(*) Augusto
Graziani, Riabilitiamo la teoria del valore (da I conti senza l’oste,
Bollati Boringhieri, pp. 235-240). https://zeroconsensus.wordpress.com/
Leggi anche:https://keynesblog.com/2015/09/24/augusto-graziani-luomo-che-ha-davvero-capito-la-moneta/#more-6278
Non poco
dell’insegnamento economico di Marx è stato assorbito
silenziosamente da economisti di tradizione estranea al marxismo. Non
è difficile scoprire, all’interno della tradizione economica
borghese, l’esistenza di una vasta corrente sotterranea di origine
marxiana, a volte sepolta nel profondo, a volte affiorante in
superficie, comunque sempre presente e vitale.
L’analisi di
Marx, per chi volesse utilizzare un termine moderno, può dirsi
impostata in termini macroscopici. La definizione marxiana del
capitalismo come sistema basato sulla separazione fra lavoro e mezzi
di produzione, e sulla conseguente contrapposizione tra una classe di
capitalisti proprietari e una classe di lavoratori nullatenenti, è
espressa direttamente in termini di struttura sociale. Questa
definizione del capitalismo, come sistema costituito da classi in
conflitto, è quasi superfluo ricordarlo, viene fermamente respinta
dalla teoria economica borghese, la quale resta saldamente
affezionata all’idea del mercato come libera palestra di
contrattazione, nella quale i singoli affermano le proprie preferenze
e difendono i propri interessi.
L’imposizione
individualistica, com’è noto, prende come punto di partenza
l’agire del singolo individuo e, dall’analisi del comportamento
del singolo, desume l’assetto globale del sistema economico. A
questa procedura, Marx, con la sua impostazione macroeconomica,
contrappone una procedura inversa, di contenuto storico e concreto.
Ridotta all’essenziale, la sua logica può essere espressa così:
poiché l’esperienza storica mostra che un sistema sociale quale il
capitalismo, basato sulla separazione tra lavoro e mezzi di
produzione, si è affermato e perdura, ciò significa che i soggetti
che lo compongono si comportano in modo da garantire la
sopravvivenza. Compito dell’analisi economica è proprio quello di
scoprire tali regole di sopravvivenza. Per spingersi nel profondo,
occorre scoprire le vere condizioni di equilibrio del sistema
economico, che sono le condizioni della sua riproduzione. Questo è
il compito che Marx assegna alla scienza economica. Per un
economista, questa regola di metodo significa riconoscere priorità e
autonomia all’analisi macroeconomica, lasciando all’analisi
microeconomica (e cioè allo studio del comportamento individuale) il
carattere di residuo derivato.
L’analisi di
classe della società capitalistica conduce immediatamente Marx a una
descrizione del processo economico inteso come circuito monetario. I
lavoratori, privi per definizione di mezzi di produzione, non possono
avviare alcuna attività produttiva. Le imprese, a loro volta,
possono farlo soltanto dopo aver acquistato forza-lavoro. Il processo
economico si mette dunque in moto soltanto nel momento in cui le
imprese, ottenuto un finanziamento monetario dal settore delle
banche, acquistano forza-lavoro e realizzano il processo produttivo.
Lo stesso processo si conclude allorché le imprese, avendo vendute
le merci prodotte, rientrano in possesso della moneta erogata e
rimborsano alle banche il credito inizialmente ricevuto.
L’idea del
processo economico come circuito monetario, più volte scoperta e più
volte dimenticata, è alla base di numerose acquisizioni teoriche. Ne
citeremo soltanto tre. Nell’analisi del processo economico come
circuito monetario, la moneta compare come credito iniziale concesso
alle imprese per l’erogazione dei salari e l’acquisto di
forza-lavoro. Allorché la moneta entra nel circuito, essa
rappresenta quindi il capitale investito dall’imprenditore e
impegnato nel processo produttivo a scopo di profitto. La moneta non
è quindi, così come vorrebbe la teoria individualistica, un
semplice intermediario dello scambio, introdotto a guisa di
perfezionamento tecnico allo scopo di superare gli inconvenienti del
baratto. Nell’assetto capitalistico, la moneta è il capitale
iniziale di cui si avvale l’imprenditore per l’acquisto di forza
lavoro. La circolazione monetaria, quindi, non svolge unicamente la
funzione di consentire più agili rapporti commerciali, ma anche
quella assai più rilevante di mettere in rapporto la classe dei
capitalisti con quella dei lavoratori.
È sempre la
definizione del processo economico come circuito monetario che
consente di analizzare il fenomeno della crisi. Tale fenomeno si
presenta come un arresto del circuito. Nulla garantisce infatti che,
nel corso del processo economico, i redditi monetari percepiti
vengano spesi per intero. Fintantoché ciò avviene, la continuità
del processo economico è assicurata. Ma se, per ragioni connesse
alle prospettive più o meno pessimistiche degli imprenditori o degli
speculatori, risulta conveniente trattenere ricchezza in forma
liquida, il circuito si arresta e subentra la fase di crisi.
A sua volta, il
problema della crisi è strettamente legato a quello della
disoccupazione e del funzionamento del mercato del lavoro.
Nell’immediato, la crisi si manifesta attraverso la presenza di
merci prodotte e non vendute; ma, se la crisi si protrae, il volume
di produzione finisce con l’adattarsi al livello della domanda e il
fenomeno delle merci non vendute scompare. A questo punto, la crisi
si manifesta soltanto nel mercato del lavoro, sotto la forma di
disoccupazione. Secondo la teoria tradizionale, anche in questo
mercato, grazie al gioco della domanda e dell’offerta, si dovrebbe
giungere prima o poi a un assetto di equilibrio. La teoria del
processo economico come circuito monetario aiuta a comprendere perché
invece ciò non accada, e come la disoccupazione scompaia soltanto
quando gli imprenditori, in base alle loro previsioni e secondo
strategie proprie, decidono di porvi fine, rimettendo in moto il
processo produttivo.
Da questa analisi
della disoccupazione discende infine un ultimo insegnamento, anche
questo più o meno tacitamente assorbito da vasti settori
dell’economia non marxiana. È noto che, secondo la teoria
tradizionale della domanda e dell’offerta, il lavoratore per il
fatto stesso di possedere una capacità lavorativa e di poter offrire
il proprio lavoro, sarebbe titolare di una ricchezza immediatamente
convertibile in altri beni. La teoria del processo economico come
circuito insegna invece che l’offerta di lavoro in sé non
conferisce al lavoratore alcun comando diretto sui beni, se non dopo
che il lavoro sia stato convertito in moneta, il che avviene soltanto
nei limiti in cui gli imprenditori-capitalisti in base a propri
calcoli personali, decidono che ciò debba avvenire. Il lavoro in sé
non è quindi ricchezza; lo diventa subordinatamente a una decisione
dell’imprenditore. Il capitalista, nel mettere in moto il circuito
monetario, è spinto dall’intento di conseguire un profitto o,
nella terminologia marxiana, di accrescere il valore del capitale
investito.
Sul problema del
valore e della sua misurazione, lo scontro fra teoria marxiana e
teoria borghese é stato il più lungo e accanito. È opinione
comune, condivisa al giorno d’oggi sia a destra sia a sinistra, che
su questo terreno Marx sia rimasto soccombente. Senza pronunciarsi su
questo verdetto, cerchiamo di individuare gli insegnamenti che anche
per questo aspetto la teoria marxiana è in grado di dare.
Nell’affrontare il tema del valore, il primo punto da stabilire è
che l’intero problema va studiato nell’ottica che abbiamo detto
macroeconomica: non già quindi dal punto di vista del capitalista
singolo, in lotta con i suoi concorrenti, bensì nella prospettiva
generale che contrappone l’intera classe dei capitalisti a quella
dei lavoratori. In questa ottica, di classe, valorizzazione significa
non già produzione di profitto individuale per il singolo
capitalista, e tanto meno creazione di valore per la collettività,
bensì accrescimento di ricchezza per la classe dei capitalisti.
Se ci poniamo in
questa prospettiva, emerge un primo risultato significativo: nessuno
scambio che rimanga puramente all’interno del sistema delle imprese
può contribuire alla valorizzazione del capitale investito; infatti,
ogni vantaggio che un singolo capitalista dovesse eventualmente
trarre dallo scambio con altri capitalisti sarebbe compensato da una
perdita identica a carico della sua controparte, e le sue partite si
annullerebbero a vicenda. La trasmissione di materie prime, di
macchinari, o di beni intermedi da un capitalista all’altro, non
può quindi produrre alcun valore aggiuntivo per la classe dei
capitalisti nel suo insieme. I beni strumentali possono tutt’al più
trasmettere immutato il proprio valore, passando da un capitalista
all’altro (di qui la denominazione di capitale costante che Marx
assegna ai mezzi di produzione materiali). La valorizzazione del
capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da
scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe,
e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste
nell’acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i
capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del
prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e
convertirlo in profitto ( di qui l’insistenza di Marx sul fatto che
sovrappiù e profitto nascono esclusivamente nella fase della
produzione).
Giungiamo così ad
una ulteriore conclusione, frutto anch’essa dell’impostazione
stessa del ragionamento: che il profitto dei capitalisti come classe
nasce unicamente dal rapporto che si instaura fra capitalisti e
lavoratori e che di conseguenza esso può nascere soltanto dalla
differenza fra quantità di lavoro totale impiegato e quantità di
lavoro che torna al lavoratore sotto forma di salario reale.
Resta un punto da
esaminare. Se, come abbiamo visto, soltanto l’impiego di lavoro
produce una valorizzazione del capitale investito, sembrerebbe
potersene dedurre che soltanto il lavoro attribuisca valore alle
merci e che di conseguenza le merci debbano anche scambiarsi sul
mercato secondo prezzi relativi proporzionali al lavoro contenuto in
ciascuna di esse. Questa è la versione volgare della teoria del
valore-lavoro, versione che peraltro lo stesso Marx non ha mai
sostenuto, e che si può dire sia servita principalmente agli
avversari della dottrina marxiana come pretesto per confutarne la
fondatezza. Marx non sostenne mai che le merci si dovessero scambiare
secondo il valore contenuto in ciascuna di esse, per il semplice
fatto che questa proposizione non discende in alcun modo dalle
premesse del suo ragionamento. Abbiamo detto che il problema della
valorizzazione investe la classe dei capitalisti nei suoi rapporti
con i lavoratori; lo scambio di merci, in quanto fenomeno interno
alla classe dei capitalisti, costituisce invece un problema del tutto
diverso. Plusvalore e profitto possono trarre origine soltanto da un
rapporto fra le due classi; ma lo scambio di merci e tutt’altra
cosa, in quanto fenomeno interno alla classe dei capitalisti. I
prezzi relativi delle merci si formano infatti negli scambi fra
capitalisti, sotto il dominio della regola della concorrenza,
fenomeno questo che riguarda esclusivamente i capitalisti nei loro
rapporti reciproci.
In questo campo,
valgono le regole dell’equilibrio concorrenziale (mille volte
esposto in forma analitica’, dall’equilibrio generale di Walras
alla teoria dei prezzi di Sraffa), regole che spiegano appunto la
determinazione dei prezzi relativi nello scambio fra merci. Tale
scambio non dà luogo a rapporti fra classi e non configura alcun
fenomeno di valorizzazione. È quindi erroneo affermare, come
peraltro sovente viene fatto, che nella spiegazione dei prezzi, la
teoria marxiana del valore fallisca. Si tratta infatti di un fenomeno
nel quale, non essendovi un problema di valorizzazione da analizzare,
la teoria marxiana del valore non entra in modo diretto. La teoria
del valore spiega che il plusvalore ottenuto dall’utilizzazione
della forza- lavoro è l’unica ricchezza che i capitalisti nel loro
complesso possano spartirsi e convertire in profitto; per cui, nel
suo complesso, l’elemento di profitto contenuto nei prezzi di
mercato discende dal modo in cui si è realizzato il rapporto tra
classi. Ma, al di là di questo collegamento, resta il fatto che
analisi dei rapporti tra classi, o analisi sociale macroeconomica da
un lato, e analisi dei rapporti interni a una singola classe, o
analisi microeconomica concorrenziale dall’altro, sono fenomeni
diversi, che rispondono necessariamente a logiche distinte.
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