Maria Turchetto è ricercatrice Universitaria in quiescenza (http://www.unive.it/data/persone/5591077/curriculum)
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/03/levoluzione-della-donna-maria-turchetto.html
(Novembre 1994) [ITA_08_02_2018]
“E così si è visto, in generale, che le medesime cause che determinano la caduta del saggio di profitto, danno origine a forze antagonistiche che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta. E se non fosse per questa azione contrastante non sarebbe la caduta del saggio di profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario la relativa lentezza di questa caduta. In tal modo la legge si riduce ad una semplice tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo”[1].
Nell’esposizione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, contenuta nel III libro de Il Capitale, c’è un contrasto tra la struttura dell’argomentazione e il suo contenuto. La struttura argomentativa, distribuita sui due capitoli “La legge in quanto tale” e “Cause antagonistiche”, presenta una legge contrastata da fenomeni perturbatori. Il saggio di profitto è come una piuma lasciata cadere dall’alto, rallentata dalla densità dell’aria, temporaneamente risollevata dal vento: sappiamo che, alla fine, tra le diverse forze in gioco avrà la meglio la forza di gravità; alla lunga, per la legge della caduta dei gravi, la piuma arriverà a terra. Il contenuto dell’argomentazione ci costringe ad abbandonare questa analogia, perché veniamo a sapere che le cause che determinano la caduta del saggio di profitto e quelle che la contrastano sono le medesime. Non abbiamo dunque una forza che prevale su altre forze (per intensità, durata, ecc.), ma una medesima causa che ha effetti contrastanti.
Marx ammette solo parzialmente questa difficoltà, presentandola come indebolimento della legge, o meglio come degradazione della legge a “semplice tendenza”, la quale “si manifesta in modo convincente solo in condizioni determinate e nel corso di lunghi periodi di tempo”. Ma non rinuncia a considerare questa tendenza come principale rispetto alle controtendenze provocate dalle forze antagonistiche. È inoltre piuttosto ambiguo nel descrivere le modalità di manifestazione della tendenza principale: non è chiaro se “nel corso di lunghi periodi di tempo” significhi “raramente”, “secondo cicli lunghi” o “alla lunga”. È noto come il marxismo successivo a Marx abbia variamente seguito queste due ultime possibilità interpretative, collegando la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto vuoi alle teorie del crollo del capitalismo, vuoi al tema del ciclo economico e delle crisi.
Ci vuole una buona ragione per sostenere che, tra i diversi effetti imputabili a una medesima causa, uno prevale sugli altri. E sospetto che la ragione per cui Marx assegna alla caduta del saggio di profitto il ruolo di tendenza principale del sistema non sia una ragione buona, ma piuttosto ideologica: mostrare un limite intrinseco al capitalismo, una sua contraddizione funzionale; mostrare, insomma, che il capitalismo lavora nella direzione del proprio superamento e che dunque la storia lavora per “noi” (gli oppressi e i “buoni” che stanno dalla parte degli oppressi). Non so dire quanto Marx sia legato a questa ideologia (non c’è dubbio che il marxismo crollista lo è stato in misura molto maggiore), nè in che misura ci sia lo zampino di Engels nelle ambiguità segnalate; nemmeno mi interessa, del resto, aprire una discussione su questo punto.
Vorrei piuttosto osservare che, a mio avviso, c’è un unico modo per argomentare il prevalere “alla lunga” della tendenza alla caduta del saggio di profitto: sottovalutare, di fatto, il ruolo dell’aumento della produttività ottenuto con lo sviluppo dei metodi del plusvalore relativo come “causa antagonista” (per l’accrescimento del saggio di plusvalore che produce) rispetto a quello di “causa diretta” (per l’accrescimento della composizione organica) della caduta del saggio di profitto. Solo sostenendo che, da un lato, i metodi del plusvalore relativo contrastano la caduta del saggio di profitto meno di quanto la provocano e, dall’altro lato, che lo sviluppo del capitalismo promuove i metodi del plusvalore relativo più di quelli del plusvalore assoluto è possibile concludere che la caduta del saggio di profitto rappresenta la tendenza principale del sistema, nel senso forte che “alla lunga” prevarrà.
Ho l’impressione che gli argomenti che reggono questa conclusione siano entrambi difficili da provare sul piano teorico come su quello empirico. In ogni caso, se si rinuncia a sostenere la tesi esposta, rimane un quadro di forze contraddittorie che non si risolvono in una risultante univoca ma lasciano piuttosto prevedere discontinuità sistemiche. Non sono in grado, in questa sede, di dare maggiore consistenza all’impressione della scarsa argomentabilità dell’esistenza di una tendenza principale. Preferisco abbracciare senz’altro l’ipotesi della discontinuità, anche perché ritengo che, dal punto di vista conoscitivo, un andamento discontinuo non rappresenti qualcosa di più “povero” rispetto a una direzione univoca: se posso usare una metafora matematica, il limite di una serie non è più importante della regola di variazione che costituisce la serie stessa. Piuttosto, l’ipotesi della discontinuità richiede un apparato teorico e analitico più complesso, soprattutto se — come mi sembra sia il caso in tema di relazioni tra plusvalore relativo, plusvalore assoluto, composizione organica, valorizzazione — la discontinuità si colloca sia sul piano temporale, sia sul piano spaziale.
Vorrei lasciare per un attimo Marx, il III libro de II Capitale e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto per passare all’altro tema annunciato dal titolo della mia relazione, ossia il “postfordismo”. Questo termine — presente nell’attuale dibattito con significati tutt’altro che univoci — segnala appunto una forte discontinuità nello sviluppo capitalistico contemporaneo, percepita soprattutto (come il suffisso “post” segnala) sul piano temporale, vale a dire come chiusura di una fase storica e apertura di un’epoca nuova della produzione industriale. La discontinuità rappresentata dal postfordismo, dunque, non è pensata tanto in termini di ciclicità, quanto piuttosto in termini di “svolta epocale”: il capitalismo starebbe mostrando un aspetto inedito, un volto affatto nuovo.
Questo modo di pensare la discontinuità è, a mio avviso, ancora troppo semplice. L’enfasi posta sulla trasformazione rischia di riproporre — sotto mutate spoglie — tesi crolliste, comunque l’idea che capitalismo muta da se stesso in qualcosa che capitalismo non èpiù; la sottovalutazione della persistenza di caratteri significativi finisce d’altra parte col rendere un cattivo servizio all’analisi orientata dall’ipotesi della “svolta epocale”. Le analisi relative al cosiddetto “postfordismo” presentano in effetti, in molti casi, una notevole dose di avventatezza. Spesso l’elemento di novità segnalato viene semplicemente proiettato nel tempo e nello spazio senza particolari cautele nelle previsioni circa l’estensione e la durata del fenomeno in questione. Non ci si chiede, in altre parole, se tale fenomeno abbia carattere transitorio o permanente; se sia destinato a una diffusione generalizzata o piuttosto a una polarizzazione in aree e settori determinati. Da questa assenza di cautela – o, se vogliamo, da questa assenza di coordinate spaziali e temporali credibili – deriva un panorama di previsioni eterogenee e di giudizi contrastanti.
Le categorie di plusvalore assoluto, plusvalore relativo, composizione organica del capitale, saggio di profitto evidentemente suonano oggi desuete, e non compaiono o quasi nelle analisi in questione. Ma naturalmente dei fenomeni cui la terminologia marxiana allude si parla ampiamente, in campo marxista e non. La valutazione delle nuove tecnologie in rapporto alla composizione organica del capitale, ad esempio, rappresenta uno degli aspetti in cui maggiore è l’eterogeneità delle previsioni e il contrasto dei giudizi.
In alcuni casi si enfatizza il ruolo delle tecnologie di automazione introdotte dalla recente ondata di innovazioni legate all’informatica e all’elettronica, dilatando fino alla previsione di una “fine del lavoro” prossima ventura le potenzialità labour saving delle nuove tecnologie. Si dà per scontato, in questo senso, un enorme aumento della composizione organica del capitale, tanto che ha ripreso fiato una particolare interpretazione delle conseguenze letali per il capitalismo della caduta tendenziale del saggio di profitto: l’interpretazione (per altro – sia detto per inciso – molto semplicistica, legata più al celebre “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse che all’analisi contenuta nel III libro de Il Capitale) rappresentata dall’operaismo italiano[2].
In altri casi si sottolinea, al contrario, la potenzialità capital saving delle nuove tecnologie, spingendo la previsione fino all’ipotesi estrema di una futura “società postindustriale”. Non bisogna dimenticare che le tecnologie informatiche, soprattutto durante la prima grande ondata di introduzione, alla fine degli anni ’70, hanno goduto di una campagna apologetica che le contrapponeva al vecchio modello di sviluppo – accusato di creare sprechi energetici, degrado ambientale, eccessiva concentrazione nei poli industriali e urbani – sottolineando gli aspetti energy saving delle novità introdotte, la capacità di creare decentramento, di sfruttare impianti di piccole dimensioni, ecc[3]. Più di recente, altri due miti hanno contribuito a rafforzare questa immagine soft dello sviluppo produttivo che ci aspetta: il mito della “immaterialità” della merce informatica, che è riuscito a nascondere dietro uno spesso schermo ideologico un oggetto grosso come l’industria componentistica; e il mito del toyotismo, della produzione just in time, capace, per far fronte alle richieste di un mercato divenuto flessibile e differenziato, di ridurre drasticamente gli stoccaggi. Nel complesso, stando alle analisi orientate in questa direzione, sembrerebbe venuta meno l’ineluttabilità della correlazione tra innovazione tecnologica (dunque, sviluppo dei metodi del plusvalore relativo) e aumento della composizione organica del capitale.
Personalmente sono piuttosto scettica riguardo a queste analisi e a queste previsioni. Come accennavo, ritengo che esse impieghino modelli temporali e spaziali troppo semplici. La semplificazione sul piano del tempo consiste, chiaramente, nel procedimento che individua un processo in atto e lo proietta senz’altro sul futuro, senza distinguere tempi brevi e tempi lunghi, senza mettere in conto la possibilità che emergano non solo “controtendenze” – e dunque resistenze, rallentamenti, pause – ma addirittura “tendenze principali” di tutt’altra natura. La semplificazione sul piano dello spazio consiste nel guardare un fenomeno che si considera nuovo e significativo, e che si presenta in un certo settore o in un’area determinata, indossando lenti magari potentissime per quel particolare punto di osservazione, ma paraocchi enormi per tutto il resto. Questo atteggiamento è dovuto in buona parte anche al condizionamento esercitato dalle caratteristiche del modello di accumulazione e di organizzazione del lavoro che ci siamo appena lasciati alle spalle. L’ottica impiegata pecca molto spesso, a ben vedere, di “automobilocentrismo”: si guarda cioè con eccessiva attenzione al vecchio settore trainante e alle trasformazioni che lo investono nelle aree di insediamento originarie e tradizionali, col rischio di perdere di vista il resto del mondo e della produzione.
Di disoccupazione tecnologica – e dunque di “lavoro morto” che saisit il “lavoro vivo” – si parlò molto, ad esempio, quando la Fiat introdusse il robogate, il mastodontico e delicatissimo sistema di saldatura robotizzato. Certamente si trattava di un caso di automazione estrema, di sostituzione di lavoro vivo con lavoro morto spinta al massimo, di potente sviluppo dei metodi del plusvalore relativo. Eppure credo che nessuno, oggi, sosterrebbe che la recente ondata di disoccupazione sia dovuta al sopravvento dei robot sugli uomini, tanto più che gli uomini in questione non si, sono affatto trovati “liberati dal lavoro” in virtù delle macchine, ma piuttosto costretti ad accettare condizioni di lavoro assai più dure che in passato. In tutte le aree di sviluppo tradizionali – in Europa come negli Stati Uniti – si segnala l’aumento del lavoro part time, precario, a domicilio, nonché della disponibilità ad accettare pesanti modifiche della giornata lavorativa in cambio del mantenimento del posto di lavoro. La “fine del lavoro”, il raggiungimento del limite ultimo dei metodi del plusvalore relativo non sembrano, dunque, prospettive così prossime. Emerge, piuttosto, la capacità del capitalismo di ottenere al tempo stesso più lavoro e meno occupazione, con un rilancio su vasta scala dei metodi del plusvalore assoluto. Se poi si mette il naso fuori delle aree tradizionali dello sviluppo industriale, le sorprese aumentano. Si scoprirà, ad esempio, che le automobili che continuiamo a chiamare “europee” e “americane” non si producono più a Torino o a Detroit, ma in Messico o in Brasile, dove non ci sono impianti avveniristici e metodi “postfordisti”, ma catene di montaggio alla vecchia maniera. Nel complesso, c’è da sospettare che da un bilancio a livello di “sistema mondo” non emergerebbe affatto una tendenziale diminuzione del lavoro vivo impiegato dal capitale, ma al contrario un aumento del lavoro assoggettato alle condizioni capitalistiche della valorizzazione.
Non credo nemmeno che si possa parlare, a proposito del capitalismo contemporaneo, di una tendenza diffusa alla diminuzione della composizione organica del capitale, come di fatto suggeriscono i teorici del “postindustrialismo”. Anche in questo caso, l’ottica che ho definito “automobilocentrica” – e, più in generale, l’osservazione privilegiata della vecchia costellazione produttiva di settori trainanti e settori trainati – può condurre a veri e propri abbagli. È senz’altro vero, ad esempio, che le tecnologie informatiche ed elettroniche consentono decentramento e riduzione degli impianti in questi settori tradizionali. L’informatica e l’elettronica, tuttavia, non nascono dal nulla, non provengono da un qualche mondo sublunare nè da un “immateriale” ciberspazio. Al contrario, provengono da una produzione che conserva moltissime delle caratteristiche dell’industrialismo hard (addirittura heavy, per certi settori della componentistica) per tipo di organizzazione del lavoro, per dimensione degli investimenti e degli impianti, per le tendenze alla standardizzazione dei prodotti e alla concentrazione dei capitali che vi si manifestano. In questo settore non è nemmeno riscontrabile quel processo di spinta differenziazione dei prodotti che, osservato nella produzione automobilistica, ha fatto parlare di produzione “flessibile” (ossia pronta ad adeguarsi a una domanda mutevole e variegata) ed ha alimentato le previsioni di una generale trasformazione della struttura del mercato nel senso di un’inversione dei tradizionali rapporti di forza tra offerta e domanda a favore di quest’ultima. La produzione informatica — e soprattutto quella sua parte specificamente indirizzata al consumo di massa dello home computer — ha mostrato negli ultimi dieci anni tendenze affatto opposte, muovendosi nella direzione della omologazione e della standardizzazione dei prodotti, e della concentrazione dell’offerta. Il “postfordismo” — inteso come generale riduzione, alleggerimento, flessibilizzazione del gigantismo caratteristico della produzione di massa – sembra insomma predicabile soltanto per settori maturi e mercati saturi, come appunto quello dell’automobile; assai meno per settori recenti e mercati in espansione, dove gli aspetti tipici dell'”industrialismo” non sembrano affatto recedere. Vale inoltre anche per i teorici del postindustrialismo l’osservazione fatta a proposito dei profeti della “fine del lavoro”: l’indagine non può limitarsi ai centri tradizionali dello sviluppo industriale, ma va estesa al “sistema mondo”. Un bilancio che tenesse conto, in particolare, delle “semiperiferie” di recente industrializzazione — come il Messico, l’Indonesia, l’India, il Brasile, il Sud Corea e, oggi, la Cina – metterebbe con ogni probabilità una seria ipoteca sull’idea della “società postindustriale”.
Per concludere questa critica, rivolta a quelle che sono le interpretazioni in qualche modo estreme[4] della discontinuità presente nell’attuale fase dello sviluppo capitalistico, direi che molti segnali fanno pensare che sia in atto un grosso rimescolamento del vecchio mondo basato sulla produzione industriale e sullo sfruttamento che ben conosciamo, piuttosto che un cambiamento epocale nella direzione di una umanità liberata dalle condanne bibliche e dagli effetti indesiderati dello sviluppo. Un bilancio corretto delle trasformazioni in atto richiede sempre più un’ottica globale, internazionale. Le generalizzazioni condotte a partire da quanto si può osservare in un solo paese conducono a risultati fuorvianti: ad esempio ad interpretare come diminuzioni assolute (dell’occupazione, dei metodi “fordisti”, delle dimensioni delle imprese, ecc.) quelli che sono in realtà spostamenti o riconfigurazioni complesse.
Un’ottica così vasta richiede l’impiego di modelli spaziali e temporali più complessi di quelli tradizionalmente impiegati dalle teorie dello sviluppo. Lo sviluppo nel tempo viene troppo spesso pensato secondo una modalità lineare: sia che si ipotizzi una crescita illimitata, sia che, al contrario, si teorizzino i limiti dello sviluppo, la tendenza prevalente è nel senso di disegnare percorsi comunque univoci, unidirezionali. Anche le ipotesi di sviluppo nello spazio, per quanto polarizzate nelle previsioni, ricorrono a modelli troppo semplici: o si pensa a una modalità estensiva, per cui i paesi arretrati sono destinati, alla lunga, ad assumere le caratteristiche di quelli avanzati[5]; oppure si pensa al permanere di un dualismo irriducibile – in quanto funzionale al capitalismo stesso – tra un pugno di paesi capitalisticamente sviluppati e un’immensa area di arretratezza[6]. Un’idea dello sviluppo capitalistico marcato da salti qualitativi disomogenei nel tempo (perché articolati in fasi di trasformazione e fasi di assestamento) e nello spazio (perché dislocati su diverse configurazioni produttive, diverse costellazioni gerarchiche di settori trainanti, indotti e subordinati) è a mio avviso più adatta alla comprensione dei processi in atto.
Uno schema proposto a suo tempo da Marco Bonzio[7] mi sembra, in tal senso, già una buona prima approssimazione. Lo sviluppo capitalistico, secondo questo schema interpretativo, appare scandito da “grandi ristrutturazioni” che investono la sfera produttiva – il modo di produzione strettamente inteso come erogazione del lavoro sotto la direzione capitalistica – focalizzandosi su particolari settori trainanti. Ogni “grande ristrutturazione”, vale a dire ogni trasformazione capace di marcare una discontinuità in senso forte, si focalizza su un particolare settore trainante, ed è seguito da un periodo di consolidamento, durante il quale la nuova strutturazione dei processi produttivi capitalistici si diffonde in altri settori produttivi. Alcuni di questi ultimi rimangono tuttavia nel quadro dell’articolazione socio-produttiva consolidatosi con la precedente tappa di sviluppo del capitalismo, ed appaiono così “in ritardo” rispetto ai nuovi settori più dinamici e propulsivi. Si verifica infatti una “valorizzazione accelerata nei nuovi settori trainanti della società capitalistica (in quanto le innovazioni tecnico-organizzative hanno l’effetto di aumentare la produttività del lavoro e la massa del plusvalore ottenuto) cui fa riscontro una valorizzazione ‘deficitaria’ – o addirittura una vera e propria caduta del saggio di profitto – negli altri settori produttivi, con il conseguente aumento dello sviluppo diseguale tra imprese, trusts, rami d’industria ecc.”[8]
Questa struttura diseguale viene tendenzialmente spostata dai paesi d’origine verso il sistema mondo: le valorizzazioni “deficitarie” cercano compensi in termini di plusvalore assoluto – ad esempio, salari più bassi e giornate lavorative più lunghe – che, se non sono possibili nei paesi sviluppati, sono spesso praticabili alla periferia del sistema. Di qui il decentramento di interi settori “maturi”. In pratica, ogni stadio di sviluppo del modo di produzione capitalistico non elimina i precedenti, ma li spinge dal centro verso la periferia del sistema capitalistico mondiale. La forma capitalistica dei rapporti di produzione tende pertanto a generalizzarsi mentre permane una notevole diversificazione tanto delle forme tecnico-organizzative della produzione, quanto delle strutture sociali specifiche di ogni formazione sociale, e quindi uno sviluppo ineguale delle forze produttive su scala mondiale.
Lo “sviluppo ineguale” che in tal modo viene configurato non rappresenta una struttura dicotomica, come quella ipotizzata dalle interpretazioni oggi prevalenti in campo marxista, costituita cioè da un vertice ristretto di nazioni “ricche” e da una base sempre più larga ed omogenea di nazioni “povere”. La dinamica capitalistica rende al contrario altamente disomogenea l’area subordinata del mondo, poiché lo “sviluppo discontinuo del modo di produzione capitalistico, procedendo per tappe successive, provoca uno sgranarsi dei vari paesi lungo una piramide costituita dalle diverse fasi strutturali attraversate da detto modo di produzione. Per questo motivo si constata oggi l’esistenza di paesi in stadi qualitativamente diversi di sviluppo anche nell’ambito del cosiddetto Terzo Mondo”[9].
Per tornare finalmente – e molto brevemente – al III libro de Il Capitale e alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, mi chiedo se le categorie impiegate da Marx in quella sede potrebbero ritrovare significato analitico entro uno schema interpretativo come quello considerato. Si tratterebbe, in pratica, di situare “tendenze” e “cause antagonistiche” entro la griglia di spostamenti nel tempo e nello spazio delineata dallo schema in questione, con il vantaggio di ottenere – al posto di una tendenza univoca o di una coesistenza indecidibile di tendenze contraddittorie – una gerarchia almeno probabile dei fenomeni in questione.
Si tratta, ovviamente, soltanto di un’ipotesi di lavoro, e di un’ipotesi teorica, cui si può subito obbiettare che, per far fronte al compito della comprensione del presente, è urgente soprattutto una vasta ricognizione empirica dei processi in atto. L’obiezione è ragionevolissima; credo, tuttavia, che oggi ci sia bisogno anche di affinare gli strumenti teorici che orientano la ricognizione empirica. Farsi guidare da modelli troppo semplici – o addirittura da ideologie – ha conseguenze pesanti anche sul piano della visibilità, della capacità di vedere.
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[1] K, Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, vol. III1, p. 293.
[1] K, Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, vol. III1, p. 293.
[2] La previsione della “fine del lavoro” non è comunque appannaggio dei soli operaisti. Ricordiamo ad esempio la posizione di Adam Schaff in Rivoluzione microelettronica (rapporto al Club di Roma), Mondadori, 1982. Le previsioni sulla disoccupazione tecnologica sono state, negli ultimi anni, le più disparate. Ricorderò, a titolo di esempio, un interessantissimo dossier pubblicato dalla rivista SE Scienza Esperienza (febbraio 1986) che metteva a confronto i principali studi condotti negli Stati Uniti sul rapporto tra innovazione tecnologica e occupazione: tra gli altri, i risultati del progetto “Tempo” diretto da Ch. Freeman presso il Science Policy Research Unit dell’università del Sussex (cfr. Ch. Freeman, L. Soete, Information Technology and Employment, University of Sussex, 1985); lo studio di W. Leontief commissionato dalla National Science Foundation (cfr. W. Leontief, F. Duchin, The Impacts of Automation on Employment I963-2000, Institute of Economic Analysis, New York 1984); i modelli demografici e macroeconometrici elaborati dal Bureau of Labor Statistics dello Us Departement of labor. Nonostante l’ambito relativamente limitato di tali studi – agli Stati Uniti e al solo aspetto quantitativo dell’occupazione – l’eterogeneità delle previsioni è disarmante e copre tutto l’arco delle possibilità: dalla stabilità dell’occupazione, al suo aumento globale, alla riduzione del volume di occupazione totale.
[3] Basti citare i classici D. Bell, The coming of Post-Industrial Society, New York 1073 e E. F. Schumacher, Small is Beautiful, London 1973. Un’utile antologia di questa letteratura è P. M. Manacorda (a cura di), La memoria del futuro, La Nuova Italia Scientifica 1986.
[4] Naturalmente esistono analisi assai più serie e articolate. Vorrei citare, in particolare, alcuni autori americani che considerano il “fordismo” non tanto come un carattere generale o una tappa evolutivamente fondamentale del capitalismo (tale che il suo superamento comporterà una diversità radicale, quale quella evocata da espressioni come “postindustriale” o “fine del lavoro”), ma come sua configurazione storica particolare, data dalla concorrenza di più fattori. R. J. Antonio e A. Bonanno, ad esempio, definiscono come “fordismo” il “regime capitalistico consolidato dalla fine della prima guerra mondiale, caratterizzato da produzione altamente specializzata e meccanizzata, aziende burocratizzate, pianificazione estensiva e regolazione”; e denominano “alto fordismo” (“High Fordism”) il regime del secondo dopoguerra “più altamente razionalizzato, centralizzato, caratterizzato da una combinazione di aziende integrate e sindacati burocratizzati, e da un vasto intervento dello Stato” II “fordismo”, dunque, è un modello di accumulazione definito dalla combinazione di più caratteristiche: essenzialmente, da un modello di organizzazione del lavoro, da un tipo di struttura aziendale e da un peculiare tipo di intervento dello Stato (cfr. R. J. Antonio, A. Bonanno, Post-Fordism in the Unites States: the Poverty of Market-centred Democracy, dattiloscritto, 1994; cfr. anche A. Bonanno, The Understanding and Use of Space in Global Post-Fordism, dattiloscritto, University of Missouri-Columbia, 1994).
[5] Questa è stata, a ben vedere, l’ottica prevalente del marxismo tradizionale: dallo stesso Marx, che prevedeva un allargamento a macchia d’olio dei rapporti capitalistici su scala mondiale, alle versioni classiche della teoria dell’imperialismo.
[6] Questa impostazione è invece prevalente nel marxismo recente, soprattutto nei teorici dello “scambio ineguale” (cfr. A. Emmanuel, Lo scambio ineguale, Einaudi 1972; e S. Amin, Come funziona il capitalismo? Lo scambio ineguale e la legge del valore, Jaca Book 1974).
[7] Cfr, M. Bonzio, Per un sistema deIl’economia capitalistica mondiale, in Marx centouno n. 2, 1990.
[8] Ivi, pp, 162-3.
[9] Ivi, p. 167.
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