Da:
Lavinia Marchetti -
Lavinia Marchetti -
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Purtroppo i testi usciti di recente, i bignami alla Travaglio, che hanno provato a descrivere anche la Nakba, sono insufficienti, spesso fuorvianti e comunque, spesso, partono da un'irrimediabile punto di vista coloniale sul mondo. Leggendo vari libri sull'argomento, ho comparativamente, copicchiando su quelli più autorevoli, fatto una sintesi. Lunghissima per Facebook, però per chi ha voglia di leggerselo con calma, è qui. Ho letto molto sull'argomento. Peraltro ho due testi, in pdf, piuttosto grandi di formato (quindi non so se riesco a mandarveli su messenger, se avete suggerimenti li accetto volentieri), non facilmente reperibili a mio avviso fondamentali. Chi me ne farà richiesta posso inviarli (se troviamo il modo). Sono: Before their Diaspora A Photographic History of the Palestinians 1876-1948 (Walid Khalidi). E poi un testo monumentale di 1.200 pagine che ho letto a sprazzi: All That Remains The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948 (Walid Khalidi). Il primo è 50mb, il secondo 112mb.
VENIAMO ALLA STORIA DELLA NAKBA
Nakba (in arabo “catastrofe”) è il termine con cui i palestinesi indicano la tragedia del 1948: la distruzione della loro società in Palestina e la trasformazione in profughi di gran parte della popolazione araba locale. In seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948 e alla fondazione dello Stato di Israele, circa 700–800 mila palestinesi (oltre metà degli arabi di Palestina) furono costretti ad abbandonare le proprie case, spesso con la forza o sotto il terrore di massacri. Nell’arco di pochi mesi, 531 villaggi palestinesi vennero distrutti e almeno 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Questo processo, pianificato dai comandanti sionisti a marzo 1948 e attuato sistematicamente durante la guerra, ha tutti i caratteri di una pulizia etnica deliberata. La Nakba segnò una frattura epocale nella storia mediorientale: non solo un immane sconvolgimento demografico e territoriale, ma anche un trauma politico e culturale dalle conseguenze durature per il popolo palestinese.
LE ORIGINI DEL 1948: CONTESTO E CAUSE DELLA NAKBA
Per comprendere la Nakba occorre situarla nel contesto del conflitto arabo-sionista sotto il Mandato britannico. Il movimento sionista, sorto a fine Ottocento con l’obiettivo di fondare uno Stato ebraico in Terra d’Israele (Palestina), dovette confrontarsi sin dall’inizio con la presenza di un numeroso popolo indigeno arabo-palestinese. Fin dai primi decenni, alcuni leader sionisti considerarono l’idea di trasferire forzosamente la popolazione araba per assicurare la maggioranza ebraica nel futuro Stato. Lo storico palestinese Nur Masalha documenta come il concetto di “transfer”, eufemismo per indicare la rimozione organizzata degli arabi dalla Palestina, fosse “centrale nel pensiero strategico della leadership sionista” sin dagli albori del progetto. Trasformare una terra arabizzata da secoli in uno Stato a maggioranza ebraica implicava, in ultima analisi, uno sradicamento demografico. Nei decenni ’30 e ’40, di fronte alla crescita della popolazione ebraica grazie all’immigrazione, l’idea del trasferimento forzato degli arabi divenne sempre più concreta. Piani dettagliati di “trasferimento” circolarono ai vertici dell’Yishuv (il comunità ebraica in Palestina), specialmente dopo il Rapporto Peel del 1937 che per primo propose lo scambio di popolazioni. Il leader sionista Chaim Weizmann espresse apertamente l’auspicio di vedere la Palestina “ebraica come l’Inghilterra è inglese”, un obiettivo realizzabile solo riducendo drasticamente la presenza araba.
Già prima del 1948, dunque, il terreno ideologico era preparato. Eppure, ufficialmente, la dirigenza sionista evitò dichiarazioni palesi di espulsione forzata, consapevole delle implicazioni morali e diplomatiche. Fu la crisi bellica del 1947-48 a offrire l’“opportunità” per attuare nei fatti quella “soluzione” demografica a lungo vagheggiata. Nel novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono un piano per la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, provocando l’immediato rifiuto arabo-palestinese (che vedeva negato il principio di autodeterminazione della maggioranza indigena) e l’avvio di una guerra civile. Tra dicembre 1947 e l’inizio del 1948, mentre aumentavano gli scontri tra milizie sioniste e arabi palestinesi, la leadership dell’Yishuv maturò la convinzione che solo la forza avrebbe potuto assicurare il nascente Stato d’Israele entro confini ampliati e “ripuliti” dalla maggior parte degli arabi. Nel marzo 1948 lo Stato Maggiore dell’Haganah (la principale organizzazione armata sionista) adottò il famoso Piano D (Dalet), punto di svolta nelle vicende della Nakba. Il Piano D, osserva lo storico Avi Shlaim, mirava a garantire il controllo militare e amministrativo delle aree assegnate allo Stato ebraico (e oltre) “così da fornire una solida base continua per la sovranità ebraica”. La vera novità era l’ordine di “occupare i villaggi e le città arabe”, cosa mai tentata prima su larga scala. Pur se formulato in modo ambiguo, il piano puntava in sostanza a “liberare l’interno del paese da elementi arabi ostili” e “in tal senso forniva un mandato per espellere i civili”. Implementando il Piano D nell’aprile-maggio 1948, l’Haganah contribuì in modo diretto e decisivo alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi.
Lo scoppio della guerra aperta consolidò tra i dirigenti sionisti l’idea che la rimozione della popolazione araba fosse non solo desiderabile, ma necessaria per la sopravvivenza di Israele. “Dall’inizio di aprile 1948 – scrive il celebre storico israeliano Benny Morris – il ‘trasferimento’ aleggiava nell’aria, e la partenza degli arabi era profondamente desiderata, a livello locale e nazionale, dalla maggioranza dello Yishuv, da Ben-Gurion in giù”. Sebbene – nota Morris – non vi fosse un ordine generale centralizzato di espulsione per ogni villaggio, le azioni sul campo parlarono da sole: “molte unità [ebraiche] cacciarono fuori le comunità arabe di routine, mentre altre le lasciarono sul posto; […] in luglio e di nuovo in ottobre-novembre 1948, le truppe IDF continuavano a espellere comunità arabe, anche se molto dipendeva dalle circostanze locali e dai singoli comandanti”. Insomma, gli eventi sul terreno – villaggio dopo villaggio – andarono componendo, de facto, un quadro generale di pulizia etnica, ancor prima che la dirigenza politica ne formulasse uno esplicito. Il risultato, rimarca Morris, fu che nell’Israele emergente rimase solo un’esigua minoranza di arabi (circa 150.000 su 900.000 originari). La maggioranza degli arabi palestinesi, invece, fu rimossa: “si può ben dire che tutti i circa 700.000 che finirono per essere profughi furono spostati a forza o ‘espulsi’”. Cruciale, a questo riguardo, fu la decisione del governo israeliano – presa già nell’estate 1948 – di vietare in modo tassativo il ritorno degli arabi espulsi o fuggiti: «la politica fu di impedire il ritorno dei rifugiati a tutti i costi, applicata con determinazione e spesso brutalità». Anche coloro che tentavano di rientrare clandestinamente venivano “routinely” rastrellati ed espulsi di nuovo. In questo senso, conclude amaramente Morris, persino chi era fuggito senza uno sfollamento coercitivo diretto – magari per paura o per il caos dei combattimenti, divenne, di fatto, un espulso permanente a causa del divieto israeliano di rimpatrio.
Dall’altra parte, il racconto degli eventi fornito dal mondo arabo-palestinese era diametralmente opposto a quello auto-rassicurante israeliano. Secondo la propaganda ufficiale di Israele, i palestinesi avrebbero abbandonato le loro case volontariamente, o su ordine dei propri leader e dei governi arabi, lasciando intendere che l’esodo fosse in fondo autoinflitto e assolvendo così Israele da ogni responsabilità morale. Questa versione, “i palestinesi se ne sono andati spontaneamente”, divenne a lungo la narrativa pubblica israeliana, funzionale a presentare lo Stato ebraico nascente come “più giusto e morale” dei suoi vicini arabi. Il mondo arabo, al contrario, denunciava fin dal 1948 che l’esodo palestinese era frutto di una espulsione pianificata e violenta, parte integrante del progetto sionista di colonizzazione. Per decenni le due parti brandirono queste interpretazioni opposte come arma polemica: Israele negando qualunque colpa (“furono gli arabi a volersene andare”), i palestinesi ricordando al mondo la loro Nakba e reclamando il diritto di tornare. La ricerca storica moderna, in particolare il lavoro dei cosiddetti “New Historians” israeliani negli anni ’80 e ’90, ha permesso di fare luce su molti documenti d’archivio e di smentire la versione ufficiale israeliana. Come scrive l’ex ministro britannico Ian Gilmour, Israele fu fondato “su un crimine e una menzogna”: il crimine dell’espulsione di circa 750.000 palestinesi (il 90% degli arabi dei territori che divennero Israele) unito al rifiuto di farli rientrare, e la menzogna di negare tale espulsione sostenendo falsamente che i profughi “se ne erano andati di propria volontà, incoraggiati da proclami arabi”. In realtà, sottolinea Gilmour, “nessun ordine di evacuazione fu mai emanato dai leader arabi”, anzi questi esortarono i civili a rimanere; le indagini storiche hanno stimato che “la partenza di solo il 10% dei profughi poté in qualche modo definirsi volontaria”. La storiografia più rigorosa oggi concorda sul fatto che la grande maggioranza dei palestinesi del 1948 dovette andarsene a causa diretta delle azioni militari sioniste (attacchi, espulsioni forzate, massacri intimidatori) o in fuga precipitosa per il terrore generato da queste violenze.
Va comunque ricordato che, nei convulsi frangenti della guerra, anche fattori arabi interni contribuirono in parte all’esodo. Lo stesso Morris e altri storici (compresi studiosi palestinesi) riconoscono che alcune evacuazioni di villaggi furono inizialmente incoraggiate da dirigenti arabi locali, preoccupati di mettere al sicuro donne, bambini e anziani dalle zone di combattimento. Già a fine 1947, ad esempio, il Comitato Nazionale Arabo invitò le famiglie non combattenti a lasciare alcune aree ad alto rischio. In altri casi, notabili e ufficiali arabi ordinarono l’evacuazione totale di villaggi ritenuti indifendibili o esposti, temendo che restare significasse arrendersi al nemico. Queste partenze anticipate – spesso caotiche e prive di coordinamento – ebbero un effetto domino psicologico devastante: erosero la fiducia dei palestinesi nella capacità dei loro leader di proteggerli e li spinsero via via a “seguire i vicini” sulla via dell’esilio. La disgregazione della società palestinese, già fiaccata da decenni di colonizzazione e repressione (si pensi alla rivolta del 1936-39 sanguinosamente soppressa dai britannici), raggiunse così un punto di non ritorno sotto l’incalzare degli eventi del 1948.
DALLA GUERRA ALL’ESODO: GLI EPISODI PIÙ VIOLENTI DELLA NAKBA
Tra la primavera e l’estate del 1948, la guerra in Palestina seguì una dinamica che combinò operazioni militari convenzionali e pulizia etnica della popolazione civile. Sin dalle prime fasi, le forze sioniste (Haganah, Palmach e anche milizie irregolari come l’Irgun e la Banda Stern) misero in atto una strategia di “offesa aggressiva” e terrore psicologico verso i centri arabi. Nel mese di aprile 1948, in particolare, una serie di operazioni (come Nahshon nel corridoio Gerusalemme-Tel Aviv) rovesciarono le sorti del conflitto a favore degli ebrei, passando da una fase difensiva a una franca offensiva generale. L’ordine era di conquistare posizioni strategiche e “ripulirle” dagli abitanti arabi. È in questo contesto che si inseriscono alcuni degli episodi più truci e sanguinosi della Nakba, entrati tragicamente nella memoria storica.
Uno di essi è il massacro di Deir Yassin, un villaggio palestinese alle porte di Gerusalemme, accaduto il 9 aprile 1948. Deir Yassin era un piccolo paese che aveva persino firmato un patto di non aggressione con le vicine forze ebraiche. Ciò nonostante, rientrava nell’area che il Piano Dalet designava per la “pulizia” etnica, e venne dunque condannato alla distruzione. Alle prime luci del 9 aprile, unità armate dell’Irgun e della Banda Stern – due milizie sioniste estremiste – attaccarono il villaggio circondandolo. Secondo il racconto dello storico Ilan Pappé, “i soldati ebrei irruppero nel villaggio e crivellarono di colpi le case, uccidendo molti degli abitanti”. Quelli che sopravvissero all’assalto iniziale furono radunati e “assassinati a sangue freddo”, con i cadaveri poi mutilati, e “molte donne vennero violentate prima di essere uccise”. Una testimonianza agghiacciante è quella di Fahim Zaydan, un ragazzo di 12 anni all’epoca, che vide sterminare la sua famiglia davanti ai suoi occhi: “Ci fecero uscire uno a uno; spararono a un vecchio e quando una delle sue figlie si mise a piangere, uccisero anche lei. Poi chiamarono mio fratello Muhammad e gli spararono di fronte a noi, e quando mia madre urlò, chinandosi su di lui con in braccio la mia sorellina Hudra ancora allattata al seno, uccisero anche lei”. Fahim stesso fu ferito dai proiettili mentre i miliziani allineavano i bambini contro un muro e li “falciavano solo per divertimento”, ma fortunatamente sopravvisse sotto i corpi degli amichetti.
Le dimensioni esatte della strage di Deir Yassin furono a lungo oggetto di polemica. La propaganda sionista dell’epoca vantò un numero esagerato di vittime (254 morti) – nel tentativo deliberato di seminare il terrore tra gli arabi palestinesi. Studi successivi ridussero il bilancio, fissandolo a 93 morti accertati, comunque un massacro spaventoso. Pappé sottolinea che tra gli uccisi vi furono “circa trenta neonati”, a dimostrazione del fatto che “la distinzione tra ‘colpiti in battaglia’ e massacrati civili inermi era assai labile” nella mentalità dei combattenti ebrei, che consideravano ogni villaggio arabo come una base nemica. Al di là delle cifre, l’impatto psicologico fu enorme. Deir Yassin divenne l’“epicentro della catastrofe”: le autorità sioniste stesse diffusero la notizia del massacro per “avvertire tutti i palestinesi che una sorte simile li attendeva se non abbandonavano subito le loro case”. La strategia funzionò. Quando pochi giorni dopo la popolazione araba di Haifa e di altre città seppe dell’eccidio, il panico dilagò. “Appena le notizie di Deir Yassin – e del massacro compiuto tre giorni dopo nel vicino villaggio di Khirbet Nasr al-Din – raggiunsero la numerosa popolazione palestinese [di Tiberiade], molti fuggirono” racconta Pappé. Anche il rimbombo dell’artiglieria ebraica, i bombardamenti indiscriminati e persino trovate di guerra psicologica (come altoparlanti che diffondevano rumori spaventosi) terrorizzarono la gente. Nel giro di una settimana, città miste come Tiberiade e Haifa, dove arabi ed ebrei avevano convissuto per anni, collassarono: decine di migliaia di arabi scapparono verso il porto o le colline, spesso senza che vi fosse stato un ordine diretto di sgombero, ma in preda al panico e convinti che arrendersi significasse andare incontro a un altro Deir Yassin. Gli ufficiali britannici presenti in Palestina osservarono spesso impassibili queste scene, talvolta persino incoraggiando l’evacuazione delle città arabe per “evitare spargimenti di sangue”, di fatto facilitando il piano sionista di ripulire le zone strategiche.
Un altro capitolo cruciale (e cruento) della Nakba fu la conquista delle città arabe di Lydda (Lod) e Ramle, nel cuore della Palestina centrale, a luglio 1948. Queste due cittadine, popolate complessivamente da oltre 50.000 arabi e presidiate solo da deboli forze locali, costituivano un ostacolo all’unificazione del territorio israeliano tra Tel Aviv e Gerusalemme. Il primo ministro David Ben-Gurion le considerava “due spine nel fianco” di Israele, “pericolose sotto ogni aspetto”, al punto da annotare ossessivamente nel suo diario che “dovevano essere distrutte”. L’operazione militare lanciata a metà luglio (nome in codice “Danny”) ebbe dunque un duplice scopo: annientare la resistenza araba a Lydda-Ramle e provocare l’esodo forzato della popolazione. All’alba del 10 luglio 1948, poderose unità dell’IDF – tra cui le brigate Yiftah e Harel del Palmach, supportate da artiglieria – accerchiarono Lydda e Ramle. I legionari transgiordani, che avrebbero dovuto difendere la zona, si erano in gran parte ritirati; in città restavano solo milizie improvvisate di abitanti e qualche volontario arabo. La mattina dell’11 luglio, dopo intensi combattimenti periferici, le truppe israeliane penetrarono dentro Lydda: una colonna corazzata guidata dal giovane colonnello Moshe Dayan attraversò la città a tutta velocità aprendo il fuoco su chiunque vedesse per strada. Un soldato israeliano, soprannominato “Gideon”, ricordò in seguito quella incursione di 47 minuti così: “[Il mio] jeep fece la curva ed ecco sulla soglia di una casa di fronte una ragazza araba che urla, gli occhi pieni di terrore. È tutta lacera e coperta di sangue... Intorno a lei a terra giacciono i cadaveri della sua famiglia... Ho aperto il fuoco contro di lei? ... Ma perché porsi queste domande, siamo in mezzo alla battaglia, nel pieno della conquista della città. Il nemico è ad ogni angolo. Tutti sono nemici. Uccidi! Distruggi! Massacra! Altrimenti sarai tu a essere ucciso e non conquisterai la città.”. Questa furia omicida, come traspare dalle parole deliranti del miliziano, portò i soldati a sparare su chiunque, inclusi civili inermi. Dozzine di abitanti di Lydda caddero sotto i colpi quella mattina.
Il giorno seguente, 12 luglio, Lydda sembrava ormai caduta senza ulteriore resistenza, e a Ramle le autorità cittadine negoziavano la resa. Ma verso mezzogiorno successe l’imprevisto: una colonna di autoblindo giordane penetrò all’interno di Lydda (forse in ricognizione) e aprì il fuoco, cogliendo di sorpresa i soldati israeliani che credevano la città già pacificata. Ne seguì uno scontro a fuoco caotico; alcuni civili di Lydda, vedendo i blindati arabi, imbracciarono le armi e spararono dalle finestre. Gli occupanti israeliani reagirono in modo indiscriminato e spietato: in preda al panico, “spararono a qualsiasi cosa si muovesse, lanciarono granate nelle case e massacrarono i prigionieri palestinesi radunati nel cortile di una moschea”. In poche ore, furono uccisi “circa 250 abitanti” di Lydda (tra uomini, donne e bambini), come ammise poi lo stesso rapporto ufficiale dell’IDF. Fu un vero eccidio, passato alla storia come la strage della moschea di Dahmash. A quel punto Ben-Gurion, informato dei fatti, diede luce verde al piano premeditato: espellere in massa tutta la popolazione civile di Lydda e Ramle. “I loro abitanti devono essere espulsi rapidamente, senza riguardo all’età”, recitava l’ordine diramato dal capo operativo Yitzhak Rabin, specificando di “dirigerli verso Beit Nabala” (un villaggio sulla via per la Cisgiordania). Un ordine analogo arrivò per Ramle, nonostante la resa firmata garantisse teoricamente la permanenza di chi lo desiderava, con l’istruzione di trattenere solo gli uomini in età militare come prigionieri.
Nel giro di 48 ore, le forze israeliane svuotarono completamente Lydda e Ramle. Circa 50.000 persone (comprese migliaia di rifugiati di villaggi vicini che si erano ammassati lì) furono costrette ad avviarsi in un estenuante esodo forzato. Da Lydda la colonna di profughi fu cacciata a piedi, sotto il sole cocente di luglio, lungo la strada verso est; ai posti di blocco, molti soldati derubarono i fuggitivi degli averi rimasti, persino dell’acqua. Da Ramle una parte degli abitanti fu caricata su camion dell’esercito fino a un punto di scarico, per poi proseguire a piedi verso la linea del fronte transgiordano. La marcia si trasformò ben presto in un calvario: “soffrendo la fame e la sete, decine [di persone] morirono lungo il cammino verso Ramallah”, annota Morris. Un soldato israeliano descrisse la scena desolante lasciata dal convoglio di sfollati: “all’inizio [abbandonavano] utensili e mobili, e alla fine, corpi di uomini, donne e bambini sparsi lungo la strada. Anziani seduti accanto ai carri imploravano una goccia d’acqua – ma non ce n’era”. Un altro testimone ricordò di “bambini persi” nella calca e persino di un bimbo caduto in un pozzo e annegato senza che nessuno potesse salvarlo, mentre intorno scoppiavano tafferugli disperati per un sorso d’acqua. “Nessuno saprà mai quanti bambini morirono durante la marcia”, scrisse nelle sue memorie il generale arabo John Glubb, comandante della Legione Transgiordana.
L’operazione Lydda-Ramle rappresenta uno degli atti più espliciti di pulizia etnica pianificata compiuti nel 1948. Perfino un comandante israeliano (probabilmente Yigal Allon) spiegò a posteriori che l’enorme colonna di profughi in movimento aveva fornito a Israele “un utile strumento strategico”: ingombrando le strade e appesantendo le linee nemiche con decine di migliaia di disperati bisognosi di aiuto, rendeva più difficile una controffensiva araba e minava il morale dei legionari di re Abdullah. In effetti, l’esodo di Lydda-Ramle generò scompiglio politico e sociale anche nel campo arabo: improvvisi assembramenti di decine di migliaia di profughi affamati misero in crisi le città cisgiordane di Ramallah e Nablus, e la popolazione palestinese insorse accusando i governi arabi di inerzia di fronte alle pulizie etniche israeliane. Ma nulla poté cambiare l’esito. Per i profughi in marcia, la destinazione fu l’esilio: molti trovarono rifugio di fortuna nei campi allestiti a Ramallah, Gerico o nelle colline di circonvallazione, altri proseguirono verso la Giordania, la Siria o il Libano. L’esodo di Lydda e Ramle, la “marcia della morte” palestinese, divenne uno dei simboli tangibili della Nakba.
Lungi dall’essere episodi isolati, Deir Yassin, Lydda, Ramle e decine di altri massacri e demolizioni punteggiarono la geografia della guerra del 1948. In Galilea, ad esempio, nel villaggio di Tantura (sulla costa a sud di Haifa) i soldati della brigata Alexandroni giustiziarono sommariamente circa 90 abitanti a fine maggio 1948, gettandone i corpi in fosse comuni sulla spiaggia. Nelle memorie di un ufficiale israeliano si legge la sconvolgente constatazione: “Il villaggio fu totalmente distrutto e tra le macerie c’erano molti corpi, in particolare di donne, bambini e neonati vicino alla moschea”. Nel distretto di Acri, in Alta Galilea, villaggi come Saliha e Safsaf conobbero un destino simile: decine di civili furono trucidati sul posto dopo la resa (Safsaf, ottobre ’48, vide l’esecuzione di ~50 giovani e stupri di ragazze, secondo fonti dell’IDF). Nel villaggio di Dawayma, nei pressi di Hebron, truppe israeliane uccisero centinaia di abitanti nell’ottobre 1948, in quella che Benny Morris definì “più grande di Deir Yassin” quantomeno per numero di vittime. A Gerusalemme, atti di pulizia etnica avvennero anche a parti inverse: pochi giorni dopo Deir Yassin, il 13 aprile 1948, miliziani arabi attaccarono un convoglio medico ebraico diretto all’ospedale Hadassah sul Monte Scopus, massacrando 78 tra medici e infermieri, in quella che fu una rappresaglia feroce per Deir Yassinen. La guerra del ’48 fu insomma spietata su entrambi i fronti; ma fu il fronte ebraico, armato e organizzato meglio, a conseguire non solo la vittoria militare, bensì l’obiettivo ultimo di “cacciare la maggior parte degli arabi e impadronirsi della loro terra”.
A fine conflitto (primavera 1949), il risultato era chiaro e irreversibile: circa 80% degli arabi dei territori conquistati da Israele non risiedevano più nelle loro case. La Palestina mandataria era stata letteralmente rifatta dal punto di vista etnico. “Il presidente israeliano Weizmann definì l’esodo arabo ‘una miracolosa liberazione della terra’” ricorda Gilmour – “benché di miracoloso non ci fosse nulla: fu il frutto di una spietata ‘pulizia etnica’”. Weizmann e i leader sionisti avevano realizzato quel che sognavano da decenni: “come scrive Ilan Pappé, i due crimini del 1948-49 […] rappresentarono il compimento di un’ambizione sionista di lunga data”. L’ideale del “transfer” – il trasferimento forzato della popolazione araba – si era pienamente concretizzato, dietro la cortina fumogena delle contingenze belliche. Nur Masalha parla di “continuità pervasiva del transfer nel pensiero e nell’azione sionista”, smascherando il mito della “terra senza popolo” coniato dal propagandista Israel Zangwill: uno slogan che negava l’esistenza del popolo arabo palestinese, ridotto al rango di “accampamento temporaneo” da far sgomberare a piacimento. In definitiva, la Nakba del 1948 fu la “soluzione finale” del problema demografico per il nascente Stato di Israele: “poiché la Palestina non era un paese deserto, i sionisti dovettero costringere gli arabi a lasciarlo” chiosa Gilmour. Ben-Gurion stesso, già nel 1937, aveva scritto nel suo diario che “il trasferimento coatto degli arabi […] va abbracciato con la stessa tenacia con cui abbiamo fatto nostra la Dichiarazione Balfour e, ancor più, il sionismo stesso”: e nel 1948, conclude amaramente Masalha, “è esattamente ciò che avvenne”.
CONSEGUENZE A LUNGO TERMINE DELLA NAKBA
Le ripercussioni della Nakba sul popolo palestinese sono state profonde e durature, plasmando la storia successiva del conflitto israelo-palestinese e l’identità stessa dei palestinesi. Innanzitutto, la Nakba creò la questione dei rifugiati palestinesi, una tragedia umanitaria e politica tuttora irrisolta. Entro il 1949, circa 750.000 profughi palestinesi si trovavano dispersi fuori dalle loro terre d’origine, nei campi profughi allestiti in Cisgiordania (allora sotto amministrazione giordana), nella Striscia di Gaza (sotto controllo egiziano), in Libano, Siria, Transgiordania e altrove. Intere comunità, villaggi e famiglie erano state smembrate. Le proprietà abbandonate, case, campi, oliveti, furono prontamente requisiti dallo Stato di Israele tramite leggi ad hoc (Absentees Property Laws), e redistribuiti ai cittadini ebrei o ai nuovi immigrati ebrei che affluivano da Europa e mondo arabo. Come notò l’osservatore israeliano Uri Avnery, “della vecchia società palestinese restavano solo polvere e macerie”. La mappa della Palestina fu ridisegnata: città come Jaffa, Acri, Lydda, Ramle persero la loro componente araba quasi integralmente; circa 400 villaggi rurali palestinesi furono fisicamente rasi al suolo o occupati da coloni ebrei, al punto che oggi spesso ne restano solo i ruderi di una moschea o di un cimitero, nascosti dalla vegetazione mediterranea. La toponomastica stessa fu cambiata, sostituendo i nomi arabi con nomi ebraici: un’intera geografia veniva cancellata e riscritta, nell’intento di eliminare perfino la memoria dell’esistenza palestinese su quella terra.
Sul piano politico, la Nakba segnò la scomparsa della comunità nazionale palestinese come entità organizzata, almeno temporaneamente. “Nel 1948 metà degli arabi della Palestina, circa 1,4 milioni di persone, furono sradicati dalle loro case e divennero rifugiati” riassume lo storico Rashid Khalidi; al contempo “la tradizionale leadership politica e sociale palestinese fu dispersa e screditata, e le strutture politiche che quella classe dominava vennero polverizzate, per non essere mai più ricostituite”. In effetti, molti leader palestinesi (notabili, parlamentari, attivisti) finirono in esilio o perdettero prestigio a causa della catastrofe, mentre i territori dove i palestinesi avrebbero potuto ancora aspirare a un proprio Stato, Gaza e Cisgiordania, furono annessi rispettivamente dall’Egitto e dalla Giordania nel 1949. Per quasi vent’anni dopo la Nakba, i palestinesi rimasero politicamente orfani: dispersi tra paesi diversi, spesso relegati ai margini, senza una rappresentanza unitaria. Fu solo negli anni ’60 che una nuova generazione avrebbe fatto nascere l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), tentando di ricostruire un movimento nazionale autonomo.
Eppure, paradossalmente, la Nakba lungi dal cancellare l’identità palestinese finì per rafforzarla nel lungo periodo. Il sentimento di uno scopo comune e di una storia condivisa emerse più forte dalle ceneri del 1948. “Invece di causarne l’assimilazione nei paesi ospitanti”, scrive Khalidi, “il trauma del 1948 rafforzò gli elementi identitari preesistenti, alimentando e consolidando una definizione di sé palestinese che era già presente”. Milioni di palestinesi in esilio, pur integrandosi in varia misura nelle società di Siria, Libano, Giordania o altrove, continuarono a sentirsi parte di un unico popolo con una missione: il ritorno in patria e la riconquista dei propri diritti. “Gli eventi condivisi del 1948 avvicinarono i palestinesi in termini di coscienza collettiva, divenendo una potente fonte di credenze e valori comuni”, prosegue Khalidi. Ovunque si trovassero, nei campi profughi di Gaza, nei sobborghi di Amman, nei quartieri di Beirut o nelle città della nuova Israele, i palestinesi tramandarono ai figli e ai nipoti la memoria della Nakba: i racconti dei villaggi perduti, le chiavi delle case lasciate, gli atti di proprietà custoditi gelosamente come simbolo di un diritto inviolato. Ancora oggi, a oltre 75 anni di distanza, la Nakba rimane “un argomento costante di discussione tra palestinesi di diverse provenienze e generazioni, e in ultima analisi una sorgente potente di convinzioni e valori condivisi”. Questa memoria collettiva del trauma ha cementato la coscienza nazionale palestinese, fungendo da collante identitario persino più delle istituzioni politiche (spesso fragili) o delle frontiere geografiche.
La Nakba ha anche avuto conseguenze geopolitiche di vasta portata. Il conflitto israelo-palestinese, inizialmente localizzato, assunse una dimensione regionale e internazionale proprio a causa della questione dei rifugiati e della radicalizzazione che ne seguì. I paesi arabi confinanti, che avevano subito una cocente sconfitta nel 1948, dovettero farsi carico di centinaia di migliaia di profughi, con pesanti oneri socio-economici e tensioni interne. La presenza di popolazioni palestinesi in Giordania, Libano e Siria influenzò la politica di quegli Stati per decenni (si pensi al Settembre Nero giordano del 1970, o al ruolo dei palestinesi nella guerra civile libanese). Sul piano diplomatico, la questione dei rifugiati divenne uno dei nodi centrali di ogni trattativa di pace: già nel dicembre 1948 le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 194, affermando che i profughi disposti a “vivere in pace con i loro vicini” avevano diritto di ritornare a casa al più presto, oppure di ricevere compensazioni. Israele però rifiutò sempre tale principio, temendo (anche comprensibilmente dal suo punto di vista nazionale) che il ritorno in massa degli arabi avrebbe snaturato il carattere ebraico dello Stato appena creato. Questo rifiuto, il “secondo crimine” di cui parlava Gilmour, fece sì che il dramma dei rifugiati rimanesse aperto e dolorante fino a oggi. Circa 5 milioni di palestinesi sono tuttora registrati come rifugiati presso l’UNRWA (l’agenzia ONU per i profughi palestinesi), sparsi tra Territori occupati, paesi arabi e diaspora globale.
Per lo Stato di Israele, la vittoria del 1948 fu completa sul piano territoriale, ma ne conseguì un conflitto permanente con il mondo arabo e con il popolo palestinese. La giovane Israele consolidò immediatamente la propria presa sui territori conquistati: tra il 1949 e il 1953 attuò politiche per giudaizzare il paesaggio, fondando nuove città e kibbutz sui siti arabi spopolati e promulgando leggi che espropriavano in massa le terre dei pochi arabi rimasti (quasi un milione di dunam di terreni fu confiscato ai cittadini arabo-israeliani tra il 1948 e il 1972). Tuttavia, la sicurezza restò un miraggio. Nei decenni successivi, la regione fu scossa da nuovi conflitti legati anche all’eredità della Nakba: la crisi di Suez del 1956 (durante la quale si verificarono ulteriori espulsioni e un massacro di civili a Kafr Qasim, in Israele, nell’ottobre 1956); la guerra dei Sei Giorni del 1967, che portò all’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza e a un secondo esodo di circa 300-400 mila palestinesi dalle nuove zone occupate; l’emergere della resistenza palestinese armata negli anni ’60 e ’70 (Settembre Nero, Guerra del Libano 1982, ecc.), fino alla prima Intifada del 1987 e oltre. La questione palestinese divenne così un conflitto di portata mondiale, con implicazioni durante la Guerra Fredda e coinvolgimento di grandi potenze, ma al cuore di essa rimaneva – e rimane tutt’oggi – la ferita aperta del 1948.
Dal punto di vista del popolo palestinese, la Nakba è molto più di un evento storico: è un’esperienza vissuta che si rinnova nelle generazioni. Ogni anno, il 15 maggio (anniversario del giorno successivo alla dichiarazione d’indipendenza di Israele) i palestinesi commemorano il “Giorno della Nakba”, in ricordo della loro catastrofe nazionale. In queste commemorazioni – con mostre, marce silenziose, chiavi simboliche esibite, affiora il racconto di ciò che la Nakba ha significato: la perdita della patria, l’angoscia dell’esilio, ma anche la perseveranza nell’identità e nella speranza del ritorno (al-‘awda). “La traumatica esperienza del 1948 e il suo impatto sui diversi segmenti del popolo palestinese è tuttora un tema comune di discussione […] e in definitiva una potente fonte di valori condivisi” ribadisce Khalidi. La Nakba è dunque una memoria viva che unisce i palestinesi nella diaspora come nei Territori Occupati, fungendo da pilastro della loro identità nazionale moderna. Paradossalmente, la catastrofe ha contribuito a forgiare la coscienza di sé del popolo palestinese come nazione distinta, con una narrazione storica comune di martirio e resilienza.
In conclusione, chiedersi “cos’è la Nakba?” significa entrare nel cuore della questione palestinese. La Nakba è la catastrofe fondativa per il popolo palestinese: è la distruzione nel 1948 di un’intera società, con violenze indicibili e ingiustizie mai riparate; è l’origine del lungo esilio e della statelessness (assenza di stato) di milioni di persone; è il trauma che ha ridefinito l’identità palestinese e, in buona parte, anche quella israeliana. La Nakba è un evento storico documentato con rigore – attraverso archivi, testimonianze, ricerche di storici israeliani, palestinesi e internazionali – ma è anche una ferita aperta, un dramma umano la cui eco risuona ancora oggi nei campi profughi di Gaza e Libano, come nei vicoli di Gerusalemme Est o nelle città della diaspora. Comprendere la Nakba significa capire perché il conflitto arabo-israeliano appare così intrattabile: al centro vi è il nodo irrisolto di un popolo che nel 1948 fu spogliato della propria terra e del proprio futuro, e che da allora rivendica riconoscimento, giustizia e il diritto a esistere come nazione libera. Come scrive lo storico Ilan Pappé, le pagine della Nakba “ci costringono a uscire dalla nostra pericolosa apatia e a guardare in faccia i crimini di guerra e contro l’umanità” commessi nel 1948.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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