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mercoledì 6 marzo 2019

Le fasi cruciali della formazione dell'UE - Joseph Halevi (2014)

Da: https://www.facebook.com/joseph.halevi - joseph-halevi Universita  di Sidney


Bisogna ricordarsi che le fasi cruciali della formazione dell'UE sono passate attraverso il dissolvimento dell'est europeo.

(1) Kinkel (ministro degli esteri tedesco) all'Aja sulla Jugoslavia (estate 1990): richiesta di secessione unilaterale della Slovenia e soprattutto della Croazia, sapendo benissimo che nel caso di quest'ultima ci sarebbero state pulizie etniche (che cominciarono con l'espulsione dei serbi della Slavonia, regione croata). Francia e GB contro, appoggiate dalla Grecia, ma USA e Italia-Vaticano fortemente a favore della posizione tedesca. Nasce da qui il compromesso mitterrandiano su Maastricht. La Germania accetta Maastricht, GB e Francia accettano la posizione tedesca sulla Jugoslavia, Francia e Germania accettano le eccezioni richieste da GB purchè quest'ultima accetti Maastricht e ovviamente la posizione tedesca sulla Jugoslavia che porta alla guerra in Bosnia.

(2) Nel 1998 i negoziati sulla moneta unica si intrecciano con le confabulazioni riguardanti la Jugoslavia nel Kosovo che culminano con la dichiarazione di Rambouillet che porterà alla guerra del 1999. Cruciale garantire la partecipazione dell'Italia ed è su questa base che vengono superate le opposizioni degli ambienti più conservatori tedeschi all'entrata dell'Italia nell'euro. Non è stato Ciampi, per altro debolissimo nelle trattative con la Germania, a far entrare l'Italia nell'euro bensì la garanzia della partecipazione del governo italiano capeggiato da D'Alema, con Cossutta e Diliberto dentro, alla già pianificata guerra nel Kosovo.

(3) Allora sul manifesto scrivemmo (Tommaso Di Francesco ed io) che questa strategia mirava oltre la Jugoslavia.

(4) Elemento centrale dell'atteggiamento dell'Europa occidentale verso l'est è stata l'accettazione della riabilitazione del collaborazionsimo e del nazismo da parte delle forze che all'est si presentavano come pro-europeiste. Così è successo nei confronti dei paesi baltici, ove il collaborazionismo con le SS fu massiccio unicamente in nome dell'antisemitismo e dell'antislavismo, poiché le stesse popolazioni baltiche non russe e non ebree erano destinate ad essere in gran parte deportate e decimate come previsto nel General Plan OST la cui formulazione venne richiesta da Himmler. In ognuno di questi casi di riabilitazione del nazifascismo l'appoggio degli Usa fu determinante. Addirittura eclatante nel caso di Tudjman in Croazia. Infatti di fronte all'esaltazione degli Ustascia da parte di Tudjman molte organizzazioni ebraiche cominciarono a preoccuparsi notevolmente. Per farle ricredere, silenziarle, vennero mobilitate varie forme di propaganda usando delle agenzie esperte in pubblicità così da far apparire Tudjman come un democratico e Milosevic come un dittatore sanguinario. E sul Kosovo nascosero il fatto che il riferimento ideologico anti serbo dell'UCK nazionalista "kosovaro" era il collaborazionismo, anti serbo ed antisemita, durante l'occupazione nazifascita della Jugoslavia. 

In Ucraina USA-Europa si stanno comportando esattamente allo stesso modo in perfetta continuità. Ancora una volta viene sdoganato il neonazismo ed il collaborazionismo mentre si spargono a iosa lacrime di coccodrillo sulla Shoà volutamente omettendo di ricordare e onorare il Paese da dove per la Germania nazista 
venne di vedova un velo, di vedova un velo le venne! 

venerdì 28 gennaio 2022

La pandemia ha spaccato anche il capitale - Redazione Contropiano - Joseph Halevi

Da: https://contropiano.org - Joseph Halevi, Universita' di Sydney in Australia da cui si e' pensionato nel 2016. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l' International University College a Torino. 


Vedi anche: Marco Veronese Passarella su "Democrazia sotto assedio" di Emiliano Brancaccio - https://www.twitch.tv/videos/1273141735?t=1h13m30s


Gli effetti sistemici della pandemia sull’economia mondiale sono ancora ben poco studiati, e quindi compresi. Di sicuro si vedono a occhio nudo quelli sulle popolazioni (riportiamo qui in fondo un articolo dell’agenzia Agi sulle “preoccupazioni” del Fondo Monetario Internazionale – un’organizzazione criminale, di fatto – sui 70 milioni di “poveri estremi” provocati dalla crisi sanitaria).

Ma restano avvolti nella nebbia quelli sui sistemi economici, già sotto stress – dal 2008 a fine 2019 – per altre ragioni finanziarie, nonché per il disfacimento delle relazioni tipiche della fase chiamata “globalizzazione”.

Questo illuminante intervento di Joseph Halevi – docente emerito di economia all’università di Sidney, marxista formatosi a Roma negli anni ‘70 – mette sotto i riflettori una divaricazione rilevante tra settori produttivi che si sono avvantaggiati con la pandemia (ovviamente il farmaceutico, ma anche piattaforme e informatica), a scapito di tutti gli altri.

Una divaricazione che gli Stati neoliberisti occidentali – inchiodati come sono al dogma del “privato è meglio” – non solo non hanno contrastato, ma a cui si sono piegati senza alcuna resistenza. Di fatto, la spesa pubblica è stata determinata dagli interessi di quel “blocco”, senza alcun interesse per la tenuta del sistema nel suo complesso.

Una “contraddizione in seno al capitale” che, non ci stancheremo mai di sottolinearlo, è un concetto – una categoria dell’analisi – che si concretizza in molti capitali in concorrenza tra loro.

Non vedere questo tipo di contraddizioni, e immaginare che “il capitale” sia capace di un “grande piano” per controllare il mondo (e i relativi antagonismi di classe) porta o all’impotenza politica (“sono troppo forti, non ce la possiamo fare”) o alle fughe nell’irrazionalismo (inutile fare esempi, ce ne sono a centinaia).

Buona lettura. (Redazione Contropiano)

lunedì 31 ottobre 2016

Tempesta perfetta. Nove interviste per capire la crisi*- Tommaso Gabellini


 
Tempesta Perfetta nasce con l’intento di mostrare l’urgente bisogno di un dibattito sulle cause della crisi e sulle possibili soluzioni che tengano conto di un punto di vista autonomo, del lavoro. Occorre partire da un’analisi seria e disincatata per permettere alla generazione cresciuta nella crisi di capire che le alternative esistono e che un rovesciamento degli attuali rapporti di forza sia possibile solo dopo aver elaborato un’attenta critica nei confronti del paradigma culturale dominante. Il libro offre molti spunti di riflessione in tal senso, e costituisce un’ottima lettura sia per chi sia a digiuno di nozioni economiche, sia per chi si interessi già di alcune tematiche ma voglia avere un quadro d’insieme più ampio.

Si chiama Tempesta Perfetta, è la prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas  Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi; 

domenica 14 maggio 2023

L’inflazione è da profitti - Joseph Halevi

Da: https://contropiano.orghttps://sinistrainrete.info - Joseph Halevi, Universita' di Sydney in Australia da cui si e' pensionato nel 2016. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l' International University College a Torino. 


Pubblichiamo il testo leggermente rivisto e ampliato dall’autore, scritto da Joseph Halevi come introduzione all’opera collettiva (Giacomo Cucignatto e altri), “L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo”, edizioni Punto Rosso, Milano, marzo 2023 (https://contropiano.org



Dal 2020 l’economia mondiale è rientrata in un periodo di inflazione. Contrariamente al precedente episodio, avvenuto nel periodo che va dai primi anni Settanta ai primi anni Ottanta, questa volta le cause sono assai chiare.

Nel primo episodio le condizioni europee dell’inflazione furono diverse da quelle statunitensi, mentre il Giappone subì da un lato un’inflazione importata e dall’altro ricevette dagli Stati uniti un cazzotto monetario in piena faccia – rappresentato dalla rapida e ripidissima rivalutazione dello yen – tale che avrebbe travolto anche un paese come la Germania, fortunatamente protetta dallo scudo rappresentato dall’area commerciale della CEE, già allora sbocco principale del suo export.

Il Giappone invece pur non avendo un hinterland economico resistette alquanto bene rafforzando grandemente il livello tecnologico e la proiezione mondiale della sua industria.

In quegli anni in Europa occidentale maturò un conflitto distributivo tra lavoro e capitale intenso e pluriennale in Gran Bretagna ed in Italia, che in ambo i paesi si spense in forme diverse tra l’ultimo biennio degli anni Settanta e i primissimi anni del decennio successivo.

lunedì 14 luglio 2014

Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi

L’occupazione della Cisgiordania, della striscia di Gaza e di Gerusalemme orientale nel 1967, mentre concretizzava gli obiettivi espansionistici verso tutta la Palestina storica tenuti in serbo da Ben Gurion durante il suo regno, faceva ribollire il pentolone, mai spento, ove cuoceva tutto l’armamentario ideologico sul mantenimento della superiorità numerica degli ebrei e quindi di un sempre possibile transfer. Fu proprio uno dei maggiori artefici delle espulsioni del 1947-‘48 e teorizzatore nel 1940 del trasferimento totale della popolazione palestinese fuori dalla sua terra a porre schiettamente il problema. In un articolo pubblicato sul giornale laburista “Davar” il 29 settembre del 1967 il vicepresidente del Fondo nazionale ebraico Joseph Weitz scrisse: “Nella Guerra dei sei giorni accadde un solo grande miracolo: una tremenda vittoria territoriale ma la maggioranza della popolazione di territori liberati [sic] è rimasta ‘fissa’ al suo posto, cosa che può causare la distruzione del nostro stato”. Quindi: “È di imperativa importanza che la pace venga stabilita sulla base di uno stato ebraico indipendente con una limitata minoranza non ebraica anche se ciò richiedesse cedere territori ottenuti e liberati una volta effettuate le modificazioni concernenti i confini esistenti e di quelli afferenti a tutta Gerusalemme. Ciò con lo scopo di rafforzare la sicurezza di Israele e la sua fisionomia e non, in alcun modo, con lo scopo di formare, in una maniera o nell’altra, uno stato palestinese”.
“La sinistra politica di ‘ingegneria demografica’ costituisce un’ulteriore manifestazione del razzismo israeliano. Per mantenere il ‘carattere ebraico’ o la ‘purezza’ dello stato d’Israele, i palestinesi sono stati presentati e trattati come se fossero una ‘minaccia demografica’. I ‘rimedi’ proposti includono il controllo forzato delle nascite e la ’gestione della popolazione’, il trasferimento di intere comunità fino agli schemi razzisti e punitivi di ‘separazione’ unilaterale attualmente discussi” (Hanan Ashrawi  - Discorso alla Conferenza di Durban)
È questo, forse, il più straordinario tra i destini di esilio: il fatto di essere stati esiliati da esiliati, di rivivere nel presente lo stesso processo di sradicamento per mano di chi l'esilio lo ha già subito. (Edward W. Said)

martedì 18 maggio 2021

Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri

Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Articolo apparso su "Il Manifesto", 15/05/2021. - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)

Leggi anche: PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz 

Chiarezza - Shlomo Sand 

Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi 

Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini 

https://invictapalestina.wordpress.com/2016/07/12/stato-attuale-ed-origine-del-conflitto-tra-israele-e-la-palestina-breve-riassunto-per-le-scuole-medie/ 

Quattro ore a Chatila - Jean Genet

Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi


Le proteste degli arabi minacciati di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. 

Difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale. 


La rivolta arabo-palestinese è quella di tutti noi, per la giustizia e la vera pace, contro ogni doppio standard che da decenni avvelena Gerusalemme, la Palestina e tutto il Medio Oriente. Israele vive, da noi pienamente tollerato, nella condizione di uno Stato fuorilegge, i palestinesi, a causa anche della sua dirigenza e di Hamas, sono perpetuamente nella lista nera dei popoli criminali, non degli stati criminali semplicemente perché i palestinesi hanno diritto a uno Stato solo nella retorica occidentale che si lava le mani della questione. 

La posizione mediana assunta dai politici e dalla maggior parte dei media occidentali in realtà è la più ipocrita di tutte le sanzioni architettate in Medio Oriente. Quella che pagheremo forse in un prossimo futuro: le guerre altrui entreranno in casa nostra, come è già accaduto un decennio fa quando le primavere arabe si trasformarono, come in Siria, in guerre per procura e nel jihadismo. Finora Israele, nelle mente degli europei, ha fatto da antemurale alle rivolte e alla diffusione del estremismo islamico: in realtà ha alimentato l’incendio – Hamas sin dalla sua fondazione negli anni Ottanta serviva a mettere sotto scacco Al Fatah e i laici – e incoraggiato ogni degenerazione perché lo stato di guerra perpetuo giustifica la sua impunità e il non rispetto assoluto dei diritti degli arabi, delle leggi internazionali e delle Risoluzioni delle Nazioni unite. 

Ma la maschera israeliana, come pure la nostra, sta per cadere. È scattata la sirena d’allarme, non soltanto quella per i razzi di Hamas, ma dei linciaggi e delle rivolte nelle città israeliane abitate «anche» dagli arabi. Il venti per cento della popolazione di un Paese che si dichiara lo Stato degli ebrei ignorando tutti gli altri. 

Come scriveva questa settimana su il manifesto Tommaso Di Francesco non basta dire che entrambi i popoli hanno diritto a vivere in pace, di questa frasette inutili ne abbiamo piene le tasche e molto più di noi i palestinesi. E persino una parte consistente dell’opinione pubblica arabo-musulmana, anche di quei Paesi entrati nel Patto di Abramo, nella sostanza un’intesa che non è un accordo di pace, come è stato venduto dalla propaganda, ma di fatto un via libera a Israele per fare quello che vuole.
Come fai a vivere in pace quando confiscano le tue terre, la tua casa viene demolita, i coloni moltiplicano gli insediamenti e ogni giorno viene eretto, oltre al Muro, un reticolato di divieti di cemento difesi con il mitra spianato? La terra viene divorata, i monumenti della tua cultura sono vietati e si cambia la faccia del mondo che conoscevi: tutto questo avviene sotto occupazione militare, cioè contro il diritto internazionale. E noi qui vorremmo che gli arabi rispettassero leggi di cui noi stessi ci facciamo beffe? 

Gerusalemme è diventato il simbolo di tutte queste ingiustizie, di tutte le violazioni del diritto internazionale. Questa storica e magica città non è per niente la capitale delle tre religioni monoteiste come viene ripetuto fino alla noia: è la capitale soltanto dello Stato di Israele, come ha sancito Trump nel 2018 trasferendo l’ambasciata americana da Tel Aviv. In questa città Israele decide quello che vuole non solo per gli ebrei ma anche per musulmani e cristiani. Anche questa è una violazione del diritto internazionale, delle Risoluzioni Onu e degli Accordi di Oslo: non solo non abbiamo fatto niente per evitarlo ma lo abbiamo accettato senza reagire. Tollerando che avvenga pure senza testimoni con il bombardamento del centro stampa internazionale di Gaza e l’uccisione di una collega palestinese Reema Saad, incinta al quarto mese, polverizzata da una bomba insieme alla sua famiglia. 

Oggi le proteste della famiglie arabe minacciate di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa ultima guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. Ma i loro beni, una volta cacciati via e i proprietari classificati come «assenti» sono stati espropriati e venduti allo Stato o al Fondo nazionale ebraico. Così si costruisce con l’ordine «liberale» del «diritto di proprietà» ogni ingiustizia. Non solo: gli ebrei possono reclamare le case che possedevano a Gerusalemme prima del 1948 ma questo diritto non è previsto per i palestinesi. Una beffa. Queste le chiamate leggi, questa la possiamo chiamare giustizia? Si tratta soltanto di un sopruso accompagnato quotidianamente dall’uso della forza militare. 

«Le vite palestinesi contano», ammonisce il leader democratico Bernie Sanders. Ma il presidente americano Biden che ieri ha mandato un inviato per verificare le possibilità di una tregua deve uscire dall’ambiguità: se concede a Israele di violare tutte le leggi e i principi più elementari di giustizia diventa complice di Trump e delle sue scellerate decisioni. In ballo non c’è soltanto un cessate il fuoco ma un’esecuzione mortale: quella che viene perpetrata ogni giorno al popolo palestinese messo al muro dalla nostra insipienza. E con le spalle al muro ci siamo pure noi che difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale. 

mercoledì 17 agosto 2022

Edward Said ha letto nella Storia il futuro della Palestina - Eliana Riva

 Da: https://pagineesteri.it - Eliana Riva Editrice, storica, giornalista, libraia

Edward Said (1º novembre 1935 – New York, 25 settembre 2003) è stato uno scrittore e docente statunitense, di padre americano di origini palestinesi e di madre palestinese, entrambi cristiani protestanti; ed egli stesso palestinese di nascita, vissuto tra la Palestina mandataria e l'Egitto fino ai 15 anni di età. Fu anglista, docente di inglese e letteratura comparata alla Columbia University, teorico letterario, critico e polemista, particolarmente noto per la sua critica del concetto di Orientalismo. Fu, tra gli altri, influenzato dalle letture di Antonio Gramsci, Frantz Fanon, Aimé Césaire, Michel Foucault e Theodor W. Adorno.

Leggi anche: PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz
Chiarezza - Shlomo Sand
Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi
Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini
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Quattro ore a Chatila - Jean Genet 
Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri
Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera
Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi


Pagine Esteri, 26 luglio 2021 –
 “L’unica decisione che sarà necessario prendere per quanto riguarda la conoscenza della Storia è se dovremo insegnarla dall’indietro in avanti o da avanti all’indietro (Tertuliano Màximo Afonso). 



Si potrebbe cominciare raccontando del caprone e dell’acro di Weizmann oppure dell’ultima escalation militare, quella dello scorso maggio, tra Israele e Hamas; si potrebbe partire da Sheikh Jarrah o dall’occupazione israeliana del 1967. È complicato individuare un altro storico, scrittore, intellettuale che sia tanto legato al suo tempo e al suo luogo pur riuscendo ad attraversarli, superarli e ritornarvi.

Nel 1996 Edward Said scriveva, in uno dei suoi interventi meno pessimisti sul futuro, che “La scommessa stava nel trovare un modo pacifico di coesistere non come ebrei, musulmani e cristiani ma come cittadini a pari diritto in una stessa terra”.

All’inizio di luglio la Corte Suprema israeliana ha decretato la legittimità della cosiddetta Legge fondamentale o legge Stato-Nazione, che la Knesset aveva approvato nel 2018. Ha rigettato le obiezioni di chi riteneva che questa legge non fosse democratica e rispettosa delle minoranze. La legge Stato-Nazione è il provvedimento che sistema giuridicamente e rende legale la definizione di Israele come Stato della nazione Ebraica. Lo stato degli ebrei.

In Israele circa il 21% della popolazione è composta da arabi, dai palestinesi. La legge Stato-Nazione dichiara che “l’adempimento del diritto all’autodeterminazione nazionale nello stato di Israele è unico per gli Ebrei” e fa esplicito riferimento alla Terra d’Israele quale patria storica degli ebrei. La Terra d’Israele così intesa è la Palestina storica, tutta la regione, quindi che comprende ora Israele e i Territori Palestinesi Occupati. E la norma vi promuove lo sviluppo dell’insediamento ebraico.

Cosa significa tutto questo? 

sabato 25 novembre 2023

Chi sono i veri responsabili del caos nel Medio Oriente? - Alessandra Ciattini

Da: https://www.marx21.it - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. Collabora con https://www.lacittafutura.it - https://www.unigramsci.it 

Leggi anche: Tutte le ragioni per cui stiamo con la Palestina - Alessandra Ciattini  

Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini  

Chiarezza - Shlomo Sand 

Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi

PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz

Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera

Edward Said ha letto nella Storia il futuro della Palestina - Eliana Riva 

Vedi anche: La nascita dello Stato d'ISRAELE

La Nakba - Joseph Halevi 

Le reazioni dei governi del cosiddetto occidente collettivo e i loro super-controllati portavoce mediatici hanno il potere – come hanno già fatto per la guerra NATO-Ucraina – di stabilire dove comincia la storia, stabilendo ovviamente che il momento iniziale dello scontro è avvenuto il giorno che a loro fa può comodo; scelta che permette ad essi di nascondere le loro numerose e precedenti violazioni dei tanto celebrati diritti umani e del diritto internazionale spesso con la complicità dell’ONU. Nello stesso tempo un’altra loro collaudata tecnica, impiegata da secoli da tutti coloro che debbono aver ragione a tutti i costi, consiste nella demonizzazione dell’avversario, ossia Hamas, coinvolgendo in questo tutta la popolazione della Palestina, e diffondendo notizie sempre più macabre e terribili, ma non verificate, come la decapitazione di inermi lattanti. Già in passato erano state diffuse simili informazioni quando furono a suo tempo additati a pubblico ludibrio i soldati iracheni, che in Kuwait avrebbero strappato dalle incubatrici alcuni neonati per farli morire sul pavimento durante la prima guerra del Golfo. La fonte della notizia non era una povera profuga ma addirittura la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington.

La demonizzazione di Hamas può esser fatta senza problemi perché non si ricorda – come ha fatto in questi giorni Seymour Hersch – che è stato proprio Israele a finanziare questa organizzazione terroristica (non meno terroristica dello stesso Israele) con lo scopo di creare divisioni all’interno della comunità palestinese, favorendo la contrapposizione con Al Fatah, altra fazione sconfitta alle elezioni del 2006, con l’obiettivo di ostacolare in tutti modi la formazione di uno Stato degli abitanti originari della regione, nonostante i numerosi accordi in questo senso.

Ormai dovremmo saperlo tutti, sono queste operazioni psicologiche (psyop), di guerra informatica, attacco informativo etc., di cui un buon esempio fu il CPI istituito da Woodrow Wilson nel 1917 [1], il cui scopo è alimentare un consenso tra le masse mondiali disorientate e stremate dalla cosiddetta policrisi o meglio crisi sistemica capitalistica, che sembra attorcigliarsi ogni giorno di più attorno ai nostri esausti corpi, stringendoci nelle sue spinose spire.

martedì 10 settembre 2024

Persistenze e metamorfosi della questione ebraica. Una rilettura di Abraham Léon - Il Lato Cattivo

Da: https://illatocattivo.blogspot.com - 

Leggi anche: Chiarezza - Shlomo Sand - Shlomo Sand 

LA QUESTIONE EBRAICA - Stefano Garroni 

L'identità politica stato - "Sulla questione ebraica" - Stefano Garroni

Enzo Traverso, "Gaza davanti alla storia" - Marco Revelli

Verità sulla Nakba - Ilan Pappè

“Dal ‘48 Israele vuole disfarsi del popolo palestinese” - RACHIDA EL AZZOUZI intervista ILAN PAPPÉ -

Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera 

LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI - Joseph Halevi 

Chi sono i veri responsabili del caos nel Medio Oriente? - Alessandra Ciattini 

PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz 

Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri

Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi 

Il comunismo è e rimane l'unica prospettiva di superamento positivo della società capitalistica. Ma quest'ultima, malgrado le sue traversie, pare divenuta un orizzonte insuperabile, e le forze protese al suo abbattimento sono oggi ridotte alla clandestinità e alla dispersione, se non al disorientamento. L'epoca del movimento operaio tradizionale, delle transizioni socialiste e dei loro programmi si è da tempo conclusa. Il patrimonio delle lotte e delle correnti teoriche del passato richiede un riesame profondo per separare ciò che è vivo da ciò che è morto. Il rapporto intercorrente tra le lotte quotidiane del proletariato, i movimenti interclassisti di massa dell'ultimo decennio e la rottura rivoluzionaria possibile appare più enigmatico che mai. La teoria comunista richiede nuovi sviluppi, per essere restaurata nelle sue funzioni. La necessità di affrontare questi nodi ci interpella in prima persona, come dovrebbe interpellare tutti i sostenitori del «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». I nostri mezzi sono a misura alle nostre forze: modesti. Impossibile in queste condizioni pretendere di essere i fautori unici e infallibili di una rifondazione teorica che arriverà a maturità solo in un futuro non prossimo. Ma è solo iniziando a camminare che si cominciano a tracciare strade percorribili. 


«La presente nota mira a presentare e attualizzare il contenuto dell'opera di Abraham Léon, La concezione materialistica della questione ebraica (scritta nel 1942, pubblicata postuma nel 1946, e meglio nota in Italia con il titolo: Il marxismo e la questione ebraica), in un'ottica non slegata dalla congiuntura internazionale attuale e, più specificatamente, dai rivolgimenti che hanno caratterizzato il contesto mediorientale dopo il 7 ottobre 2023. L'interrogativo soggiacente a cui ci si propone non già di rispondere, ma di fornire un impianto concettuale, concerne nientemeno che la perennità dello Stato di Israele. Con gli occhi incollati alle immagini dei massacri e delle vessazioni inflitte ai palestinesi, rischiamo di non vedere il dispiegarsi di macro-processi al tempo stesso più sotterranei e più potenti. [...] Come comprendere questa radicale incertezza sul futuro dello Stato sedicente ebraico, al di là dei suoi risvolti più effimeri e contingenti? È per provare ad impostare un ragionamento a partire da questa domanda, che ci è parso opportuno tornare all'opera di Abraham Léon, che rimane una delle più limpide e ricche disamine marxiste della questione ebraica.» 

[Il Lato Cattivo]

«Ma in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella società, 
che vestigia del passato sopravvivono nel presente».

domenica 7 giugno 2020

LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI - Joseph Halevi

Da: http://rproject.it - http://www.palermo-grad.com -
Joseph Halevi Universita' di Sydney in Australia da cui si e' pensionato nel 2016. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l' International University College a Torino.
Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi 


 SEMBRA UN SECOLO...

Il 5 di giugno del 1967 il governo di Israele - allora diretto da Levi Eshkol del partito sionista socialdemocratico MAPAI, già fondato da David Ben Gurion e da cui quest’ultimo era uscito alcuni anni prima - lanciò l’improvviso attacco militare all’Egitto, Giordania e Siria, che portò alla conquista della penisola del Sinai, della striscia di Gaza, di Gerusalemme orientale, della Cisgiordania e delle alture del Golan. Secondo quanto appena scritto dal quotidiano Ha-aretz all’interno del governo vi fu una discussione se si dovesse giustificare l’attacco con una grande menzogna oppure con una piccola e meno impegnativa bugia. 

Nei primi tempi prevalse la grande menzogna e cioè che Israele aveva risposto a dei movimenti di colonne corazzate egiziane verso il suo territorio. Tale giustificazione durò pochissimo e si passò alla tesi di un’azione preventiva causata dalla concentrazione aggressiva di truppe egiziane nel Sinai e dall’abbandono da parte di Nasser dei caschi blu dell’ONU dallo stretto di Tiiran, laddove il Mar Rosso si divide per formare un budello che arriva al porto israeliano di Elat e a quello giordano di Aqaba. Il contingente delle Nazioni Unite era stato inviato a Sharm El Sheikh - sullo stretto di Tiran appunto - dopo la guerra anglo-franco-israeliana dell’ottobre-novembre 1956 per assicurare la libertà della navigazione marittima in quelle acque dato che Israele si riforniva di petrolio iraniano che veniva scaricato ad Elat. La tesi di una guerra di difesa preventiva durò più a lungo ma alla fine crollò anche quella e oggi nessuno storico dotato di un minimo di serietà ne farebbe uso.

giovedì 28 maggio 2020

Dopo Covid, “Rischi di esplosione delle disuguaglianze” - Intervista a Joseph Halevi

Da: https://www.stamptoscana.it - https://contropiano.org - Joseph Halevi Universita' di Sydney in Australia da cui si e' pensionato nel 2016.
Leggi anche:  - Note sulla crisi. Intervista all'economista Marco Passarella - 
                          ECON-APOCALYPSE: ASPETTI ECONOMICI E SOCIALI DELLA CRISI DEL CORONAVIRUS* - Riccardo Bellofiore 
                          La Covid19 Economics e il trionfo europeo dei Chicago Boys – Sargent Pepper 

Firenze – Sulle prospettive del dopo Covid, Stamptoscana si rivolge all’economista Joseph Halevi. Halevi è nato a Haifa nel 1946 da madre lucchese e ha studiato a Roma, dove si è laureato nel 1975 in filosofia con una tesi in economia. Sempre nel 1975 ha lasciato l’Italia e ha insegnato economia alla New School for Social Research a New York e alla Rutgers University nel New Jersey. Ha anche insegnato per svariati anni alle Università di Grenoble, di Nizza e di Amiens. Nel periodo compreso fra il 1990 e il 2012 è stato collaboratore del Manifesto. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l’ International University College a Torino.

D. Quale sarà il problema o i problemi più immediati che dovremo affrontare nella fase del dopo coronavirus?

R. La risposta dipende molto dall’angolatura con cui si guarda a tutta la vicenda del Covid 19. Partirei da una visione che combini sia la dimensione di classe che quella strutturale che specificherò dopo una breve premessa. L’aspetto economico principale di questa crisi consiste nel fatto che è la prima vota che il sistema si blocca sia dal lato della produzione, cioè dell’offerta, che dal lato della domanda. Il blocco della produzione ha a sua volta prodotto il blocco degli investimenti che, sommato ai licenziamenti di massa, ha fatto precipitare le economie occidentali in una recessione molto simile ad una grande depressione.

Questo è successo nei paesi sviluppati. Le ripercussioni su quelli molto più poveri che, in maniera mistificante, vengono chiamati mercati emergenti, sono state disastrose. Le catene di valorizzazione – già meccanismi di sfruttamento acuto negli ‘emergenti’ e di precarizzazione del lavoro nei paesi ‘avanzati’ – si sono a loro volta disarticolate sia sul piano produttivo che su quello finanziario. Gli ‘emergenti’ stanno immergendosi fin sopra la testa nella crisi. Fino a poco tempo fa giornali, riviste e siti economici dei paesi occidentali speravano in un andamento a V in cui ad una forte discesa segue una rapida salita.

Ora non ne parlano più. Con le flotte della loro aviazione civile a terra e con le compagnie che stanno smobilitando i loro grossi vettori intercontinentali inviandoli ai parcheggi-deposito nel deserto dell’Arizona e perfino nel centro dell’Australia ad Alice Springs, nei paesi occidentali si sta facendo avanti l’ipotesi che la ripresa sarà probabilmente lenta ed assai problematica. Un certa ripresa probabilmente ci sarà ma bisogna tenere a mente che essa può avvenire con l’economia che complessivamente rimane in uno stato ancora interno alla stagnazione causata dal depressione (esempio: l’economia cala del -10% e si riprende con un 3% per poi trascinarsi con un 0,5, 1%, il che significa che dopo 10 anni non ha ancora raggiunto il livello precedente alla caduta).

D. Lo scenario futuro o immediatamente prossimo potrebbe far emergere diverse reattività da parte dei vari Paesi, nonostante la globalizzazione? In altre parole: la barca è la stessa, ma i passeggeri no? 

sabato 8 maggio 2021

"Da Smith a John Stuart Mill: la missione civilizzatrice del capitale." - Riccardo Bellofiore

Da: Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano - Riccardo Bellofiore, Docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo, i suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)


1° incontro del ciclo di lezioni aperte al pubblico IL LAVORO NELLA RIFLESSIONE ECONOMICO-POLITICA del Corso di perfezionamento in Teoria critica della società. promosso da Casa della cultura e Università degli Studi Milano-Bicocca Intervengono anche Ferruccio Capelli e Vittorio Morfino

                                                                           

lunedì 3 febbraio 2020

Perché il Partito Laburista ha subito questa sconfitta elettorale? - Víctor Taibo

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Pubblicato da Izquierda Revolucionaria il 19 dicembre 2019. Traduzione per la Città Futura a cura di Simone Rossi.
Víctor Taibo de la Comisión Ejecutiva de Izquierda Revolucionaria en el Estado Español. 
Leggi anche: Intervista a Joseph Halevi sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna.

Le circostanze oggettive per una vittoria di Corbyn sono state presenti negli ultimi quattro anni, ma gli errori politici si pagano, ed a volte sono molto costosi. 
Le elezioni in Gran Bretagna hanno stabilito un’impattante vittoria di Boris Johnson e del Partito Conservatore. Con 13.966.565 voti, il 43,6%, i Tory hanno raggiunto una comoda maggioranza assoluta di 365 deputati, ottenendo 47 nuovi scranni rispetto alle elezioni del 2017. Nonostante il fatto che l’incremento di consenso sia stato abbastanza limitato, di solo 329.881 voti (l’1,2%), la notizia del forte arretramento del Partito Laburista capeggiato da Jeremy Corbyn ha sconvolto le fila della sinistra, di ampi settori della classe operaia e della gioventù britannica, e di attivisti in tutto il mondo. 
Capire cosa è successo è un compito primario per preparare le future battaglie di lotta di classe che, inevitabilmente, scoppieranno con forza sotto il mandato di questo sciovinista reazionario. E questo esige, senza dubbio, un serio esame delle cause di questa sconfitta, non solo per rispondere alle menzogne della classe dominante e dei suoi mezzi di comunicazione – infangati fino al collo in una campagna di falsificazioni e calunnie contro il candidato laburista -, ma anche per non cadere in spiegazioni superficiali che cercano di nascondere le responsabilità di Corbyn, dei dirigenti di Momentum e dei vertici sindacali in quanto accaduto. Solo traendo lezioni politiche da questi eventi, per amare che siano, si potrà rinforzare e costruire un’alternativa capace di superare l’incubo dei governi Tory.

lunedì 22 marzo 2021

Corpo biologico e corpo politico sono diventati la stessa cosa - Francesco Fistetti

Da: Nuovo Quotidiano di Puglia (Brindisi) - https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5 -francesco fistetti insegna Storia della Filosofia Contemporanea, Università di Bari.
Leggi anche: Stiamo vivendo la prima crisi economica dell’Antropocene - Adam Tooze

Pandemia nel capitalismo del XXI secolo - A cura di Alessandra Ciattini, Marco Antonio Pirrone

Che fare nella crisi? Ne parliamo con Alan Freeman

"L'oblio del Covid è vicino, ma il tempo pandemico è appena iniziato" - Nicola Mirenzi intervista Telmo Pievani

Proletari di tutto il mondo, la vera pandemia è la disuguaglianza - Pasqualina Curcio

La diffusione pandemica della pseudoscienza - Alessandra Ciattini e Aristide Bellacicco

Come cambia l’economia dopo la pandemia? Ne parliamo con F. Schettino

I veri responsabili della pandemia e delle sue drammatiche conseguenze - Alessandra Ciattini e Aristide Bellacicco

Pandemie: cattiva gestione, uso politico della scienza e disinformazione a cura di Alessandra Ciattini e Marco A. Pirrone

Covid e la fine del sogno americano - Alessandro Carrera

Intervista a Noam Chomsky - a cura di CJ Polychroniou

Dopo Covid, “Rischi di esplosione delle disuguaglianze” - Intervista a Joseph Halevi

Come si muove una pandemia. Il tallone d’Achille della globalizzazione

Possibili conseguenze della pandemia: dal turismo di massa a quello di classe. - Paolo Massucci

IL COVID-19 BUSSA ALLA PORTA DELLA BARBARIE, NON DEL SOCIALISMO. - Paolo Ercolani

ECON-APOCALYPSE: ASPETTI ECONOMICI E SOCIALI DELLA CRISI DEL CORONAVIRUS* - Riccardo Bellofiore

Il j’accuse di Manon all’occidente liberista - Sergio Cararo 



Una breve riflessione su che cosa ci sta insegnando il fenomeno mondiale della pandemia. Essa, come avrebbe detto M. Mauss, non è un episodio congiunturale, ma un "fatto sociale totale". Ma a questa dimensione totale non corrisponde ancora un "pensiero planetario" necessario per abbandonare le illusioni neo-liberiste e cambiare in senso convivialista le nostre forme di vita. 



Ad un anno esatto dal primo lockdown nazionale la situazione sanitaria non solo in Italia, ma in tutta Europa non accenna a migliorare. In Italia abbiamo già superato la soglia delle centomila vittime da Covid-19 e la scarsa disponibilità dei vaccini rende problematica l’accelerazione della campagna per debellare il virus. 

Al di là delle sterili polemiche di casa nostra tra “aperturisti” e “rigoristi” (tra sostenitori del primato dell’economia e sostenitori del primato della salute), ciò che colpisce è che a distanza di un anno è cambiata la percezione collettiva dell’evento che stiamo vivendo a livello globale. Se fino a qualche tempo fa il sentimento dominante era la paura o lo sconcerto di fronte a un fenomeno ignoto che metteva in pericolo la vita delle persone, ora sembra essere subentrato un senso di impazienza, una voglia di ritornare il prima possibile al mondo di ieri. Anche a costo di lasciare per strada coloro che per una ragione o per l’altra non ce la fanno. È come se una componente di darwinismo sociale – riassumibile nell’assunto che è naturale che i più deboli periscano - fosse penetrata di soppiatto nel senso comune senza un’esplicita articolazione linguistica. In altre parole, l’illusione che si possa ritornare alle abituali forme di vita del passato non può che generare impazienza, dal momento che il presente non viene visto nei suoi caratteri di novità, ma assume la forma della mancanza del mondo di prima: rispetto al quale lo stato d’animo predominante è l’attesa del ritorno alla cosiddetta normalità. 

domenica 10 aprile 2016

Finanza perversa ed economia reale altrettanto perversa. Alle origini della crisi* - Riccardo Bellofiore (2009)

*Da:    http://www.alternativeperilsocialismo.it/

 Affronterò essenzialmente due questioni: la natura della crisi e i tempi, l’Europa. 

 Il quesito che cerco di pormi da qualche anno, in riflessione congiunta con Joseph Halevi, è quale crisi di quale capitalismo stiamo vivendo. L’ultima nasce come crisi finanziaria il 9 luglio 2007, istantaneamente è anche crisi bancaria tradotta da settembre-ottobre scorsi in maniera del tutto evidente in crisi reale. 

 Molti i luoghi comuni per affrontarla, che hanno sempre un aspetto di verità ma anche un altro distorcente. Si tratta di una crisi finanziaria che uccide un’economia reale? Questa mi sembra una posizione discutibile perché quello che cercherò di sottolineare è l’intreccio tra una finanza perversa e una economia reale altrettanto perversa.

 L’altra tesi è che sia la crisi di un mondo di bassi salari, in cui c’è stata una redistribuzione a danno del lavoro che alla fine si traduce in una crisi da domanda.
Di nuovo questo - come la perversione della finanza - è un fatto reale ma spiega molto poco perché è esistente da molto tempo. 

 Terzo luogo comune: è una crisi del neoliberismo - e anche qui c’è una verità - ma il neoliberismo viene inteso come sostanzialmente il ritorno dopo il 1980 a politiche di “lasciar fare”, mentre a mio parere siamo vissuti in un pieno di politiche economiche e si tratta di capirle. 

La tendenza alla stagnazione

 Come riportato dal Financial Times il 2 marzo 2009, si tratta di una crisi più grave di quella del 1973 e della new economy - simile a quella arrivata a metà della crisi del 1929 - dopo c’è stata una ripresa azionistica e borsistica che si tratterebbe di commentare. Se ci collochiamo in un’ottica di lungo periodo vediamo che questa nuova grande crisi dopo quella del Trenta, in cui la crescita del Pil fu solo dell’1.3, sta dentro un rallentamento dei tassi di crescita dagli anni Settanta in poi e sostanzialmente il periodo dagli anni Ottanta a oggi vede prevalere una tendenza alla stagnazione.