Leggi
anche: Bauman:
"Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non
costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera
Chiarezza - Shlomo Sand
Chiarezza - Shlomo Sand
Vedi anche: https://www.dailymotion.com/video/xto7ir_sabra-e-chatila-trent-anni-fa-il-massacro_news?
Ellen Siegel ricorda l'orrore del massacro di Sabra e Shatila https://www.youtube.com/watch?v=-7iW2BpId5g
Nel settembre 1982, Jean Genet (nella foto) accompagna a Beirut Layla Shahid, eletta presidente dell’Unione degli studenti palestinesi. Il 16 settembre si consuma il massacro di Sabra e Chatila da parte delle milizie libanesi, con l’attiva complicità dell’esercito israeliano che aveva invaso e occupato il Libano. Il 19 settembre Genet è il primo europeo a entrare nel campo di Chatila. Nei mesi successivi scrive “Quattro ore a Chatila”, pubblicata nel gennaio 1983 nella Revue d’études palestiniens.
Questo magnifico testo, requisitoria implacabile contro i responsabili dell’atroce atto di barbarie, non comincia con la descrizione del massacro. Comincia col ricordo dei sei mesi passati nei campi palestinesi coi fedayn, dieci anni prima del massacro di Sabra e Chatila
“A Chatila, a Sabra, dei non-ebrei hanno ucciso dei non-ebrei,
la cosa non ci riguarda”. Menahem Begin alla Knesset
Nessuno e niente, nessuna tecnica del racconto, potrà dire cosa furono i sei mesi passati dai fedayn sulle montagne di Jerash e di Ajloun in Giordania, e soprattutto le prime settimane. Altri hanno scritto un resoconto degli avvenimenti, la cronologia, i successi e gli errori dell’OLP. L’aria del tempo, il colore del cielo, della terra e degli alberi, lo si potrà anche descrivere, ma non si potrà far sentire la leggera ebrezza, il camminare sulla polvere, lo sfavillio degli occhi, la lealtà dei rapporti, non solo tra fedayn ma anche tra loro e i capi. Tutti, tutti, sotto gli alberi erano frementi, scherzosi, stupiti da una vita così nuova per tutti, e in questi fremiti qualcosa di stranamente fisso, in agguato, protetto, riservato come qualcuno che prega senza parlare. Tutto era di tutti. Ognuno in sé stesso era solo. E forse no. Insomma sorridente e stralunato. La regione giordana dove avevano ripiegato, per scelta politica, era un perimetro che si allungava dalla frontiera siriana fino a Sait, delimitata dal Giordano e dalla strada da Jerash a Irbid. Una striscia lunga circa sessanta chilometri, profonda venti, in una regione assai montagnosa ricoperta di querce verdi, disseminata di piccoli villaggi giordani e una terra poco fertile. Nei boschi e sotto le tende mimetizzate, i fedayn avevano allocato alcune unità di combattenti e delle armi leggere e semi pesanti. Appena arrivati, dispiegata l’artiglieria soprattutto contro eventuali operazioni giordane, i giovani soldati si occupavano delle armi, le smontavano per pulirle, le ingrassavano e le rimontavano in modo velocissimo. Qualcuno riusciva perfino a smontare e rimontarle con gli occhi bendati, così avrebbe potuto farlo anche di notte. Tra ciascun soldato e la sua arma si era stabilito un rapporto amorevole e magico, e siccome i fedayn erano poco più che adolescenti, il fucile era il segno della virilità trionfante, e dava loro certezza. L’aggressività cedeva il posto ai sorrisi.
Tutto il resto del tempo i fedayn bevevano il tè, criticavano i loro capi e le persone ricche, palestinesi e altro, insultavano Israele, ma parlavano soprattutto della rivoluzione, di quella che facevano e quella che avrebbero fatto.
Per me, ogni volta che vedo la parola “palestinese”, che sia in un titolo, nel corpo di un articolo, su un volantino, esso evoca immediatamente i fedayn in un luogo preciso – la Giordania – e un tempo che si può facilmente datare ottobre, novembre, dicembre 1970, gennaio, febbraio, marzo, aprile 1971. E’ stato allora che io ho conosciuto la Rivoluzione palestinese. La straordinaria evidenza di quanto accadeva, la forza di questo benessere hanno anche un altro nome: bellezza.
Sono passati dieci anni e non ho saputo più niente di loro, salvo che i fedayn erano in Libano. La stampa europea parlava con disinvoltura del popolo palestinese, anche con disprezzo. E improvvisamente, Beirut ovest.