lunedì 11 agosto 2025

I COLONI ISRAELIANI: DALLE RADICI DEL SIONISMO ALLA REALTÀ CONTEMPORANEA - Lavinia Marchetti

Da: Lavinia Marchetti - Lavinia Marchetti 

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Una breve sintesi del fenomeno dei coloni israeliani. Ovviamente è lungo per facebook e breve per un manuale. Viene dai miei appunti e credo possa essere utile per un approccio minimo del fenomeno. Ci sono cose che mancano e cose più sviluppate, non vuole essere il "bignami" di un libro di testo, ma un elenco di fatti che io ho ritenuto fondamentali per comprendere il fenomeno.
 (Lavinia Marchetti)


1. Origini storiche e identità  

Il termine coloni (mitnahalim, in ebraico moderno) designa oggi i cittadini israeliani residenti in insediamenti civili costruiti nei territori occupati da Israele dopo la guerra del giugno 1967, con particolare concentrazione in Cisgiordania, Gerusalemme Est e, fino al ritiro del 2005, nella Striscia di Gaza. La genealogia di questo fenomeno non si esaurisce nella contemporaneità: le sue radici affondano nelle prime migrazioni organizzate del sionismo politico, a cavallo fra XIX e XX secolo. Con la Prima Aliyah (1882-1903) giunsero in Palestina, allora provincia dell’Impero ottomano, gruppi di ebrei ashkenaziti provenienti in gran parte dall’Impero russo e dall’Europa orientale. Essi fondarono i primi moshavim e kibbutzim, insediamenti agricoli collettivi o cooperativi concepiti come avamposti strategici per l’affermazione di una presenza stabile. 

Ilan Pappé sottolinea:
“Fin dalle prime ondate, l’obiettivo era quello di creare una presenza ebraica esclusiva su porzioni di territorio, in modo da stabilire un controllo demografico che avrebbe reso irreversibile la colonizzazione” (Dieci miti su Israele, p. 45). 

Questi insediamenti iniziali erano sostenuti da una complessa rete filantropica ebraica, che includeva famiglie come i Rothschild, e da strumenti politici e finanziari come il Fondo Nazionale Ebraico (1901) e, dal 1920, l’Agenzia Ebraica. Le acquisizioni di terre avvenivano spesso da proprietari assenti, con il conseguente sfratto immediato di comunità contadine palestinesi. Benny Morris osserva:
“Le terre acquistate diventavano per statuto proprietà inalienabile del popolo ebraico, e nessun arabo vi poteva vivere o lavorare” (Vittime, p. 62). 

Fonti successive confermano che già in questa fase l’insediamento agricolo possedeva una funzione duplice e integrata: da un lato economica, garantendo la produzione e l’autosufficienza alimentare delle comunità ebraiche, dall’altro paramilitare, fungendo da elemento cardine di un disegno strategico di occupazione e controllo territoriale. I kibbutzim e i moshavim, oltre a centri di lavoro agricolo collettivo, venivano pianificati come presidi fortificati, dotati di punti di osservazione, torri di guardia, magazzini di armi leggere e sistemi di allerta rapida. Testimonianze di pionieri e documenti dell’epoca mandatale britannica, riportati in archivi dell’Agenzia Ebraica e in studi di storici come Anita Shapira e Tom Segev, descrivono in dettaglio come le recinzioni, le strade di collegamento e la disposizione delle fattorie lungo crinali e assi viari strategici costituissero un vero e proprio “sistema di sicurezza coloniale”. Questo assetto serviva a consolidare il controllo sul territorio, a rendere visibile e permanente la presenza ebraica e a dissuadere o impedire qualsiasi ritorno delle popolazioni arabe sfollate, in linea con l’obiettivo dichiarato da leader del movimento sionista di “creare fatti compiuti” sul terreno. 

2. L’ispirazione socialista e le sue contraddizioni 

Una parte rilevante del primo insediamento sionista si nutriva di modelli socialisti e collettivisti, in un contesto segnato dall’influenza delle correnti europee di fine Ottocento e dall’esperienza diretta dei pionieri provenienti dall’Impero russo, spesso formati in circoli socialisti o bundisti. I kibbutzim adottavano la proprietà comune della terra, la ripartizione egualitaria del lavoro, la gestione assembleare e una rigorosa disciplina comunitaria che regolava i cicli produttivi e le scelte economiche. Nei moshavim, pur ammettendo la proprietà privata delle abitazioni e di piccole parcelle agricole, la cooperazione si realizzava negli acquisti collettivi, nella condivisione di attrezzature e nella commercializzazione congiunta dei prodotti. 

Questa visione, incarnata dal movimento laburista sionista e da figure come David Ben Gurion, mirava a creare una “società nuova” in Palestina, fondata sul lavoro agricolo come valore etico e politico. Herzl, pur distante dal socialismo, considerava il lavoro comunitario un mezzo per radicare il progetto nazionale nel territorio e “rigenerare” un popolo percepito come disperso e urbanizzato (Concetto, finalità e metodo del sionismo). Come annota Anita Shapira nei suoi studi, questa ingegneria sociale si basava su una saldatura fra ideali di eguaglianza interna e obiettivi di conquista territoriale. 

Ma, come osserva Pappé:
“L’eguaglianza valeva soltanto all’interno della comunità ebraica. I palestinesi erano sistematicamente esclusi dal lavoro, dalla terra e dall’uguaglianza che il progetto proclamava” (Dieci miti su Israele, p. 52). 

Il principio della “conquista del lavoro” (kibbush ha’avoda), teorizzato già negli anni Venti, significava rifiutare ogni impiego di manodopera araba, anche se più economica, al fine di affermare l’autosufficienza ebraica e sostituire progressivamente i lavoratori locali con immigrati ebrei. Tikva Honig-Parnass ha definito questo modello “socialismo coloniale”: una solidarietà interna alla comunità ebraica accompagnata da segregazione etnica, espropriazione e esclusione sistematica (False Prophets of Peace, p. 14). La retorica egalitaria si intrecciava così con pratiche di esclusione, conferendo all’utopia socialista del movimento insediativo una funzione strumentale all’espansione coloniale, come documentano fonti dell’Histadrut e rapporti britannici dell’epoca che segnalavano l’impatto di queste politiche sul mercato del lavoro palestinese. 

3. Dal Mandato britannico al 1967 

Durante il Mandato britannico (1920-1948), la rete di insediamenti ebraici si ampliò e si diversificò, assumendo contemporaneamente funzioni agricole, politiche e militari. Il periodo fu caratterizzato da un’accelerazione della colonizzazione di popolamento, favorita sia dalle politiche britanniche ambivalenti, come esplicitato nella Dichiarazione Balfour del 1917 e nelle successive oscillazioni tra Libro Bianco e concessioni agli organi sionisti, sia dalla crescente conflittualità intercomunitaria. Gli avamposti-torre e palizzata (hebronim) che sorsero negli anni Trenta non erano semplici fattorie fortificate, ma parte di un progetto organico di presidio territoriale: torri di avvistamento, barriere in legno e filo spinato, magazzini per rifornimenti e armi, collegamenti radio per la difesa. Queste strutture, spesso erette in una notte per creare “fatti compiuti”, rispondevano a una logica sia di deterrenza militare contro eventuali attacchi arabi, sia di affermazione concreta della presenza ebraica in aree contese. 

Baylis Thomas sintetizza:
“L’insediamento civile è stato lo strumento più efficace del sionismo per affermare il controllo territoriale: una volta piantata una comunità armata e infrastrutturata, la sua rimozione diventa quasi impossibile” (The Dark Side of Zionism, p. 89). 

Studi come quelli di Walid Khalidi e Rashid Khalidi evidenziano come il Mandato vide un’espansione sistematica delle infrastrutture insediative — strade, acquedotti, linee elettriche — integrate in una rete funzionale alla futura statualità ebraica. Con la nascita di Israele nel maggio del 1948, a seguito della fine del Mandato britannico e della guerra arabo-israeliana, molti di questi insediamenti vennero inglobati entro i confini dello Stato proclamato, fungendo da nuclei produttivi e difensivi per consolidare il controllo su vaste aree agricole e strategiche. La nuova amministrazione israeliana integrò tali comunità nella rete infrastrutturale e difensiva nazionale, rafforzandone la funzione di presidio. 

Parallelamente, la Nakba, termine con cui i palestinesi designano l’esodo forzato e la distruzione sistematica di centinaia di villaggi, cancellò fisicamente e giuridicamente le comunità arabe preesistenti. I terreni e le abitazioni abbandonati o confiscati furono riassegnati, in applicazione di leggi come quella sulle proprietà degli assenti del 1950, a nuove comunità ebraiche o a cooperative agricole, spesso sorte sulle rovine degli insediamenti palestinesi. La guerra del giugno 1967 aprì una nuova fase: la logica dell’insediamento si estese oltre la Linea Verde, inaugurando un paradigma di colonizzazione che univa in modo ancora più stretto il potere militare all’espansione civile. Per gli abitanti palestinesi delle aree occupate questo significò l’avvio di una nuova stagione di espropri, demolizioni e controllo capillare della vita quotidiana. Terreni agricoli e pascoli furono confiscati per far posto a infrastrutture riservate ai coloni; posti di blocco, coprifuoco e restrizioni alla libertà di movimento divennero parte integrante dell’esperienza quotidiana, frammentando il tessuto sociale ed economico locale. Gli avamposti, inizialmente istituiti come presidi militari, vennero trasformati in centri abitativi permanenti, sostenuti da incentivi economici statali, agevolazioni fiscali e protezione armata. 

Parallelamente, si svilupparono forme di resistenza palestinese che andavano dall’organizzazione di comitati popolari contro le confische di terra, alla documentazione e denuncia internazionale delle violazioni, fino a manifestazioni e scioperi generali, come la celebre mobilitazione della Giornata della Terra del 1976. Questa fase segnò l’inizio di una resistenza radicata sia nella difesa del territorio sia nella riaffermazione dell’identità nazionale palestinese di fronte a un processo di colonizzazione intensificato e istituzionalizzato. 

4. La svolta post-1967 

Dopo la guerra dei Sei Giorni (5, 10 giugno 1967) e l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme Est, di Gaza, delle Alture del Golan e del Sinai, i governi israeliani misero a punto una strategia di colonizzazione civile graduale ma continuativa. Nel 1967 circolarono i primi schemi di pianificazione strategica (tra cui il cosiddetto “Piano Allon”), che prevedevano l’installazione di insediamenti agricoli e paramilitari nelle aree ritenute vitali per la sicurezza, Giordano, dorsale centrale, cintura attorno a Gerusalemme, e la preservazione di corridoi di annessione de facto. 

Nascite e tappe iniziali (1967–1977). Subito dopo la guerra furono ricostituite comunità precedenti al 1948 (Kfar Etzion, settembre 1967) e creati nuovi avamposti: Mehola (Valle del Giordano, 1968), Kiryat Arba accanto a Hebron (1970 formalizzata, con presenza già dal 1968), Ariel (avvio 1978 su decisioni precedenti). Molti insediamenti vennero avviati come “nuclei militari” (naḥal) o basi “temporanee”, poi convertiti in comunità civili. Dal 1974 prese forma Gush Emunim, movimento di colonizzazione ideologica che promosse azioni di fatto compiuto: l’occupazione del sito di Sebastia (1975–1976) costrinse il governo Rabin a regolarizzare Ofra (1975) e altri nuclei. Zertal ed Eldar hanno sintetizzato l’ideologia del movimento:
“Per Gush Emunim, la Cisgiordania non era un territorio occupato, ma parte integrante della Terra di Israele promessa da Dio, e perciò doveva essere popolata esclusivamente da ebrei” (Lords of the Land, p. 54). 

Strumenti giuridico-amministrativi. Tra il 1967 e i primi anni Ottanta, una serie di ordini militari ridefinì lo status della terra in Cisgiordania e Gaza: l’Ordine 59 (1967) istituì il “Custode della proprietà di Stato” e la categoria di “terra demaniale”; l’Ordine 58 (1967) regolò la cosiddetta “proprietà degli assenti”; l’Ordine 291 (1968) sospese i procedimenti catastali ottomani/mandatali; l’Ordine 418 (1971) smantellò i consigli di pianificazione locali, trasferendo i poteri alla Amministrazione Civile militare. Nel 1979, in seguito alla sentenza della Corte Suprema israeliana su Elon Moreh, l’esercito limitò l’uso della “requisizione per necessità militari”, e si passò in modo sistematico alla dichiarazione di “State Land” (1979–1984) per legalizzare o ampliare insediamenti. Nel 1981 venne istituita formalmente l’Amministrazione Civile nei Territori, che accentuò il controllo israeliano su pianificazione, permessi e uso dei suoli. 

Gerusalemme Est e le “cinture” insediative. 
Dopo l’annessione unilaterale e l’ampliamento municipale del giugno 1967, gli anni Settanta–Ottanta videro la costruzione di quartieri/insediamenti in cerchi attorno alla città storica: Ramat Eshkol, Gilo, Ramot, Neve Ya’akov e poi Pisgat Ze’ev e Giv’at Ze’ev, connessi da tangenziali e “strade di bypass” per i coloni. 

Dagli anni Ottanta a Oslo. Tra il 1977 e il 1992, con i governi Begin e successori, la colonizzazione accelerò: nacquero i grandi blocchi della Samaria centrale (Ariel) e della dorsale Binyamin (Ofra, Beit El), mentre si consolidavano gli insediamenti nella Valle del Giordano. L’Intifada del 1987 segnò la risposta popolare palestinese a occupazione e colonizzazione (scioperi generali, boicottaggi, reti di comitati locali). 

Oslo e la ristrutturazione del controllo (1993–1995). 
Gli Accordi Oslo I (1993) e Oslo II (1995) introdussero le Aree A/B/C: circa il 60 per cento della Cisgiordania divenne Area C, sotto pieno controllo israeliano di sicurezza e pianificazione. In tale area furono concentrate espansioni insediative, “strade di collegamento” e zone industriali, con sistemi di permessi che limitarono l’edilizia palestinese e facilitarono demolizioni per “costruzioni senza licenza”. 

Outpost e “fatti compiuti” (anni ’90–2000). 
A fianco degli insediamenti ufficiali sorsero avamposti non autorizzati, spesso con infrastrutture pubbliche e protezione militare. Il Rapporto Sasson (2005) documentò il sostegno istituzionale a tali avamposti. Nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia qualificò la barriera e il regime connesso come contrari al diritto internazionale, ricordando che i trasferimenti di popolazione della Potenza occupante violano l’art. 49(6) della IV Convenzione di Ginevra. 

Quadro internazionale. 
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU (ad es. 446/1979, 465/1980, 2334/2016) hanno qualificato gli insediamenti come privi di validità legale e ostacolo alla pace. 

5. Violenza documentata e impunità 

La violenza dei coloni contro i palestinesi è ampiamente attestata da organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani. Tra gli episodi e le dinamiche più rilevanti:
1975–1976, Sebastia/Ofra: in questo biennio si svolsero azioni simboliche e conflittuali che segnarono una svolta per la colonizzazione ideologica. Militanti di Gush Emunim occuparono terreni a Sebastia, in Samaria, rivendicandoli come parte della “Terra d’Israele”. Le occupazioni riguardarono sia aree private palestinesi sia terreni pubblici secondo la legge militare. Dopo settimane di accampamenti, scontri con l’esercito e negoziati politici, il governo Rabin accettò un compromesso che portò alla regolarizzazione dell’insediamento di Ofra (1975). Questo episodio dimostrò come azioni di fatto compiuto potessero influenzare la politica ufficiale. 

1979, Elon Moreh: la Corte Suprema israeliana, nella storica sentenza “Duweikat et al. v. Governo d’Israele”, stabilì che le requisizioni di terra per “necessità militari” non potevano giustificare la creazione di insediamenti civili permanenti. In risposta, il governo adottò la strategia di dichiarare vaste aree come “State Land” basandosi su interpretazioni del diritto ottomano, provocando nuove confische in particolare nella zona di Nablus e tensioni diffuse con la popolazione locale. 

1994, Massacro di Hebron: 
il 25 febbraio, durante il mese sacro di Ramadan, il colono Baruch Goldstein entrò armato nella Moschea di Abramo uccidendo 29 fedeli musulmani e ferendone oltre un centinaio. L’attacco portò a violenti scontri, a una prolungata chiusura del centro storico e alla successiva firma del Protocollo di Hebron (1997), che divise la città in zona H1 sotto controllo palestinese e zona H2 sotto controllo israeliano, mantenendo Shuhadá Street chiusa per decenni al traffico e alla presenza palestinese. 

2000–oggi, price tag” e aggressioni ai civili: 
a partire dalla Seconda Intifada, gruppi di coloni radicali hanno sviluppato la tattica del “tag prezzo” (price tag), ovvero atti di vandalismo, incendi di campi e moschee, danneggiamento di veicoli, attacchi a pastori e scuole rurali, per “punire” le comunità palestinesi e scoraggiare ogni resistenza. Secondo dati di ONG israeliane, la percentuale di indagini che si conclude con una condanna è estremamente bassa rispetto a crimini analoghi commessi da palestinesi. 

2023, Huwara: 
il 26 febbraio, dopo l’uccisione di due coloni, centinaia di coloni hanno compiuto spedizioni punitive nel villaggio di Huwara, incendiando case, negozi e veicoli, uccidendo un palestinese e ferendone decine. B’Tselem ha definito l’episodio un “pogrom”, sottolineando la complicità passiva o attiva delle forze armate presenti. 

Sistemi di intimidazione strutturale: 
comprendono la creazione di posti di blocco improvvisati da parte di coloni, ronde armate che pattugliano le strade rurali, espulsione di intere comunità pastorali soprattutto nelle colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano, e attacchi stagionali a uliveti e sorgenti d’acqua, spesso documentati da osservatori internazionali e israeliani come strumenti di pressione per forzare lo spostamento delle comunità palestinesi. 

Michael Sfard osserva:
“L’impunità è sistemica: le indagini sono rare, le condanne ancora più rare, e il messaggio è chiaro — la violenza dei coloni è uno strumento tollerato del progetto di controllo territoriale” (The Wall and the Gate, p. 217). 

Lettura d’insieme. 
Dal 1967 a oggi, strumenti giuridici (ordini militari, dichiarazioni di “State Land”), infrastrutture dedicate (bypass roads, zone industriali), incentivi economici e coperture politiche hanno reso la colonizzazione un processo cumulativo. La violenza dei coloni agisce come vettore di pressione territoriale e demografica, mentre il regime amministrativo in Area C, permessi, demolizioni, pianificazione, produce una frammentazione che ostacola continuità territoriale e vita economica palestinese, in coerenza con gli obiettivi dichiarati e impliciti dei promotori della colonizzazione. 

6. Dati e situazione attuale 

Oggi oltre 700.000 coloni vivono in più di 270 insediamenti ufficiali e in numerosi avamposti illegali in Cisgiordania e Gerusalemme Est (Peace Now, 2023). Questa rete insediativa è connessa da un sistema di strade riservate al traffico dei coloni, vietate ai palestinesi, che si intreccia con check point e basi militari permanenti, producendo una frammentazione fisica e amministrativa del territorio palestinese. Per la popolazione locale questo significa vivere in un mosaico di enclave separate, dove spostarsi per andare al lavoro, a scuola o a curarsi può richiedere ore, con controlli continui, trattenimenti arbitrari e umiliazioni ripetute ai posti di blocco. Intere comunità rurali sono isolate dai loro terreni agricoli e da fonti d’acqua, con conseguenze dirette sulla sicurezza alimentare e sulla sopravvivenza economica. 

Le politiche di espansione e protezione degli insediamenti, unite a una costante pressione fisica e psicologica esercitata da episodi di violenza e intimidazione, sono riconosciute da storici e osservatori come uno dei fattori strutturali che hanno alimentato il ciclo di tensioni culminato anche negli eventi del 7 ottobre 2023. La percezione palestinese di un’occupazione senza fine e di un’espropriazione sistematica della terra ha consolidato un sentimento di esasperazione e disperazione, creando un contesto in cui i gruppi armati hanno trovato terreno fertile per giustificare e rivendicare azioni violente. 

Ancora oggi, nelle aree rurali della Cisgiordania, si registrano episodi quotidiani di aggressioni da parte di coloni contro contadini e pastori, distruzione di coltivazioni, avvelenamento di pozzi o ostruzione dell’accesso a fonti d’acqua, spesso in presenza o con la protezione implicita delle forze armate israeliane. Nei centri urbani come Hebron, la convivenza forzata con piccoli nuclei di coloni nel cuore della città si traduce in restrizioni severe alla circolazione palestinese, militarizzazione estrema e chiusura di intere vie commerciali. 

Nonostante queste condizioni, si sviluppano forme di resistenza che vanno dal ricorso legale per contestare confische e demolizioni, alla mobilitazione popolare nei villaggi come Bil’in e Nabi Saleh contro il muro e l’espansione coloniale, fino a reti di solidarietà agricola e di documentazione delle violazioni da parte di ONG palestinesi e internazionali. Queste iniziative, pur svolgendosi in un contesto di forte disparità di potere, mantengono vivo il legame con la terra e l’identità nazionale. 

Raja Shehadeh descrive:
“Le colline un tempo percorse da pastori e contadini sono state coronate da insediamenti recintati, strade sopraelevate e torri di guardia, cancellando secoli di continuità rurale palestinese” (Palestinian Walks, p. 101). 

7. Conclusione 

Il fenomeno dei coloni non può essere letto come una semplice conseguenza del conflitto arabo-israeliano o come un effetto collaterale di dinamiche di sicurezza. È, piuttosto, un dispositivo centrale di un progetto coloniale di popolamento che, come mostrano studiosi di settori diversi, dalla storia alla sociologia politica, poggia su tre pilastri: l’appropriazione materiale della terra, la cancellazione simbolica della presenza indigena e l’istituzionalizzazione dell’impunità. Patrick Wolfe, analizzando casi storici in contesti diversi, definiva il colonialismo d’insediamento come una struttura “non un evento” (Settler Colonialism and the Transformation of Anthropology, 1999), ossia un meccanismo permanente che si auto-rigenera. Questa chiave di lettura si applica perfettamente alla vicenda della colonizzazione sionista. 

L’intreccio tra religione e colonizzazione, evidente nel linguaggio biblico di Gush Emunim e nei riferimenti alla “redenzione della terra”, fornisce una legittimazione trascendente all’esproprio, spostando il discorso politico sul terreno della promessa divina. In questo quadro, l’avversario non è solo un ostacolo materiale, ma un intruso sacrilego. La saldatura tra messianismo religioso e nazionalismo etnico ha prodotto una forma di mobilitazione totale: lo Stato, pur formalmente laico, ha incorporato nel proprio apparato militare, legislativo e giudiziario le istanze di gruppi religiosi radicali. 

La violenza coloniale, come hanno osservato Fanon e più recentemente Achille Mbembe, non si limita alla sfera fisica. Essa modella il tempo, lo spazio e la percezione del possibile. I coloni, protetti da un esercito regolare, agiscono come braccio informale del potere statale: attacchi ai villaggi, distruzione di coltivazioni, blocchi stradali, incursioni armate. Episodi come il massacro di Baruch Goldstein a Hebron (1994) o i pogrom di Huwara nel 2023 non sono deviazioni, ma momenti rivelatori di una continuità strutturale. L’impunità non è una falla del sistema, bensì una sua funzione: come documenta Yesh Din, oltre il 90% delle denunce contro coloni per violenze in Cisgiordania viene archiviato senza incriminazioni.
In questo contesto, la resistenza palestinese – armata o civile – si inscrive in una lotta per la sopravvivenza. Le manifestazioni settimanali di Bil’in e Nabi Saleh, le campagne di ri-piantumazione degli ulivi distrutti, il lavoro di documentazione di ONG locali come Al-Haq, costituiscono tentativi di sottrarre alla colonizzazione lo spazio e la memoria. 

Da un punto di vista filosofico-politico, l’esperienza dei coloni mette in questione l’idea stessa di diritto internazionale come argine all’espansione territoriale. Nonostante decenni di risoluzioni ONU che definiscono illegali gli insediamenti (a partire dalla Risoluzione 242 del 1967 fino alla 2334 del 2016), la colonizzazione è avanzata in modo costante. Come sottolinea Rashid Khalidi in The Hundred Years’ War on Palestine (2020), il nodo non è solo giuridico, ma di rapporti di forza: un ordine mondiale che tollera l’annessione di fatto, quando compiuta da un alleato strategico, svuota di senso la nozione di legalità internazionale.

Pensatori come Edward Said e Ilan Pappé hanno invitato a considerare la questione dei coloni non come un “dossier” negoziabile, ma come il cuore stesso della questione palestinese: la rimozione sistematica di un popolo dalla propria terra. Qualsiasi processo di pace che non affronti questa realtà – nella sua dimensione materiale, simbolica e storica – è destinato a perpetuare il conflitto sotto altre forme. 

Bibliografia essenziale 

• Pappé, Ilan, Dieci miti su Israele, Fazi Editore, 2018.
• Pappé, Ilan, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld, 2006.
• Morris, Benny, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, 2001.
• Honig-Parnass, Tikva, False Prophets of Peace: Liberal Zionism and the Struggle for Palestine, Haymarket, 2011.
• Zertal, Idith; Eldar Akiva, Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007, Nation Books, 2007.
• Wolfe, Patrick, Settler Colonialism and the Transformation of Anthropology, Cassell, 1999.
• Veracini, Lorenzo, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, 2010.
• Weizman, Eyal, Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation, Verso, 2007.
• Yiftachel, Oren, Ethnocracy: Land and Identity Politics in Israel/Palestine, University of Pennsylvania Press, 2006.
• Gordon, Neve, Israel’s Occupation, University of California Press, 2008.
• Roy, Sara, The Gaza Strip: The Political Economy of De-development, Institute for Palestine Studies, 2016.
• Khalidi, Rashid, The Hundred Years’ War on Palestine, Profile Books, 2020.
• Masalha, Nur, Expulsion of the Palestinians: The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought, 1882-1948, Institute for Palestine Studies, 1992.
• Said, Edward W., The Question of Palestine, Vintage, 1992.
• Azoulay, Ariella, Civil Imagination: A Political Ontology of Photography, Verso, 2012.

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