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"Una mappa aggiornata della situazione in Yemen: in rosso sono indicati i ribelli houthi, in viola le forze alleate all’Arabia Saudita, in verde i gruppi jihadisti Ansar al Sharia e Al Qaida nella Penisola Arabica (Liveuamap)"
Oggi le relazioni internazionali sono dominate dal caos, dato che le potenze regionali e locali non stanno più sotto il controllo delle superpotenze. Si veda il caso dello Yemen.
Il tempo presente nelle relazioni internazionali si connota per il caos che da esse ne deriva e per gli esiti inaspettati che guerre locali e scontri militari hanno. Quello che fino al 2011 (distruzione dello stato libico) poteva capitare ad uno stato definito canaglia, non solo tarda ad avverarsi per altre compagini statali ma più spesso si rovescia nel suo opposto disorientando gli analisti più navigati nel settore. A dire il vero più in quelli del vecchio occidente che fra quelli del resto del mondo.
La risposta che spesso viene data, o almeno tentata, è la seguente: stiamo passando da una fase di unipolarismo USA ad una fase di multipolarismo in cui alcuni stati (Russia, Cina, ecc.) condividono progressivamente con gli Stati Uniti il governo del mondo. Ma in genere le spiegazioni si fermano lì e vanno poco oltre [1]. Il problema di cosa effettivamente sia il multipolarismo e in cosa consistano le sue reali conseguenze sulla vita degli abitanti degli stati o di intere regioni del mondo non viene spiegato e perciò tutto rimane confuso e poco chiaro. Tenterò di definire meglio cosa sia il multipolarismo e quali siano i suoi rischi e le sue possibilità di sviluppo. Per far questo mi servirò di una crisi regionale, la crisi yemenita, e attraverso la sua analisi proverò a decriptare l’esistente.
Chi volesse descrivere la situazione attuale deve partire dal concetto di Kaos. Il mondo contemporaneo è caotico e, pertanto, non se ne può tracciare una traiettoria coerente. Ritengo che un tentativo di rendere coerente l’esistente debba partire dal riconoscere che il peso delle decisioni delle élite degli stati definiti medie potenze, ma anche di quelli piccoli, è tutt’altro che irrilevante nella soluzione delle crisi regionali. Di converso il peso delle decisioni degli stati definiti potenze o superpotenze mondiali diminuisce con la necessità, che inevitabilmente si pone a loro nelle crisi, di impegnare masse di uomini nella risoluzione delle stesse. Cioè se una superpotenza o potenza mondiale vuole risolvere una crisi regionale a suo favore o impegna masse sempre crescenti di uomini, e neanche in questo caso la vittoria è certa, o l’uso che essa fa della potenza aeronavale e tecnologica produrrà solo effimeri successi e temporanee vittorie.
È doveroso aggiungere però che gli Stati Uniti resisi ben consci della loro progressiva incapacità a governare le crisi e a soggiogare le medie potenze regionali (Iran, Nord Corea ecc.), hanno introdotto un nuovo concetto, in sostituzione di quello di Deterrenza nucleare con il concetto di flessibilità nucleare. Ciò lo si trova nel documento dell’assemblea parlamentare NATO del 11 giugno 2019 dal titolo Nuclear Operations e del’11 luglio 2019 dal titolo A new era for nuclear deterrence? Modernisation, arms control, and allies nuclear forces, che introducono il concetto di flessibilità nucleare. Ciò significa che la potenza nucleare USA deve essere usata gradatamente partendo dalle bombe nucleari depotenziate da usare per ribaltare situazioni di stallo o di imminente sconfitta. La risposta russa è stata che questa dottrina porterà rapidamente ad una guerra totale per il semplice fatto che gli stati regionali non si fermeranno ma rilanceranno con altre armi nucleari e quindi si arriverà alle bombe di massimo potenziale. Questa nuova dottrina merita un approfondimento in un saggio apposito, ma per adesso rimaniamo al problema yemenita e alla falsa contrapposizione tra Sunniti e Sciiti.
Il caso yemenita è paradigmatico di come una crisi regionale in un luogo strategico del mondo sia oggi irrisolvibile sia da parte di una superpotenza, sia da parte di una potenza regionale, anche nel caso che essa disponga di fondi pressoché illimitati e coperture politiche presso l’opinione pubblica mondiale come Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti. Di converso, il peso dei poteri locali aumenta e diventa decisivo per la vittoria se essi sono disposti a riconoscere valore politico positivo alle istanze popolari locali della popolazione che governano [2]. Nel caso yemenita le tribù del nord di religione sciita, politicamente e militarmente inquadrate nei comitati popolari di Ansarullah, le tribù Houthi, sono divenute determinanti per i successi ottenuti. Qui abbiamo il vecchio e mai desueto problema di come, quando élite e popolo si uniscono, la forza della compagine statale si accresce enormemente. Nel paese in questione ciò si è felicemente risolto perché popolo ed élite hanno individuato obiettivi comuni e un nemico storico: l’Arabia Saudita [3].
La crisi yemenita ha origini lontane nel tempo. Nella metà del secolo scorso lo Yemen era diviso in due stati: il nord a forte connotazione islamica sciita, ma di uno sciismo non esattamente apparentabile a quello iraniano, e quello del sud che è stato fino ad oggi il solo stato comunista arabo [4]. Nel nord nel 1962 si scatenò una guerra civile tra i pastori Houthi e il governo di Sana. La guerra civile vide l’ingerenza dei Sauditi che, more solito, non avendo un esercito di terra degno di questo nome, coinvolsero l’Egitto in una guerra dove l’esercito di Nasser fu sconfitto dai nonni dei guerriglieri Houthi di oggi, nella stessa regione del nord yemenita, le montagne dello Jizzan, che oggi come ieri è la roccaforte inespugnabile della resistenza dei comitati popolari di Ansarullah.
Come hanno fatto gli Houthi di oggi a resistere ad eserciti armati con i più moderni mezzi militari di fabbricazione occidentale, fino a costringere gli emiratini a ritirarsi? La risposta a questa domanda si trova in due concetti che cercherò di chiarire: retroingegnerizzazione delle armi sovietiche e forte legame tra i comitati di Ansarullah con la base popolare.
Lo Yemen, al pari di altri paesi mediorientali nei decenni precedenti, è stato rifornito con una certa abbondanza di armi sovietiche. Armi come i missili aria-aria sono state riprogrammate e trasformate in missili a media e in parte a lunga gittata terra-terra. Ciò è avvenuto perché nel 2003, a seguito della seconda Guerra del Golfo, decine di esperti ingegneri e tecnici iracheni fuggirono nello Yemen che era allora dominato dal dittatore Ali Abdullah Saleh, amico e alleato di Saddam Hussein. Questi tecnici con ampie competenze nelle armi sovietiche e nello specifico nella missilistica sono alla base dei successi delle forze della resistenza e provengono da quella parte dell’esercito che è fieramente anti-saudita e che però è sunnita e non sciita.
I guerriglieri Houthi poi, hanno praticato la guerriglia sulle montagne arrivando a rendere arduo l’attraversamento di territorio yemenita da parte dei convogli Sauditi, che addirittura hanno dovuto evacuare una intera regione di confine come lo Jizzan. Questo fatto sarebbe già sufficiente a rendere omaggio ai combattenti Houthi, i quali sono stati anche capaci con il loro coraggio di difendere il porto di Hodeida dell’omonima città assediata dai sauditi e dagli emiratini per strangolare la resistenza yemenita. A livello di comunicazione mediatica questa vittoria segna il fallimento dei mass media occidentali, i quali legati mani e piedi al regno di Ryad si sono affidati alla propaganda Saudita che diceva ogni giorno che: “Hodeida è caduta”, “sta per cadere”, “cadrà fra pochi giorni”, “abbiamo preso l’aeroporto”, “il porto è nostro” ecc, ecc. La realtà era ed è che i combattenti Houthi non si sono fatti scalzare dalla città e le perdite dei loro nemici sono state alte, soprattutto fra i mercenari dell’Africa nera. Questi ultimi potevano solo scegliere tra la morte per affogamento nel canale di Sicilia o quella una sassaia pietosa dello Yemen. La cosa più ignobile è che i sauditi non potendo venire a capo della resistenza si sono accaniti con bombardamenti sulla popolazione civile di Sana. La dirigenza dei comitati popolari di resistenza ha scelto una risposta, alla fine rivelatasi vincente, non ha colpito con i suoi droni e i suoi missili i civili sauditi, ma dopo vari tentativi ha colpito con efficacia raffinerie e pozzi petroliferi sauditi.
Oggi l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi sono ad un passo da una guerra che combatteranno nello Yemen, e non nel nord ribelle sciita, ma nel sud sunnita che, teoricamente, doveva da essi essere condotto alla vittoria sul nord e invece va in continue convulsioni militari. Lo scontro tra forze sostenute dai sauditi e quelle sostenute dagli emiratini, che si sono ritirati, va avanti con convulse operazioni militari e tregue mediate dai capi tribù locali. La cosa più ironica è che l’Occidente che ha armato e sostenuto questi due stati non può far nulla per riappacificarli e assiste impotente a tutto ciò che avviene in un caos inestricabile proprio nel sud del paese che appariva due anni fa più stabile del nord. Ovviamente i media occidentali ci nascondono tutto ciò e soprattutto celano che Al Qaeda ha nel sud il controllo di ampi territori. Così che oltre che in Siria ad Idlib, anche nello Yemen Al Qaeda controlla un territorio in forma statuale. Osserviamo che la vulgata dei commentatori occidentali fa acqua da tutte le parti. Essa ci descrive un mondo sunnita unito contro il mondo sciita e ignora che Al Qaeda ha due piccole ma sicure enclavi in due paesi così distanti geograficamente.
L’Arabia Saudita sa che da sola non può continuare la guerra, allora prova a chiedere l’intervento dell’esercito pakistano ricevendo dal governo di quel paese un deciso no. La richiesta di aiuto al Pakistan da parte del regno petrolifero è un leitmotiv ricorrente, è stata già fatta nel caso della Siria, la cui complicata situazione terrorizza la casa reale saudita. In questo paese l’apparente solida alleanza delle forze sunnite si è sfaldata di fronte alla resistenza di Assad che, sostenuto da Russia e Iran, ha costretto i qatarioti a ritirarsi dalla lotta, dovendo in seguito fronteggiare il tentativo del potente stato sunnita saudita di annetterli. Annessione evitata grazie all’appoggio dei turchi sunniti, i quali paradossalmente si sono trasformati da alleati dei Sauditi in Siria in avversari del Qatar in Siria, Qatar che è uno stato sunnita sopravvissuto grazie al sostegno dell’Iran sciita [5]. Lo Yemen in questo è paradigmatico. Questa caotica situazione mediorientale, abilmente nascosta dai commentatori occidentali, ha una delle sue cause dalla resistenza degli Houthi di Ansarullah alleati di quella parte dell’esercito fieramente avversa ai Sauditi. È appena il caso di dire che l’Occidente svolge una funzione di venditore di armi ma influisce poco o nulla.
Infine, un chiarimento va dato al rapporto tra Yemen e l’altra potenza regionale l’Iran degli Ayatollah che a parte le esagerazioni della propaganda occidentale e saudita non può rifornire come vorrebbe gli alleati del nord del paese, dato il blocco a cui è sottoposto. Certo, specialisti e componenti elettronici di piccole misure possono arrivare ma veri e propri rifornimenti militari no. Quindi droni e missili sono di costruzione o ricostruzione yemenita. Droni e missili di genuina costruzione yemenita seminano la distruzione e la morte fra le forze armate di stati come l’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti che a noi occidentali sembrano invincibili nella guerra contro un popolo che pratica la pastorizia come attività economica prevalente. Praticava pochi anni fa il turismo ma oggi non è ancora il momento di poter visitare Sana, uno dei centri protetti dell’Unesco.
Il mondo è cambiato, noi in Occidente non vogliamo rendercene conto, ma presto la realtà ci costringerà a farlo. Sta avvenendo un enorme scontro strategico che sposterà i rapporti di forza mondiali, nasceranno nuovi spazi egemonici. I nostri politici a casa nostra chiamano populismo un legame tra élite e popolo, che con ogni probabilità sarà la cifra del XXI secolo. Il XXI secolo non sarà liberale, ma nemmeno forse comunista, ma sicuramente chi governa, dovunque sia, dovrà dare risposte concrete ai popoli.
Note:
[1] Sulla transizione di un’egemonia all’altra utile è il testo di Peter J. Hugill, Transition in Power: Technological "Warfare" and the Shift from British to American Hegemony since 1919, Lexington Books 2018;
[2] Una buona visione generale del problema medio orientale e saudita nello specifico la si può trovare nella nuova edizione del testo di Reinhard Schulze, Geschichte der islamischen welt, von 1900 bis zur gegenwart, Verlag, Munchen 2016;
[3] Un buon testo sulle condizione dello Yemen contemporaneo è Ginny Hill, Yemen endures, Oxford University press, 2017;
[4] Per una generale conoscenza di uno stato arabo che adottò i principi del marxismo-leninismo, unico fra gli stati arabi, consiglio la lettura dell’opera di Guido Valabrega, nello specifico La rivoluzione araba del 1975 e per i rapporti tra arabismo e marxismo, in quegli anni, va letto il saggio di Anuar Abdel-Malek, Gli aspetti ideologici dell’unità araba, reperibile nel vol. IV della storia del mondo contemporaneo della Nuova Italia alle pagg. 439-459, dell’edizione del 1979;
[5] In questo paese l’apparente solida alleanza delle forze sunnite si è sfaldata di fronte alla resistenza di Assad che, sostenuto da Russia e Iran, ha costretto i qatarioti a ritirarsi dalla lotta, dovendo in seguito fronteggiare il tentativo del potente stato sunnita saudita di annetterli. Annessione evitata grazie all’appoggio dei turchi di religione sunnita, ma gli stessi turchi in Siria sostengono gruppi di jihadisti che sono avversari dei gruppi filo qatarioti spesso organici ad Al Sham (Al Qaeda di impronta saudita) , quel Qatar che è uno stato sunnita che è sopravvissuto grazie al sostegno dell’Iran sciita. In un continuo susseguirsi di alleanze a volte innaturali, a volte poco scontate.
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