domenica 10 marzo 2019

Una storia complessa. La teoria dell’accumulazione in Marx - Roberto Fineschi

Da: http://www.consecutio.org/ - Roberto_Fineschi è un filosofo ed economista italiano.- Siena School for Liberal Arts - r.fineschi@sienaschool.com 
1. Introduzione 

L’accumulazione nella struttura teorica del capitale costituisce uno snodo fondamentale, senza il quale l’intero sistema non starebbe in piedi. Non a caso è una delle parti che è stata soggetta ai rimaneggiamenti più consistenti man mano che l’intelaiatura andava definendosi, seconda in questo forse solo alla forma di valore. Rispetto a questa, tuttavia, sempre collocata all’inizio dell’opera, l’accumulazione ha via via cambiato posizione, si è articolata in più passaggi e sezioni nei tre libri, fino a diventare la vera cifra dello sviluppo della teoria di Marx e dei suoi cambiamenti tra le varie redazioni.
La ragione per cui questa parte della teoria è così importante è legata alla metodologia marxiana, in questo eminentemente dialettica. In tale prospettiva, nella propria articolazione interna essa deve produrre come propri risultati quelli che inizialmente erano dei presupposti da essa stessa non posti. Realizzare ciò significa produrre dei “presupposti-posti”: solo grazie a questo il capitale può effettivamente essere un processo, ovvero muovere da se stesso per porre se stesso. Questo modo di procedere per cui la teoria, come dire, ritorna su se stessa autofondandosi è, nell’ottica di Marx, connesso a un’altra tematica che potrebbe sembrare muovere in direzione opposta; vale a dire esso solleva il tema dei “limiti della dialettica” e, più in generale, della concezione materialistica della storia. Infatti, Marx intende mostrare come il modo di produzione capitalistico abbia un punto di partenza non posto da esso stesso, per sostenere come non sia possibile un corso storico universale a priori; le leggi della dialettica teorizzano i rapporti di produzione via via correnti in virtù della loro logica intrinseca che è storicamente determinata e non è generalizzabile in astratto: non la si può estendere come tale ad altri modi di produzione, i quali vanno invece ricostruiti sulla base della logica loro propria. Se questo pone in termini radicali la discontinuità, d’altra parte presenta il rischio teorico di avere una teoria sempre deficitaria in quanto dipendente da elementi esogeni per cui in ogni istante la sua coerenza potrebbe venir meno venendo a mancare tale elemento esogeno.
Il presupposto-posto di cui sopra ovvia a questo problema: grazie a esso la teoria può muoversi sulle proprie gambe. La posta in gioco, dunque, oltre che strutturale nel contesto della teoria del modo di produzione capitalistico, investe un valore metodologico non indifferente. Non a caso è quella che ha subito più rimaneggiamenti e sviluppi in questa doppia ottica. 

venerdì 8 marzo 2019

- OLTRE LA GRANDE MURAGLIA. LA CINA E' DAVVERO UN PERICOLO? -

Da: Margherita Furlan - https://www.pandoratv.it

Il mondo visto dall'Oriente. Intervista ad Alberto Bradanini, ambasciatore d'Italia dal 2008 al 2012 in Iran e dal 2013 al 2015 in Cina.

                                                                             
Leggi anche: - La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue -

"Roma Antica" - Filippo Coarelli

Da: DiAPTube - Dipartimento di Architettura e Progetto -
Filippo_Coarelli è un archeologo italiano, già docente di Storia romana e di Antichità greche e romane all'Università di Perugia. È stato allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli.
                                                                                                           

giovedì 7 marzo 2019

“Democrazia disorganizzata” - Franco Fortini

Da: Franco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, 1990 - https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/da-extrema-ratio -
Franco_Fortini è stato un poeta, critico letterario, saggista e intellettuale italiano. 
Leggi anche: Comunismo*- Franco Fortini**


Per la democrazia liberale, premessa e mèta della propria pratica sono l’autodeterminazione e la “voce della coscienza”. La socialdemocrazia si volle, anche in questo, inveramento della democrazia liberale. Il proletario “evoluto e cosciente” si affiancava, da pari a pari, al borghese nella luce della razionalità. Nel pensiero di Marx (e poi nella pratica dei massimi rivoluzionari del nostro secolo) c’era però proprio quella nozione di origine dialettico-hegeliana, la “falsa coscienza”. Con Lenin e Lukács prende corpo la forma-partito, l’idea che gli intellettuali traditori della loro classe d’origine portino dall’esterno la “coscienza” ad una parte del proletariato perché si costituisca in “avanguardia”.


Sarebbe utile maggiore cautela: non solo la storia del populismo russo ma anche quella di innumerevoli movimenti ottocenteschi, di destra come di sinistra, ci mostrano organizzazioni centralizzate e guidate da “intellettuali”. Gramsci lo sapeva. I problemi insoluti per due secoli si ripropongono oggi per la sua forma nuova. Quella forma-partito ha combattuto, ha compiuto il suo storico “servizio”; la Terza Internazionale ha agonizzato con orribili convulsioni e stragi ed è morta. Ci ha lasciato in eredità una domanda.


Una delle interpretazioni del declino e della sconfitta della forma-partito nata nella e dalla Terza Internazionale ci spiega che l’odierno livello culturale di base sarebbe inconfrontabile con quello di settanta anni fa e che dunque né ha bisogno né consente di proseguire la funzione degli intellettuali  latori di consapevolezza che per un buon secolo hanno formato le avanguardie politico-culturali.


Ho però più di un dubbio, di fronte a quella che viene chiamata la “delega di conoscenze” e la creazione di figure simboliche della “cultura” a opera dell’industria della coscienza. Si ripropone di fatto una avanguardia privilegiata, diffusa nelle nazioni a maggior livello di reddito, scolarizzazione e ricchezza di “media”; senza tuttavia dirci chi in quelle società avanzate ha il compito di distruggere la cortina di falso sapere proposto proprio dalla scolarizzazione e dai “media”. Una cortina incomparabilmente più rigida di quanto non fosse settant’anni fa, perché si è costituita non solo cementando sovrabbondante materiale ideologico ma anche sottraendo esperienza e reificando parti sempre maggiori della esistenza di sempre più estese parti della società.


Chi afferma “... addio democrazia organizzata” si sbaglia o auspica il peggio. Quelle che non deperiscono con la velocità desiderabile sono, certo, le forme finora sopravviventi di democrazia organizzata ossia i partiti politici. Ma c’è da aver paura a ogni proposta di “democrazia disorganizzata”.

mercoledì 6 marzo 2019

Le fasi cruciali della formazione dell'UE - Joseph Halevi (2014)

Da: https://www.facebook.com/joseph.halevi - joseph-halevi Universita  di Sidney


Bisogna ricordarsi che le fasi cruciali della formazione dell'UE sono passate attraverso il dissolvimento dell'est europeo.

(1) Kinkel (ministro degli esteri tedesco) all'Aja sulla Jugoslavia (estate 1990): richiesta di secessione unilaterale della Slovenia e soprattutto della Croazia, sapendo benissimo che nel caso di quest'ultima ci sarebbero state pulizie etniche (che cominciarono con l'espulsione dei serbi della Slavonia, regione croata). Francia e GB contro, appoggiate dalla Grecia, ma USA e Italia-Vaticano fortemente a favore della posizione tedesca. Nasce da qui il compromesso mitterrandiano su Maastricht. La Germania accetta Maastricht, GB e Francia accettano la posizione tedesca sulla Jugoslavia, Francia e Germania accettano le eccezioni richieste da GB purchè quest'ultima accetti Maastricht e ovviamente la posizione tedesca sulla Jugoslavia che porta alla guerra in Bosnia.

(2) Nel 1998 i negoziati sulla moneta unica si intrecciano con le confabulazioni riguardanti la Jugoslavia nel Kosovo che culminano con la dichiarazione di Rambouillet che porterà alla guerra del 1999. Cruciale garantire la partecipazione dell'Italia ed è su questa base che vengono superate le opposizioni degli ambienti più conservatori tedeschi all'entrata dell'Italia nell'euro. Non è stato Ciampi, per altro debolissimo nelle trattative con la Germania, a far entrare l'Italia nell'euro bensì la garanzia della partecipazione del governo italiano capeggiato da D'Alema, con Cossutta e Diliberto dentro, alla già pianificata guerra nel Kosovo.

(3) Allora sul manifesto scrivemmo (Tommaso Di Francesco ed io) che questa strategia mirava oltre la Jugoslavia.

(4) Elemento centrale dell'atteggiamento dell'Europa occidentale verso l'est è stata l'accettazione della riabilitazione del collaborazionsimo e del nazismo da parte delle forze che all'est si presentavano come pro-europeiste. Così è successo nei confronti dei paesi baltici, ove il collaborazionismo con le SS fu massiccio unicamente in nome dell'antisemitismo e dell'antislavismo, poiché le stesse popolazioni baltiche non russe e non ebree erano destinate ad essere in gran parte deportate e decimate come previsto nel General Plan OST la cui formulazione venne richiesta da Himmler. In ognuno di questi casi di riabilitazione del nazifascismo l'appoggio degli Usa fu determinante. Addirittura eclatante nel caso di Tudjman in Croazia. Infatti di fronte all'esaltazione degli Ustascia da parte di Tudjman molte organizzazioni ebraiche cominciarono a preoccuparsi notevolmente. Per farle ricredere, silenziarle, vennero mobilitate varie forme di propaganda usando delle agenzie esperte in pubblicità così da far apparire Tudjman come un democratico e Milosevic come un dittatore sanguinario. E sul Kosovo nascosero il fatto che il riferimento ideologico anti serbo dell'UCK nazionalista "kosovaro" era il collaborazionismo, anti serbo ed antisemita, durante l'occupazione nazifascita della Jugoslavia. 

In Ucraina USA-Europa si stanno comportando esattamente allo stesso modo in perfetta continuità. Ancora una volta viene sdoganato il neonazismo ed il collaborazionismo mentre si spargono a iosa lacrime di coccodrillo sulla Shoà volutamente omettendo di ricordare e onorare il Paese da dove per la Germania nazista 
venne di vedova un velo, di vedova un velo le venne! 

martedì 5 marzo 2019

Un economista ‘inattuale’: Augusto Graziani, o dell’economia critica come vera conoscenza. - Riccardo Bellofiore

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - [pubblicato su www.sbilanciamoci.info20/01/2014]
Leggi anche: L’Italia prima e dopo l’euro. LA MONETA AL GOVERNO. - Augusto Graziani
                       Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali. - Emiliano Brancaccio -
                            Riabilitiamo la teoria del valore* - Augusto Graziani * 
                            Augusto Graziani, l’uomo che ha davvero capito la moneta - Steve Keen 
                              Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario* - Marco Veronese Passarella 
Vedi anche: Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei** 
Ascolta anche: Lo SME - Augusto Graziani - 9/11/1994


La scomparsa di Augusto Graziani non lascia eredi, ma un compito: quello di reagire a questa era di decadenza nel pensiero economico italiano

Con Augusto Graziani scompare una delle ultime voci di una stagione irripetibile del pensiero economico italiano: un intellettuale impegnato e a tutto tondo, che male si farebbe a ridurre a una qualche dimensione ‘profetica’. Graziani, con Napoleoni, Sylos Labini, Caffè, Garegnani, e pochi altri fa parte di una generazione che, mentre si apriva ai contributi del pensiero economico anglosassone, lo faceva in modo critico e aperto, senza alcuna subalternità, proponendo una riflessione originale. Una ‘tradizione’ di cui andare orgogliosi, dove la simbiosi tra la storia dell’economia politica e dell’economica, da un lato, e lo sviluppo di schemi teorici alternativi, dall’altro, andavano di pari passo con una visione dell’economia come parte di una scienza sociale critica. Il dibattito teorico veniva integrato e prolungato nell’intervento diretto sulle questioni di politica economica, senza che vi fosse iato alcuno e mai scivolando nell’astrattezza. Non si temevano i contrasti, anche aspri, ma la polemica si manteneva sempre ai massimi livelli, senza mai degenerare (come sovente oggi) a rissa da cortile. Non lascia eredi, piuttosto un compito: quello di reagire a questa era di decadenza nel pensiero economico italiano, sfuggendo alla tenaglia tra l’importazione di una teoria economica apologetica e il corto circuito cui si condannano i filoni marginalizzati.

Graziani nasce a Napoli nel 1933, e si laurea nel 1955 con Di Nardi. Svolge successivamente studi alla LSE di Londra con Lionel Robbins e ad Harvard, dove incontra Leontief e Rosenstein-Rodan. Ordinario giovanissimo, a 27 anni, ha insegnato prima a Catania, poi a Napoli, infine a Roma. Va ricordata la collaborazione con Rossi Doria al Centro di Specializzazione di Portici, e con Compagna a Nord e Sud. Benché la sua prima riflessione sia stata spesso caratterizzata come sostanzialmente tradizionale, le cose non stanno così. Lo testimoniano due libri. Il primo, nel 1965, è Equilibrio generale e macroeconomico, dove Graziani si smarca dall’attacco alla teoria neoclassica per la fallacia logica nella teoria del capitale e della distribuzione: in quel testo addirittura ‘difende’ l’equilibrio generale walrasiano istantaneo, criticando aspramente i modelli macroeconomici di crescita proporzionale. Contesta semmai le assunzioni della teoria ortodossa, che vede l’economia e la società popolate da individui identici, consumatori sovrani, tecnologia esogena: un mondo dove la moneta non può che essere neutrale. E’ un punto che anche il Graziani ‘circuitista’ ha sempre confermato, resistendo a ‘matrimoni forzati’ tra Sraffa e Keynes. I critici italiani del pensiero neoclassico avrebbero fatto il passo falso di impegnarsi in una estenuante e alla fine controproducente ‘caccia all’errore’, con risultati immediati e fatali. La critica deve essere, più che interna, esterna, ai presupposti di base, a partire da visioni ideologiche diverse e da ricostruzioni alternative del processo capitalistico. 

lunedì 4 marzo 2019

MMT, Minsky, Marx e il feticcio del denaro - Michael Roberts

Da: https://www.lacittafutura.it - Michael Roberts works in the City of London as an economist.  Articolo apparso sul blog dell’autore il 26/02/2019 - 
Traduzione a cura di Alessandro Bartoloni - Le enfasi (grassetti e corsivi) quando non diversamente specificato sono del traduttore. 



Le vecchie teorie alla base della MMT vengono riprese anche da importanti uomini della finanza in quanto funzionali alla creazione di bolle speculative che avvantaggiano i più ricchi. 

Recentemente l'ex vice governatore della Banca del Giappone (BoJ), Kikuo Iwata, ha sostenuto che il Giappone deve aumentare la spesa fiscale tramite l’aumento del debito del settore pubblico finanziato dalla banca centrale. Questo ex governatore sembra aver adottato la Teoria della moneta moderna (Modern Monetary Theory, MMT), o almeno una versione keynesiana del deficit spending come una risposta ‘radicale’ (o disperata?) al continuo fallimento dell'economia giapponese, incapace di crescere ad un tasso anche solo vicino a quello pre-crisi. 

Gli ultimi dati sull'economia giapponese fanno davvero tristezza. La migliore misura dell'attività nel settore manifatturiero, l’indice degli acquisti nel settore manifatturiero (PMI Nikkei), è sceso a 48,5 nel febbraio 2019, il dato più basso da giugno 2016, poiché sia ​​l'output che i nuovi ordini sono diminuiti a ritmi più rapidi. Nel frattempo, la fiducia delle imprese si è indebolita per il nono mese consecutivo. Nel quarto trimestre del 2018, la produzione nazionale del Giappone ha ristagnato. La crescita è stata nulla rispetto a quella di fine 2017. Questo comparato ad un tasso medio di crescita annua che dagli anni ‘80 è del 2%.
Iwata era in origine l'architetto del massiccio programma di acquisto di titoli della BoJ soprannominato “allentamento quantitativo e qualitativo” (quantitative and qualitative easing - QQE) che avrebbe dovuto stimolare l'economia attraverso una massiccia iniezione di moneta. Ma sebbene il governo giapponese abbia continuato a produrre deficit di bilancio pubblico, ciò non è servito a rilanciare la crescita nominale del PIL o i redditi reali delle famiglie.
Il PIL pro capite del Giappone è in aumento, ma solo perché la popolazione è in declino e anche la forza-lavoro. Il reddito personale disponibile non è cresciuto così velocemente come l'economia nel suo insieme in molti anni, un punto percentuale in meno rispetto alla crescita media del Prodotto nazionale lordo dalla fine degli anni '80. Il Giappone può avere una “piena occupazione”, ma la percentuale della forza-lavoro impiegata su base temporanea o part-time è salita dal 19% nel 1996 al 34,5% nel 2009, insieme ad un aumento del numero di giapponesi che vivono in povertà. Secondo l'OCSE, la percentuale di persone in Giappone che vivono in povertà relativa (definita come quelli che percepiscono un reddito inferiore al 50% della mediana) dal 12% della popolazione totale nella metà degli anni '80 è passata al 15,3% negli anni 2000.
La risposta di Iwata alla “stagnazione secolare” del Giappone è di continuare con i deficit e le spese statali, ma questa volta finanziandola semplicemente stampando denaro, non emettendo obbligazioni [da collocare sui mercati finanziari, ndt]. “Le politiche fiscali e monetarie devono funzionare come una cosa sola, in modo che vengano spesi più soldi per le misure fiscali e il denaro totale destinato all'economia aumenti di conseguenza”. Questa è l'unica opzione politica rimanente poiché “l'attuale politica della BoJ non ha un meccanismo per aumentare le aspettative di inflazione. Abbiamo bisogno di un meccanismo in cui i flussi di denaro verso l'economia siano diretti e permanenti”. Gli acquisti di obbligazioni della BoJ non funzionano, perché le banche accumulano denaro in depositi e riserve e non in prestito. Perciò devono essere ignorate, dice Iwata. 

domenica 3 marzo 2019

IL GRANDE IMBROGLIO SUL VENEZUELA - Pino Arlacchi

Da: http://www.pinoarlacchi.it/ - Pino_Arlacchi è un sociologo e politico italiano. 
Uno studio controcorrente

Nel momento in cui il supremo teorico della guerra non-occidentale, Sun Tzu, affermava  che l’ arte della guerra si basa sull’ inganno esistevano solo le guerre dichiarate e combattute con le armi della violenza fisica.

Ma l’ insegnamento del teorico cinese era abbastanza profondo da dimostrarsi valido anche oggi, in tempi di guerra coperta, non convenzionale, combattuta con le armi dell’ economia e soprattutto della finanza. Dove l’ inganno consiste nella disinformazione e la disuguaglianza tra le parti contrapposte si basa sul possesso o meno dei mezzi di disinformazione di massa.

Se c’è una lezione che ho imparato dirigendo una parte non trascurabile dell’ ONU è che, nelle cose del mondo, la verità dei fatti raramente coincide con la sua versione ufficiale. Anche in tempi di pluralismo informativo come i nostri, le idee dominanti  - come diceva il vecchio Marx – sono ancora                                                                                                                      quelle della classe dominante. Che rivolta cose e fatti a suo uso e consumo 
Dietro ogni guerra c’è una menzogna.

E quello del Venezuela si configura oggi come un caso di guerra non convenzionale coperta da una gigantesca truffa informativa.

Chiunque abbia voglia di documentarsi  sulla crisi  del Venezuela consultando fonti diverse dalla vulgata prevalente farà fatica a mantenere la calma. Perché si scontrerà ad ogni passo con una narrativa falsa, omissiva e distorta. 

Il principale mito da sfatare riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano, unanimemente attribuite dai media occidentali al malgoverno degli esecutivi “socialisti” succedutisi al potere dopo il 1998, data dell’ elezione del “dittatore” Chavez alla presidenza.

“Dittatura” confermata da 4 elezioni presidenziali e 14 referendum ed consultazioni nazionali successive, e condotta sotto il segno di uno strappo radicale con la storia passata del Venezuela: i proventi del petrolio sono stati in massima parte redistribuiti alla popolazione invece che intascati dall’ oligarchia e imboscati nelle banche degli Stati Uniti. 

sabato 2 marzo 2019

Antropologia, dialettica e struttura. - Stefano Garroni

Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, lacittadelsole.
Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 


Nel suo scritto “Système, structure et contraddictions dans le Capital” (1966), Maurice Godelier si pone immediatamente queste due domande:

(1) “È possibile analizzare le relazioni tra un evento e una struttura”?

(2) è possibile “rendere conto della genesi e dell’evoluzione di questa struttura senza condannarsi ad abbandonare il punto di vista strutturalistico?”[1]

Prima di esaminare le risposte alle domande che lo stesso marxista francese si pone, sono necessarie alcune osservazioni, anche se molto rapide.

Il pensiero dialettico, nelle sue espressioni più classiche (si pensi a Platone, a Leibniz, ad Hegel), vuole essere la risposta esatta a questioni, strettamente analoghe a quelle su cui Godelier si interroga, le quali, in definitiva, ruotano intorno alla possibilità di superare o di mediare l’opposizione fra stabilità della regola e continua eccentricità del movimento.
Per intendere come si collochi il pensiero dialettico rispetto a questa problematica, mi limito a ricordare due casi particolarmente significativi: si pensi per es., a Leibniz, che tematizza il rapporto fede/ragione e si ricordi come, per Hegel, l’idea sia il ritmo logico interno al reale stesso (dunque, non qualcosa di esterno, di altro rispetto al reale, ma sì esattamente quest’ultimo esaminato, però, dal punto di vista della linea, del tracciato, della regola del suo dinamismo)[2].

Perché, allora, il marxista Godelier (dunque, si presume, una persona a cui non sia ignota la tradizione dialettica) si pone queste due domande, ma in relazione allo strutturalismo?

venerdì 1 marzo 2019

COSA E' IDEOLOGIA - Stefano Petrucciani

Da: LuissGuidoCarli - stefano-petrucciani è Professore ordinario di Filosofia Politica presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell‘Università di Roma "La Sapienza".
Vedi anche: COSA E' IDEOLOGIA - Roberto Finelli
Leggi anche: Marx e la critica del liberalismo - Stefano Petrucciani 

                                                                                 

giovedì 28 febbraio 2019

Egemonia come direzione o come dominio? - Tian Shigang

Da: https://medium.com/china-files - Traduzione per China files di Andrea Pira 

Leggi ancheI Quaderni del carcere Renato Caputo



Come rendere in cinese uno dei concetti fondamentali del pensiero di Gramsci? Per gli ottant’anni (82) dalla morte del leader comunista italiano, China Files traduce uno scritto del suo traduttore cinese, Tian Shigang. 


Per ricordarne il settantesimo anniversario dalla morte, la Casa editrice del popolo (Renmin chuban she) ha pubblicato le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, fondatore e segretario del Partito comunista d’Italia (PCd’I), uno tra i teorici marxisti più eclettici ed originali del XX secolo.
Le Lettere dal carcere (edizione integrale tradotta) raccolgono le 456 missive che, tra il novembre 1926 e il gennaio 1937, Gramsci inviò dai luoghi d’esilio e dalle carceri fasciste, ad amici e familiari. Le Lettere dal carcere sono un archivio del pensiero gramsciano, l’introduzione e la guida dei Quaderni del carcere. Le Lettere sono un “autoritratto” autentico e vivo, una “solenne sinfonia” che tocca le menti delle persone, uno “sfortunato” classico della moderna letteratura italiana, che Croce esalta perché appartenenti all’intera nazione italiana. Dopo la prima pubblicazione nel 1947, le Lettere dal carcere ebbero immediatamente una grande eco, dovuta al loro linguaggio vivo e semplice, alla capacità di toccare i reali sentimenti delle persone, alla ricchezza del contenuto ed alla profondità di pensiero, tanto da conquistare nel 1948 il più importante premio letterario italiano, il premio di Viareggio.
Per il sottoscritto, il percorso di traduzione delle Lettere dal carcere è stato allo stesso tempo un percorso di studio, che mi ha spinto ad approfondire maggiormente alcuni dei concetti peculiari di Gramsci, soprattutto quello di “egemonia”.

mercoledì 27 febbraio 2019

LIBERTA’ COME ILLUSIONE NELLA CULTURA DECADENTE - Paolo Massucci

Da: https://www.lacittafutura.it - Paolo Massucci, Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2019/01/rispecchiamento-dialettica-e-neo.html
                      https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/09/il-dualismo-mente-corpo-un-dilemma.html




Sono cresciute negli ultimi anni tesi a sostegno del determinismo e dell’illusorietà del libero arbitrio, supportate da recenti scoperte delle neuroscienze. Vero avanzamento del pensiero scientifico e filosofico o ideologia funzionale al mantenimento dello status quo?




In un interessante testo del 2016 [1], Andrea Lavazza, studioso di filosofia morale e di filosofia delle neuroscienze, ci offre un quadro dell’attuale dibattito inerente ad uno degli argomenti da alcuni anni più discussi, che si candida ad essere tra gli snodi più importanti della riflessione filosofica, in virtù delle sue ricadute sull’esistenza. Si tratta dell’alternativa tra la nozione di determinismo, nelle sue diverse articolazioni, e quella di libertà umana (libero arbitrio)[2], questione che ha segnato la storia del pensiero sin dall’antichità, almeno a partire da Democrito. 

martedì 26 febbraio 2019

ROMA E ANNIBALE - Una storia in movimento

Luciano Canfora, Storico del mondo antico e Professore emerito di Filologia Greca e Latina all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Annalisa Lo Monaco, Ricercatore di Archeologia Classica alla Sapienza Università di Roma
Claudio Strinati, Storico dell'Arte.
Andrea Giardina, Professore di Storia Romana alla Scuola Normale Superiore di Pisa.

                                                                          

Il Mediterraneo è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civiltà, culti, costumi e leggende. A metà del II secolo a.C. la definitiva vittoria romana contro i cartaginesi, la presa di Corinto e l’eredità del regno di Pergamo, consegnarono alla Repubblica il dominio del Mediterraneo e tutti i territori di quest’area passarono sotto la sua autorità, favorendo l’assimilazione giuridica, linguistica e l’ellenizzazione della cultura romana. Ma quello dei romani è un popolo che ha le sue radici e le sue origini negli dèi, infatti dice Omero: “Dalla guerra di Troia Enea si salverà per volere degli dèi”; l’ultimo degli eroi greci diventa così il capostipite dei romani. 

lunedì 25 febbraio 2019

La scoperta del plusvalore relativo - Maria Turchetto

Da: http://www.consecutio.org - Maria Turchetto, Università Ca' Foscari (https://www.unive.it/data/persone/5591077/pubb_tipo)
Leggi anche: - Caduta tendenziale del saggio di profitto, fordismo, postfordismo. - Maria Turchetto
Vedi anche: L'evoluzione della donna - Maria Turchetto 
«il capitalismo non produce calze per regine».
(Schumpeter 1971)
   1. Tra la terza e la quarta sezione
 
Il cap. 10 del Libro I del Capitale definisce il concetto di «plusvalore relativo», ponendosi tra la terza sezione, dedicata a La produzione del plusvalore assoluto (capp. 5-9) e la quarta sezione, dedicata appunto a La produzione del plusvalore relativo (capp. 10-13). Queste sezioni rappresentano il cuore del Libro I, il nucleo essenziale della rivoluzione scientifica prodotta da Marx.

La terza sezione ci ha condotti «nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto No admittance except on business» (Marx 1975, 212), dove finalmente si svela l’arcano della produzione di plusvalore, rimasto inaccessibile all’analisi degli economisti classici. Com’è noto, la distinzione cruciale introdotta da Marx è quella tra forza-lavoro, oggetto di acquisto nella sfera della circolazione al suo valore di scambio, e lavoro, ossia uso della forza-lavoro nel «processo di produzione immediato». Il processo di produzione immediato, indagato cioè «allo stato puro […] facendo astrazione da tutti i fenomeni che nascondono il giuoco interno del suo meccanismo» e in particolare dal «movimento mediatore della circolazione» (Marx 1975, 694), oggetto dell’intero Libro I (cfr. Marx 1975, 7), rappresenta, come scrive Louis Althusser (2006, 21), l’«enorme svista» degli economisti classici, la zona d’ombra che impedisce loro di riconoscere lo sfruttamento capitalistico. Non si tratta, ovviamente, come Althusser (2006, 21) sottolinea con grande efficacia, di non cogliere un dato, qualcosa che «tuttavia era sotto gli occhi, […] a portata di mano». Si tratta di un più delicato problema di costruzione dell’oggetto scientifico o del campo di indagine. Per gli economisti classici il processo di produzione è meramente tecnico, storicamente e socialmente indifferente[1], mentre per Marx ciò che conta sono le peculiarità che esso mostra «nel suo svolgersi come processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista» (Marx 1975, 224), analizzando le quali è possibile individuare l’appropriazione di plusvalore come lavoro altrui non pagato, in prima istanza come plusvalore assoluto, ossia come semplice prolungamento della giornata lavorativa oltre al tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore della forza-lavoro (assumendo come date l’intensità e la forza produttiva del lavoro) .

Se la terza sezione e il concetto di «plusvalore assoluto» rappresentano una solida acquisizione per tutto il marxismo successivo a Marx – si tratta del resto dell’esplicitazione dello sfruttamento e dell’insanabile conflitto che oppone classe capitalistica e classe operaia – non si può dire altrettanto per la quarta sezione introdotta dal cap. 10, che pure ha un ruolo essenziale nell’inquadrare la specificità del capitalismo come produzione di massa di tipo industriale. La riscoperta di questi capitoli del Libro I è tarda, databile agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso[2]. La voce più autorevole è forse quella di Harry Braverman, che analizza taylorismo e fordismo con gli strumenti tratti dai capitoli marxiani su cooperazione, divisione del lavoro e grande industria, aprendo una nuova stagione di studi dell’organizzazione capitalistica del lavoro[3]. Il marxismo precedente – specie quello ortodosso delle accademie sovietiche – sembra invece riproporre l’«enorme svista» degli economisti classici, trattando la produzione in termini meramente tecnici: socialismo «in costruzione» e capitalismo «maturo» venivano infatti contrapposti sul piano della circolazione (la pianificazione contro l’anarchia del mercato) e della distribuzione (la «proprietà di tutto il popolo» e l’equità dei redditi contro la proprietà privata e l’ingiusta ricchezza di pochi), mentre sul piano della tecnica e dell’organizzazione del lavoro il capitalismo veniva emulato («taylorismo ed elettrificazione» fu lo slogan della NEP)[4].

C’è stata dunque, al volgere del secolo scorso, una certa messe di studi sull’organizzazione capitalistica del lavoro ispirati alla quarta sezione del Libro I del Capitale e soprattutto ai capp. 11-13: studi molto interessanti, pur con alcuni limiti (come a suo tempo ho sostenuto, un certo “automobilocentrismo”, ossia un’attenzione forse eccessiva alle novità introdotte nel vecchio settore trainante della meccanica leggera e, per contro, una scarsa capacità critica nel valutare le promesse millantate dalle nuove tecnologie basate sull’informatica e sull’elettronica)[5]. Dati questi limiti, non sarà forse inutile focalizzare l’attenzione proprio sul cap. 10, che dei capitoli successivi – davvero splendidi – costituisce la premessa teorica.