degli anni Sessanta. I Manoscritti del 1861-63 vennero tradotti (parzialmente in italiano, integralmente in inglese) negli anni ’70 e ’80I manoscritti del secondo e terzo libro del Capitale hanno dovuto attendere sino a pochi anni fa per essere pubblicati nell’originale tedesco all’interno della MEGA2, e sono inediti in italiano. In larga misura, solo ora che l’edizione storico-critica integrale dei lavori di Marx è ultimata per la seconda sezione ‘economica’, e in via di conclusione per le altre sezioni, possiamo accedere senza mediazioni al pensiero di Marx.

Negli anni ’60 Marx torna all’attività politica diretta, con la Prima Internazionale, di cui redige lo Statuto e per cui pronuncia l’indirizzo inaugurale nel 1864. Del 1865 è la conferenza Salario, prezzo e profitto. Seguono gli interventi sulla Comune. Gli ultimi anni sono anni di di malattia e di minore produzione teorica, anche se non mancano scritti brevi ma notevoli, come le Glosse marginali al manuale di economia politica di Arthur Wagner e la Critica al programma di Gotha del partito socialdemocratico tedesco.

2 – La categoria forse più nota di Marx è quella di lavoro “alienato”. Cosa intende Marx per alienazione del lavoro?

Il punto di partenza più utile, credo, è costituito dai Manoscritti economico-filosofici del 1844. In quelle pagine Marx ragiona a partire da un discorso su ciò che costituisce l’essenza dell’essere umano, e la realizzazione più o meno piena di questa essenza costituisce il criterio metastorico a partire dal quale si esprime un giudizio sul sistema sociale concreto che si ha di fronte, sulla storia che lo precede, e sulla società futura.
La natura, o essenza, dell’essere umano è per il Marx dei Manoscritti il lavoro. Nel lavoro l’essere umano per un verso si adegua all’oggettività esterna, per l’altro le dà forma a partire da un progetto, un disegno. L’essere umano si naturalizza, la natura si umanizza. L’essere umano è quindi un ente naturale e generico: naturale, in quanto fa parte della natura, e la sua azione non cancella mai la distinzione tra soggetto e oggetto, che per quanto appropriata da lui rimane sempre esterna (qui Marx si rifà a Kant); generico, in quanto la prassi umana è possibilità di ogni determinazione, e all’interno di questo vincolo per così dire ‘materiale’ esiste una sorta di causazione ideale, per cui l’essere umano si oggettiva e si rispecchia nel mondo stesso.

Per il Marx dei Manoscritti questa essenza umana viene negata, o rovesciata, nel capitalismo, e in questo rovesciamento consiste l’alienazione del lavoro. L’essere umano è dunque parte della natura e capace di universalità. Del lavoro alienato Marx dà in questi quaderni quattro determinazioni, l’una conseguenza della precedente.
Secondo la prima determinazione, il lavoratore è separato dai mezzi di produzione, e quindi dalla possibilità di riprodurre i propri mezzi di sussistenza. Il lavoratore ha un rapporto di estraneità con il prodotto del proprio lavoro, che gli appare una “potenza indipendente” nelle mani del capitalista. Di qui consegue, evidentemente, che al lavoratore diviene estraneo lo stesso lavoro in quanto atto di produzione. L’individuo si separa dalla propria stessa attività: è questa la seconda determinazione, per la quale il lavoro non soddisfa più un bisogno proprio e autentico dell’essere umano in quanto tale – l’ultimo Marx lo definirà addirittura il primo bisogno – ma è soltanto il mezzo per soddisfare bisogni animaleschi e indotti. Di qui, tenendo presente che l’essenza dell’essere umano è l’essere “ente naturale e generico”, la terza determinazione, quella per cui nel lavoro alienato l’individuo viene separato dalla sua stessa specie, perché la sua potenziale universalità viene, se si vuole, cancellata: l’essere umano diviene uno specialista, e si rinchiude in questa particolarità. L’essenza diviene mezzo all’esistenza. In quanto separato dalla specie, l’individuo vive un rapporto di estraneità con gli altri esseri umani, ed è questa la quarta e ultima determinazione dell’essere umano.

Non toccherò qui la questione se, in questa fase, Marx veda il lavoro alienato come determinazione esclusiva del capitalismo, o piuttosto come qualcosa che affonda le sue radici nel lavoro pre-capitalistico (schiavista e feudale). Mi preoccupa piuttosto insistere sulla circostanza che il Marx successivo, il Marx maturo, non abbandonerà mai questa tematica, ma al tempo stesso la ridefinirà radicalmente.
Soltanto due esempi. Nei Grundrisse, in una parte molto famosa dedicata alle cosiddette “forme precapitalistiche di produzione”, Marx chiarisce che esiste nella storia una frattura radicale tra rapporti sociali pre-borghesi e rapporti sociali nel capitalismo. Nei primi l’essere umano è legato in un rapporto particolare alla natura (alla terra), e quindi per forza di cose le sue relazioni con gli altri sono limitate. Nel secondo il rapporto di appartenenza dell’individuo alla natura (alla terra) viene rotto e, per lo meno in potenza, egli è ora in grado nelle fabbriche capitalistiche di produrre valori d’uso qualsiasi e di avere rapporti onnilaterali. Per questo, scrive Marx, le forme sociali pre-capitalistiche sono forme naturali mentre il capitalismo è la prima forma autentica di società. D’altra parte, questa possibilità reale di un legame sociale universale viene compressa, negata, nel capitalismo, perché dentro la produzione il lavoratore è mutilato dalla frantumazione del lavoro, le imprese non procedono secondo un piano ma in lotta di concorrenza. Più in generale, la società si impone agli esseri umani come una seconda natura (si pensi a quanto oggi si parla di volontà dei “mercati”).

Ne possiamo concludere che per il Marx dei Grundrisse la natura dell’essere umano è costituita dal suo essere ente naturale generico, ma che la natura di ente naturale generico è storicamente determinata, più precisamente è concepibile solo con il capitalismo. Il lavoro alienato è non il capovolgimento di una essenza del genere (Gattungwesen) originaria e metastorica, il lavoro alienato è ora solo il lavoro capitalistico. Di più, quella natura può realizzarsi per la prima volta in senso pieno soltanto nel comunismo. Questo Marx non giudica, da materialista, il capitalismo dall’esterno: non è un punto di vista trascendentale. Ne vuole offrire una critica immanente, dall’interno, che ne mostri il ruolo storico e le contraddizioni. Non ho il tempo qui di procedere al passo successivo: segnalo soltanto che il tema ricompare nell’analisi delle fabbriche, all’altezza della sussunzione reale del lavoro al capitale, nel libro I del Capitale: ma si incarna nelle possibilità che sono al tempo stesso aperte e negate al “lavoro immediatamente socializzato”, al lavoratore collettivo.
Questa categoria di lavoro alienato, così drasticamente riformulata, finisce con il confluire in quella di lavoro astratto, che il Marx maturo pone al centro della sua teoria del valore.

3 - Qual è il rapporto tra questo discorso marxiano sull’estraneazione del lavoro – che, come tu dici, sia pure in forme mutate, attraversa tutta la riflessione di questo autore – e il tema del “feticismo” delle merci, che sta al centro della riflessione del Marx maturo e della sua teoria del valore?

Per rispondere alla tua domanda, è bene incominciare chiedendosi proprio cosa sia questo lavoro astratto di cui parla Marx in Per la critica dell’economia politica e nel Capitale. Il marxismo tradizionale (Sweezy, Dobb) ha letto questa categoria come se Marx volesse dire semplicemente che lo scienziato sociale, quando studia i diversi modi di produzione, deve astrarre dalle determinazioni particolari che differenziano un lavoro dall’altro. Il lavoro astratto sarebbe il lavoro “in generale”, una generalizzazione mentale. Questa generalizzazione mentale consentirebbe di costruire modelli che descrivono il funzionamento di una società ideale di scambio generalizzato, o anche del capitalismo ma sotto particolari ipotesi (in particolare, la identità delle composizioni di capitale). Avremmo a che fare con una prima approssimazione, che funziona poi da base delle approssimazioni successive.  In qualche modo, si aggiunge, questa astrazione diviene “reale” nel capitalismo se si tiene conto della sempre più accentuata mobilità del lavoro.
Più recentemente l’astrazione del lavoro è stata intesa come legata ad un (supposto) inevitabile e lineare processo di dequalificazione del lavoro che, si dice, caratterizzerebbe i processi di lavoro capitalistici. Il lavoro astratto sarebbe il lavoro ormai concretamente privo di ogni ‘qualità’.

A me sembra che Marx ragioni in modo molto diverso. Si apra il Capitale e si verificherà che esso inizia con una doppia affermazione. Marx ci dice questo: l’analisi che svolgo riguarda una società che – come quella che vediamo costituirsi davanti ai nostri occhi – è una società di scambio universale di merci (“un enorme ammasso di merci”). I produttori privati ove si eroga lavoro immediatamente privato, e che sono in lotta di concorrenza, sono imprese capitalistiche la cui produzione è destinata al mercato, ove esse intendono guadagnare un profitto. Queste imprese organizzano in ognuna di esse “lavoratori collettivi”, secondo una certa divisione interna del lavoro: questa organizzazione è soggetta a un “piano” deciso dall’imprenditore o dal manager. Nella produzione questo “lavoro collettivo” paradossalmente è tanto lavoro immediatamente socializzato quanto lavoro non immediatamente sociale. Si tratta di lavori “privati” – così li chiama Marx – che devono divenire sociali nella circolazione di merci, dopo la produzione.

L’attività umana, dunque, si vede attribuito il carattere di una socialità ex post attraverso una “mediazione”; questa mediazione è lo scambio dei prodotti sul mercato, prodotti che per questo sono merci. Sul mercato sono insomma le “cose” che, all’apparenza, intrattengono un rapporto sociale, non gli esseri umani, che invece sono legati da una mutua dipendenza materiale. E le cose, in un certo senso, stanno proprio così: questa apparenza non è una semplice “parvenza”, una illusione, è la manifestazione fenomenica adeguata al capitale nella sfera circolatoria. Il legame che costituisce la società tra gli individui – un nesso materiale, come ho detto – si è reso indipendente dagli individui e li domina dall’esterno. È questo il carattere di feticcio della merce (Marx dirà una cosa analoga per il denaro e il capitale): le proprietà sociali delle “cose” (di merce, denaro, capitale) sono reali. Il feticismo è attribuire queste proprietà sociali alle “cose” non per come si presentano nella condizione sociale storicamente determinata che si ha di fronte, nel capitalismo, ma alle “cose” in quanto oggetti naturali. Feticismo è la naturalizzazione di quella che Marx, seguendo Hegel, chiama “determinazione di forma”; potremmo dire, in linguaggio althusseriano, è la naturalizzazione della struttura sociale. Feticismo dietro cui non è difficile intravedere l’idea che il lavoro capitalistico è il lavoro alienato.

Cosa c’entra in tutto questo il lavoro? Bene, una prima determinazione di questa categoria di “lavoro astratto” potrebbe essere messa in questi termini: nello scambio di merci si verifica un processo reale di astrazione, perché per essere scambiati i prodotti del lavoro umano devono essere eguagliati. Per far ciò, occorre fare astrazione appunto da ciò che li differenzia come valore d’uso, in quanto oggetti concreti. Questa astrazione da ciò che differenzia un prodotto da un altro significa anche, simultaneamente, astrarre da ciò che differenzia un lavoro da un altro. Astraendo da ciò che differenzia un lavoro da un altro si cancellerebbe anche la differenza di un lavoratore dall’altro: il lavoro astratto, di nuovo, è il lavoro alienato. La merce è quindi due cose: un oggetto determinato che soddisfa bisogni (un valore d’uso, appunto); ma anche un “valore” che si presenta nel valore di scambio, un prodotto che in quanto ottiene denaro sul mercato dimostra di possedere una “scambiabilità” universale nel mondo delle merci e si trasforma in un potere d’acquisto generale, in denaro.

Dovrebbe essere ovvio che questo tipo di astrazione reale non ha nulla a che fare con una supposta assenza di qualità dei lavori effettivamente erogati. I lavori concreti sono diversi esattamente come prima, ma nell’attività umana la prestazione lavorativa si sdoppia: essa produce, in quanto lavoro concreto, valori d’uso determinati, specifici; ma in quanto lavoro astratto produce il denaro, cioè una ricchezza generica, astratta.
Qui emerge un punto delicato, che sorregge l’intera argomentazione marxiana. Nel Capitale questo processo di astrazione nello scambio appare sotto le vesti di ciò che i filosofi chiamano ipostatizzazione reale. Il termine spaventa un po’, ma può essere chiarito in un attimo. Secondo Marx, lo abbiamo visto, il lavoro è una proprietà dell’individuo concreto. L’individuo, l’essere umano in carne e ossa, è il soggetto, il lavoro è il predicato. Con lo scambio universale di merci, nel capitalismo, la situazione si inverte. Ciò che conta è il lavoro astratto: il produttore singolo conta solo in quanto eroga lavoro che produce denaro. Il vero soggetto è il valore, quindi è il lavoro eguale, omogeneo, commensurabile che è contenuto nelle merci e poi si rende attuale nel denaro. Gli esseri umani sono ridotti a predicato, a appendice di quel soggetto astratto. C’è una inversione di soggetto e predicato.

Il punto delicato è questo. Questa inversione è anche una separazione. Nel capitalismo il lavoro, dopo la sua prestazione, il lavoro “morto” come lo chiama Marx, si cristallizza nella merce come (fantasma del) valore, e poi come denaro (prima idealmente, poi realmente: è una crisalide), e sta, per così dire, per conto suo. Si isola dagli esseri umani che gli hanno dato vita – questa è, in fondo, la ipostatizzazione che comanda quegli esseri umani quasi fosse un meccanismo non solo oggettivo ma naturale. È quella “reificazione” nel carattere di feticcio che produce il feticismo, di cui ho parlato. Ora, quel meccanismo (come la socialità di cui è portatore) è certamente “oggettivo”, dunque reale. Non è però naturale. È il risultato di un certo modo di organizzare la società. La società può assumere un’altra forma.

Prima di andare avanti, vorrei sottolineare un aspetto. Può sembrare che questo sia un discorso solo filosofico, cioè qualitativo, che non ha molto a che vedere con l’economia, che è un discorso inevitabilmente quantitativo. Le cose non stanno così, almeno per Marx. Il ragionamento svolto ha un immediato prolungamento quantitativo. Il denaro in cui si rende attuale il valore della merce non espone, non esibisce, altro che una determinata quantità di lavoro. La sostanza delle merci che si scambiano, per Marx, non è altro che lavoro umano congelato. Questo, nel capitalismo come società di scambio di merci universale e monetario, è vero sempre. Quali che siano gli effettivi rapporti di scambio sul mercato, dietro il prezzo relativo tra due merci vi è sempre un rapporto tra le quantità di lavoro ‘contenuto’ (cioè socialmente necessario alla loro produzione), e quest’ultimo rapporto in ultima istanza regola il prezzo. Il valore di una merce è la somma del lavoro “morto” che sta dentro il denaro che ha acquistato i mezzi di produzione, più il lavoro “vivo”, cioè il fluido di lavoro che è stato prestato in questo periodo, e che si è oggettivato nel lavoro “diretto” speso nel periodo che consideriamo.

4 - Mi par di capire che, secondo te, la teoria del valore-lavoro non è innanzitutto una teoria dei prezzi relativi ma svolge altre funzioni in Marx. Vuoi chiarire meglio questo punto? In che modo vi sarebbe in Marx un collegamento prioritario della teoria del valore con la teoria del denaro e con la teoria dell’origine del sovrappiù capitalistico? E come va approfondita, in questo quadro, la categoria di lavoro “astratto” che hai appena introdotto?

Per rispondere, è bene insistere sul fatto che la società di scambio universale di merci da cui parte l’analisi di Marx nel Capitale è una società capitalistica. L’oggetto dell’analisi è dunque una società divisa in classi, nella quale i lavoratori sono separati da quelle che Marx chiama le condizioni oggettive della produzione, dai mezzi di produzione, che sono proprietà privata di una parte della società, i capitalisti. La classe proprietaria dei mezzi di produzione ha peraltro bisogno di acquisire la condizione soggettiva della produzione, deve cioè comprare sul mercato del lavoro la forza-lavoro, cioè la capacità dei lavoratori di prestare lavoro vivo.
Sono evidenti allora due cose. Primo, lo abbiamo visto in precedenza, il lavoro capitalistico produce innanzitutto denaro. Secondo, per essere messo in moto, il lavoratore deve divenire esso stesso merce, per lo meno in quel che riguarda la sua ‘capacità’ di lavorare, la sua forza-lavoro. L’acquisto di forza-lavoro sul cosiddetto mercato del lavoro si attiva attraverso l’erogazione di un salario monetario. Analogamente, i mezzi di produzione sono acquisiti attraverso l’erogazione di una somma monetaria.

Il processo capitalistico è allora un processo che va dal denaro al denaro. Dal denaro anticipato come capitale monetario sul mercato del lavoro alla ricchezza astratta realizzata in denaro sul mercato delle merci. Per Marx questo Kreislauf, “ciclo”, è un circuito monetario, che prende senso solo se la ricchezza astratta ottenuta alla fine è maggiore di quella che è stata anticipata all’inizio. Visto che dietro queste somme di denaro iniziale e finale vi sono quantità di lavoro, il di più di ricchezza astratta alla fine del circuito, il plusvalore o sovrappiù in forma capitalistica, non può che celare un pluslavoro erogato dai lavoratori, una quota di lavoro non pagato e ciò non di meno appropriato dai capitalisti. La fase della produzione che sta in mezzo tra il mercato del lavoro e il mercato delle merci è letteralmente al centro di questo percorso dal denaro va al (di più di) denaro. È ciò che avviene nei “laboratori segreti” della produzione che dà conto dell’origine del plusvalore, che si manifesta fenomenicamente nel profitto lordo che i capitalisti produttivi spartiranno con chi ha prestato loro il denaro (i capitalisti monetari) e con i percettori di rendita.

Vorrei mettere in evidenza un aspetto importante che qualifica la nozione di lavoro astratto. Questa sequenza monetaria che va dal denaro iniziale speso sul mercato del lavoro (oltre che per l’acquisto dei mezzi di produzione) al denaro finale incassato come profitto lordo dalle imprese, e che passa per la produzione immediata, può essere letta, ed è letta da Marx, attraverso la lente categoriale dell’astrazione del lavoro come processo di ipostatizzazione reale, di inversione di soggetto e predicato, insomma di dominio dell’astratto sul concreto. Il come è presto detto. Sul mercato del lavoro, il lavoratore concreto è appendice della “merce” che vende, la forza-lavoro. Questa merce, sottolinea Marx, è particolarissima, perché è inseparabile dal suo portatore, dall’‘operaio’. Ancora una volta: la capacità di lavorare non è più un attributo, un predicato del lavoratore; è semmai il lavoratore ad essere una determinazione particolare della forza-lavoro, della “cosa” venduta.
Incontriamo qui una seconda determinazione – seconda dal punto di vista della sequenza effettiva del processo capitalistico – dell’astrazione del lavoro: la forza-lavoro, che include in potenza il lavoro vivo che produrrà ricchezza astratta, domina l’essere umano che ne è il portatore. Si può metterla anche così. Come in ogni scambio, è l’acquirente a decidere che fare della merce acquistata. Ora, l’uso della merce acquistata non è altro che lo stesso lavoro in atto, nel processo di lavoro come processo capitalistico. Di conseguenza, il capitalista che acquista la forza lavoro dell’operaio ha il diritto di decidere – di organizzare – le modalità e le condizioni della prestazione lavorativa. Ma in questo modo il lavoratore viene reso subalterno nel momento essenziale della produzione, dove il capitale lo riduce a elemento passivo e non attivo.

Il risultato finale è, in Marx, la cosiddetta sussunzione reale del lavoro al capitale all’interno degli stessi luoghi di produzione, nella stessa produzione immediata. Si tratta di questo. Man mano che il capitale definisce l’organizzazione del lavoro e le tecniche di produzione – in breve, i metodi di produzione – allora sempre più le caratteristiche e le abilità concrete del lavoro sono funzione, dipendono dal modo in cui i lavoratori vengono incorporati nella configurazione produttiva. La conoscenza e la volontà che reggono il modo di lavorare sono collocate “fuori” dal lavoratore, e ciò facilita di gran lunga, come è chiaro, l’obiettivo di ogni capitalista, che è quello di estrarre dal lavoratore lavoro e pluslavoro. Per Marx, questa tecnologia e questa organizzazione del lavoro ‘estranee’ al lavoratore si fissano in un elemento materiale, il capitale fisso, le macchine, di cui il lavoro, per lo più manuale, diviene una rotella. È chiaro che oggi viviamo un salto ulteriore in questa sussunzione reale del lavoro al capitale, nella misura in cui è la stessa dimensione mentale e cognitiva del lavoro a divenire parte “umana”, per così dire dipendente e laterale, dei processi di lavoro attivati dalla rivoluzione informatica.
Questo lavoro subordinato al capitale, si badi, può ben essere un lavoro “qualificato”. Ciò che conta è che queste qualità vengano al lavoro dal capitale, e che il capitale sia in grado di “comandare” i lavoratori nel mercato del lavoro e nel processo di lavoro. Il punto essenziale è il controllo, non la dequalificazione del lavoro. Anche se certo, nella storia, i processi di degradazione del lavoro hanno facilitato di molto la passivizzazione dei lavoratori. 

5 - Nel discorso appena fatto, se capisco bene, c’è un rimando alla tesi marxiana secondo la quale il plusvalore sarebbe l’esito di uno sfruttamento del lavoratore, tesi che è tra le più controverse. A tuo parere, quanto è stretto il nesso tra teoria del valore e sfruttamento in Marx? E quanto è solido?

A me sembra che questo rapporto tra teoria del valore e teoria dello sfruttamento sia così stretto da non potere essere reciso, salvo buttare a mare tutto Marx. Prima di argomentare questa mia tesi, consentimi in breve di ricordare come Marx, nel primo libro del Capitale, fa emergere il plusvalore, il profitto lordo per la classe dei capitalisti.
Un breve sunto terminologico, innanzi tutto. Marx definisce “lavoro necessario” il lavoro necessario a riprodurre l’equivalente pagato al lavoratore, cioè il lavoro che si trova esposto nel salario monetario. Questo salario monetario sarà impiegato per acquistare beni-salario. Marx immagina quasi sempre che il salario reale che i lavoratori possono ottenere sia corrispondente alla “sussistenza” – non biologica, ma storica e sociale – che in un dato periodo consente la produzione e riproduzione dei lavoratori come classe. Si deve allora vedere nel “lavoro necessario” il lavoro contenuto nei beni salario, quando questi corrispondono alla sussistenza. Per la verità le due definizioni non corrispondono sempre, e la divergenza tra le due in altre questioni è di grande rilievo. Comunque, per il punto che ci interessa ora, Marx assume che le due definizioni coincidano.

Nel capitolo V, per risolvere l’enigma di come il denaro generi più denaro, di come dal valore sgorghi un plusvalore, che accumulato produce la spirale della valorizzazione e accumulazione del capitale, Marx abbandona la sfera dello scambio di merci e si trasferisce nei processi di lavoro capitalistici. Qui egli impiega quello che potremmo chiamare un metodo della comparazione: riprendo, ma in una accezione differente, una espressione che incontriamo in Rubin. Marx ipotizza che il nostro capitalista in spe, il nostro aspirante capitalista, estragga dai lavoratori lavoro vivo in misura pari al lavoro necessario, definito come lavoro contenuto nella sussistenza. È chiaro che le sue aspirazioni a valorizzare il capitale sarebbero mal riposte. In questo caso non c’è pluslavoro, non c’è plusvalore, non c’è profitto lordo. Ma il nostro potenziale capitalista tutto è meno che uno stupido: egli ha a disposizione la merce da cui sgorga il lavoro vivo, la sostanza valorificante. può quindi far lavorare il lavoratore di più, può fare in modo che il lavoro vivo sia prolungato rispetto al lavoro necessario.

L’origine del plusvalore per Marx sta dunque nel prolungamento della giornata lavorativa (rispetto al lavoro necessario). Questo prolungamento nasce dal fatto che il capitalista può imporre al lavoratore i tempi e i modi del lavoro: il lavoro capitalistico, scrive Marx, è lavoro forzato. Ai primordi del capitalismo il capitalista può davvero allungare l’orario di lavoro, con la cosiddetta estrazione di plusvalore assoluto. L’estrazione di pluslavoro è viva e vegeta, anche oggi ciò avviene: basti pensare all’estensione nel tempo della vita lavorativa, agli orari di fatto, al lavoro cosiddetto autonomo, alla riforma delle pensioni che allunga l’orario di lavoro nell’arco vitale. Dopo le lotte, alla fine vittoriose, sulla fissazione di un tetto legale alla giornata lavorativa, il capitalista può cercare di ottenere un aumento dell’intensità di lavoro in un tempo dato, oppure un aumento della forza produttiva del lavoro grazie a nuovi macchinari o nuove tecniche organizzative, può cioè sfruttare una estrazione di plusvalore relativo. Tanto più il capitale si sviluppa tanto più il lavoro, riprendendo i temi dell’altra risposta, è eterodiretto.
Ovviamente, quando il lavoro vivo è uguale al lavoro necessario non c’è profitto, e i prezzi relativi sono proporzionali ai rapporti tra i lavori contenuti (ai “valori”). Al prolungarsi del lavoro vivo emerge un profitto, e i prezzi relativi dovrebbero cambiare. Marx assume per il momento che così non sia, e che i prezzi restino fissi.

Cosa si deve intendere, in questo quadro, per sfruttamento? La risposta più facile e consueta, da parte tanto dei seguaci quanto dei detrattori di Marx, è questa. Sottraiamo al valore del prodotto di una giornata lavorativa (espressione monetaria del lavoro vivo in quanto prestato nel tempo di lavoro socialmente necessario) il valore dei mezzi di sussistenza consumati in quella giornata (espressione del tempo di lavoro necessario). Otteniamo un plusvalore (espressione monetaria del pluslavoro). Il rapporto tra questo plusvalore e il capitale anticipato in salari (che Marx chiama anche capitale variabile), il saggio di plusvalore, è la misura dello sfruttamento del lavoro. Credo che una lettura del genere non faccia giustizia alla profondità e radicalità della analisi nel Capitale.
Perché dico questo? Perché tradizionalmente lo sfruttamento viene letto come dovuto al fatto che i lavoratori producono tutto, hanno dunque diritto all’intero valore del prodotto, e gliene torna indietro solo una quota. Sfruttamento sarebbe perciò l’esistenza di un plusprodotto appropriato da classi diverse dai lavoratori, unico autentico “fattore” della produzione. Questa io la chiamo una visione meramente distributiva dello sfruttamento. E questa visione non è quella di Marx. Per due ragioni: la prima è che per lui nel capitalismo la produttività di valori d’uso è ormai passata al sistema tecnico di produzione, di cui il lavoratore è una semplice rotella. La seconda è che se invece guardiamo, come dobbiamo, alla dimensione del (neo)valore, della ricchezza astratta prodotta in questo periodo, dobbiamo qualificare come sfruttato tutto il lavoro, riferendoci a tutta la giornata lavorativa. Ciò che è importante per Marx è infatti la natura che ha assunto il lavoro nel capitalismo. E tutto il lavoro erogato dai lavoratori nei processi capitalistici è lavoro forzato, lavoro eterodiretto, lavoro astratto.

La conseguenza politica è immediata. Se sfruttamento è determinazione distributiva, allora uscire dal capitalismo significa abolire il sovrappiù (che non si sa cosa voglia dire, se non alzare il salario, o appropriarsi dei beni), oppure mettere un’impronta statale sulla proprietà del sovrappiù (il che, come si è visto con il socialismo reale, lascia i lavoratori nella loro alienazione, e ne amputa le libertà). Se invece lo sfruttamento attiene alla natura della produzione, superare il capitalismo significa modificare anche il modo di lavorare. Questo è il problema posto da Marx.
Quanto è solido questo discorso? La risposta non è facile. Mi limiterò a dire questo. La riflessione successiva ha mostrato che se i prezzi relativi divergono dai valori (di scambio) – da quei prezzi che vigerebbero se il lavoro vivo fosse pari al lavoro necessario – allora non c’è più identità tra profitti lordi e pluslavoro. Ora, Marx non solo sapeva, ma affermava con forza che i prezzi capitalistici divergono dai valori di scambio, ma al tempo stesso, a prima vista, teneva in piedi, almeno per il sistema nel suo complesso, quella identità tra profitti lordi e plusvalori (o somma dei plusvalori). Dunque, la visione distributiva dello sfruttamento sembra crollare. Le cose cambiano però se ci si tiene alla visione non distributiva dello sfruttamento. Si può sostenere, che se dietro il nuovo valore (il reddito) prodotto quest’anno non c’è altro che lavoro, allora la divergenza dei prezzi dai valori non fa altro che redistribuire questo neovalore, lasciando immutato lo sfruttamento del lavoro in questa altra accezione primaria. Come è ovvio, questo ragionamento vale per  il sistema nel suo complesso, e non per ogni singolo processo produttivo.

6 - Come si lega il discorso di Marx sul valore e il plusvalore con la sua teoria della crisi?

Un primo aggancio è dato dalla circostanza, credo unica, secondo cui la teoria del valore di Marx è una teoria, a un tempo, di equilibrio e di non-equilibrio. Qui per equilibrio intendo eguaglianza di offerta e domanda, corrispondenza della produzione al bisogno sociale. Abbiamo già visto che per Marx il valore nasce nella produzione ma deve trovare una sanzione nella vendita finale della merce. Per essere più precisi: quando sul mercato del lavoro il capitalista acquista la forza-lavoro, egli effettua evidentemente delle scommesse sull’andamento dello ‘sfruttamento’ nella produzione e sulla possibilità di trovare ‘sbocchi’ sul mercato. Marx ragiona, un po’ come Keynes, per pressoché tutti e tre i libri del Capitale sulla base dell’assunto che queste aspettative di breve periodo siano confermate. Ma nel suo approccio si sottolinea con forza che né l’estrazione di lavoro né la vendita sul mercato sono garantite. E se la merce rimane invenduta non tutto il valore in potenza diviene ‘attuale’, viene effettivamente alla luce, alla fine del processo capitalistico.

Se si va più a fondo nella risposta, la questione diviene più complicata. Innanzi tutto perché la teoria della crisi di Marx è consegnata ai manoscritti inediti, e quindi senza il tocco finale dell’autore. In secondo luogo, perché vi è in Marx una oscillazione tra analisi della crisi congiunturale, indagine delle oscillazioni di lungo periodo dell’accumulazione, teoria del crollo finale del sistema capitalistico. Rimanendo, purtroppo, all’interno di questa ambiguità, si possono individuare tre percorsi nella riflessione marxiana.

Una prima strada è quella che sottolinea l’anarchia del capitalismo. In un sistema di mercato è impossibile che offerta e domanda si pareggino in ogni industria. Avremo quindi delle crisi da sproporzione. La risposta a queste crisi sarebbe il passaggio a una società pianificata dall’alto.
Una seconda strada è quella che pone l’accento sul sottoconsumo relativo delle merci. Tanto più il capitale ha successo nell’estrarre plusvalore in rapporto al capitale variabile (al monte salari), tanto minore è il salario relativo, e quindi la quota dei salari sul neovalore prodotto, e così la quota dei consumi sul reddito. Ciò alla lunga determinerebbe una crisi da realizzo per insufficienza della domanda in tutta l’economia.
Una terza strada è quella che afferma cha l’accumulazione del capitale porta con sé una meccanizzazione crescente. Avremmo un aumento del lavoro morto rispetto al lavoro vivo, e alla lunga una caduta ineluttabile del saggio di profitto. Si immagini infatti che i lavoratori vivano d’aria. Allora il plusvalore sarebbe l’espressione monetaria di tutto il lavoro diretto, e il capitale anticipato l’espressione monetaria di tutto il lavoro morto. Dire che aumenta il rapporto tra lavoro morto e lavoro vivo non è altro che dire che il saggio di profitto a salario zero – ovvero, il saggio massimo di profitto – cade. E se il saggio massimo di profitto declina continuamente, prima o poi dovrà cadere anche il saggio effettivo di profitto.

Per varie ragioni a me non sembra che questi tre filoni della teoria della crisi siano convincenti. Mi pare più interessante una argomentazione che troviamo accennata nei Grundrisse, e che possiamo dedurre anche da Rosa Luxemburg. Il capitalismo sarebbe caratterizzato da un incessante progresso tecnico che tende a ridurre la quota dei salari, ma tanto più ciò procede tanto maggiore deve essere la quota degli investimenti sul reddito affinché non ci sia una crisi da domanda generale. Ora, il punto è che più aumenta il plusvalore rispetto ai salari, più si modificano le condizioni di equilibrio inter-industriale il cui verificarsi è necessario a evitare le sproporzioni. Di conseguenza, la caduta del salario relativo attiva sì una crisi generale per insufficienza di domanda, ma passando per una crisi da sproporzioni che impedisce agli investimenti di colmare il divario tra offerta e domanda complessive. Allungando all’indietro il filo del ragionamento, è possibile connettere caduta tendenziale del saggio di profitto e crisi da realizzo. La caduta del saggio è messa in scacco se il lavoro morto (il capitale costante), che sta al denominatore, cade, e ciò dipende dalla velocità del progresso tecnico. Ma tanto più veloce il progresso tecnico, tanto più facile l’insorgere di una crisi da domanda.

Si potrebbe poi, ma non ne abbiamo il tempo, vedere come siano state proposte altre teorie della crisi. Per esempio quella che riconduce la crisi a un peso eccessivo dei prelievi improduttivi dal plusvalore da parte di classi diverse dai capitalisti e dai lavoratori salariati – prelievi improduttivi che, in quanto si traducono in consumi o spesa pubblica facilitano il superamento della crisi da realizzo. O ancora in una compressione dei profitti dovuta ad aumenti dei salari che eccedano l’aumento della produttività. O infine quella che vede l’origine della crisi direttamente in un antagonismo sociale sui modi di estrazione del lavoro vivo nella produzione.

7 - Cosa rimane di tutto questo nella scienza sociale dopo Marx? E sul terreno dell’economia ti sembra che il discorso di Marx abbia trovato dei continuatori o dei superatori?

La scienza sociale dopo Marx ha teso a dividere quello che in Marx era unito. Così l’alienazione diviene tema per filosofi, lo sfruttamento argomento per sociologi, i prezzi e la crisi questione per economisti. Di questa frantumazione è probabilmente responsabile anche la sterilità del marxismo dopo Marx. La teoria della crisi si è trasformata in discorso sul nulla, e si è divenuti incapaci di indagare le nuove forme della dinamica capitalistica. Il discorso sul Marx economista si è incancrenito sul problema se la teoria del valore fosse o no una buona teoria dei prezzi relativi. I prezzi capitalistici, secondo Marx, sono prezzi da calcolare come prezzi che includono un saggio medio del profitto, uguale per tutte le industrie. Come ho anticipato, Marx sapeva bene che questi prezzi divergevano dai valori. Pure riteneva che si dovesse spiegare quei prezzi a partire dai valori di scambio. Tale tesi è stata interpretata come implicante che le quantità di lavoro (astratto) dovevano essere il necessario, ineludibile e insostituibile dato di partenza nella determinazione dei prezzi. Il prosieguo dell’analisi ha mostrato, per esempio con l’importante libro di Sraffa, che tale determinazione invece è possibile senza partire per forza dalla quantità di lavoro. La conseguenza è che, per chi riteneva che il lavoro non dovesse essere ridondante nella determinazione dei prezzi, questa storia è la storia di un fallimento.

Vi è, a questo punto, chi, accettando questa impostazione del problema, ritiene che con la caduta della teoria del valore cada tutto Marx, e chi invece pensa che buona parte dell’edificio rimanga in piedi, magari separando filosofia da economia, teoria dei prezzi da teoria dell’accumulazione e della crisi. Per mio conto, rifiuto proprio il modo con cui la discussione sulla teoria del valore è stata condotta in questo secolo, per molte ragioni. Un primo motivo è che la deduzione dei prezzi da parte di Marx non è svolta in termini immediatamente “microeconomici”, ma è il termine di un ragionamento che parte dal sistema nel suo complesso come sistema di classe e per gradi giunge alla “superficie” della circolazione capitalistica. Un secondo motivo è che la fissazione microeconomica dei prezzi è svolta da Marx assumendo come dati i flussi della circolazione monetaria, non la struttura del sistema produttivo in valori d’uso. Questi motivi potrei sintetizzarli dicendo che la teoria di Marx è una teoria macro-monetaria dello sfruttamento capitalistico, cioè dell’estrazione di lavoro vivo dal lavoro eterodiretto. Il passaggio da questa dimensione macro a questa dimensione micro non è un passaggio matematico, ma logico: la priorità logica dell’impostazione macroeconomica (di classe) marxiana impone alla determinazione quantitativa microeconomica particolari ipotesi e particolari vincoli.

Un terzo, e ultimo, motivo è che il rimando dal (neo)valore al lavoro (vivo) che si cristallizza in lavoro diretto (oggettivato nel periodo) mi pare insostituibile nell’analisi dell’origine del valore e plusvalore. Nella visione analitica di Marx il tempo di lavoro vivo reso fluido, che viene cioè “succhiato” dai portatori viventi di forza-lavoro umana, non può che essere concepito come indeterminato a priori, variabile, e non fisso, La ridondanza (l’inessenzialità) del lavoro nella determinazione dei prezzi attiene a una sfera dell’analisi dove il lavoro speso nella giornata lavorativa viene considerato dato, ormai determinato. Detto altrimenti, per me il cuore della teoria del valore sta nel lavoro vivo come luogo dello sfruttamento, mentre la teoria dei prezzi si svolge quando anche il lavoro speso nel periodo è lavoro passato, morto nel prodotto-merce.
Il primato del valore rispetto al prezzo discende dal fatto che quest’ultima variabile è ritenuta da Marx logicamente “secondaria”. Prima viene la creazione di (neo)valore, poi la distribuzione secondo certe regole di scambio.

Da ultimo, si può osservare che, più o meno sotterraneo, l’influsso di Marx è presente in quella parte della teoria economica di questo secolo, non marxista, che si allontana da un approccio individualista e adotta invece un metodo “macroscopico”, dove cioè si analizza innanzitutto il funzionamento del sistema economico-sociale nel suo complesso, e se ne sottolinea la divisione in classi. In particolare, tutto un filone di teoria monetaria, che include autori pur così diversi come Wicksell, Schumpeter e Keynes, mette in rilevo come le imprese – il capitale produttivo di Marx – in forza di un rapporto privilegiato con le banche – il capitale monetario di Marx – possono definire la struttura reale della produzione indipendentemente dalle scelte dei lavoratori: le imprese definiscono quindi anche il consumo reale dei lavoratori. È chiaro che in questo modo si viene a determinare, per il sistema nel suo complesso, un saggio di plusvalore, un rapporto cioè tra lavoro contenuto nella parte di reddito che non torna ai lavoratori e il lavoro contenuto nella parte di reddito che è resa disponibile ai lavoratori. Ed è chiaro anche che questo saggio di sfruttamento, calcolabile in “valori-lavoro”, è indipendente, per la struttura stessa del modello, da come si fissano i prezzi.

8 - Marx titola o sottotitola buona parte delle sue opere “critica” dell’economia politica. Cosa si deve intendere per approccio critico all’economia politica? Ed è conciliabile la descrizione e la spiegazione di un oggetto teorico con una intenzione “critica”? Qui, forse, si tocca un’altra questione delicata, quella del rapporto, di unità o scissione, di scienza e filosofia in Marx.

Anche in questo caso, il termine critica va soggetto a diverse qualificazioni.
Innanzitutto, Marx intende porsi come un continuatore dell’economia politica classica inglese, di Smith e Ricardo, di cui però, a suo dire, egli supererebbe le aporie, e risolverebbe i nodi analitici rimasti in sospeso. Basti un esempio, particolarmente rivelatore. Tanto Smith che Ricardo avevano ricondotto il valore al lavoro. Differivano però sul terreno della teoria dei prezzi. Per Smith il ‘valore’ di una merce era dato dal lavoro contenuto nelle altre merci che la prima ‘comandava’. Questo comando di lavoro nel capitalismo diviene particolarmente evidente perché esiste un mercato del lavoro e un ‘valore’ del lavoro, il salario. Visto d’altra parte che nel capitalismo una merce, una volta venduta, deve pur ottenere un profitto (e magari una rendita) oltre il salario, è chiaro che se questo profitto (e questa rendita) fossero impiegati per acquistare lavoratori, il lavoro comandato (i lavoratori acquistati) da quella merce sarebbe superiore al lavoro contenuto (i lavoratori che hanno effettivamente prodotto quella merce). Lo scambio tra capitale e lavoro, in un certo senso, è ineguale. I lavoratori creano più valore di quanto ne contenga il loro salario. Ricardo afferma invece che nello scambio non c’è ineguaglianza, che il lavoratore ottiene col salario esattamente l’equivalente del suo valore, in quanto il valore del lavoro è il lavoro contenuto nella sussistenza.

Perché per Marx è importante questo punto? Perché il rapporto di classe nel capitalismo è un rapporto necessariamente doppio. Innanzitutto, è un rapporto di mercato: quando il capitale variabile, cioè una certa somma di denaro, acquista il lavoratore nella sfera dello scambio; poi, è un rapporto non di mercato, quando il lavoratore è messo a lavorare nel luogo di produzione. È sicuramente importante capire come si regola questo scambio iniziale tra capitale e lavoro che immette i portatori viventi di forza-lavoro nella produzione. Ma non è sufficiente, perché per tirare un giudizio analitico su quel rapporto di classe, prima che la merce prodotta vada al mercato, occorre tenere conto anche della produzione. Proprio in forza di questo modo complesso di guardare al rapporto di classe Marx riesce a conciliare Smith e Ricardo. Infatti, Marx sta dalla parte di Ricardo per quel che riguarda lo scambio capitale-lavoro in senso proprio, ma dalla parte di Smith una volta che si tenga conto anche della produzione immediata. Ciò è possibile in quanto Marx sdoppia la categoria ‘lavoro’ dei classici in due, la forza-lavoro che è venduta nel mercato del lavoro, appunto al suo valore (il valore dei mezzi di sussistenza), e il lavoro vivo prestato dal lavoratore portatore di quella forza-lavoro, lavoro vivo che, come abbiamo visto, può ben essere superiore, e di norma lo è, alla quantità di lavoro contenuta nella sussistenza. In questo modo Marx non solo concilia Smith e Ricardo, ma spiega anche ciò che l’uno e l’altro non erano riusciti a spiegare, l’origine del sovrappiù (capitalistico).

Un primo senso, se si vuole, banale di critica è questo. La soluzione di problemi lasciati in sospeso. Ma ve ne è un secondo, più profondo. Marx ritiene che vi siano delle ragioni profonde per cui Smith e Ricardo, di cui ha la massima stima, non risolvono il problema dell’origine del plusvalore, danno visioni unilaterali del rapporto tra capitale e lavoro. Questa ragione è che essi sono pensatori ‘borghesi’. Il loro essere borghesi gli impedisce di vedere almeno due cose. 
La prima cosa che Smith e Ricardo non vedono è la forma storicamente determinata dei fenomeni che studiano, e che essi prendono per naturali. Essi vedono la merce come prodotto del solo lavoro (più chiaramente Ricardo, più confusamente Smith): non capiscono però che questo non è vero in generale, ma è vero solo nel capitalismo. E non intendono questo punto perché non si chiedono per quale ragione la merce deve necessariamente trasformarsi in denaro (deve assumere cioè la forma del valore che gli consente di trasformarsi in denaro, in valore di scambio): deve cioè divenire ricchezza astratta, prodotto di un lavoro astrattamente generale, che nulla ha a che fare con il lavoro ‘concreto’, con le caratteristiche tecnico-naturali del lavoro. Smith e Ricardo non posseggono quindi né la categoria di forza-lavoro né quella di lavoro astratto, e sottovalutano la natura monetaria dell’economia capitalistica.
La seconda cosa che i due autori non colgono è la distinzione tra il lavoro vivo come attività dalla forza-lavoro come capacità di lavoro pura e semplice, due aspetti effettivamente legati nella figura fisica del lavoratore come portatore vivente di forza-lavoro umano e come erogatore del lavoro in divenire. E perché non colgono la distinzione? Perché se la cogliessero, si renderebbero conto che nel capitalismo il lavoratore è una appendice della merce che vende. Situazione di nuovo che non può essere presa per naturale, e che li indurrebbe a chiedersi se non esistono altri diversi e migliori modi di organizzare la vita economica e sociale.

Critica significa dunque riconoscere le radici insuperabili delle difficoltà analitiche della scienza borghese per eccellenza, l’economia. Qui, certo, per Marx, l’analisi del capitalismo si congiunge al giudizio sul capitalismo. Ma se Marx ha ragione, è impossibile separare i due elementi. La critica sta dentro la scienza, affinché questa sia tale, non fuori.
Si pone a questo punto il quesito: come è possibile a Marx elevare questa critica all’economia politica classica, quali condizioni rendono praticabile questo punto di vista? La risposta, in questo caso, esce dalla dimensione puramente teorica, puramente concettuale, e rimanda al contesto in cui vive Marx, e alla vita stessa di Marx come militante politico. È solo perché ai tempi di Marx il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici aveva iniziato a criticare in praticala naturalità dell’organizzazione capitalistica della produzione, ed è perché Marx partecipa a questo movimento, che gli è possibile cambiare il modo di guardare all’economia e alla società capitalistica. In questo senso, è la lotta di classe alla base della critica marxiana.

9 - Un’obiezione facile, ma che forse merita risposta, è che Marx è ormai certo un classico del pensiero: qualcuno senza il quale è impossibile pensare la modernità capitalistica. E però, lasciando da parte i limiti della sua riflessione sul terreno scientifico o su quello ideologico, e anche lasciando da parte la questione dalla crisi del socialismo reale che pure si rifaceva a Marx, la teoria marxiana non diviene inservibile in un mondo che si avvierebbe alla scomparsa del lavoro? Hai certo presente le numerose tesi che oggi proclamano la “fine del lavoro”.

La tesi di una prossima ‘fine del lavoro’, diffusa anche (se non soprattutto) a sinistra, si è rivelata del tutto inconsistente. Già nella ‘nuova economia’ statunitense della seconda metà degli anni ’90 si è vista una assunzione di lavoratori a velocità accelerata. L’idea della fine del lavoro veniva negli stessi anni messa in discussione dal comparire di una serie di rapporti internazionali della Banca Mondiale e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro che documentano, da un lato, come il rapporto di lavoro salariato cresca su scala mondiale, e dall’altro lato, come la giornata lavorativa sociale non tenda più alla riduzione ma all’aumento. Più recentemente, nel caso europeo gli ultimi anni hanno visto all’opera un più elevato valore dell’elasticità dell’occupazione al reddito, sicché anche a tassi ridotti di crescita del prodotto interno lordo l’occupazione inizia a salire.

Certo, gran parte dei nuovi lavori sono lavori precari, lavori incerti, lavori fuori dalla dimensione di continuità data dal lavoro dipendente ‘classico’ e ‘garantito’. La precarizzazione del mercato del lavoro, che quando il ciclo è negativo o il tasso di crescita molto basso significa nient’altro che una più facile ‘flessibilità in uscita’, e dunque prelude al licenziamento, quando il ciclo è positivo si rivela un meccanismo di prolungata selezione della forza-lavoro da stabilizzare a tempo indeterminato, per garantirsi un comando del lavoro più certo.
È questa precarizzazione, incertezza, flessibilizzazione del lavoro – si badi: quale che sia la sua qualificazione, la sua natura, la sua regolazione giuridica, il suo salario – a sembrare il vero portato della globalizzazione, e la sua novità più significativa. Il nuovo capitalismo, in altri termini, se per un verso produce una crescita più ciclica e instabile, e nel lungo termine crescita più bassa di quanto non fosse nel cosiddetto periodo del fordismo-keynesismo, per l’altro verso determina una colossale destrutturazione del mondo del lavoro. Per un verso, nella globalizzazione il mondo del lavoro perde di potere contrattuale e conflittuale, è frammentato e disperso, soggetto talora a violente ondate di dequalificazione. Per l’altro verso, l’incertezza dei mercati, la domanda sempre più di sostituzione che si rivolge ai beni di consumo di massa, i nuovi bisogni, fanno della ‘qualità’ del prodotto – ma dunque anche della prestazione lavorativa – un asset competitivo.

Il mondo del lavoro è coinvolto, dove più dove meno, tanto sui mercati finanziari, per il collocamento del risparmio monetario (mobilitato ormai senza freni e vincoli nazionali, in conseguenza dello smantellamento dei sistemi pensionistici e dell’ascesa degli investitori istituzionali), quanto per l’indebitamento bancario per il consumo. Non è chi non veda che a monte come a valle di queste tendenze macroeconomiche e di questo genere di politica economica sta, in un circolo vizioso di riproduzione allargata, una frammentazione accelerata del mondo del lavoro, come anche una ridefinizione radicale dei modi di estrazione di valore e plusvalore. Per quel che riguarda le imprese, abbiamo una centralizzazione senza concentrazione. L’asse di questo nuovo modello è: bassi salari, precarizzazione del lavoro, disavanzi di bilancio, indebitamento alto, inclusione dei lavoratori nella finanza, consumo indebitato trainato da un paradossale keynesismo privatizzato di natura finanziaria.
L’analisi marxiana va sicuramente aggiornata oltre che approfondita: ma certo tutto pare meno che obsoleta.

10 - In che modo si colloca in questo discorso il “materialismo storico” di Marx e la sua famosa tesi secondo cui la “base” economica determina la “sovrastruttura” culturale e ideologica?

Nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica è contenuto quello che secondo molti sarebbe il metodo, appunto “materialista”, di Marx, secondo il quale l’economico costituirebbe una sorta di fondamentodell’edificio sociale (la ‘base’, appunto), a partire dal quale si ergerebbe l’edificio (la sovrastruttura) legale, politico, culturale, ideologico, e così via.

Non amo molto quella prefazione, anche perché credo abbia dato luogo a molti equivoci. Innanzi tutto, l’economia vi è ridotta, in modo che è stato definito elementare e ingenuo, a un semplice fattore tecnico-naturale da cui è estraneo l’intervento umano. Inoltre, e di conseguenza, si dà l’impressione che esista una causazione unilaterale, dalla base alla sovrastruttura, senza che sia possibile l’opposto.
Infine, si può essere indotti nella tentazione di vedere in questo ‘metodo’ una chiave per la lettura non del solo modo di produzione capitalistico ma di tutta la storia esperita sino ad oggi. Il Marx di cui ho parlato si muove in senso contrario. Sottolinea la centralità dei rapporti sociali di produzione, quindi anche del rapporto tra esseri umani e della comunicazione intersoggettiva: il modo in cui l’essere umano pensa influisce pesantemente su ciò che è. Insomma, la causazione ‘ideale’, per così dire, si affianca a quella ‘materiale’. E il primato della sfera economica, la ‘centralità della produzione’, è qualcosa che Marx individua come carattere distintivo del capitalismo, non certo come un carattere permanente della storia.

Ho accennato all’inizio della nostra conversazione alla presenza di un altro metodo nel giovane Marx, quello dell’individuazione di caratteri essenziali dell’essere umano, e su questa base della possibilità di proporre un giudizio sulla realtà concreta. Come ho detto, neanche questo ‘metodo’ mi pare condivisibile, e ho chiarito come esso fu superato da Marx almeno dagli anni ’50. Ma forse anche prima. Notevole mi è sempre parsa la seconda tesi su Feuerbach, dove Marx cerca una terza via tra ‘materialismo’ e ‘idealismo’, e la trova nel primato della pratica. Marx è contrario tanto alla posizione che vede la verità oggettiva nel rispecchiamento di una realtà esterna quanto alla posizione che vede nella realtà la pura manifestazione dello Spirito, secondo una certa lettura di Hegel (che è anche la sua). È nella prassi che l’essere umano deve provare la realtà e il potere del proprio pensiero. L’oggettività della conoscenza sta nella critica e nella trasformazione della realtà, ed è limitata da questa realtà ‘esterna’ al soggetto e con cui il soggetto si confronta e che trasforma. L’oggettività non sta né nel vedere né nel dire, ma nel fare.

Al di là di questo, non credo sia sensato far mostra di proclamazioni di metodo generali e universali. L’approccio di Marx spinge a individuare metodi specifici per oggetti specifici. Qui, se si vuole, sta il nodo delicato del rapporto con Hegel. Si è in genere giudicato il rapporto di Marx con Hegel sul nodo della contraddizione. Chi afferma che esiste una continuità tra Marx e Hegel sostiene che per Marx la realtà in genere o quella capitalistica in particolare sarebbero rette dalla contraddizione dialettica. Chi nega la presenza della contraddizione dialettica, nega la continuità di Marx con Hegel. Nel Marx che ho ricostruito, il rapporto con Hegel è forte indipendentemente dalla presenza o meno di una logica della contraddizione. Basti ricordare il peso di temi hegeliani come quello dell’ipostatizzazione reale e dell’inversione di soggetto e predicato. Un altro punto di contatto sta anche nella circostanza che Marx ci mostra come il ‘lavoro senza qualità’ da cui parte la sua analisi del capitalismo, quando studia lo scambio, si rivela nel corso dell’indagine esattamente come il risultato del processo capitalistico quando il capitale riesce a subordinare a sé il lavoro nella produzione: la forma del valore contamina lo stesso valore d’uso. A questo punto è chiaro che il presupposto da cui è partita l’analisi di Marx viene ad essere posto, appunto come risultato, dal suo stesso ragionamento. Ora, questa logica del presupposto-posto la si trova chiaramente in Hegel. Altrettanto chiaramente, in Marx il fondamento dell’astrazione del lavoro è un processo non ideale ma della stessa realtà sociale, in ultima istanza riconducibile alla dinamica del rapporto di classe tra lavoro e capitale. È tesi di Marx che soltanto quando l’astrazione ha conquistato lo stesso modo di lavorare, quando l’‘operaio’ è realmente subordinato al capitale, solo allora la logica del valore come capitale-denaro che si valorizza incessantemente può imporsi come la logica dispiegata dell’intera organizzazione sociale.

Manca un punto importante, senza cui il discorso sul metodo di Marx sarebbe monco in modo grave. Mi riferisco al fatto che il ragionamento di Marx si pone necessariamente come un ragionamento in cui l’indagine della totalità sociale precede lo studio delle parti. Anche per questo non si può separare in Marx l’economia dalla sociologia e dalla filosofia senza far saltare tutto: in verità queste stesse separazioni non hanno più senso. Le ragioni mi sembrano due. Per un verso, la società è un prodotto umano, ed è quindi compito del ricercatore non chiedersi soltanto come quella società funziona, ma anche come quell’oggetto è sorto (il problema della costituzione) e del perché funzioni in quel modo. Per l’altro verso, nel capitalismo la totalità sociale si presenta all’individuo, e in qualche misura effettivamente è, un cristallo opaco, un insieme di leggi pseudo-naturali indipendenti dal suo controllo, pur essendo, in effetti, una sua creazione.

11 - Torniamo così al punto di partenza: la centralità del lavoro. A parte i discorsi sulla fine del lavoro, una prospettiva di questo genere non è stata attaccata anche per un suo preteso, e inaccettabile, industrialismo dal pensiero verde? E questa sorta di prometeismo distruttore dell’ambiente non si lega ad una assolutizzazione del lavoro salariato come elemento caratterizzante l’identità dell’essere umano nell’era capitalistica, che è stata criticata con forza anche dal pensiero femminista, che ha sottolineato come così scompaia dal quadro teorico la dimensione della cura e, per così dire, metà del genere umano? Qual è il tuo atteggiamento su queste questioni?

Vorrei rispondere partendo da un altro corno del problema. Il fatto che questo universo capitalistico che ho descritto nelle risposte precedenti non sia un destino dipende, ancora una volta, dall’intervento soggettivo, benché non arbitrario, degli esseri umani. Quello che è certo è che questo modello economico e sociale, come non è contrastato da politiche social-liberiste, così non può essere reso più giusto da meri interventi redistributivi. Sono il quadro ‘macro’ della politica economica e quello ‘micro’ della natura del lavoro a dover essere investiti da una riforma radicale, che non può non passare dal ridare dignità e centralità al lavoro, se si vuole che il secolo che abbiamo davanti non segni un drammatico arretramento rispetto a quello che lo ha preceduto. Ma come? Come ho detto in precedenza, siamo di fronte, per la prima volta nella storia, di fronte ad una gigantesca centralizzazione del capitale, ma senza concentrazione. Come si ridefinisce, in queste condizioni, la “questione del soggetto”?

Il punto potrebbe essere ripreso dentro la problematica di Marx a partire dall’interrogativo posto anni fa da Rossana Rossanda:  “perché centocinquant’anni dopo, la classe spossessata, e tuttavia arricchita da innovatrici esperienze di lotta in Occidente, e in presenza di una rete prima sconosciuta dei mezzi di comunicazione, non si associ, non si organizzi, non si pensi unita e come soggetto transnazionale capace di unificarsi.” (“A centocinquant’anni dal Manifesto del partito comunista”, Finesecolo, n. 1, 1998, p. 14, corsivi nel testo).
Marx, si dice, avrebbe pronosticato l’esito rivoluzionario della lotta tra borghesia e proletariato sulla base dell’idea secondo la quale lo sviluppo capitalistico avrebbe progressivamente ingrossato quantitativamente le fila degli operai dell’industria, concentrandoli nelle grandi imprese. Si sarebbe costituita in tal modo la condizione ‘soggettiva’ per imporre una riduzione del tempo di lavoro, ma anche per una liberazione del lavoro, per un superamento del carattere eterodiretto della prestazione lavorativa, per una presa politica del potere. Nel medesimo tempo, l’accumulazione del capitale avrebbe costruito la condizione ‘oggettiva’ di tale liberazione, nella misura in cui nelle macchine si sarebbe condensata, sia pure in forma estraniata, la potenza produttiva del lavoro sociale. Secondo questa prospettiva, dunque, il corso stesso della storia avrebbe dovuto agevolare il proletariato costituitosi in classe nell’unificare lavoro e sapere sociale, superando lo sfruttamento. 

Vi sono obiezioni note a questa lettura della teoria marxiana, non poco diffuse anche nella cultura verde e in quella femminista, e sono quelle a cui si richiama la domanda. Alcuni hanno sostenuto che si sarebbe data una ‘rottura’ nel legame investimenti-occupazione nell’ultimo quarto di secolo, e che ciò smentirebbe le basi stesse del ragionamento di Marx. La classe operaia sarebbe cioè in riduzione tanto percentuale quanto assoluta, al punto che non parrebbe esagerato parlare di fine del lavoro (salariato). Secondo altri, il mutamento tecnologico e organizzativo avrebbe natura tale da rendere inconsistente la speranza di un uso non capitalistico delle macchine e prefigurerebbe al contrario una incorporazione definitiva del lavoratore nell’organismo produttivo. Dunque: se mai la ‘centralità del lavoro’ si è data, essa verrebbe ora, per una ragione o per l’altra, negata dalla realtà. Peraltro, quella centralità del lavoro sarebbe appunto il residuo ‘industrialista’ e ‘lavorista’ di Marx. Incarnerebbe, per così dire, una antropologia fondata sull’idea della centralità della produzione nel definire la natura dell’essere umano, antropologia che si è tradotta politicamente nella presunzione secondo la quale la classe lavoratrice, o il partito che pretende di rappresentarne la coscienza, avrebbe titolo a una posizione di primato nel blocco sociale anticapitalistico, e nella costruzione della nuova società. Se via d’uscita dalle relazioni capitalistiche esiste, essa andrebbe individuata nella ricerca, qui ed ora, di un ‘altrove’ di relazioni produttive e interumane non mercantili, ‘ingranata’ materialisticamente proprio in quella distruzione del lavoro salariato che indica il restringimento dell’area capitalistica.

Queste obiezioni, si è visto, non reggono alla prova dei fatti. Vale la pena ripeterlo: non siamo nell’era della fine del lavoro, semmai del lavoro senza fine. E però si è visto anche che la centralizzazione senza concentrazione, se mantiene la centralità del lavoro nella valorizzazione, pone drammaticamente la questione della sua impotenza nella trasformazione sociale. D’altro canto, la centralità sociale nella trasformazione non ha nulla a che fare con un presunto industrialismo di Marx. Non vi è affatto una ‘centralità della produzione’ nell’autore del Capitale come ideale normativo. Il lavoro come dimensione essenziale della natura dell’essere umano, insieme ad altre, è un portato dello stesso capitalismo: è quello che, ho sostenuto, Marx scopre muovendosi dai Manoscritti del 1844 ai Grundrisse al Capitale. Mentre afferma questo nuovo fondamento della socialità, il capitale però contemporaneamente lo nega: svuotando il lavoro di ogni ricchezza ed assolutizzando questa ‘astrazione’ di attività a sostanza fondamentale della ricchezza capitalistica.

Insomma, la ‘centralità del lavoro’ in Marx non ha proprio niente a che vedere con una prospettiva ‘produttivista’. La lotta nella produzione è ‘centrale’ esclusivamente nel senso che la necessaria messa in crisi dell’universo capitalistico e la sua trasformazione non possono non attraversare in modo determinante il cuore del meccanismo sociale e la realtà del lavoro. È vero oggi, come lo era al tempo di Marx. 


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