Alexander Hobel è Dottore di ricerca in Storia, collabora con la Fondazione Gramsci e l’Università di Napoli Federico II. E' direttore di https://www.marxismo-oggi.it
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Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin - Vladimiro Giacché (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1306/1206)
Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin - Vladimiro Giacché (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1306/1206)
La crisi e il crollo dell’URSS sono
stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica.
I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il
“grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò
l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda
potenza del mondo per
produzione industriale)1,
i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’602.
L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio
dell’industria sull’agricoltura,
e dal predominio
dell’industria pesante,
produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di
consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi
maggiori problemi3.
L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.4. In sostanza, i “gruppi di interesse” agivano “contro gli interessi dello stesso piano generale”. Il discorso era analogo passando dai ministeri alle singole imprese: informazioni falsate per avere piani di produzione meno impegnativi, riserve nascoste, forniture extra-piano, costi gonfiati, ecc. Peraltro, “ogni realtà territoriale di una certa rilevanza” esprimeva “inevitabili spinte localistiche”. Ne derivava la “dispersione” e “l’indebolimento dei poteri di direzione”; “veniva ad indebolirsi fortemente lo stesso principio di responsabilità riguardo all’utilizzo economicamente e socialmente valido delle risorse”, e si moltiplicava la “appropriazione particolaristica delle risorse ‘pubbliche’”5. Come osserva Boffa, “quella che doveva essere l’economia più pianificata e controllata [...] per una parte considerevole e, comunque, crescente, sfuggiva a qualsiasi controllo [...]”6.
A tutto ciò si aggiungevano difetti legati alla produzione e alla produttività: il privilegiare la quantità (per realizzare gli obiettivi del piano) a danno della qualità dei prodotti, una manodopera in eccesso e sottoutilizzata (sintomo di una “disoccupazione occulta”), infine una resistenza all’innovazione tecnologica (per non vedere aumentati gli obiettivi del piano)7. E sullo sfondo, il “compromesso corporativo regressivo tra direzione di fabbrica e maestranze”, e quindi la scarsa produttività del lavoro. Si tratta di quel “contratto sociale brezneviano” o “compromesso sovietico”, che consisteva in un tacito accordo tra operai da un lato, e direttori d’impresa e ceto politico dall’altro, per cui a scarsi incentivi materiali corrispondeva una produttività del lavoro scarsa8. Peraltro, “gli incentivi materiali non sono stati accettati volentieri quando mettevano in questione [...] il modo di lavorare abituale”, che implicava “totale sicurezza dell’impiego”, “bassi ritmi di lavoro” ecc.9: aspetti in parte tendenzialmente socialisti, o prematuramente socialisti, rispetto alla necessità di sostenere la competizione col supercompetitivo e capitalistico Occidente.
Notevoli erano anche le rigidità e i limiti tecnici della pianificazione, dalla difficoltà di una efficiente allocazione delle risorse all’inadeguatezza tecnica del “metodo dei bilanci materiali” utilizzato dai ministeri per calcolare le relazioni inputs-outputs, dai limiti di calcolo dei costi di produzione fino al problema del raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta dei beni di consumo, e tra quest’ultima, i prezzi ed i salari. Inoltre, permanendo condizioni di scarsità e difficoltà nella distribuzione, e mancando meccanismi di adeguamento automatico tra domanda e offerta, si verificava spesso uno squilibrio tra massa salariale e offerta di beni di consumo, da cui i fenomeni delle file o degli scaffali vuoti, sintomi di una “inflazione repressa” che sarebbe divenuta “aperta e pericolosa se meccanismi di libero mercato venissero attivati”; come nei fatti è stato. Il problema, in definitiva, legato alla definizione “arbitraria” dei prezzi, consisteva in uno squilibrio tra beni prodotti, prezzi e salari10. Infine, tra i “problemi microeconomici”, c’era la mancanza di rigidi vincoli di bilancio per le imprese che, non temendo di fallire in quanto sostenute dallo Stato, non puntavano eccessivamente sulla redditività dei propri investimenti; dal che seguiva sia la resistenza all’innovazione tecnologica, sia lo spreco di risorse e beni11. Tutto ciò condusse ad una crisi di redditività degli investimenti dello Stato, che sarà fatale: il sistema cioè evitava crisi cicliche e fallimenti aziendali, ma “al costo di giungere assai più rapidamente e coerentemente alla propria fine”. In questo senso, come scrive Catone, “l’economia sovietica del periodo brezhneviano ha rimosso una razionalità capitalistica senza [...] aver costruito una nuova razionalità socialista”12.
Il fallimento dei tentativi di
riforma
I problemi economici che abbiamo visto sono stati più volte oggetto di tentativi di riforma. I principali tentativi risalgono a Krusciov e alle riforme di Kosygin degli anni ’60. Le riforme kruscioviane riguardarono l’organizzazione dell’economia: in un quadro di decentramento, furono istituiti i sovnarchozy (centri di pianificazione regionali) e vari ministeri furono aboliti; si intendeva così superare un modello organizzativo verticale, attraverso organi di coordinamento che stimolassero anche le relazioni fra le imprese. Ne derivò però il rafforzarsi delle “tendenze campanilistiche”: il risultato fu quello di “sostituire lo ‘spirito di parrocchia’ dell’amministrazione locale alla ‘lieve tutela’ dei ministeri, e l’esperimento fu abbandonato ovunque”13. Secondo A. Nove, l’istituzione dei sovnarchozy produsse il moltiplicarsi di enti da cui dipendevano le forniture di materie prime e semilavorati per l’industria, il che complicava la realizzazione del piano: non c’era più un solo organo responsabile, cosicché alla fine non era responsabile alcuno; nelle repubbliche più grandi, vigeva una “pianificazione a doppio binario”14.
Il secondo importante tentativo riformistico fu la “riforma dell’impresa” di Kosygin (1965), i cui obiettivi erano il “miglioramento della pianificazione” e il “rafforzamento dello stimolo economico della produzione”: a tali fini, occorreva ridurre il numero degli “indici imperativi” pianificati centralmente, introdurre altri indici di produttività oltre a quelli quantitativi, lasciare parte degli utili all’impresa. Secondo R. di Leo, anche questa riforma ebbe un “esito fallimentare”: ponendo la questione di un “rapporto orizzontale tra le aziende”, ebbe “effetti di rimbalzo sul resto dell’ingranaggio [...] tali che il partito-stato tornò al centralismo verticale [...]”. D’altra parte, la riforma lasciava immutato il resto del sistema, e in particolare il meccanismo di formazione dei prezzi e la pianificazione elaborata “in grandezze fisiche” piuttosto che in termini finanziari. Anche per Catone, la riforma “aggrava i problemi dell’economia sovietica. Le imprese acquisiscono un potere monopolistico che prima non avevano, ma non migliorano la qualità della produzione”. Per Ellman e Kontorovich, le riforme del 1965 “danneggiarono l’organicità del sistema di comando, affrettandone la fine”15. In questo senso, il “riformismo comunista” sarebbe fallito non tanto perché “bloccato” ma proprio in quanto avrebbe effettivamente realizzato alcune innovazioni, rivelatesi però incompatibili col funzionamento del sistema.
La “doppia economia”
Veniamo ora al problema della “doppia economia”, ossia alla convivenza dell’economia ufficiale con l’“economia ombra” o “seconda economia”16. Questa, essenzialmente un circuito mercantile a fronte di un’economia pianificata, è stata generata dalle carenze di quest’ultima; ma era anche un’eredità della struttura sociale pre-rivoluzionaria. Giustamente il Manuale di economia politica apparso in URSS negli anni ’50 affermava che “la costruzione del socialismo” non può fondarsi “su due basi differenti” – ad esempio sull’“industria socialista più grande e più unificata” e “un’economia contadina di piccola produzione mercantile dispersa e arretrata” – “per un periodo relativamente lungo”. Mao commentava che in URSS “il periodo di coesistenza” era “durato troppo a lungo”17. Il Paese cioè si reggeva su due sistemi di proprietà potenzialmente antagonistici. L’esistenza delle “piccole aziende familiari”, ossia degli appezzamenti privati dei contadini colcosiani, e dei “mercati colcosiani”, provocava scompensi economici notevoli. Infatti, tempo di lavoro e produttività aumentavano nel piccolo appezzamento privato, diminuendo in quello collettivo o statale. Esisteva inoltre una “coesistenza antagonista del piano e del mercato”, per certi versi inevitabile nel periodo di transizione18. Scrive nel ’69 Sweezy:
I
rapporti mercantili [...] sono inevitabili,
per un lungo periodo di tempo, nel socialismo, ma costituiscono un
pericolo permanente per il sistema e, se non contenuti e controllati,
condurranno alla degenerazione e alla regressione.
[...] La contraddizione mercato-piano non è una contraddizione assoluta nel senso che le due forze non possano esistere affiancate; è una contraddizione nel senso che [...] sono in opposizione l’una all’altra e [...] costrette a una incessante lotta per il predominio. Il problema qui non è tanto quanto estensivamente si ricorra al mercato, ma fino a che punto si ricorre al mercato quale regolatore indipendente19.
In questo senso, la “rottura”
avviene nella fase post-staliniana, con Krusciov e più ancora con
Breznev. Si produce allora una crisi
della pianificazione
centralizzata: i processi
di decentramento amministrativo e gestionale vi entrano in contrasto;
ma soprattutto essa è ostacolata dai crescenti scambi economici di
tipo privatistico tra imprese, ministeri ecc., ossia da un mercato
di materie
prime e mezzi di produzione,
accanto a cui si sviluppa una sempre più ampia dinamica di mercato
nel settore dei generi alimentari e di
consumo.
Emerge così una “economia ombra” che mette in crisi la
pianificazione, e innesca una spirale di illegalità
diffusa, connivenze e corruzione,
che a sua volta fa sorgere “mafie”
locali e nazionali20.
Insomma, fenomeni disgregativi dell’economia pianificata si
inseriscono nelle crepe di quest’ultima, contribuendo a tenerla in
piedi nel breve periodo, ma in realtà “scavandole la fossa”21.
A ciò si aggiunga, nelle zone periferiche dell’URSS (Asia centrale
ecc.), un’“economia informale su vasta scala non controllata
dallo Stato”, fondata su legami familiari ed etnici: “zone
franche” in cui si sviluppavano rapporti di mercato, peraltro
piuttosto primitivi, “economie familiari contadine” e “pratiche
illegali”22.
Dunque il processo inizia negli anni ’60: è allora che “le aspettative della gente vennero percepite sempre più come legittime, e le iniziative economiche informali che nascevano per soddisfarle apparvero la soluzione di minor rischio”, per cui “le autorità [...] cominciarono a chiudere gli occhi sull’economia-ombra”. Inoltre l’ampio ricorso all’incentivazione materiale aumentò la “monetizzazione dell’economia domestica”, legittimando nuovi valori. La riforma del 1965 segnò “la pubblica accettazione della coesistenza tra l’organizzazione economica di tipo sovietico e l’impresa contadino-familiare, non più considerata compromesso transitorio a latere del socialismo realizzato, ma presenza operante dentro di esso”, mentre la Costituzione del ’77 riammetteva le “attività artigianali e commerciali private”23. Le “norme meno rigide sulle piccole attività economiche private [...] crearono nuove opportunità [...] di crearsi un reddito supplementare [...] grazie a un ‘secondo lavoro’ o [...] un’attività privata a tempo pieno”24. L’“inserimento di faccende personali nell’orario di lavoro, con l’impiego di valori di proprietà sociale per uso privato” contribuì al consolidarsi di “una seconda economia negli ‘interstizi’ di quella centralizzata”25.
“A metà degli anni ’70 non si poteva più parlare [...] della pianificazione come qualcosa di realmente funzionante”; gli scambi di semilavorati e materie prime avvenivano “sulla base ora di rapporti di forza fra settore e settore, e azienda e azienda, ora di meccanismi spontanei, e cioè sempre al di fuori di ogni idea di piano”. Le imprese svilupparono “una loro particolare economia parallela”, accumulando più risorse del necessario “per poterle poi scambiare vantaggiosamente”26. Del resto, la formazione di un mercato parallelo dei mezzi di produzione era conseguenza “inevitabile” dell’“introduzione del principio di redditività delle singole imprese”, specie in una situazione di “penuria relativa” come quella sovietica27. Alcuni lavori, specie nell’edilizia, erano appaltati a “squadre speciali” di lavoratori in sovrannumero, al di fuori del circuito ufficiale; “e dal momento che il materiale usato era sottratto alla sua legittima destinazione, esisteva necessariamente un giro vorticoso di furti [...] e di corruzione [...]”28. In generale, “l’economia-ombra era basata sulla corruzione e il ladrocinio o furto su larga scala della proprietà statale”, con “una cooperazione nascosta” tra la nascente ‘mafia’ e settori della nomenklatura, e il formarsi di una nuova “categoria di intermediari”; insomma, fu “un enorme parassitismo” “sul corpo dell’economia di Stato”29. Essa contribuì ad aggravarne i difetti dell’economia pianificata e a costituire una proto-borghesia para-criminale, poi tra i protagonisti della disgregazione dell’URSS.
2
Cfr. M. Dobb, Storia
dell’economia sovietica,
Editori Riuniti 1976; A. Nove, Storia
economica dell’Unione Sovietica,
Utet 1970.
5
M. Ruzzene, Governo
e pianificazione della produzione sociale,
“Alternative”, 1996, n. 5-6, pp.
105-111.
7
Ch. Bettelheim, La
specificità del capitalismo in URSS,
“Alternative”, 1996 n. 5-6, in Ch. Bettelheim, P.M. Sweezy, Il
socialismo irrealizzato,
Editori Riuniti 1992, p. 108; Malle, op.
cit., pp. 146-149.
8
Cfr.
L.J. Cook, The
Soviet Social Contract and Why It Failed. Welfare Policy and
Workers’ Politics from Brezhnev to Yeltsin,
Harvard University Press 1993; AA.VV., Il
compromesso sovietico,
Feltrinelli 1977.
9
W. Brus, citato in A. Natoli, Le
radici di un’alienazione totale,
“il bimestrale”, suppl. a “il manifesto”, 29 marzo 1989, p.
59.
10
Malle, op.
cit., pp. 166-167, 172-178,
186; R. di Leo, Il modello di
Stalin. Il rapporto politica-economia nel socialismo realizzato,
Feltrinelli 1977, p. 63.
11
Malle,
op.
cit.,
pp. 193-195; Aganbegjan, Il
futuro
dell’economia sovietica,
cit., pp.
36-38, 49-50.
12
Giussani, La
crisi dell’economia sovietica e le sue prospettive,
in Giussani-Peregalli, Il
declino dell’URSS…,
cit., pp. 26-27; Catone, La
transizione bloccata…,
cit., p. 231.
13
N. Ruzavaeva, La
politica economica dagli anni Sessanta alla prima metà degli anni
Ottanta: contraddizioni e difficoltà dello sviluppo,
in AA.VV., Problemi di storia
russa e sovietica, Edizioni
Progress 1991, pp. 204-205; M. Lavigne, The
Economics of Transition.
From Socialist Economy to Market Economy,
Macmillan 1995, p. 6.
14
A. Nove, Stalinismo
e antistalinismo nell’economia sovietica,
Einaudi 1968, pp. 111-115, 120-122.
15
R. di Leo, L’economia
sovietica tra crisi e riforme (1965-1982),
Liguori 1983, pp. 17, 31-39, 50-51; Catone, op.
cit., p. 165; G.M. Ellman,
V. Kontorovich, Overview,
in AA.VV., in
AA.VV., The
disintegration of the Soviet economic system,
Routledge 1992, p. 14.
17
Cfr. Mao Tse-tung, Note
di lettura sul “Manuale di economia politica dell’Unione
Sovietica”, cit., pp.
53-54.
19
P.M. Sweezy, Risposta
a Charles Bettelheim [1969],
in Sweezy-Bettelheim, Il
socialismo irrealizzato,
cit., pp. 29-30.
20
Cfr. di Leo, Il
modello di Stalin…, cit.,
cap. 5 e Conclusioni;
Boffa, Storia…,
cit., vol. 4, pp. 373-374.
22
M. Buttino, General
Introduction, in AA.VV., In
a Collapsing Empire.
Underdevelopement, Ethnic Conflicts and Nationalisms in the Soviet
Union
(a cura di M. Buttino), Annali Feltrinelli 1992,
pp. XVII-XVIII.
23
di Leo, Vecchi
quadri e nuovi politici…,
cit., pp. 49, 56-60; Il
modello di Stalin…, cit.,
pp. 92, 137.
25
Cfr. A. Natoli, La
fine del modello staliniano,
“Marx 101”, febbraio 1991, p. 66; Le
radici di un’alienazione totale,
cit., p. 59.
26
A. Guerra, Il
crollo dell’impero sovietico,
Editori Riuniti 1996, pp. 177-179; Boffa, Dall’URSS
alla Russia, cit., p. 86.
28
K.S. Karol, Un
conflitto occulto, in
AA.VV., Appuntamenti di fine
secolo, Manifestolibri 1995,
p. 269.
29
Lavigne, The
Economics of Transition,
cit., pp. 9-10; Peregalli, La
parabola…, cit., pp.
73-76. Corsivi miei.
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