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martedì 17 giugno 2025

Trump, visto da Pechino - Vincenzo Comito

Da: https://fuoricollana.it - https://www.sinistrainrete.info - Vincenzo Comito, ha lavorato a lungo nell’industria (gruppo Iri, Olivetti) e nel movimento cooperativo, nelle aree dell’amministrazione e finanza, del controllo di gestione e del personale. Docente di finanza aziendale ha insegnato all’Università Luiss di Roma e all’Università di Urbino. Fa parte del gruppo “Sbilanciamoci” e di quello di "Fuoricollana". Tra i suoi ultimi libri: “La globalizzazione degli antichi e dei moderni” (Manifesto libri, 2019) e "Come cambia l'industria" (Futura editrice, Roma, 2023). 

Pianeta Cina. - Stefano Zecchinelli intervista Carlo Formenti https://www.youtube.com/watch?v=SCPvcfL6FVQ


La Cina reagisce con savoir-faire alla guerra commerciale. Prova, anzi, ad approfittarne per presentarsi al mondo come l’alternativa al caos economico dei dazi e la garante di una globalizzazione maggiormente condivisa. È possibile un riavvicinamento con l’UE?

Può darsi che gli obiettivi complessivi che il presidente Trump mira a raggiungere con la sua campagna dei dazi non siano del tutto chiari, ma forse si può ricorrere a quanto scrive Kroebler (Kroebler, 2025) in proposito: «lo scopo della sua guerra commerciale è quello di rimuovere i vincoli imposti dall’attuale ordine economico internazionale sull’esercizio del potere unilaterale statunitense e in particolare l’esercizio del potere da parte del presidente…quello che Trump vuole soprattutto è di mostrare la sua dominazione sul mondo e di ottenere sottomissione. I paesi che non resistono attivamente ai suoi dazi verranno graziosamente risparmiati dall’imposizione di dazi troppo elevati, il paese che osa resistergli è selvaggiamente punito…». 

La “crociata” contro la Cina viene da lontano

domenica 15 giugno 2025

Israele ha aperto il vaso di pandora dell’atomica - Pino Arlacchi

Da: Il Fatto Quotidiano | 14 giugno 2025 (https://www.ilfattoquotidiano.it) - Pino Arlacchi è un sociologo, politico e funzionario italiano (https://www.facebook.com/PinoArlacchi - Pino Arlacchi).

Leggi anche: Il falso mito della Cina capitalista e gli occhi strabici dell’Occidente - Pino Arlacchi 


Gli eventi della notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 rimarranno nella storia come il momento in cui l’irresponsabilità criminale di Tel Aviv, sostenuta dalla complicità di Washington e dall’impotenza dell’Europa, ha dato un colpo, forse mortale, al maggiore ostacolo verso la guerra atomica: il regime di non proliferazione nucleare stabilito dal Trattato del 1970 (Tnp) e costruito pazientemente nei decenni successivi alla Guerra fredda. 

Israele ha commesso un delitto di proporzioni storiche. Bombardando le installazioni nucleari civili di uno Stato parte del Tnp, posto sotto il controllo dell’Agenzia Atomica di Vienna (Aiea), Netanyahu ha violato simultaneamente il diritto internazionale, la Carta Onu e ogni principio di proporzionalità. Ma l’aspetto più grave è che questo atto ha fornito all’Iran la giustificazione giuridica perfetta per ritirarsi dal Tnp e sviluppare armi nucleari in piena legalità internazionale. L’articolo 10 del Tnp permette il ritiro quando “eventi straordinari abbiano messo in pericolo gli interessi supremi” di uno Stato. È difficile immaginare evento più straordinario di un assalto militare. La Corea del Nord invocò lo stesso articolo nel 2003 per molto meno. E tre anni dopo aveva la bomba, in regime di legalità internazionale perché non si è mai riusciti a proibire l’atomica. 

L’Iran può ora citare un pesante attacco militare contro la sua sovranità territoriale e le sue installazioni militari legali. Netanyahu ha appena regalato all’Iran la strada legale verso l’arma nucleare. Gli Stati Uniti si sono resi complici di questa catastrofe diplomatica. La dichiarazione del Segretario di Stato Rubio di “non essere coinvolti” nell’attacco è farsesca: Israele non può operare senza il tacito consenso americano. Ma è la minaccia di Trump di altri attacchi “ancora più brutali” se l’Iran non firmerà l’accordo nucleare in discussione a rivelare la vera, demenziale strategia: costringere con la forza l’Iran a firmare un accordo che da adesso in poi non potrà firmare. Se l’Iran dovesse cedere all’ultimatum militare sui negoziati, si creerà un precedente terrificante: qualsiasi Stato nucleare potrà bombardare i vicini per ottenere concessioni politiche o per punirli. Quale fiducia potranno più riporre gli Stati non nucleari in un trattato che non è riuscito a proteggerli dall’aggressione militare proprio mentre rispettavano i loro obblighi internazionali? 

L’Iran, nonostante tutte le controversie degli ultimi anni, rimaneva sotto il regime di salvaguardia dell’Agenzia atomica. La bomba atomica era stata oggetto di una fatwa lanciata dai suoi leader supremi. I suoi impianti di arricchimento erano sottoposti a ispezioni internazionali. I suoi scienziati lavoravano in un contesto legale, seppur reso scomodo dalle sanzioni occidentali. Ucciderli significa aver trasformato il nucleare civile in un obiettivo militare, distruggendo – stile Gaza – una delle più importanti distinzioni del diritto internazionale. L’Europa sta assistendo impotente al crollo di un suo capolavoro politico e diplomatico. L’accordo del 2015 che toglieva le sanzioni e reintegrava Teheran nel contesto internazionale era il simbolo del multilateralismo europeo, una prova che l’Europa poteva essere un attore globale autonomo. L’accordo fu stracciato da Trump nel 2018, ma è rimasto in vigore dal lato europeo. Oggi, Francia, Germania e Regno Unito si limitano a timidi appelli alla “moderazione” mentre il loro capolavoro viene distrutto sotto i loro occhi. 

Questa impotenza europea non è soltanto strategica, è esistenziale. Se l’Europa non riesce a difendere il multilateralismo quando viene attaccato, quale è la sua ragion d’essere geopolitica? Il precedente è devastante: se uno Stato può bombardare le installazioni nucleari civili di un altro senza conseguenze, il Tnp è carta straccia. 

Il Consiglio di Sicurezza, paralizzato dai veti incrociati, starà a guardare come già fece con la Corea del Nord. Il risultato sarà una spirale di proliferazione nucleare che coinvolgerà Arabia Saudita, Turchia, Egitto e altri attori regionali. L’incubo che abbiamo evitato per settant’anni potrebbe diventare realtà. L’Iran ha ora 90 giorni per ritirarsi dal Tnp, e avrà il diritto internazionale dalla sua parte. Un Iran nucleare non sarà più un “regime canaglia”, ma uno Stato sovrano che si difende in un mondo dove la forza sembra avere, al momento, sostituito il diritto. 

Netanyahu, Trump e l’Europa hanno appena aperto il vaso di Pandora nucleare. Le conseguenze di questa irresponsabilità ricadranno sulle prossime generazioni.

lunedì 2 giugno 2025

Il falso mito della Cina capitalista e gli occhi strabici dell’Occidente - Pino Arlacchi

Da: Il Fatto Quotidiano | 30/05/2025 (https://www.ilfattoquotidiano.it) - Pino Arlacchi è un sociologo, politico e funzionario italiano (https://www.facebook.com/PinoArlacchi). 

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L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi 

IL GRANDE IMBROGLIO SUL VENEZUELA - Pino Arlacchi 

Ed eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta. Vengo in questo paese quasi ogni anno da trent’anni. Ho potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo. Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta intensità in alcune delle maggiori università del paese. 

Offro ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti. Grandi temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi. E occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi comuni, delle mezze verità e degli stereotipi. 

Non c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come essa si comporti nella scena internazionale. Credo che la nozione più dura da afferrare per media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide basi non-capitalistiche. 

Il più diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la caduta del Celeste Impero. 

Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del 1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula autoritaria e nazionalista. 

La Cina di Xi Jinping, secondo le vittime del suddetto pregiudizio, è una replica tardiva e pericolosa della modernizzazione tedesca, giapponese e italiana del secolo passato destinata a terminare come sappiamo. Salvo una sua conversione dell’ultimo minuto alla democrazia liberale e allo Stato di diritto. 

Conversione di giorno in giorno più improbabile data la saldezza crescente di un dominio comunista diventato, con le nuove tecnologie, compiutamente orwelliano. La forza di questo stereotipo non è intrinseca, ma è dovuta all’assenza di una concezione antagonista munita degli adeguati strumenti di contrasto. 

venerdì 13 dicembre 2024

Quale progresso nel capitalismo? Una amara riflessione... - Paolo Massucci

Paolo Massucci, Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni. 

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Due brevi letture di due miei amici e compagni, mi hanno fatto  molto pensare, con angoscia. Parlo della bella e drammatica poesia di Aristide ("insieme a tutti gli altri" - Aristide Bellacicco) e  dell'interessante articolo di Alessandra su futurasocieta (La guerra in Ucraina deve continuare a tutti i costi - Alessandra Ciattini). 
Andrebbero meglio divulgati... 

Mi sembra, temo, che il capitalismo, nel corso dell'ultimo cinquantennio, abbia minato, ad oggi, le basi ideologiche e morali che rendono possibile la costruzione di una alternativa. Quest'ultima, qualunque possa essere la strada per perseguirla - superamento o abbattimento del sistema capitalistico - richiede una visione e dei valori in opposizione a quelli dominanti del pragmatismo individualista e della competizione tra individui in un gioco a somma zero (in realtà a somma negativa!). Richiede una prospettiva di lungo respiro, una visione collettiva dell'umanità mondiale. Richiede una morale di fratellanza e non di scontro tra interessi economici particolaristici, una collaborazione fiduciosa tra i popoli. Non l'ambizione a diventare dei piccoli Elon Musk, di raggiungere "il successo" a qualsiasi costo, di apparire dei "vincenti", né la rassegnazione ad essere dei "falliti", magari ammiratori dei "grandi", dei "fortunati", dei più "capaci" a valorizzare il "dio capitale". 

Al contrario, un cambiamento reale necessita di riconoscere l'ingiusta appropriazione di risorse appartenenti alla collettività da parte dei grandi ricchi capitalisti "vincenti", i quali, partendo da basi economiche disuguali, hanno sfruttato la scienza, la tecnica, la cultura ed il sapere umano, oltre che i lavoratori, per ottenere immensi profitti, sottratti alla collettività umana. 

Ora, se la cultura individualistica e competitiva ha permeato l'intera società, sarà difficile riconoscere i principi di giustizia sociale, i quali, insieme alla democrazia sostanziale (non quella attuale delle Corporate) e allo sviluppo umano, sono a fondamento di una società migliore, non capitalistica, come prospettata da una tradizione filosofica della quale Marx è il maggior rappresentante. 

Certamente occorre tornare alla teoria marxiana e alle sue successive interpretazioni da parte di eminenti pensatori e politici del '900, ma occorre anche qualcosa di più profondo, una morale interiore che possa anteporre i grandi ideali di giustizia sociale umana (a dispetto del postmodernismo) agli interessi personali particolari, a una visione di breve termine, di piccolo vantaggio individuale o alla chiusura verso l'esterno a difesa di sé stessi. 

Mi chiedo, pure con un certo sgomento ed imbarazzo, se sia stata in buona parte la religione cristiana, e forse cattolica in particolare (come forse altre religioni in altre aree del mondo), la principale istituzione politico-sociale traghettatrice nella storia umana di valori morali di giustizia e fratellanza, peraltro necessari alla costruzione di una società coesa, rivoluzionaria o riformatrice che sia, in senso socialista e comunista. 

Al venir meno della religione, non sono evaporati con essa quegli stessi valori morali ? 

Forse Pasolini, quello della maturità che denuncia tragicamente la decadenza, la deidealizzazione di quella stessa plebe che in precedenza aveva esaltato, non aveva colto in anticipo il cuore tragico della questione nella fine dei valori morali di fratellanza e l'adesione ai nuovi valori del consumismo capitalistico? 

Ma se questo è vero, occorrerebbe, penso, una ricostruzione di questi stessi valori, altrimenti sarà la fine: la guerra, infatti, con i mezzi catastrofici oggi disponibili, sarà il destino, direi ineluttabile, di un mondo capitalistico, intrinsecamente basato sulla competizione. È opportuno, a tal proposito, ricordare il bel libro di Gunther Anders del 1956, "L'uomo è antiquato", tuttora più che mai attuale, secondo cui l'uomo non sta progredendo culturalmente ad un livello adeguato a gestire la tecnica, da lui creata, a proprio beneficio, rischiando così, al contrario di esserne fisicamente annientato. 

Pensare d'altra parte che, senza mettere in discussione il sistema capitalistico, gli Stati si possano organizzare ed accordare per affrontare realmente l'incombente disastro ecologico ed umano, è semplicemente puerile, in quanto richiederebbe di mettere da parte proprio la logica del profitto e degli interessi di parte caratteristici della stessa ideologia capitalistica. 

Purtroppo, come ci mostra la storia recente ed attuale, il "progresso umano" cui assistiamo, in un mondo in cui al capitalismo non si oppongono sistemi antagonisti, a dispetto dei suoi apologeti non porta benefici all'intera società, ma vantaggi per pochi e disatri per gli altri.
Avremo il tempo perché possa essere compreso il processo storico in atto e ricostruito un mondo nuovo ?
Non ce n'è più molto ...

sabato 16 novembre 2024

Perché guardiamo passivi lo scempio - Pino Arlacchi

Da: https://www.ilfattoquotidiano.it - Pino Arlacchi è un sociologo, politico e funzionario italiano.

Leggi anche: L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi  

IL GRANDE IMBROGLIO SUL VENEZUELA - Pino Arlacchi 

Vedi anche: Richard Sanders racconta i crimini di israele documentati dai soldati israeliani.  https://www.facebook.com/61559524143920/videos/925473229453517/?rdid=1K54PX8nRJsuUPZR


Perché guardiamo passivi lo scempio 

Fascino e sangue - I massacri si ripetono in quanto non difficili da organizzare: sono opera di minoranze risolute e governi tirannici che confidano nell’indifferenza della maggioranza della gente. 

Una imbarazzata, vile, indecente indifferenza di fronte a un genocidio che si svolge davanti i nostri occhi sembra paralizzare la comunità internazionale da un anno a questa parte. 

Con il pretesto di vendicare una strage di innocenti a sua volta subita, uno Stato assassino sta sterminando senza ritegno la popolazione inerme di un altro Stato con lo scopo dichiarato di volerla annientare fisicamente e farla fuggire dalla propria terra. 

Non è la prima volta che ciò accade, ma è la prima volta che lo spettacolo di morte può esser gustato gratuitamente, stando seduti sul divano di casa invece che sulle gradinate del Colosseo. I media dominanti alternano gli aggiornamenti sulle partite di calcio a quelli sugli eccidi di Gaza senza mostrare alcuna empatia per le vittime. I due genocidi più vicini nel tempo, quello del Rwanda del 1994 e quello della Bosnia del 1995, non hanno goduto del privilegio di una copertura mediatica quotidiana. Ma è proprio questa insolente evidenza che mette in risalto l’insensibilità dei governi e delle istituzioni globali di fronte a una catastrofe che poteva essere evitata fin dal suo inizio se non ci fossero stati di mezzo Israele e gli Usa. Non ci sono al riguardo valide giustificazioni. Il “crimine dei crimini” è ben codificato fin dal 1948 da una apposita Convenzione contro il genocidio che obbliga i firmatari a intervenire anche in via preventiva, ed è anche ben studiato a livello accademico. Anche l’indifferenza dei più verso i primi atti di un genocidio è stata individuata come una condizione fondamentale per il completamento dello stesso. 

Gli studi più recenti hanno abbandonato vecchie chiavi di lettura. I genocidi non sono più visti come il prodotto del lato bestiale e sadico della natura umana, pronto a scatenarsi contro la diversità razziale, politica, etnica o religiosa. Le “soluzioni finali” sono di regola progetti razionali, concepiti da consorterie di potere intente a preservare il loro dominio che ricorrono allo sterminio dei civili come un mezzo per restare in sella oppure come ultima ratio dopo aver esaurito le alternative. 

domenica 8 novembre 2020

50 anni di relazioni (Italia-Cina) ed un futuro tutto da scrivere - Francesco Maringiò

Da: http://italian.cri.cn - https://www.marx21.it - Francesco Maringiò, Presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta e curatore del libro "La Cina nella Nuova Era, Viaggio nel 19°Congresso del PCC", LA CITTA' SEL SOLE 

Ascolta anche: Alessandra Ciattini intervista Francesco Maringiò - USA vs Cina - La visita di Mike Pompeo in Asia (https://www.spreaker.com/user/11689128/051120-pompeo-in-asia-maringio-online-au?fbclid=IwAR3S2qsE_g9AHuLFXkkvWwlYyfngy76WX8tJKUjnwsHlCl2UEyYQ1lVjk2I)

Leggi anche: La Cina corre... 

- La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue - 

I rischi della guerra economica Usa-Cina - Vincenzo Comito

La nuova via della seta. Un progetto per molti obiettivi - Vladimiro Giacché

La Cina nel processo di globalizzazione*- Spartaco A. Puttini

Questioni relative allo sviluppo e alla persistenza nel socialismo con caratteristiche cinesi - Xi Jinping

Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin**

La trappola di Tucidide - Andrea Muratore

"Cina 2013" - Samir Amin

L'Occidente arretrato e l'Oriente avanzato*- Emiliano Alessandroni

Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Cos’è davvero la Cina? - Intervista a Domenico Losurdo

L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi

Vedi anche: - OLTRE LA GRANDE MURAGLIA. LA CINA E' DAVVERO UN PERICOLO? -

LA CINA SPIEGATA BENE - Michele Geraci

L’Italia e la Cina hanno avviato scambi culturali già dal II sec. a.C.: la prima legazione romana in Cina fu registrata nel 166 a.C., sessant'anni dopo le spedizioni del generale Ban Chao e l’invio di un emissario a Da Qin, esonimo con cui i cinesi indicavano l’impero romano. Questa affascinante storia si è poi arricchita di altre straordinarie gesta che sono diventate leggendarie non solo per la storia dei due paesi, ma per il confronto stesso tra Oriente ed Occidente.

È con questo importante bagaglio storico che quest’anno celebriamo il cinquantesimo delle relazioni bilaterali tra i due paesi. È una tappa importante, che merita non solo di essere approfondita tra gli esperti ma sperimentare una riflessione più vasta, come quella che sta promuovendo questa prestigiosa rivista a cui sono grato per l’invito rivoltomi a svolgere alcune riflessioni.

Possiamo individuare cinque diverse fasi nel rapporto diplomatico tra Italia e Cina: 1) dalla fondazione della RPC allo stabilimento delle relazioni nel 1970, 2) dall’apertura dell’Ambasciata italiana a Pechino ai primi anni ’90, 3) dalla fine della Prima Repubblica in Italia (1992) alla firma della partnership strategica (2004), 4) da questa al 18° Congresso del PCC ed infine 5) la fase attuale, ancora tutta da scrivere.

La prima fase (non ufficiale) delle relazioni ha posto le basi per la normalizzazione dei rapporti ed il riconoscimento della RPC e del suo governo. Sono stati anni importanti di contatti e relazioni che ci danno la percezione del lungo embargo diplomatico a cui è stato sottoposto il gruppo dirigente cinese. Alla Repubblica Popolare in quegli anni veniva negato anche il seggio alle Nazioni Unite (vi entrerà nel 1971). Il riconoscimento italiano ha favorito il percorso di riconoscimento di Pechino nella comunità internazionale.

Con l’apertura dell’Ambasciata d’Italia in Cina (1970) è iniziata per il Belpaese una fase pioneristica di conoscenza e comprensione della realtà cinese, così profondamente cambiata dall’epoca delle concessioni e della terribile esperienza coloniale. Sono stati anni intensi che hanno permesso di cogliere anche la portata delle trasformazioni che la Politica di Riforme ed Apertura aveva cominciato a produrre.

I primi anni ’90 sono stati invece un passaggio di fase molto delicato per l’Italia: lo sgretolamento dei partiti tradizionali ed i cambiamenti internazionali con la fine del mondo bipolare hanno innescato una lunga fase di transizione ed incertezza, con ripercussioni anche nelle relazioni tra i due paesi e relative occasioni mancate ed opportunità perse. La svolta si è avuta con la firma del Partenariato Strategico che ha costruito un meccanismo permanente di dialogo tra Italia e Cina. Questo avvenimento ha incentivato gli investimenti diretti esteri italiani nel paese asiatico (appena entrato nel WTO), migliorando la percezione in patria delle trasformazioni in corso e delle opportunità che si presentavano per la comunità internazionale: sono l’economia ed il commercio a suscitare principale interesse all’estero.

Questa percezione muta con il 18° Congresso del PCC e le riforme adottate: la Cina entra in una fase di “nuova normalità” modificando completamente le direttrici strategiche del suo sviluppo economico, diventa sempre più un attore globale grazie al contributo fornito alla cooperazione internazionale ed alla politica di sicurezza e, non da ultimo, si fa portatrice di una iniziativa globale che, sotto il nome di Belt and Road Initiative, è destinata ad avere un impatto sullo sviluppo di tutta l’area eurasiatica e del mondo intero. Da questo momento la classe dirigente italiana ha capito che non si poteva più restringere il campo della cooperazione bilaterale con la Cina ai soli dossier commerciali e che bisognasse dare vita ad una relazione omnicomprensiva, riguardante tutti gli aspetti centrali della diplomazia, dell’economia e della cultura. È per queste ragioni che i settori più accorti del paese hanno lavorato per giungere alla firma del Memorandum of Understanding del marzo del 2019, attestando l’Italia a primo paese del G7 ad entrare nel club delle nazioni aderenti alla BRI.

Tuttavia questa consapevolezza non è ancora pienamente matura in tutta la società italiana, complice l’assenza di interessi radicati e capaci di strutturare una strategia nazionale condivisa, assieme ad una percezione esatta di cosa sia oggi la Cina contemporanea. Per queste regioni si sente l’esigenza, oggi più di ieri, della nascita di un pensatoio strategico comune tra i due paesi, capace di costruire e sedimentare un insieme di visioni ed esigenze in grado di essere raccolte dalla classe imprenditoriale e politica ed essere trasformate in una proposta strategica di grande visione prospettica.

Mentre si staglia all’orizzonte il pericolo di una recrudescenza delle relazioni internazionali, si apre un nuovo spazio di manovra per paesi che vogliono ambire ad operare attivamente per scrivere un futuro di pace e cooperazione. E l’Italia può ambire ad operare un ruolo importante in questa direzione. Anche per questo abbiamo bisogno che nasca questa fucina di idee, capace di corroborare il lavoro diplomatico ed istituzionale tra due paesi che, per storia e cultura, sono destinati a scrivere pagine importanti di mutua cooperazione e sincera amicizia.

mercoledì 24 giugno 2020

"Cina 2013" - Samir Amin

Da: https://contropiano.org - Link all’articolo originale: https://monthlyreview.org/2013/03/01/china-2013/ - Introduzione a cura di Lorenzo Piccinini (Rete dei Comunisti).
Samir Amin è stato un economista, politologo, accademico e attivista politico egiziano naturalizzato francese.
Leggi anche:  Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin 
                         Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin - Vladimiro Giacché 
                      Socialismo di mercato” - Gianfranco Pala 
                         Come usare il capitalismo nell'ottica del socialismo - Deng Xiaoping 
                         Egemonia come direzione o come dominio? - Tian Shigang 
                         Questioni relative allo sviluppo e alla persistenza nel socialismo con caratteristiche cinesi - Xi Jinping 
                         Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin** 
                         - La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue - 
                         Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**
                         L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi
                         La trappola di Tucidide - Andrea Muratore

Vedi anche:   LA CINA SPIEGATA BENE - Michele Geraci 

                    OLTRE LA GRANDE MURAGLIA. LA CINA E' DAVVERO UN PERICOLO? 



Abbiamo tradotto il seguente articolo del compianto Samir Amin, pubblicato sulla rivista Monthly Review nel marzo del 2013 (Volume 64 numero 10).
Un articolo denso, che affronta con un occhio analitico tutta una serie di aspetti di quel percorso originale che sta seguendo la Repubblica Popolare Cinese dal 1950 ad oggi, e che merita una lettura attenta.
Samir Amin (SA d’ora in avanti) sin dalle prime righe affronta di petto l’annosa questione della definizione del sistema cinese, chiarendo fin da subito che non si può ridurre ad una domanda che abbia come risposta netta “socialismo” o “capitalismo”.
Una risposta adeguata non può che essere più complessa, e radicata in un’analisi concreta delle diverse fasi che la Cina ha attraversato negli ultimi decenni, nonché della dialettica delle contraddizioni che la attraversano, tanto quelle messe in moto dalle dinamiche interne al suo sviluppo quanto quelle derivanti dalla situazione globale.
L’impressione è che sin dal titolo “Cina 2013” si voglia mettere in chiaro come un giudizio non possa che essere inevitabilmente legato a quello che oggi possiamo dire, avendo studiato il passato e con un occhio verso le possibilità che riserva il futuro.
SA sostiene che la Cina stia seguendo un percorso originale, senza paragoni né tra le esperienze occidentali, né tra gli altri paesi cosiddetti “emergenti”, né nelle altre esperienze storiche di paesi guidati da partiti comunisti. Una tesi centrale del suo discorso è quella per cui questa originalità è la chiave e la ragione del suo successo attuale. 

Un corollario di questa tesi è che, qualora la Cina decidesse di abbandonare questo percorso originale per adeguarsi ad una via pienamente capitalista, il suo successo rischierebbe di venire meno.

martedì 7 maggio 2019

La nuova via della seta. Un progetto per molti obiettivi - Vladimiro Giacché

Da: http://gnosis.aisi.gov.it (2016) - https://www.sinistrainrete.info - Vladimiro Giacché è un economista italiano.
Vedi anche:  OLTRE LA GRANDE MURAGLIA. LA CINA E' DAVVERO UN PERICOLO?
                     L’evoluzione delle vie della seta: un mito passato indenne attraverso le globalizzazioni.- Andrea Dugo 



Il progetto di una Nuova Via della Seta, lanciato negli ultimi anni dalla dirigenza cinese, comprende due diverse rotte, una terrestre e l’altra marittima. La prima è indicata nei documenti ufficiali come Silk Road Economic Belt, la seconda come Maritime Silk Road. L’intero progetto è espresso in forma abbreviata come One belt, one road. Esso è stato annunciato per la prima volta dal presidente cinese Xi Jinping in un discorso ad Astana (Kazakhstan) nel 2013, ribadito a Giacarta (Indonesia) nel novembre dello stesso anno e di nuovo ad Astana nel giugno 2014(1).


I precedenti
L’idea non è del tutto nuova: da alcuni è stata posta in continuità con i tentativi di Jiang Zemin di superare le tradizionali dispute sui confini della Cina (1996), nonché con la politica Go West di Hu Jintao2. Ovviamente il precedente storico cui si richiama è molto più illustre e lontano nel tempo: si tratta dell’antica Via della Seta, rotta commerciale che partendo dalla Cina legava Asia, Africa ed Europa. Essa risale al periodo dell’espansione verso Ovest della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), che costruì reti commerciali attraverso gli attuali Paesi dell’Asia Centrale (Kyrgyzstan, Tajikistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Afghanistan), come pure, in direzione sud, attraverso gli attuali Stati di Pakistan e India. Tali rotte si estesero sino al-l’Europa, facendo dell’Asia centrale l’epicentro di una delle prime ondate di ‘globalizzazione’, connettendo mercati, creando ricchezza e contaminazioni culturali e religiose. L’importanza massima di questa rotta di traffico si ebbe nel primo millennio dopo Cristo, ai tempi degli imperi romano, poi bizantino e della dinastia Tang in Cina (618-907). Furono le Crociate e l’avanzata dei mongoli in Asia centrale a determinare la fine di questo percorso e la sua sostituzione con le rotte marittime, più rapide e a buon mercato3
L’antica Via della Seta evoca tuttora l’idea di uno sviluppo pacifico, di un interscambio commerciale e culturale in grado di determinare progresso per tutte le parti coinvolte. In quanto tale, il riferimento a essa è consapevolmente adoperato dall’attuale dirigenza cinese, anche in termini propagandistici e polemici. Lo dimostra il passo tratto da un opuscolo del governo cinese del 2014: «Come una sorta di miracolo nella storia umana, l’antica Via della Seta potenziò il commercio e gli interscambi culturali nella regione eurasiatica. In epoche antiche, differenti nazionalità, differenti culture e differenti religioni a poco a poco entrarono in comunicazione tra loro e si diffusero lungo la Via della Seta al tintinnio dei campanacci dei cammelli. A quell’epoca, le regioni attraverso cui si snodava la Via della Seta erano relativamente pacifiche, e non conoscevano i problemi di ‘geopolitica’, ‘geo-economia’, ‘minacce militari’, né il problema del terrorismo che oggi attanaglia l’Asia centrale, l’Afghanistan e altri Paesi, per non parlare poi del ‘terrorismo internazionale’»4.

sabato 30 marzo 2019

L’evoluzione delle vie della seta: un mito passato indenne attraverso le globalizzazioni.- Andrea Dugo

Da: http://www.aldogiannuli.it - Andrea Dugo, classe 1997, è studente triennale di Politics and Economics all'Università degli Studi di Milano
Leggi anche:  L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi - 
     "         "       La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina - Alessandra Ciattini 
     "         "       La trappola di Tucidide - Andrea Muratore

Le origini 
Qualcuno ha definito la globalizzazione come l’incontro tra l’Oriente e l’Occidente: in quest’ottica, le vie della seta hanno sicuramente rappresentato, per la storia umana, un primo, embrionale tentativo di integrazione economica, tecnologica e culturale tra civiltà radicalmente differenti.

Sviluppatesi a partire dal II secolo a.C. e per oltre quindici secoli, queste lunghissime tratte commerciali consolidarono precedenti itinerari regionali in un’unica, interminabile rotta eurasiatica, dando vita, per la prima volta nella storia, ad un collegamento permanente tra la Cina e l’Europa. Questi intensi traffici traevano la loro origine dal florido impero cinese che, sotto la dinastia Han, uscì finalmente dal suo secolare isolamento per rivolgere lo sguardo verso Ovest: l’intraprendenza della casata Han spinse i mercanti cinesi a valicare le imponenti montagne dell’Himalaya e del Karakorum, da sempre ostacolo geografico per la Cina, e a raggiungere percorsi preesistenti nella steppa centrasiatica. Le vie carovaniere, dall’Estremo Oriente, infatti, trovarono terreno fertile per gli scambi economici in Asia centrale, un’immensa area abitata da un variegato insieme di popoli, dalle tribù nomadi delle praterie eurasiatiche ai grandi imperi stanziali di Iran e Afghanistan, tutti accomunati da una grande vocazione al commercio. Di fondamentale importanza fu, indubbiamente, l’intermediazione di queste popolazioni per l’avvento delle merci cinesi in Europa: i mercanti romani poterono, proprio in virtù delle interazioni commerciali con le civiltà centrasiatiche, garantire l’arrivo, nella regione del Mediterraneo orientale, e da lì, nel resto del continente, di prodotti cinesi, primo su tutti la seta, di cui l’impero romano divenne uno dei principali mercati. Va ricordato che, parallelamente alle rotte terrestri, esistevano delle rotte marittime altrettanto essenziali che, partendo dai porti del mar Rosso, ai confini sudorientali dell’impero romano, giungevano in India: i traffici lungo queste tratte crebbero, nei secoli successivi, a tal punto da soppiantare gli itinerari terrestri, integrando, persino, rotte provenienti dalla Cina e dal Sud-Est asiatico. 

venerdì 29 marzo 2019

L’economia reale è sulla Via della seta - Pino Arlacchi

Da: https://www.lantidiplomatico.it  - Il Fatto Quotidiano - Pino_Arlacchi è un sociologo e politico italiano. 
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È inutile minimizzare, e ridurre quanto accaduto nei rapporti tra Italia e Cina a un semplice scambio di cortesie commerciali e di finezze su Marco Polo e Matteo Ricci (il gesuita del 500 divenuto mandarino cinese). Una volta tanto, i governanti italiani l’hanno azzeccata in pieno, entrando per primi nel più grande gioco geopolitico messo in piedi dai tempi della Conferenza di Bretton Woods del 1944 in poi, e dalla fondazione delle Nazioni Unite l’anno dopo. Il progetto della Via della seta è l’impresa economica di maggiore respiro della storia umana. Per dimensione finanziaria (oltre 5 trilioni di dollari), impatto politico e ricadute culturali, esso incenerisce il Piano Marshall, che fu un affare da soli 130 miliardi di dollari tra Stati Uniti e un gruppo di 16 Paesi europei distrutti dalla guerra. L’esito dell’operazione lanciata da Pechino nel 2013 è scontato. La crescita della spina dorsale del mondo postamericano poggia infatti su forze di lungo periodo, quelle dell’integrazione eurasiatica, che è pressoché impossibile arrestare dopo il tramonto dei destini euroamericani. Le nuove forze superano di molto quelle che sono riuscite finora a bloccare l’apertura dell’Europa verso l’Iran e la Russia. La Via della seta è un gioco a somma zero solo per la parte perdente, rappresentata a) dalla finanza occidentale protetta dalla potenza americana e dai vertici dell’Ue, b) dal dollaro come valuta di riserva degli scambi mondiali, c) dalla concezione unipolare del governo del pianeta. Per i quasi 100 partecipanti (su 192 Stati membri dell’Onu), il progetto cinese offre vantaggi schiaccianti.

È la rivincita dell’economia reale, della produzione e del commercio di beni tangibili contro lo strapotere finanziario che lungo gli ultimi 50 anni ha condannato l’Occidente alla stagnazione e al regresso degli standard di vita del 90% della sua popolazione. Solo i banchieri che governano l’Unione europea attraverso Macron (banca Rothschild), Junker (lobby fiscale lussemburghese) e vari altri soggetti – commentatori di Repubblica inclusi – possono ignorare l’immensa opportunità che la Via della seta offre a nazioni manifatturiere come l’Italia e la Germania collegando direttamente l’Europa alla zona economica più vasta e dinamica del mondo, che produce la metà del Pil globale. Non si tratta infatti solo di Cina, ma di Asia Centrale, India, Indonesia, Vietnam, Corea del sud, e molti altri.  Paesi di industria e di commercio, non succubi della finanza privata, dove la potenza del risparmio e dei mercati viene messa al servizio della produzione e della società, generando tassi di crescita impensabili nell’Europa di oggi.

La Via della seta è la proiezione estera di una formula vincente del rapporto Stato-mercato che a ben guardare non è affatto estranea né all’Italia né all’Europa. I miracoli economici realizzati durante l’età d’oro del capitalismo europeo – tra il 1945 e il 1970 – furono basati sugli stessi ingredienti dei successi orientali odierni: sottomissione della finanza all’industria e guida dei mercati da parte dell’ autorità pubblica. Il capitalismo finanziario che impoverisce l’Occidente non può tollerare un progetto che non può controllare e dal quale non può trarre che benefici marginali.

La Via della seta è un’entità autosufficiente dal punto di vista finanziario, potendo contare su una banca creata ad hoc nel 2015 assieme a tutti i principali Paesi europei – l’Aiib, Asian Infrastructure Investment Bank – e su un’altra banca multilaterale – l’Ndb, New Development Bank – partecipata dal gruppo dei paesi Brics. Il capitale di entrambe è di oltre 200 miliardi di euro ed eguaglia già quello della Banca Mondiale. E a questi erogatori di credito vanno aggiunti gli istituti finanziari interni alla Cina, che traboccano di disponibilità ancora più rilevanti. Ma l’incubo più inquietante dei padroni dell’Occidente è una Via della seta che diventa nel giro di una ventina di anni l’asse portante di un commercio mondiale che avviene in euro, renminbi, rubli, rupie, yen e non più in dollari. Accelerando il crollo del pilastro fondamentale della supremazia americana sul pianeta. Il dollaro è la risorsa che ha consentito agli Stati Uniti di vivere al di sopra dei propri mezzi per almeno mezzo secolo, stampando moneta a volontà e inviando il conto al resto del mondo.

Un pianeta de-finanziarizzato, de-dollarizzato e multivalutario, sarà anche un pianeta politicamente multipolare, con almeno 6 diversi centri di influenza, e nessuna potenza egemone. Ma dotato di un sistema di regole comuni che già esiste. Centrato sull’Onu e sullo scarso appetito per le armi e per le guerre da parte dei suoi partecipanti, con in primis l’Europa e la Cina. E nonostante l’ eccezione americana. La Via della seta, perciò, non è solo la strada verso una benefica integrazione eurasiatica. È un passo cruciale verso un mondo più prospero, pacifico e inclusivo, che va intrapreso senza esitazione.

domenica 3 marzo 2019

IL GRANDE IMBROGLIO SUL VENEZUELA - Pino Arlacchi

Da: http://www.pinoarlacchi.it/ - Pino_Arlacchi è un sociologo e politico italiano. 
Uno studio controcorrente

Nel momento in cui il supremo teorico della guerra non-occidentale, Sun Tzu, affermava  che l’ arte della guerra si basa sull’ inganno esistevano solo le guerre dichiarate e combattute con le armi della violenza fisica.

Ma l’ insegnamento del teorico cinese era abbastanza profondo da dimostrarsi valido anche oggi, in tempi di guerra coperta, non convenzionale, combattuta con le armi dell’ economia e soprattutto della finanza. Dove l’ inganno consiste nella disinformazione e la disuguaglianza tra le parti contrapposte si basa sul possesso o meno dei mezzi di disinformazione di massa.

Se c’è una lezione che ho imparato dirigendo una parte non trascurabile dell’ ONU è che, nelle cose del mondo, la verità dei fatti raramente coincide con la sua versione ufficiale. Anche in tempi di pluralismo informativo come i nostri, le idee dominanti  - come diceva il vecchio Marx – sono ancora                                                                                                                      quelle della classe dominante. Che rivolta cose e fatti a suo uso e consumo 
Dietro ogni guerra c’è una menzogna.

E quello del Venezuela si configura oggi come un caso di guerra non convenzionale coperta da una gigantesca truffa informativa.

Chiunque abbia voglia di documentarsi  sulla crisi  del Venezuela consultando fonti diverse dalla vulgata prevalente farà fatica a mantenere la calma. Perché si scontrerà ad ogni passo con una narrativa falsa, omissiva e distorta. 

Il principale mito da sfatare riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano, unanimemente attribuite dai media occidentali al malgoverno degli esecutivi “socialisti” succedutisi al potere dopo il 1998, data dell’ elezione del “dittatore” Chavez alla presidenza.

“Dittatura” confermata da 4 elezioni presidenziali e 14 referendum ed consultazioni nazionali successive, e condotta sotto il segno di uno strappo radicale con la storia passata del Venezuela: i proventi del petrolio sono stati in massima parte redistribuiti alla popolazione invece che intascati dall’ oligarchia e imboscati nelle banche degli Stati Uniti.