martedì 19 gennaio 2016

ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986)




"L’immagine che di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da risultare ancora meno accettabili. Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg.

La regista tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria.

Ma se si assolutizzano questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una divisione delle ragioni dalle passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e provocatorio, insomma, diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la sua guida” un appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da affezioni radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva combattere.

Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della com-passione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e “debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi." (R. Bellofiore) 

http://www.unive.it/media/allegato/dep/n28-2015/7_Bellofiore.pdf

"Rosa sta dalla parte delle masse perché sono oppresse, e la funzione educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta, alla rivoluzione - non al potere delle stesse élites per conto delle masse, vicario del potere borghese e a esso speculare. E' una visione fino a oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia destinata a divorare se stessa" (Edoarda Masi,"La persona Rosa, perché", p. 95).

"Se la talpa della storia è la verità che, celata al presente, si rivelerà nelle mutate condizioni del futuro, è in questo nostro tempo che si rovescia in rivincita tutto quanto era parso il risvolto negativo delle idee di Rosa e della sua sorte: puntare sulle masse - quando la rivoluzione d'ottobre, la sola vittoriosa, aveva seguito altra via; optare per la pace - quando la socialdemocrazia aveva scelto la guerra, e la guerra era venuta, seguita poi ancora da un'altra ancora più tremenda e universale; trovarsi dalla parte degli sconfitti - il peggiore dei torti secondo la ragion politica. Le vittorie di allora, se pure autentiche, non ci riguardano ormai, quando tutto è mutato e trascinato via dal tempo [...] Attuali e invincibili restano le idee degli sconfitti, perché rispondono ad un'esigenza insopprimibile degli esseri umani di questo secolo e ne rappresentano la nobiltà. Indipendentemente da se e fino a quando siano attuabili" (idem, pp. 98 e 95).

lunedì 18 gennaio 2016

La Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), Intervista a Roberto Fineschi* - Ascanio Bernardeschi

*Da:     http://www.lacittafutura.it/
Vedi anche:    https://controinformazion.wordpress.com/2011/11/27/1493/

La Mega2

Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità. 

Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della MEGA2 e perché sono importanti?

Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del 1857-58, i cosiddettiGrundrisse; la terza sezione è dedicata al carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.
È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni. Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44, nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria. Allo stesso modo l'Ideologia tedesca non è una “opera”; soprattutto il primo capitolo su Feuerbach è un insieme di manoscritti o articoli incollati e messi lì in maniera in parte arbitraria dai curatori (include perfino un testo di Hess!).

A proposito del capolavoro Marxiano, Il Capitale, cosa c'è di nuovo o si annuncia nei lavori della Mega2?

domenica 17 gennaio 2016

Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere* - Riccardo Bellofiore (2012)


Credo che sia una precondizione essenziale perché le cose cambino in meglio è che ci sia una lotta dura e senza ambiguità contro qualsiasi politica di ‘austerità’, una lotta dura per reggere sul salario, una lotta dura per ottenere reddito. Queste sono però lotte difensive, anche se essenziali. La questione che però abbiamo di fronte è ben più seria, e ci si arriva partendo da Marx, come anche partendo da Hyman Minsky. Il nostro problema è quello di mettere in questione sia la composizione della produzione che la natura della produttività. A noi fanno una testa così sul rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo e sul costo del lavoro per unità del prodotto. Quello che sta al denominatore, in entrambi i rapporti, ha a che vedere con cosa, come e quanto si produce. Non esiste sinistra, almeno nel mio senso della parola, se non si ha la pretesa, se non si ha l’ambizione, di intervenire sul denominatore, sulla produttività e sulla produzione. E non esiste uscita da sinistra, da questa crisi, che non sia legata alle lotte su questo terreno.

Sono, lo confesso, abbastanza colpito dal fatto che trovo molto più radicali i ragionamenti che leggo negli ultimi due capitoli finali del libro di Hyman Minsky Keynes e l’instabilità del capitalismo, del 1975 (edito da noi da Boringhieri), di qualsiasi cosa mi capiti di leggere, dovunque, di qualsiasi sinistra. In questo libro Minsky – nominando, tra l’altro ed esplicitamente il ‘socialismo’ – propone di una socializzazione dell’investimento molto più radicale di quella di Keynes, a cui affianca una socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della finanza. Minsky non ha remore a criticare il keynesismo realizzato, un sistema che, sostiene, ha finito con il distruggere la natura, come l’equilibrio sociale, producendo una nuova crisi da cui se ne esce soltanto ponendo la questione di cosa e come si produce: usa praticamente la stessa terminologia che ho impiegato io. Alla sua espressione per cui lo Stato dovrebbe essere occupatore di ultima istanza, preferisco l’idea che è tipica di un certo sindacato italiano (ma anche di pensatori liberalsocialisti come Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini) di un Piano del Lavoro. Se lo Stato deve intervenire definendo, oltre il livello, anche la composizione della produzione, deve anche suscitare direttamente occupazione in quei settori (se questo stimolo pubblico si traduca necessariamente in nazionalizzazione è un’altra questione).

Come mai questo Minsky tira fuori queste idee? Perché è nato politicamente nel bel mezzo del New Deal, il New Deal di Roosevelt. Perché il New Deal era keynesiano, perché sosteneva i disavanzi dello Stato? No, questa è un’altra leggenda della sinistra italiana. Roosevelt era contro i disavanzi dello Stato. Roosevelt ha bloccato il New Deal nel 1937, perché s’è spaventato del debito pubblico che cresceva. Però, tra il 1933 e il 1937 è intervenuto con investimenti infrastrutturali – alcuni con l’ottica del dopo ci piaceranno, altri no – provvedendo direttamente occupazione. E perché ha potuto e ha dovuto farlo? Perché era incalzato da lotte dal basso: da un lato rispondeva alla crisi, ma dall’altro lato era tallonato da lotte della classe lavoratrice, e da un’intellettualità – non solo economica, anche giuridica, quella che sta dietro il Wagner Act; e da una intellettualità più in generale – che era in grado di pensare in avanti, che era dotata da quello che Musil chiamava il ‘senso della possibilità’. Non è il senso di un sognatore, che nega che esistano i vincoli, ma sa che si possono e si debbono ridefinire i vincoli.

Chiudo su questo con due, anzi tre osservazioni. La prima è che c’è un punto su cui non sono d’accordo con Minsky. I keynesiani, anche quelli più avanzati e progressisti come lui, pensano che in questo modo si crei un nuovo ‘equilibrio’, un capitalismo ‘buono’ (tra i 47 possibili di cui scherzava Minsky). No, tutto ciò, semmai avesse una traduzione nella realtà effettuale, creerebbe una situazione di ‘squilibrio’ che certo il capitalismo può subire, e che non tollererebbe per molto (così come Kalecki nel 1943 ammonì che un capitalismo di piena occupazione sarebbe stato possibile, ma non su base permanente). Questo mi porta alla seconda osservazione, che qualcuno riterrà un po’ contraddittoria. Si ottengono, delle riforme decenti soltanto se non si accettano i vincoli così come sono e quindi solo se si ha un atteggiamento ‘rivoluzionario’. Questo in genere non piace né ai riformisti, né ai rivoluzionari. Su questo, sul tema del cosa, come e quanto produrre, credo che si possa e debba trasversalmente discutere, in Italia e altrove, nella sinistra in generale: la separazione tra chi ha a tema le problematiche strutturali e chi si limita alle questioni distributive attraversa tutte le formazioni politiche e sindacali, e non è leggibile lungo l’asse moderati/radicali. La terza osservazione è che ci troviamo ormai di fronte il dispiegarsi di un capitalismo autoritario. Uno dei pochi maestri che ho avuto, Claudio Napoleoni, alla fine della sua vita, in una fase di cui non condivido tante cose, ha detto però una cosa giustissima. Il capitale è tendenzialmente autoritario, perché include dentro di sé la forza lavoro, facendone la rotella di un meccanismo, pretendendo che i lavoratori e le lavoratrici non abbiano voce, non siano soggetti ma solo ‘cose’. Al capitale, sosteneva, la democrazia viene ‘dall’esterno’.

Quali sono le prospettive della crisi? La crisi sarà lunga, la crisi sarà devastante. Se ne uscirà, se se ne uscirà, con il conflitto dal basso e con un intervento dall’alto, che richiederà un diverso intervento attivo da parte dello Stato. Ma questo può avvenire da destra. Il conflitto sociale già oggi si sta generalizzando come insorgenza reazionaria, che attraversa le classi popolari. Potrà fare da contraltare un intervento dello Stato, da destra, ripeto, di carattere autoritario, reazionario. Non sarà il vecchio fascismo.

sabato 16 gennaio 2016

Immigrati, diseguaglianza, istruzione* - Maurizio Donato

*Da:  https://mrzodonato.wordpress.com/

Come è noto agli economisti e agli statistici, ci sono diversi modi di intendere la diseguaglianza economica, e di conseguenza differenti indici per misurarla. Se prendiamo in considerazione le due definizioni più importanti, quella di diseguaglianza interna ai singoli paesi e quella tra i paesi, è la seconda quella che ci mostra gli indicatori più significativi. Nascere e crescere in un paese piuttosto che in un altro fa la differenza maggiore, più che nascere e crescere relativamente povero o ricco rispetto agli altri abitanti dello stesso paese. Fondamentalmente è per questa ragione che molte persone emigrano, a parte le guerre e le dittature che naturalmente contano, eccome.

Molte è un aggettivo poco qualificativo: diciamo che all’incirca il 97% degli abitanti del pianeta Terra rimane a vivere nel paese in cui è nato. In un suo recente lavoro di ricerca, Branko Milanovic1 propone di ordinare i redditi degli abitanti di un paese confrontandoli con quello degli abitanti del Congo, il paese statisticamente riconosciuto come il più povero del mondo; nascere, vivere e restare in Congo costituisce uno “svantaggio economico” rispetto al quale una persona che vive negli Stati Uniti di America gode di una sorta di “premio di cittadinanza” che vale in media il 355%, il 329% se vivi in Svezia, la metà – ma è ancora il 164% - se si tratta del Brasile, del 32% se stai nel relativamente povero Yemen.

Concentrarsi su questa misura è dunque molto utile nei confronti internazionali, anche se non andrebbe dimenticata l’altra dimensione della diseguaglianza economica, quella interna a ogni singolo paese. Se prendiamo in esame i redditi dell’ultimo decile della popolazione (i più poveri di ogni singolo paese) vediamo che il “premio” a cui si riferisce Milanovic conta di più in alcuni casi – come la Svezia in cui sale al 367% - e meno per altri: nei confronti del Brasile il premio si “riduce” al 133%. I valori si ribaltano se prendiamo in esame il novantesimo decile (i più ricchi): il vantaggio di essere ricchi in Svezia è “solo” del 286%, mentre essere ricco in Brasile vale il 188%.

giovedì 14 gennaio 2016

IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA* - Osvaldo Coggiola**

*Da:   https://mrzodonato.wordpress.com/—per/corsi di economia politica
**Osvaldo Coggiola, docente di Storia economica all'Università di San Paolo del Brasile 

Video dell'incontro (UniGramsci):  https://www.youtube.com/watch?v=-JB1I3hvqXM



IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA
La crisi economica mondiale, nelle sue diverse diramazioni (crisi europea, recupero limitato ed ampiamente fittizio degli USA, cronica stagnazione del Giappone, frenata della Cina), è definitivamente penetrata nei “mercati emergenti”, colpendo anche l’America Latina e i suoi pilastri (Brasile, Messico, Argentina). Il fattore essenziale dell’arretramento dei suoi mercati d’esportazione viene attribuito soprattutto alla Cina (il che dimostra che queste economie continuano ad essere basicamente piattaforme d’esportazione di materie prime o di prodotti semi-manifatturati). Ci si dimentica così della fuga di capitali, attratti da tassi d´interesse imbattibili a livello mondiale, i quali hanno fatto del continente il principale spazio di valorizzazione fittizia del capitale finanziario internazionale; del basso o inesistente livello di investimenti e del fatto che i palliativi “programmi sociali” hanno favorito soprattutto il lavoro nero o informale (che in Argentina, per esempio rappresenta il 30% della forza-lavoro) senza creare un mercato interno solido e capace di espandersi; ci si dimentica della straordinaria crescita del debito pubblico e privato, che compromette gli investimenti pubblici e gli stessi programmi sociali (consumando per esempio il 47% del bilancio federale brasiliano); si dimenticano la crisi e l´arretramento di diversi progetti di integrazione continentale. Il PIL regionale è cresciuto dello 0,9% nel 2014 (contro il 6% del 2010) e si prevede una performance ridicola nel 2015, a crescita zero o negativa per il Brasile secondo le previsioni della Banca Centrale. Già si parla di un nuovo “decennio perso” per l´America Latina, come lo furono gli anni Ottanta.


Su questo sfondo si proiettano significative crisi politiche che colpiscono, in misura maggiore o minore, tanto i regimi “neoliberisti” (di destra) quanto i regimi nazionalisti o “progressisti”, nella cui agenda politica si ripropone di nuovo la prospettiva di golpe civili o civico-militari. Paraguay (Lugo) e Honduras (Zelaya) sono in questo senso le prime manifestazioni di una tendenza più vasta. Lo sfondo complessivo è quello della crisi capitalista mondiale, la crisi storica del modo di produzione del capitale. Sono i paesi più “sviluppati” dell´America Latina i più colpiti dalla crisi. La “periferia emergente” del capitalismo “globale” deve far fronte ad enormi pagamenti esteri, un debito contratto soprattutto dalle multinazionali, il quale supera in alcuni casi le riserve nazionali. Si dissolve così il miraggio di quanti avevano supposto che con il ciclo economico 2002-2008 le nazioni dipendenti si sarebbero trasformate in creditrici del sistema mondiale: con l´aumento del debito privato estero, tali Stati sono rimasti sempre debitori netti; l´avanzo commerciale ha costituito la garanzia finanziaria dell´indebitamento privato. Il capitale finanziario internazionale si è appropriato dell´eccedente commerciale generato dall´aumento dei prezzi e dal volume delle esportazioni. La crisi mondiale ha colpito l´America Latina per la sua fragilità finanziaria e commerciale e per la sua debole struttura industriale. I governi dell´America Latina avevano affermato in un primo momento che sarebbero rimasti incolumi alla crisi grazie alla solidità delle riserve delle Banche Centrali. Ma il calo delle borse regionali, la fuga di capitali e la svalutazione delle monete hanno mostrato come questi argomenti fossero privi di fondamento. Il Brasile, orgogliosamente proclamato “sesta economia del mondo”, è appena al ventiduesimo posto nel ranking degli esportatori (con il 3,3% del PIL mondiale, detiene solo l´1,3% delle esportazioni internazionali). La produttività totale dei fattori economici, che è cresciuta dell´1,6% nel primo decennio del secolo, è in fase di stagnazione dal 2010.

Proprietà* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 

Brecht sintetizzò il dibattito tra comunisti con l’invito, secco e perentorio: “Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”, perché questo è centrale per la comprensione di ogni modo di produzione, e in particolare di quello capita­listico, data la sua peculiare forma e capacità occultatrice. Nei recentissimi tempi di “ol­tremarxismo”, se non di espresso pentimento anche teorico, quel peculiare occultamento mistificatorio è particolarmente attivo, facendo dissolvere la proprietà nel possesso, nel controllo o nella gestione di dirigenza, o facendo­ne addirittura travisare i connotati privati e di classe. Viceversa, quella centralità è tale perché la proprietà appunto, e la relaziona­lità sociale che si innerva intorno a essa, caratterizza la società sia per la sua presenza che per la sua mancanza, sia positivamente che negativamente. In generale, Marx aveva avvertito l’esigenza di chiarire – soprattutto per i suoi stessi criteri d’analisi (nei materiali di studio da lui accantonati, che avrebbero dovuto costituire l’Introduzione del 1857 “per la critica dell’econo­mia politica”) – la sinonimia di “proprietà” e “produzione”. “Ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’indivi­duo, entro e mediante una determinata forma di società. In questo senso è una tautologia dire che la proprietà è una condizione della produzione. Ma è ridicolo saltare da questo fatto a una determinata forma della proprietà, per es. alla proprietà privata”.

Senonché, l’epoca storica del capitale porta agli estremi esiti la separazione tra proprietari non produttori e produttori non proprietari, da un lato tutta la proprietà storicamente significativa, dall’altro, al polo opposto, la sua assolu­ta mancanza, in due classi socialmente e funzionalmente distinte. Una tale sepa­razione avviene non solo tra le condizioni oggettive della produzione e del la­voro e il lavoro quale condizione soggettiva, ma perfino tra il lavoratore e il suo stesso lavoro, che gli è espropriato attraverso l’uso di forza-lavoro aliena­ta al proprietario delle condizioni oggettive di produzione. Sotto il dominio della forma di merce della produzione sociale, sia nella sua esistenza reale pratica sia nella riflessione scientifica e teorica, la proprietà capitalistica è investita necessariamente da una sua specificità con­cettuale. La proprietà capitalistica – ossia, quella “che conta” storicamente, che va con­siderata come tale – è la proprietà, economica (prima che sia riconosciuta giu­ridicamente, in forme assai diverse e spesso mascherate), delle condizioni del­la produzione sociale: importante è comprendere nell’oggettività di tali “con­dizioni” non solo, come troppo spesso si suol dire, i mezzi di produzione (strumenti, macchine, impianti), e, si sa, l’oggetto generale stesso della produzione (la terra e le sue materie prime); ma anche – ciò che sovente non vie­ne considerato – l’intero apparato di conoscenze scientifiche e organizzative, senza le quali la produzione stessa non sarebbe affatto possibile o ne risulte­rebbe gravemente sminuita.

domenica 10 gennaio 2016

Keynes* (ma chi era costui?) - Marco Veronese Passarella



*DA:  http://www.marcopassarella.it/it/
Seconda parte, dibattito:    https://www.youtube.com/watch?v=oo-C8yG_2xQ

Leggi anche:    http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9698

Spinoza - Remo Bodei



"Temo l'odio dei teologi, perché sostengo in quest'opera che Dio coincide con la natura, e attribuisco a Dio cose che nella tradizione filosofica sono state sempre considerate effetti o creature, mentre io, ritengo che queste cose appartengano alla stessa natura di Dio."  (Spinoza, Opere. Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene)

Vedi anche: Carlo Sini

sabato 9 gennaio 2016

PROBLEMI DIALETTICI - Stefano Garroni




Cosa si intende con matematizzazione dell'esperienza?
Linguaggio e livelli di esperienza. Correlazioni tra livelli linguistici: linguaggio formalizzato e linguaggio degli eventi empirici.
Il duplice significato del termine epistemologia.
Sulla storia della scienza.
Classificazione aristotelica e di Leibniz.
La scoperta dell'autonomia del linguaggio: cosa ha comportato? L'uomo e il rapporto con le macchine.
Ideologia e volgarizzazione.
Stati Uniti come modello di sviluppo.
Medici cubani e URSS.

venerdì 8 gennaio 2016

Neoliberismo (critica dell’imperialismo)* - Gianfranco Pala

  *Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole


“Moralmente e filoso­ficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione pro­fondamente motivata”  (John Maynard Keynes)


Risulta di immediata evidenza che “neoliberismo” è una metafora per impe­rialismo. Se solo di questo si trattasse, basterebbe intendere l’un termine per l’altro, compiacendosi che anche sulle “pagine web” di Internet appaiano scritti relativi a incontri “per l’umanità e contro il neoliberismo”. Ma così non è. 

La questione è un po’ più complicata. Dall’ideologia riversata nel cattivo senso comune, infatti, si espunge il signi­ficato del­l’imperialismo e dello stesso modo di produzione capitalistico, sì che è al neoliberismo che sono imputati eventi quali: crescita senza occupa­zione, devastazione sociale e ambientale dovuta al macchinismo, squilibrio “nord-sud” nelle cosiddette globalizzazione e finanziarizzazione, fino all’“unicità” del mercato e del pensiero, e via omologando nella grigia piat­tezza di un dispotismo barbarico. Come se – e qui sta il tranello – si possa pre­sumere che sia data l’evenienza di un’altra organizzazione sociale (di cui ac­curatamente si taccia la forma capitalistica, ormai ritenuta obsoleta e ineffabi­le) non neoliberista, meno barbarica e dunque accettabile per l’umanità me­desima: a es., una società basata su una “regolazione” dei rapporti di produ­zione e di distribuzione di tipo genericamente keynesian-proudhoniano.

giovedì 7 gennaio 2016

Il processo di modernizzazione e il suo rapporto con la guerra - Aldo Giannuli




Affrontando lo studio del cd processo di “modernizzazione” possiamo distinguere alcune fasi intensive cui sono succeduti periodi di stabilizzazione, durante i quali i paesi limitrofi a quelli “moderni” si sono avviati per la stessa strada, mentre le fasi intensive investono, normalmente, i paesi di maggior rilievo. Possiamo, quindi, identificare tre fasi intensive principali:

 a- quella della “Modernizzazione classica o liberal-capitalistica” (dal XVI agli inizi del XIX secolo) che ha riguardato essenzialmente Olanda, Inghilterra, America del Nord e Francia;

 b- quella della “Modernizzazione autoritaria” che va dal 1860 circa, al 1939, che investe Italia, Giappone, Germania e Russia;

 c -quella attuale, della “Modernizzazione neoliberista” che va dagli anni ottanta del secolo scorso ad oggi e che colpisce gran parte dei paesi asiatici (Cina, India, Indonesia) e dell’America Latina (Brasile, Messico, Argentina).

mercoledì 6 gennaio 2016

Dal primo dopoguerra al Secondo conflitto mondiale (passando per la grande crisi del ’29)* - Mauro Rota** e Francesco Schettino***

*Da:     https://rivistacontraddizione.wordpress.com/
**Sapienza, Università di Roma. mauro.rota@uniroma1.it
*** Seconda Università di Napoli. francesco.schettino@unina2.it ; corresponding author


Introduzione - il mondo dopo la prima guerra mondiale

Il primo conflitto mondiale ha rappresentato per il modo di produzione del capitale uno degli eventi più di rilievo dal momento della sua nascita. La grande crisi originatasi nel Regno Unito a partire dal 1870 – e proseguita per almeno due decenni – aveva mostrato con chiarezza che, a differenza di quanto molti studiosi avessero teorizzato, il capitalismo fosse tutt’altro che un sistema perfetto e proiettato verso una produzione infinita (Lenin, 1916) ma che, al contrario, potesse incappare in problematiche persino contraddittorie e potenzialmente irrisolvibili a meno di un intervento poderoso dello Stato all’interno del libero mercato (Gallagher e Robinson, 1953). Dunque, il primo conflitto mondiale estrinsecò i suoi drammatici eventi all’interno di un contesto europeo dominato da una sensibile ostilità tra le nazioni che storicamente avevano governato il processo di sviluppo del capitale e quelle di nuova formazione (Germania in primis) e soprattutto in una condizione assai critica dal punto di vista dell’accumulazione; tale situazione era particolarmente compromessa per quel che riguarda il capitale britannico che, proprio da qualche decennio, aveva rafforzato sensibilmente il proprio processo di espansione, attraverso esportazione di capitale (investimenti diretti esteri o speculativi) nei territori controllati attraverso il Commonwealth e nei dominions più in generale, conosciuto anche con il nome di imperialismo (Hobson, 1903, Brignoli, 2010, Rota e Schettino, 2011).

Il primo conflitto mondiale fu il frutto di una lotta necessaria al ristabilimento egemonico, in termini di dominio commerciale e politico, dell’Europa e del mondo, in senso più ampio. Da questo punto di vista, il ruolo degli Usa fu di fondamentale rilievo. Proprio in questo periodo si inizia a concretare quell’ideale passaggio di consegne – avvenuto con gradualità, come sarà spiegato più avanti – dal Regno Unito agli Usa nel ruolo di paese guida e locomotiva dell’intero sistema economico. Ma, come è logico, a fronte di una cordata di vittoriosi, corrispondono altrettanti perdenti e tra questi c’era la Germania che da quel momento in poi si trovava ad affrontare – anche a causa degli ingenti debiti scaturenti proprio dall’esito del conflitto – una situazione particolarmente drammatica per quel che concerne sia lo status economico, che per il morale del popolo tedesco deliberatamente umiliato dalle risoluzioni dei trattati conclusivi del primo conflitto mondiale. 

martedì 5 gennaio 2016

Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario* - Marco Veronese Passarella

*Da:    http://www.marcopassarella.it/it/omaggio-ad-augusto-graziani/


 “valorizzazione del capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste nell'acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo in profitto” (A. Graziani)

Circuito monetario, mercati finanziari e valore: una messa in ordine logica**

Il principale punto di contatto dell’opera di Marx con la TCM (Teoria Circuito Monetario) è la concezione del sistema economico quale economia monetaria di produzione, ossia quale sequenza temporale di rapporti monetari concatenati di scambio e di produzione intercorrenti tra classi sociali portatrici di interessi contrapposti. In estrema sintesi, tale successione viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di liquidità (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro (nonché, ad un minor livello di astrazione teorica, gli altri fattori produttivi) da impiegare nel processo produttivo e un elemento non riproducibile internamente.

Tale sequenza (o circuito) si chiude soltanto allorché le imprese, una volta realizzato in forma monetaria il valore sociale della produzione, estinguono il debito verso le banche, suddividendo il sovrappiù sociale (corrispondente al plusvalore) tra profitti d’impresa e interessi bancari.(7) È questa, si badi, non la rappresentazione di una particolare configurazione storica o geografica del capitalismo. Non si tratta, cioè, della manifattura inglese di inizio Ottocento, ovvero del sistema di fabbrica italiano del secondo dopoguerra. Si tratta, invece, dell’esplicitazione dei nessi monetari necessari intercorrenti tra gruppi sociali contrapposti all’interno dello spazio capitalistico.

sabato 2 gennaio 2016

Karl Marx (una compiuta critica dell’economia politica)* - Emiliano Brancaccio

*Da:      http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2013/02/Appunti-di-Economia-politica-quinta-versione-Novembre-2014.pdf


Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema della mano invisibile (A. Smith). Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. 

Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici. 

Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè il profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero frenerà l’azione del capitalista, quindi renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.

Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso fino al tracollo. 
Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…» (Capitale, vol. III). 

Le due tesi descritte si affiancano poi a un’altra tendenza registrata da Marx, quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza verso la “centralizzazione” dei capitali a livello internazionale. La letteratura marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi, grandi capitali vincenti, e una radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una massa crescente di diseredati. Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a dire della sua finitezza.

venerdì 1 gennaio 2016

SUL FETICISMO (e non solo) - Stefano Garroni



Il feticismo nel paragrafo IV del primo capitolo del
capitale libro primo prima sezione e il XXIV capitolo del capitale, terzo
libro, V sezione.
Cosa diventa il linguaggio nel pensiero contemporaneo?
Corrispondenza tra parola e realtà che viene persa.
La fine dell800 e il nostro periodo: crisi politica, morale,
caduta dello slancio rivoluzionario e conseguente emergenza dello spiritismo,
astrologia , ecc.
Carattere mistico della merce: da dove viene? Valore di
scambio delle merci.
Il valore della merce è dato dal lavoro contenuto in senso
eterno?
Dialettica e suo legame con il non isolamento dei livelli.
Profitti e guerre. Perché Lenin insiste sul fatto che il
socialismo si fa coinvolgendo nella gestione tutti i lavoratori?
Perché è inseparabile dalla natura del capitalismo il fatto
che il lavoro globale e la socialità dell'uomo si realizzi attraverso una
mediazione? Cosa comporta che in una società capitalistica non si può avere una
gestione sociale dell'economia?
Socialismo e processo storico. LUrss era capitalista o no?
Hegel e lo spirito del tempo. Stati Uniti e sussidio di
disoccupazione. La rivoluzione internazionale come epoca storica. 1989 e ordine
del mondo. 

giovedì 31 dicembre 2015

Gli anni vissuti pericolosamente - Riccardo BELLOFIORE (2011)


La cosiddetta “età d’oro” del capitalismo - il termine non mi piace tanto, in verità – i trenta anni tra il 1945 e il 1975, spesso viene qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma quando mai! Era un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando sul lavoro, dentro cui, con il conflitto e con l’antagonismo, si sono, nel corso della seconda metà degli anni Sessanta soprattutto e primi anni Settanta, strappate una serie di conquiste. Il fatto che tanto i governi conservatori quanto quelli più di centro-sinistra abbiano perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve alla storia tragica dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un sistema, che non ha mai avuto la mia simpatia, che era il sistema sovietico, e che però imponeva all’Occidente di stare al passo. In quel trentennio, prima ancora che i keynesiani in senso stretti divenissero consiglieri espliciti dei governi (avverrà soprattutto con Kennedy e Johnson), esiste una piena occupazione e una contrattazione collettiva, un lavoro decente secondo la definizione dell’ILO, e salari progressivamente crescenti in termini reali.

La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde alla crisi di questo capitalismo “keynesiano”, che è anche una caduta da sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale, ad un conflitto del lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo” salario (lo aveva di nuovo intuito Kalecki). Quella piena occupazione viene criticata duramente anche se non soprattutto da sinistra. Vigeva solo in una parte del mondo e solo per un genere, quello maschile, dentro una mercificazione generale a cui si deve ricondurre anche la distruzione accelerata degli equilibri ecologici. L’epoca della reazione capitalistica, è l’epoca di una nuova disoccupazione di massa, che è legata però non soltanto al problema della carenza della domanda effettiva, ma alla ristrutturazione della produzione da parte del capitale, alla ridefinizione dei rapporti di forza sul mercato del lavoro.

mercoledì 30 dicembre 2015

I mass-media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto - Paolo Ercolani

 Mai come oggi, nelle nostre società occidentali così apparentemente libere, è doveroso stare in guardia e ricordare l’insegnamento di Platone, il quale era ben consapevole che è proprio dalla democrazia che può nascere, attraverso un processo di degenerazione, la tirannide. Evidentemente non c’è e non può esserci esercizio effettivo della libertà quando i mezzi di comunicazione di massa, nel senso specifico che «massificano» l’individuo, o che «portano all’ammasso» non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità dell’uomo, esprimono tutta la loro potenza non solo di informazione, ma anche di «formazione»: l’uomo perde in questo modo la propria autonomia, finendo con l’essere ridotto alla stregua di un «minorenne» eterodiretto, incapace di servirsi autonomamente della propria ragione e del proprio sapere, comunque subordinato ai meccanismi di una tecnica che, seppure figlia dell’uomo stesso, progredisce in maniera più veloce rispetto alle capacità umane di assorbirla. Ecco perché i rischi sono quelli di un nuovo totalitarismo, ancora più insidioso e totalizzante in quanto proveniente dai sottili meccanismi di funzionamento di una società in superficie democratica, che non perde occasione per ribadire la centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, ma che in realtà finisce col ridurlo a mezzo e strumento per interessi economici e di potere. Una forma di totalitarismo che, in aggiunta, si rivela ancora più completa in quanto unisce i due aspetti che finora erano stati attribuiti ai regimi liberticidi moderni: la capacità massificante e omologante unita a quella atomizzante ed estraniante.

 L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi. Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto» fin dal suo rapporto più ordinario con i più elementari meccanismi di funzionamento dei mass media: nella vita reale l’uomo è libero di seguire in maniera indipendente i propri processi di associazione, mentre, per esempio nell’interazione col computer, con i rimandi ai vari link gli viene di fatto richiesto di seguire delle «associazioni pre-programmate», in altre parole di seguire «la traiettoria mentale del programmatore». Ecco allora che, a distanza ormai di quasi un secolo, si pone su un piano ulteriore (mutatis mutandis) la discriminante già vista, quella fra il «credere, obbedire, combattere» della propaganda fascista e quanto proprio Gramsci scriveva come epigrafe all’OrdineNuovo: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!». 

Leggi tutto: 

"Dialettica riproposta" di Stefano Garroni - A. Ciattini, A. Bellacicco, A. Sobrero, B. Steri, P. Vinci, O. Di Mauro, R. Caputo, L. Climati.



Presentazione del libro di Stefano Garroni "Dialettica riproposta" tenutasi il 20 novembre 2015 presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" (parte prima). 

Parte seconda: 
https://www.youtube.com/watch?v=JwrKfmnnBaY 
Parte terza: 
https://www.youtube.com/watch?v=GpeB3rKlwKc

martedì 29 dicembre 2015

Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole


 groucho,        moro,         chico,         harpo,        zeppo
 “Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo princi­pio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale” (Camillo Benso conte di Cavour) 

Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)

Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode ripro­duttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, median­te prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pa­sticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemo­sina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale He­gel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”).  L’essere sociale e minimo del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-la­vo­ro entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente prov­vedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia bor­ghese.

lunedì 28 dicembre 2015

mercoledì 23 dicembre 2015

TTIP E TPPA: ACCERCHIARE LA CINA* - Maurizio Brignoli





Uno scenario importante dello scontro interimperialistico in atto si sta in questo momento giocando nella realizzazione di alcuni grandi trattati sovranazionali in cui la strategia statunitense punta a realizzare l’accerchiamento della Cina, la subordinazione dell’Ue e l’isolamento della Russia, con tutta una serie di conseguenze nel processo di ulteriore subordinazione della classe lavoratrice in tutto il mondo. 

 L’obiettivo statunitense nella formazione del Ttip e del Ttp è quello di realizzare una concentrazione imperialistica capace di imporre le sue norme a livello mondiale e di accerchiare il principale concorrente cinese.



Accordi di libero scambio, barriere non tariffarie e Isds

Lo scontro interimperialistico fra i principali attori (Usa, Ue, Cina, Russia) si va sempre più delineando attraverso un processo di potenziale “concentrazione imperialistica” attorno ad alcune aree imperialistiche sovranazionali. Scontro a livello transnazionale con un grande processo di ricollocazione della divisione internazionale del lavoro. Le trattative relative al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) e al Trans-Pacific partnership agreement (Tppa) sono espressione rilevante di questo scontro. Per comprenderne la reale portata e gli obiettivi questi accordi vanno collocati all’interno della strategia statunitense di scontro con la Cina. 

Il Ttip ha come obiettivo di realizzare l’unione di due delle economie più ricche al mondo e delle rispettive aree valutarie, quella del dollaro e quella, maggiormente in difficoltà, legata all’euro. Le consultazioni Usa-Ue sono iniziate più di due anni fa, ma lo scontro interimperialistico all’interno dello stesso Ttip è forte, nonostante gli Usa abbiano cercato di sfruttare il momento di debolezza dell’Ue per la realizzazione di un progetto che torna soprattutto a loro vantaggio. Le trattative sono segrete e condotte dai funzionari della Commissione europea e da quelli del Ministero del commercio statunitense con le lobby delle grandi multinazionali. 

Gli obiettivi finali del Ttip (e dello speculare Tppa) sono riassumibili fondamentalmente in tre punti principali: 

lunedì 21 dicembre 2015

IL CAPITALE - Stefano Garroni



Confronto tra il testo francese e quello tedesco di Marx. 
Perché Marx accusa di cinismo l'economia politica? 
L'ambiguità della merce. Valore d'uso e la valutazione del bisogno che scompare. 
Il valore di scambio. Lo scambio mercantile e la società capitalistica.
Il processo produttivo che diventa strumento di arricchimento. 

Rapporto tra religione e capitalismo. 
La trasformazione del sapere: l'idiota specializzato.

sabato 19 dicembre 2015

RIFLESSIONI ANTROPOLOGICHE SULLA VIOLENZA E SULLA GUERRA* - Alessandra Ciattini




 La guerra, da sempre, scandisce col suo tocco gelido l’intero percorso dell’umanità, disseminandolo di discriminazione, persecuzioni, barbarie, violenza, morte. Le motivazioni “umanitarie” dietro alle quali si celano gli spietati aggressori odierni, burattinai di una società occidentale stanca e lacerata, svelano con chiarezza quanto, per dirla col saggista Césaire, “una civiltà che gioca con i propri principi sia una civiltà moribonda”.




La storia umana è un mattatoio

 In una celebre pagina Hegel sviluppa una serie di considerazioni assai amare e tristi sulla vicenda storica umana, anche se poi – come è noto - riesce a trovare in essa un processo progressivo ed emancipatorio. Egli sottolinea l'universale transitorietà, che travolge Stati e individui, per opera della natura e della volontà umana; osserva che quadri terribili scaturiscono dalla riflessione sulla storia che possono suscitare in noi un profondo e inconsolabile cordoglio; conclude che, stante tale analisi complessiva e sconsolata, la storia umana può definirsi un mattatoio “in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati, la virtù degli individui” [1]. Questa pagina di Hegel richiama alla mente un celebre sonetto del Belli, Er caffettiere filosofo, scritto nel 1833 (siamo, dunque, nella stessa fase storica anche se in un contesto differente), nel quale il poeta compara tristemente gli uomini ai chicchi del caffè che vengono inesorabilmente macinati e che, pertanto, sono tutti destinati trasformarsi in polvere, finendo annientati nella gola della morte, nonostante essi si spostino ed entrino in conflitto tra loro [2]. Il caffettiere si trasforma in filosofo perché, prendendo spunto dalla sua semplice e quotidiana attività, la cui descrizione sembra addirittura evocare l'aroma del caffè macinato, trova in essa una splendida metafora concreta con la quale rappresentare la disperante vicenda umana.

FILOSOFIA - Georg Wilhelm Friedrich Hegel



 Come c'è stato un periodo dei geni poetici, così attualmente sembra esserci un periodo dei geni filosofici. Impastando un po' di carbonio, ossigeno, azoto e idrogeno, mettendolo in una carta su cui altri hanno scritto "polarità" ecc., e sparandolo in aria con la coda di legno della vanità che è un razzo, costoro ritengono di edificare l'empireo.

 Secondo la mania moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto esser istruiti nel contenuto della filosofia, quanto imparare a filosofare senza contenuto. Ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza imparare a conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini ecc. [...] 

 Quando si impara a conoscere il contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma anche già si filosofa effettivamente. Anche il fine dello stesso imparare a viaggiare  dovrebbe essere soltanto quello di imparare a conoscere quelle città ecc., il contenuto [...]. La filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l'universale e il vero dei medesimi; è di grande importanza conoscere questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri [...]. Il procedere della conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l'imparare. La filosofia deve venire insegnata e imparata come ogni altra scienza. L'infelice prurito di educare a pensare da sé e alla produzione autonoma ha messo in ombra questa verità: come se, quando io imparo ciò che è sostanza, causa o qualunque altra cosa, non pensassi io stesso, come se non producessi io stesso , queste determinazioni del mio pensiero. Se ci si ferma unicamente alla forma astratta del contenuto filosofico, si ha una (cosiddetta) filosofia intellettualistica. 

venerdì 18 dicembre 2015

TRACCIATI DIALETTICI - NOTE DI POLITICA E CULTURA - Stefano Garroni



 Raccolgo qui scritti diversi sia per argomento che per estensione: ciò che li lega - se non sbaglio - è la continuità di un tipo e di un taglio di ricerca.
 Se le cose stanno effettivamente come dico, ne deriva che anche gli scritti di argomento senza dubbio politico vanno letti come espressione - e conseguenza - di quel tipo e taglio di ricerca. In questo senso, il capitolo introduttivo - al di là della sua evidenza immediata - svolge questa sua funzione anche per le pagine, ripeto, esplicitamente politiche.
 Ciò che vorrei  non sfuggisse, insomma, è il tentativo di fondo (qui solo abbozzato): attraverso l'analisi di fenomeni centrali della nostra cultura attuale, ritrovare le fila di un ragionamento dialettico e marxista.

 Rispetto a questo obiettivo, le cose che qui presento valgono come primo deposito di un lavoro più ampio, che sto conducendo. 





domenica 13 dicembre 2015

DAL PROGRAMMA MINIMO AL FRONTE ANTICAPITALISTA* - Renato Caputo

*Da:     http://www.lacittafutura.it/dibattito/dal-programma-minimo-al-fronte-anticapitalista.html

“La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari, non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto sociale). 



I comunisti hanno bisogno oggi in Italia di definire un programma massimo, sulla cui base rifondare un partito comunista all’altezza delle sfide del XXI secolo, e di un programma minimo a partire dal quale costruire un fronte unico antiliberista e anticapitalista. Tale fronte deve essere costruito a partire dai conflitti sociali e non nella prospettiva di semplice occupazione degli incarichi nelle istituzioni borghesi. Altrimenti i comunisti non potranno vincere la decisiva lotta con le forze democratiche piccolo-borghesi con cui dovranno necessariamente fare i conti nel fronte unico.

sabato 12 dicembre 2015

L'etica in Aristotele - Enrico Berti



http://www.controappuntoblog.org/2015/12/12/nicomachean-ethics-aristotele-etica-a-nicomaco-full-full-audiobook/
Vedi anche:    https://www.youtube.com/watch?v=cEJDNSJf7sw

IL CAPITALE: CAPOLAVORO SCONOSCIUTO - a mo’ di allegoria da Balzac - per Marx* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/

 Édouard Frenhofer è il personaggio del pittore protagonista del racconto filosofico di Honoré de Balzac Le chef-d’œuvre inconnu [1831]; allievo del pittore fiammingo Jan Gossært, detto Mabuse (del XV secolo); dice di aver lavorato una decina di anni a un dipinto (il ritratto vagheggiato della donna desiderata) che non esita a definire un “capolavoro”, ma che si rifiuta di mostrare, nascondendolo sotto una coperta. In quel racconto fantastico, a due giovani pittori realmente esistiti – Frenhofer, vecchio artista creato da Balzac stesso – narra di codesto Capolavoro sconosciuto: alla sua stesura come romanzo, fino al 1847, anche Balzac lavorò ossessivamente per sedici anni, come per quel ritratto affinché rappresentasse la realtà. Così entrambi – quadro e romanzo – sono diventati presto una leggenda, descrivendo la costante tensione dell’artista alla ricerca della perfezione nell’aspirazione a una completa trasposizione del reale: “la missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla!” – spiega Frenhofer\Balzac rivolto ai più giovani. Ma alla fine quel di­svelamento da parte del pittore sembrò rivelare un quadro del tutto inaspettato; sì che un allievo esclamò: “io qui vedo soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura”: ma un quadro che, poiché il suo processo di produzione s’identifica con il suo stato compiuto di opera, rappresenterebbe da solo il quadro assoluto

venerdì 11 dicembre 2015

Libertà e schiavitù – Luciano Canfora

"Lungi dall'essere un relitto storico, un fossile, 
la schiavitù è la forma attuale di alimento del profitto capitalistico" (L. Canfora)



"La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.

Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta..." (Marx- Engels, Il Manifesto del Partito Comunista)

http://www.asimmetrie.org/opinions/luciano-canfora-liberta-e-schiavitu/

giovedì 10 dicembre 2015

Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo. - Hans Heinz Holz.

Prefazione
di Stefano Garroni.

Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio  dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
Sembra posizione troppo ovvia e facile; sennonché, una caratteristica molto diffusa tra coloro che, oggi, si definiscono comunisti, è assumere la posizione di chi dice, invece, <fin qui sì, in seguito no>.
Il <fin qui> può variare: può essere la morte di Lenin o quella di Stalin, può essere il periodo brezhneviano o quello di Gorbaciov, non importa; ciò che resta è il criterio: la distinzione fra una storia buona ed una cattiva, un momento dell’ ortodossia ed uno dell’eterodossia, uno della ‘fedeltà’ ed un altro della ‘caduta’. Ciò che resta, dunque, è una concezione astratta, ideologica (rigorosamente, moralistica) della storia, invece che intendere quest’ultima come la scena -l’unica scena-, in cui la realtà si compie, attraverso le “torsioni e tensioni”, che fanno tutt’uno con l’essenza stessa di ciò che veramente esiste.
Al fondo di questi due atteggiamenti c’è un’opposizione fondamentale: l’uno, infatti, è un atteggiamento unilaterale, dunque, dogmatico; l’altro è critico, dunque, dialettico.
La mossa di Holz, allora, implicita il recupero, la franca riproposizione addirittura di una precisa prospettiva teorica:  quella  della dialettica  che, dalla filosofia classica tedesca (Leibniz, Kant, Hegel) giunge a Marx ed a Lenin. 

mercoledì 9 dicembre 2015

Problemi dell’umanesimo oggi - Stefano Garroni

Dati i problemi, in cui oggi viviamo e che, ancor più, nelle crisi che si annunciano per il futuro, è senza dubbio necessario ridiscutere quale oggi, possa essere il significato di umanesimo.

E’ in questo modo che F.Hinkelammert inizia il suo saggio (Marxismus, Humanismus, Religion), nel fascicolo 4 –2010 di Marxistische Blãtter, la rivista teorica della DKP o Partito comunista tedesco.

Nella nostra storia moderna, il momento culminante dal punto di vista dell’ umanesimo porta il nome dalla Rivoluzione  francese, la quale tuttavia si svolse entro un limite di fondo: essa nacque e si stabilizzò, di fatto, quando il mercato mondiale si era  ormai costituito come mercato capitalistico.
E questo è il motivo, per cui l’umanesimo della Rivoluzione francese è ancora essenzialmente ridotto ad un umanesimo dell’uomo astratto, il quale si identifica con il proprietario privato. Ma questa stessa Rivoluzione francese, che pur sbocca in una pura ristrutturazione borghese della società,, nello stesso tempo fonda le categorie, partendo dalle quali diviene possibile fondare un nuovo umanesimo.
Data la sua identificazione di uomo con il proprietario privato, la Rivoluzione francese può continuare a basarsi su una situazione di estremo sfruttamento e sulla costrizione al lavoro nella forma della schiavitù di massa.

Dall’altro lato, nella Rivoluzione vennero espresse le categorie politico-giuridiche della cittadinanza.
Son queste categorie, che divennero una base della moderna democrazia, sebbene ancora limitata agli uomini bianchi e proprietari. Poggiandosi sulla categoria della cittadinanza e della sue estensione continua si andrà provocando un movimento per i diritti dell’uomo, che definisce le lotte future per l’emancipazione. L’uomo come cittadinodunque, non è necessariamente un borghese-: ecco da cosa nascerà  un  concetto di cittadinanza, che supera i limiti sociali della borghesia.
In primo luogo si tratta qui dell’emancipazione degli schiavi, delle donne e della classe operaia. Si può simbolizzare la profondità del conflitto mediante tre morti importanti: la morte di Olimpia de Gouges, che rappresenta il diritto delle donne a divenire cittadine e che fu ghigliottinata. Analogamente morì ghigliottinato Babeuf, che rappresenta il diritto d’associazione dei lavoratori. Toussaint-Louverture, il liberatore degli schiavi ad Haiti, fu arrestato ed ucciso, sotto l’imperatore Napoleone. 

lunedì 7 dicembre 2015

Presentazione di "DIALETTICA RIPROPOSTA", Stefano Garroni, LA CITTA' DEL SOLE. - Alessandra Ciattini, Catania 2 dic. 2015*


*Libreria CATANIALIBRI, Piazza G. Verga 2 (Presso la libreria sarà possibile l'acquisto del testo) 


 Vorrei premettere che probabilmente costituisce per me una azzardo partecipare alle presentazione di un libro filosofico dedicato alla dialettica, al discusso e complicato rapporto Marx / Hegel, giacché non sono una studiosa di filosofia, anche se mi sono occupata della riflessione filosofica sulla religione, non sono nemmeno una lettrice sistematica di Marx e di Hegel. Mi sono sempre occupata di religiosità popolare, anche se non credo esista una disciplina come l'antropologia religiosa nettamente scissa dalla filosofia, dalla psicologia, dalla sociologia. Nonostante questa considerazione, darò il mio contributo, non entrando negli specifici contenuti del libro che oggi presentiamo, ma indicando una serie di temi sviluppati dal suo autore che ho recepito e che costituiscono per me un punto di riferimento.

 Siamo qui per ricordare uno studioso, ormai scomparso da più di un anno, il cui contributo intellettuale ci fa comprendere meglio e ha reso vivi alcuni nodi centrali della riflessione filosofica moderna; tale apporto ha avuto l'obiettivo di ricostruire una fondamentale tradizione di pensiero e, in subordine, quello di cogliere, grazie agli strumenti da essa forniti, le dinamiche di funzionamento e di cambiamento del mondo in cui         viviamo.

 In questo piccolo libro, intitolato Dialettica riproposta, sono raccolti alcuni scritti, cui Stefano Garroni anche se con fatica, per la sua malattia, stava lavorando e che aveva affidato a Sergio Manes in vista di una loro possibile pubblicazione. Su sollecitazione di Manes ho rivisto il testo limitandomi a correggere i refusi e a eliminare le ripetizioni, convinta il suo contenuto avrebbe potuto suscitare interesse e anche dare impulso ad una discussione in particolare tra coloro che sono stati più vicini a Stefano e che hanno condiviso la sua passione per la “battaglia delle idee”, che ahimè nell'università attuale, ridimensionata e mortificata dalle varie controriforme susseguitesi negli ultimi decenni, è ormai pressoché assopita. 

 A questa osservazione aggiungerei che, come accade sempre nel caso di autori non omologati al pensiero dominante, che conforma anche il nostro senso comune, l'opera di Stefano è conosciuta solo all'interno di una certa nicchia di studiosi e di militanti, che manifestano nella curiosità intellettuale il loro malessere e la loro insoddisfazione verso il mondo attuale, e che si sentono sollecitati a ricercare ad esso alternative, sia pure fondate sulle condizioni esistenti. 

sabato 5 dicembre 2015

Hegel e la dialettica - Remo Bodei


 Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.

Un lavoro decisamente ben fatto e importante. Da vedere sicuramente... (il collettivo)


Da: GalileiLiceo - Remo Bodei racconta Hegel e la dialettica: