Certamente i palestinesi non sono responsabili dello sterminio degli ebrei e, pertanto, non può essere invocato contro di loro. D’altra parte, stiamo assistendo ogni giorno al massacro dei palestinesi, ridotti ormai a dei cadaveri viventi, i cui figli malnutriti se non moriranno non si riprenderanno mai. Eppure, si insiste nel negare la parola genocidio, nonostante le esplicite dichiarazioni dei leader israeliani che intendono fare di Gaza tabula rasa. Per un paradosso storico gli stessi poteri che non mossero un dito per salvare gli ebrei dai campi di sterminio, cui sfuggirono pochi fortunati, stanno ora collaborando con Israele nel massacro dei palestinesi.
Molto rumore e scandalo suscitarono, vari anni fa, le dichiarazioni rilasciate in differenti occasioni dall’allora presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, in particolare quando, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University di New York nel 2007, affermò che a suo parere si dovrebbe ancora indagare sull’olocausto degli ebrei avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale. Traggo questa informazione da un articolo di Shlomo Shamir pubblicato da Haretz il 25 settembre 2007. Naturalmente, questa sua affermazione suscitò molte proteste negative tra i presenti e il preside dell’università, Lee Bollinger, intervenne definendo il presidente un “dittatore meschino e crudele”. A quella considerazione Ahmadinejad avrebbe aggiunto, che lo Stato sionista (avrebbe sempre usato questa espressione) ha sempre utilizzato le sofferenze subite per giustificare le sofferenze inflitte ai palestinesi, chiedendosi perché questi ultimi debbono pagare il prezzo di un crimine che non hanno commesso né potevano commettere?
Mi rendo conto che si tratta di un argomento molto delicato e complesso e che certo nessuno può negare l’olocausto che, tuttavia, come sappiamo, non riguardò solo gli ebrei, ma anche altri gruppi etnici (rom, slavi etc.), invalidi, dissidenti politici, etc. D’altra parte, scorrendo anche la stampa dell’epoca, non è facile stabilire cosa intendesse dire effettivamente Mahmoud Ahmadinejad in tutte quelle occasioni in cui fu invitato a parlare in Occidente. Bisognerebbe avere la versione originale dei suoi discorsi, i cui contenuti sono stati, probabilmente, manipolati da chi li riportava allo scopo di demonizzare l’Iran. Comunque, alla Columbia University alla domanda se auspicava la distruzione di Israele rispose: “Siamo amici del popolo ebraico, ci sono molti ebrei in Iran, che vivono in pace e sicurezza”, ribadendo che l’Iran ha solo l’intenzione di difendersi e non di aggredire. Aggiunse poi che, a suo parere, il conflitto israelo-palestinese potrebbe essere risolto solo consentendo al “popolo della Palestina” – ebrei, musulmani e cristiani – di decidere il proprio destino, probabilmente riferendosi a un ipotetico referendum che avrebbe dovuto essere celebrato dopo la famosa risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, numero 181. Come è noto, essa prevedeva l’assegnazione del 56,47 % del territorio a 500.000 ebrei e 325.000 arabi (poi divenuti arabi israeliani), il 43,53 % del territorio a 807.000 arabi e a 10.000 ebrei e lo status internazionale di Gerusalemme. Come sappiamo, ottenuta con minacce e pressioni sui membri dell’Assemblea, essa non fu mai pienamente attuata e di fatto dette il via alla costituzione del solo Stato di Israele che, in base alla sua legge nazionale, è definito lo Stato-nazione degli ebrei, escludendo così dalla nuova comunità e dai diritti elementari i non ebrei, in un certo senso dando ragione al presidente dell’Iran che lo definì appunto Stato sionista.
Molto si è discusso e ancora si discute sulla legalità di quella risoluzione, messa in questione dagli stessi sionisti che, tramite le parole di Menachem Begin, comandante dell’Irgun (Wikipedia lo definisce gruppo paramilitare terroristico), divenuto poi primo ministro, affermarono: “La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. La Grande Israele sarà ristabilita per il popolo di Israele. Tutta. E per sempre”. Da parte loro, gli arabi sostennero non a torto che la risoluzione dell’Assemblea non era vincolante e che violava il diritto all’autodeterminazione dei popoli, riconosciuto dalla stessa Carta fondativa dell’Onu. Le parole di Begin ci fanno concludere che non gli ebrei, ma i sionisti erano del tutto convinti che si sarebbero dovuti sterminare o deportare i palestinesi e si sarebbe dovuta impedire la formazione di una loro qualsiasi formazione politica autonoma. Progetto – oggi non si può negare – che Israele sta portando a termine con tutti i suoi mezzi e con tutta la sua ferocia, con l’appoggio del blocco euroatlantico e la sostanziale indifferenza dei Paesi arabi, con l’esclusione dello Yemen. Solo recentemente e per ragioni elettoralistiche e opportunistiche, dinanzi al quotidiano genocidio dei palestinesi, alcuni Paesi del blocco hanno cominciato a chiedere timidamente il riconoscimento di uno Stato palestinese, ora che non avrebbe nessun senso, essendo ormai evidente a tutti che il sionismo, un’autentica forma di razzismo, sostenuto dalle ambizioni imperialistiche Usa, costituisce l’unico ostacolo alla pacifica convivenza tra i popoli nel Medio Oriente. Razzismo inerente a tutte quelle concezioni che rimandano all’esistenza di un’essenza pura dei popoli, sia essa materiale o spirituale, ignorando che questi ultimi sono una creazione artificiale, frutto di complessi processi storici, tanto che Massimo d’Azeglio, senatore del Regno d’Italia, dopo la realizzazione dell’unità nazionale (1861), dichiarò in una frase famosa: “Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”. E sappiamo che non fu un fenomeno pacifico.
L’affermazione di Begin qui citata non costituisce un unicum; recentemente il ministro degli esteri israeliano Gideon Saar ha ripetuto: “non sarà mai creato uno Stato palestinese; l’offensiva contro Gaza non terminerà fino a che Hamas sarà al potere, non ci piegheremo a nessuna pressione”. Il suo contenuto distruttivo e aggressivo è stato esplicitamente ripetuto in altre forme tantissime volte da politici e militari israeliani e nei nostri civili Paesi non ha provocato tanto scandalo come le parole dell’ex presidente dell’Iran, giacché è stato giustificato con “la necessità di Israele di difendersi”. Dello stesso tono sono le recenti dichiarazioni del ministro israeliano Amihai Ben-Eliyahu (24 luglio) “Tutta Gaza sarà ebraica… il governo sta spingendo affinché Gaza venga cancellata. Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male e stiamo scacciando la popolazione che si è istruita sul Mein Kampf”. Queste parole non hanno fatto cambiare opinione a chi si rifiuta di impiegare la parola “genocidio” nel caso del brutale comportamento israeliano.
Salta agli occhi che queste dichiarazioni sono fondate sulla disumanizzazione degli avversari (i palestinesi sono animali o intrinsecamente criminali), meccanismo retorico presente in tutte le aggressioni coloniali e che come conseguenza provoca un paradossale ribaltamento descritto assai bene dall’autore di Discorso sul colonialismo (1955), Aimé Césaire, politico e poeta francese di origine caraibica. Questi scrive: “la colonizzazione… disumanizza anche l’uomo più civilizzato… l’azione coloniale, l’impresa coloniale, la conquista fondata sul disprezzo dell’uomo indigeno, e giustificata da questo disprezzo, tende, inevitabilmente a modificare colui che la intraprende. Il colonizzatore, per salvare la sua propria coscienza, si abitua a vedere nell’altro la bestia, si allena a trattarlo da bestia, e tende lui stesso a trasformarsi obbiettivamente in bestia”. Ma l’analisi di Césaire, che può non piacere a certuni, non si ferma qui: egli mette in evidenza altri due aspetti della civiltà coloniale europea. Individua il primo nell’atteggiamento contraddittorio che essa ha verso i suoi stessi valori (libertà, uguaglianza, fraternità): li identifica con la sua stessa essenza, per violarli costantemente quando sono in contraddizione con i suoi interessi. Ragione per cui, a suo parere, si tratta di una civiltà moribonda e decadente, proprio per il fatto che non prende sul serio i suoi stessi principi. Da queste e altre considerazioni l’autore francese giunge alla sconcertante conclusione secondo la quale il carattere barbarico della civiltà europea sarebbe profondamente radicato nella sua anima umanista e cristiana. Infatti, nella sua opinione il borghese umanista e cristiano del XX secolo “… porta dentro di sé un Hitler, nascosto, rimosso”, al quale non perdona, come dovrebbe, “… il crimine in sé, il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, e il fatto di aver applicato all’Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi di Algeria, ai coolie dell’India e ai neri dell’Africa” (2010: 49).
In definitiva, secondo il nostro autore, simpatizzante anche del surrealismo, ciò che ha suscitato orrore nei cuori degli europei è il fatto che alcuni di loro sono stati trattati come le potenze coloniali hanno sempre trattato i popoli sottomessi e conquistati, fatto giustificato per secoli dal mito della superiorità bianca e da quello della missione civilizzatrice assegnata da Dio alle cosiddette civiltà superiori, in realtà con l’opposizione di alcune menti lucide.
Tornando al presidente dell’Iran e alla sua affermazione sul fatto che i palestinesi stanno pagando per un delitto non commesso, è utile riflettere sulle responsabilità dell’olocausto non scaricabili del tutto sul governo nazista della Germania che, certamente, ne fu il massimo esecutore, ma che aveva alle spalle la lunghissima tradizione cristiana demonizzante il “popolo deicida”. A questo proposito è interessante un bellissimo film del regista greco Costa-Gravas del 2002 intitolato Amen (in ebraico “così sia”). In questa opera si racconta la storia di Kurt Gerstein, appartenente all’Istituto di Igiene delle Waffen-SS e personaggio storico realmente esistito, il quale scopre che nei campi di concentramento veniva utilizzato lo Zyklon B, un gas contenente acido prussico usato prima in via sperimentale per uccidere dei soldati sovietici e poi sistematicamente per sterminare gli ebrei e gli altri internati. Gerstein era un chimico e aveva impiegato questo veleno per depurare dai parassiti l’acqua destinata ai soldati tedeschi. Fra il 1942 e il 1945, questi, un uomo profondamente religioso, cercò di mettersi in contatto con i diplomatici dei governi alleati presenti in Svizzera, chiedendo che i loro eserciti bombardassero i binari dei treni con cui gli ebrei venivano deportati; con l’aiuto di un giovane gesuita, figura di fantasia, tenta anche di giungere a Pio XII, sollecitando un suo intervento, ma purtroppo resta inascoltato. Pertanto, si tratta di una storia in parte vera, narrata nel libro Il Vicario di Rolf Hochhuth, pubblicato nel 1963, cui si è ispirato Costa-Gravas per il suo film, documentata da Gerstein in un rapporto sugli eventi, da lui affidato ai militari alleati che lo catturarono. Fu trovato morto impiccato nella sua cella e non è stato mai chiarito se questo nazista pentito si fosse suicidato o fosse stato ucciso da altri membri delle SS che intendevano vendicarsi del suo tradimento.
In conclusione, raccontando questa tragica storia, il regista greco vuole mettere in luce le complicità che resero possibile l’esistenza dei campi di sterminio, fatto storico documentato anche da molti studiosi che hanno delineato le responsabilità del Vaticano e dei governi alleati, in particolare quello degli Usa, che dopo la guerra si apprestò a sabotare l’epurazione dei capi nazisti e fascisti responsabili di orribili crimini nei vari Paesi. Mi limito a ricordare il libro di Annie Lacroix Riz, La non-épuration en France. De 1943 aux années 1950 (2019), nel quale l’autrice sostiene la tesi che ad Algeri, dove risiedeva il Comitato francese di liberazione nazionale, Usa e Francia (De Gaulle) avevano concordato di impedire l’epurazione delle élite nazi-fasciste e di reintegrarle nella vita politica dopo la fine della guerra in funzione antisovietica. Fatto che si ripeté anche in Italia grazie all’interpretazione estesa della cosiddetta amnistia promulgata dal Palmiro Togliatti, per breve tempo ministro della Giustizia nel dopoguerra. Da non dimenticare, poi, che le grandi industrie Usa mantennero tutte le loro filiali nella Germania nazista e ricevevano i ricavati attraverso banche svizzere che gestivano anche l’oro sottratto agli ebrei e agli altri condannati.
Questa breve ricostruzione storica ci consente di fare un parallelismo tra i due olocausti-genocidi, purtroppo non certo gli unici che hanno puntellato la storia: in entrambi i casi troviamo che i complici sono gli stessi (con l’esclusione del Vaticano); infatti, il blocco degli Alleati, insensibili a ciò che stava avvenendo in Germania e nei Paesi da essa conquistati, corrisponde a tutti quei Paesi che hanno sostenuto le “ragioni” di Israele e lo hanno armato. Peggiore è il caso dell’Italia che aveva stretto il Patto d’acciaio con Germania e Giappone, e che fece sua la politica di sterminio degli ebrei. Quanto a Israele, l’Italia ha sempre mantenuto buone relazioni con lo Stato sionista, con cui intrattiene scambi economici e commerciali; in particolare, è stato recentemente approvato un nuovo decreto di cooperazione militare con lo Stato sionista, che stabilisce, tra l’altro, l’acquisto da parte del nostro Paese di sistemi di spionaggio.
Questa corrispondenza dovrebbe colpirci? No, perché è frutto dell’atteggiamento indifferente e al tempo stesso spietato verso quei gruppi che non sono strategicamente importanti sullo scenario internazionale. Ma bisogna fare una distinzione, dato che 110.000 ebrei, nonostante le restrizioni imposte dalle leggi Usa, emigrarono tra gli anni 1933-1940 in quel Paese grazie ad appoggi e a una migliore situazione finanziaria. Lì alcuni di essi entrarono a far parte dell’élite dominante, economica, finanziaria, culturale, cui si erano già integrati sin dalle migrazioni precedenti. Lo stesso avvenne a quegli ebrei che furono in grado di comprare merci tedesche da portare con sé insieme ai propri oggetti personali in Palestina sotto mandato britannico. Questi ultimi dovevano stanziare 5.000 dollari (valore 1939), cui il 39% era destinato alla nuova comunità, mentre il 41% restava di loro proprietà. Con questo patto (Haavara = trasferimento), criticato da molti sionisti che lo considerarono un tradimento, più di 60.000 ebrei emigrarono in Palestina, alterando gli equilibri demografici di quella disgraziata terra.
Questi accordi, che erano risultato di un patto tra il regime nazista e la Federazione ebraica sionista e durarono tra il 1933 e il 1939, erano gestiti dalla Banca anglo-palestinese. Essi e i tragici eventi successivi costituirono il congegno che fece scattare un altro meccanismo, di cui ci parla Primo Levi: “Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”.
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