domenica 13 novembre 2016

Lenin lettore di Hegel*- Stathis Kouvélakis

*Da:     https://traduzionimarxiste.wordpress.com/        Link all’articolo in francese Période

 
Come spiegare il fatto che al cospetto del disastro della Prima guerra mondiale Lenin si sia ritirato per dedicarsi allo studio della Logica di Hegel? Si tratta di un interrogativo che non ha cessato di turbare il marxismo del primo dopoguerra. Secondo Stathis Kouvelakis, svelare l’enigma dei Quaderni filosofici di Lenin, manoscritti frammentari ed eterogenei, equivale a pensare questo testo come una rettifica del pensiero del movimento operaio europeo. Vero e proprio presupposto alla sua riflessione strategica, la quale condurrà all’Ottobre 1917, il lavoro di Lenin segna un rigetto del positivismo, del meccanicismo e del materialismo volgare della Seconda internazionale. Tale ritorno a Hegel implica una rinnovata istanza rispetto alla dimensione pratica della conoscenza, alla dialettica di salti e inversioni, o ancora, all’attività in quanto processo sociale. Di fronte al crollo della socialdemocrazia, alla necessità di una ripresa, una deviazione nel campo della teoria si rende talvolta indispensabile al fine di poter ricominciare.


Il disastro

Irruzione del massacro di massa nel cuore dei paesi imperialisti dopo un secolo di relativa «pace» interna, il momento della prima guerra mondiale è anche quello del crollo del suo oppositore storico, il movimento operaio europeo, essenzialmente organizzato nella Seconda internazionale. In questo senso, appare adeguata la definizione di «disastro», termine utilizzato da Badiou per significare l’esaurimento della verità di una forma della politica emancipatrice testimoniata da un altro crollo, più recente, ossia quello dei regimi «comunisti» dell’Europa dell’est (1). Considerando che questo secondo disastro va a colpire quella stessa verità politica nata come risposta al primo, e nota come «Ottobre 1917», nonché: «Lenin», è stato allora il ciclo del «secolo breve» ad essersi chiuso su questa disastrosa ripetizione. Paradossalmente, quindi, non si tratta del momento sbagliato da scegliere, per ritornare là dove tutto ciò ha avuto inizio, nell’istante in cui, nel fango e nel sangue che sommergevano l’Europa in quell’estate del 1914, il secolo è sorto.

Catturate dal vortice del conflitto, le società europee e extra-europee (2) sperimentano per la prima volta la «guerra totale». L’insieme della società, combattenti e non combattenti, economia e politica, stato e «società civile» (sindacati, chiesa, media) partecipano integralmente a questa mobilitazione generale assolutamente straordinaria nell’intera storia mondiale. La dimensione traumatica dell’avvenimento non è comparabile con alcun confronto armato precedente. È la sensazione generalizzata della fine di un’intera «civilizzazione» ad emergere dalla carneficina delle trincee, vera e propria industria del massacro, altamente tecnologizzata, dispiegata nei campi di battaglia e ben al di là di questi ultimi (bombardamenti di civili, spostamenti di popolazione, distruzione mirata di aree situate al di fuori del fronte). L’industria della morte di massa stessa si aggroviglia strettamente ai dispositivi di controllo della vita sociale e delle popolazioni, direttamente o indirettamente esposte ai combattimenti. Una tale atmosfera apocalittica, la cui eco risuonerà con forza in tutta la cultura dell’immediato dopoguerra (la quale nasce nel conflitto stesso: Dada, poi il surrealismo e le altre avanguardie degli anni Venti e Tenta), permea tutti i contemporanei. È possibile, ancora oggi, farsene un’idea attraverso la lettura della Juniusbroschure di Rosa Luxemburg (3), uno dei testi più straordinari della letteratura socialista, ogni pagina del quale porta testimonianza del carattere inedito della barbarie in corso.

giovedì 10 novembre 2016

le 7 proposte di Donald Trump che i media hanno censurato e spiegano la sua vittoria*- Ignacio Ramonet



Il candidato repubblicano è stato in grado di interpretare quella che potremmo chiamare la ‘ribellione della base’. Meglio di chiunque altro ha percepito la frattura sempre più profonda tra le élite politiche, economiche, intellettuali, e mediatiche da una parte, e la base dell’elettorato conservatore dall’altra


Il successo di Donald Trump (come la Brexit nel Regno Unito, o la vittoria del ‘no’ in Colombia) significa innanzitutto una nuova clamorosa sconfitta dei grandi  mezzi di comunicazione e degli istituti di sondaggio. Ma significa anche che tutta l’architettura mondiale, stabilita alla fine della Seconda Guerra Mondiale, viene adesso travolta e si sfalda. Le carte della geopolitica sono completamente da rifare. Comincia un’altra partita. entriamo in un’era sconosciuta. Adesso tutto può accadere.

Come è riuscito Trump ha invertire una tendenza che lo vedeva sconfitto e riuscire a imporsi nel finale di campagna? Questo personaggio atipico, con le sue idee grottesche e sensazionalistiche, aveva già sovvertito tutti i pronostici. Contro pesi massimi come Jeb Bush, Marco Rubio o Ted Cruz, che potevano anche contare sul sostegno dell’establishment repubblicano, pochissimi lo vedevano imporsi alle primarie del Partito Repubblicano, tuttavia ha carbonizzato i suoi avversari, riducendoli in cenere. 

Bisogna capire che dalla crisi finanziaria del 2008 (dalla quale non siamo ancora usciti) nulla è uguale a prima. I cittadini sono profondamente delusi. La democrazia stessa, come modello, ha perso credibilità. I sistemi politici sono stati scossi fin dalle fondamenta. In Europa, per esempio, si sono moltiplicati i terremoti elettorali (tra cui la Brexit). I grandi partiti tradizionali sono in crisi. Ovunque rileviamo una crescita delle formazioni di estrema destra (in Francia, in Austria e nei paesi nordici) o di partiti antisistema e anticorruzione (Italia e Spagna). Il panorama politico è radicalmente trasformato. 

La visione e lo sguardo...- Silvano Tagliagambe

sabato 5 novembre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, dalla rivoluzione d'ottobre alla NEP - Renato Caputo

4 LEZIONE. La Rivoluzione d’Ottobre; la Pace di Brest-Litovsk; la
guerra civile e la Terza Internazionale; il comunismo di guerra e la NEP: 


3 LEZIONE. CAUSE DELLA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE: Le cause della
rivoluzione russa; la Rivoluzione di Febbraio; le Tesi d’Aprile di Lenin:     https://www.youtube.com/watch?v=8FrXzV6-gFw 


venerdì 4 novembre 2016

Theodor W. Adorno: Dialettica negativa - Vincenzo Rosito

Da: Grandi opere filosofiche - Vincenzo Rosito, Docente Ordinario di “Storia e cultura delle istituzioni familiari” presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II. Insegna Filosofia teoretica alla Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura (Roma).
Leggi anche: DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO di Adorno e Horkheimer - Carla Maria Fabiani
Vedi anche:   La scuola di Francoforte - Antonio Gargano 
                       "La teoria critica e Herbert Marcuse" - Antonio Gargano



                        

giovedì 3 novembre 2016

Le basi statunitensi in America Latina*- Alessandra Ciattini



Il fondamento militare del potere statunitense in America Latina

Alcuni analisti politici hanno sostenuto che i vari i governi progressisti – diversi tra loro - che si sono impiantati in alcuni paesi dell’America Latina, lo hanno potuto fare perché gli Stati Uniti erano impegnati fortemente in altre regioni dello scenario internazionale, che si va facendo sempre più complicato e conflittuale. A ciò bisogna aggiungere che negli anni ’90 del Novecento sono sorti movimenti sociali e forze politiche che hanno messo in discussione in forme diverse le feroci politiche neoliberali, imposte dalle dittature militari brutali (come quelle del Cile e dell’Argentina) o da governi formalmente democratici. Basti citare, per esempio, il movimento indigeno dell’ Inti Raymi sviluppatosi in Ecuador e la forte resistenza delle masse popolari, che nel primo decennio del 2000 ha sconfitto la coalizione neoliberale in Bolivia.

Da sinistra questi governi sono accusati di non aver promosso riforme profonde che abbiano alterato la struttura del potere economico, giacché la proprietà delle risorse materiali continua ad essere concentrata, come il controllo del commercio estero e delle istituzioni finanziarie, ancora non si è raggiunta nemmeno la sovranità alimentare. Da destra, invece, si è posto l’accento sui caratteri autoritari e clientelari del sistema politico. Quanto al primo quesito, dovremmo chiederci: esistevano le condizioni oggettive per rendere operative tali trasformazioni radicali o non si è voluto procedere in questa direzione?

Per rispondere, sia pure parzialmente, a questa domanda penso sia utile fare riferimento a un evento importante realizzatosi a Lima in Perù alla fine del passato mese di agosto. Intendo riferirmi alla Riunione dei Partiti comunisti e rivoluzionari dell’America Latina e del Caribe, del tutto trascurata dai mass media nostrani, nel contesto della quale il sociologo argentino Atilio Borón, noto anche in Italia, ha fatto presente che gli Stati Uniti hanno nel subcontinente almeno 80 basi militari, stanziate in maggior numero in Perù e in Colombia. Fatto che rende alquanto complicato, se non addirittura arduo, il processo di trasformazione radicale auspicato da molti [1].

martedì 1 novembre 2016

Carovana solidale (per la fine del mondo)*- Panagiotis Grigoriou



La Grecia è ormai un paese dimenticato nel resto di Europa. I reporter da Atene non riescono a vendere i propri pezzi ai media occidentali. L’unica forma di attenzione rimasta è quella di singoli o associazioni che, ad esempio in Francia, raccolgono medicinali e aiuti per la popolazione e li portano fin lì (come si faceva con le zone più povere del terzo mondo). Chi resta, se ha un mestiere, prova a sopravvivere chiudendo i negozi e le attività per passare alle prestazioni a domicilio, ovviamente in nero. Chi non evade, del resto, paga fino al 75% di tasse sul fatturato, e deve pure versarle con un anno di anticipo. L’odio è grande, ma i politici non sembrano accorgersene, e pensano a reimpasti di governo, dove peraltro l’ultima parola spetta alla Troika, mentre il 40% della popolazione – tra cui molti bambini – è povera e oltre 4 milioni di greci vivono in case inagibili o in famiglie che non hanno alcun reddito, scontando gli effetti di un progetto (la UE) che non è affatto “degenerato” rispetto a quanto previsto, ma è sempre stato totalitario fin dall’inizio.

Attenzioni ed apprensioni. 

Sulle montagne della Grecia la prima neve è attesa per la fine della settimana, secondo i meteorologi, e allora lungo tutto il paese ci si prepara, si compra all’ingrosso la legna, come accade ogni anno da quando è iniziata la “crisi”. Ad Atene, davanti alle edicole, i Greci scrutano, o piuttosto commentano molto acidamente ciò che la stampa crede di potergli raccontare. “Tutti bugiardi”. Buona, questa!

La così detta “crisi” in realtà è una forma di guerra (economica, culturale, e simbolica che mina la società e distrugge la sovranità popolare e nazionale così come la … rara democrazia ancora in essere), dati i cambiamenti, ormai … largamente fatti propri tra i Greci.

Costituzione e sistema elettorale: dalla Costituente proporzionalista al maggioritario.*- Aldo Giannuli


 Sul finire dei suoi lavori l’Assemblea Costituente affrontò il tema della legge elettorale proporzionale che, in seno alla seconda commissione,  il grande giurista Costantino Mortati (Dc) propose di costituzionalizzare. La proposta di inserire la legge nella carta non venne accolta, ma l’orientamento pressoché unanime fu quello di adottare la proporzionale per l’elezione della Camera nel 1948. In aula, la proposta venne ripresa dal comunista Antonio Giolitti, sotto forma di emendamento all’articolo 53, ma venne obiettato che questo era stato escluso in commissione, per cui l’emendamento venne trasformato in ordine del giorno, poi approvato. Probabilmente i Costituenti avrebbero fatto meglio ad inserire la norma nel testo della Costituzione, ma tanto non sembrò necessario perché l’orientamento era generalmente favorevole al sistema proporzionale e, d’altro canto, l’intera architettura costituzionale aveva come presupposto quel sistema elettorale.

E, per convincersene, bastino poche osservazioni. Ad esempio, nessun sistema a sistema maggioritario affida al Parlamento la funzione di revisione costituzionale o, per lo meno, non solo ad esso, prevedendosi o referendum popolari preventivi, o un ruolo determinante del Capo dello Stato oppure delle regioni o stati federati o anche di un Senato altrimenti eletto.

Di fatto, tanto la Costituzione formale quanto quella materiale hanno avuto il sistema proporzionale come pietra angolare su cui basarsi. La costituzione materiale perché in questo sistema elettorale valorizzava il ruolo dei partiti come organizzatori della democrazia, la Costituzione formale perché esso garantiva tanto la rigidità  del testo, quanto l’accentuato pluralismo del sistema, che induceva a forme di governo di coalizione e ad intese più ampie della maggioranza di governo per decisioni delicate come l’elezione del Presidente, dei membri della Corte Costituzionale e del Csm. Tutto questo realizzava un equilibrio fra poteri di maggioranza e diritti delle opposizioni che, anche se mai perfetto, tuttavia garantiva un ruolo dinamico del Parlamento.

Dagli anni settanta, tuttavia, si manifestò una crescente degenerazione della vita interna dei partiti che produsse la sclerotizzazione del sistema istituzionale nel suo complesso. Di ciò venne data indebitamente la colpa al sistema proporzionale e, invece di procedere ad una regolamentazione per legge dei partiti, in modo da consentire l’intervento del giudice ordinario nei molti casi delle vere e proprie frodi (a cominciare dai tesseramenti truccati) e contrastare la degenerazione partitocratica, si preferì la strada del tutto controproducente del passaggio al sistema maggioritario, lasciando pericolosamente non mutate le norme più delicate (art.138, elezione del Presidente ecc.). Con una discutibile sentenza, la Corte Costituzionale decise di ammettere il referendum, probabilmente anche per effetto della pressione dell’opinione pubblica, debitamente pilotata dai mass media attraverso una accorta gestione dell’inchiesta “Mani Pulite” che fu l’ariete di sfondamento della manovra.

Superato l’ostacolo del referendum, la manovra proseguì introducendo una forma surrettizia di presidenzialismo, con l’indicazione del candidato Presidente del Consiglio, la cui scelta, secondo il dettato costituzionale, sarebbe spettata esclusivamente al Presidente della Repubblica. Per la verità, questa norma implicita trovò applicazione imperfetta e discontinua, perché, pur se in modo difettoso, la nostra continuava ad essere una Costituzione parlamentare, per cui, di fronte alla alle turbolenze di maggioranza, il Presidente nominò  Capi del governo privi di investitura popolare (Dini nel 1995, D’Alema nel 1998, D’Amato nel 2000). Questa prassi, sul lungo periodo ha prodotto paradossalmente un iper protagonismo del Presidente della Repubblica, la cui figura ha finito per essere sempre più simile a quella del Presidente “regnante” della Costituzione gaullista francese. Non solo il Presidente ha ripetutamente nominato Capi del Governo di suo gradimento e con maggioranze ribaltate (Monti nel 2011, Letta nel 2013, Renzi nel 2014) ma si è posto come supervisore e garante, sino a presiedere riunioni dei capigruppo di maggioranza o, peggio ancora, promuovere processi di revisione costituzionale scavalcando procedure dell’art 138.

Siamo alla decostituzionalizzazione dell’ordinamento giuridico. Una sorta di colpo di stato strisciante, apertosi con il referendum voluto da Occhetto, Segni e Pannella e che oggi passa attraverso la riforma renziana che non sarà neppure l’ultima, quando l’effetto combinato dell’assurdo premio di maggioranza dell’Italicum e la sostanziale abrogazione del bicameralismo, spianerà la strada ad una più complessiva revisione costituzionale, che forse farà strame della prima parte, quella dei diritti dei cittadini e dei principi sociali, conformemente a quanto richiesto, due anni fa, dalla grande banca americana Jp Morgan.

lunedì 31 ottobre 2016

Tempesta perfetta. Nove interviste per capire la crisi*- Tommaso Gabellini


 
Tempesta Perfetta nasce con l’intento di mostrare l’urgente bisogno di un dibattito sulle cause della crisi e sulle possibili soluzioni che tengano conto di un punto di vista autonomo, del lavoro. Occorre partire da un’analisi seria e disincatata per permettere alla generazione cresciuta nella crisi di capire che le alternative esistono e che un rovesciamento degli attuali rapporti di forza sia possibile solo dopo aver elaborato un’attenta critica nei confronti del paradigma culturale dominante. Il libro offre molti spunti di riflessione in tal senso, e costituisce un’ottima lettura sia per chi sia a digiuno di nozioni economiche, sia per chi si interessi già di alcune tematiche ma voglia avere un quadro d’insieme più ampio.

Si chiama Tempesta Perfetta, è la prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas  Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi; 

domenica 30 ottobre 2016

(U.S.)America nell'epoca Tecnetronica*- Zbigniew Brzezinski (1968)

*Versione originale:    http://www.unz.org/Pub/Encounter-1968jan-00016  (Traduzione a cura del collettivo) 
Leggi come premessa e commento:     https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/brzezinski-e-la-futurologia-america-in.html 



"L’intenso coinvolgimento nella conoscenza applicata potrebbe gradualmente provocare l’indebolimento della tradizione di imparare solo per imparare. La comunità intellettuale, comprese le Università, potrebbe diventare un’altra ‘industria’, che recepisce i bisogni sociali come i diktat del mercato, con gli intellettuali che ricercano le ricompense materiali e politiche più consistenti. L’ansia per il potere, il prestigio e la bella vita potrebbe significare la fine dell’ideale aristocratico del distanziamento intellettuale e della ricerca disinteressata della verità."


La nostra non è più la convenzionale era rivoluzionaria; stiamo entrando in una nuova fase di trasformazione nella storia umana. Il mondo è nell’era di una trasformazione più drammatica nelle sue conseguenze storiche e umane di quelle provocate sia dalla rivoluzione francese che da quella bolscevica. Viste da una prospettiva a lungo termine, queste famose rivoluzioni hanno semplicemente scalfito la superficie della condizione umana. I cambiamenti da esse innescati hanno implicato trasformazioni nella distribuzione del potere e della proprietà all’interno della società; essi non hanno toccato l’essenza dell’esistenza individuale e sociale. La vita – personale e organizzata- è continuata quasi come prima, anche se alcune forme esterne (soprattutto politiche) furono trasformate in maniera sostanziale. Per quanto ciò possa apparire sconvolgente ai loro seguaci dovremmo convenire che Robespierre e Lenin sono stati soltanto dei riformatori morbidi, considerando i cambiamenti che si produrranno a partire dal 2000.

A differenza delle rivoluzioni del passato la metamorfosi avanzante non avrà leader carismatici con dottrine contrastanti, ma il suo impatto sarà molto più profondo. La maggior parte del cambiamento che ha così tanto preso posto nella storia umana è stato graduale, essendo le grandi ‘rivoluzioni’ meri segni di punteggiatura in un lento, ineludibile processo. Invece, la trasformazione che si avvicina giungerà molto più rapidamente e avrà più profonde conseguenze nel modo e anche forse nel significato della vita umana, che qualsiasi precedente esperienza fatta dalle generazioni che ci hanno preceduto.

L’America sta già cominciando a sperimentare questi cambiamenti e in questa fase sta diventando una società tecnetronica: una società che è plasmata culturalmente, psicologicamente, socialmente ed economicamente dall’impatto della tecnologia e dell’elettronica, in particolare dall’uso dei computer e dallo sviluppo delle telecomunicazioni. Il processo industriale non è più la causa principale dei cambiamenti sociali, attraverso la modificazione dei costumi, della struttura e dei valori sociali. 

Questo cambiamento sta dividendo gli Stati Uniti dal resto del mondo, promuovendo un’ulteriore frammentazione in una umanità sempre più differenziata, e imponendo agli americani  l’obbligo speciale di alleviare i dolori del confronto che ne scaturisce.

La società technetronica

sabato 29 ottobre 2016

"Ottobre" di Ejzenstejn

 Il Film fu girato quasi interamente a Leningrado e qui proiettato il 20 gennaio 1928: 7 rulli, 2220 metri; ma il metraggio originale era di 3800. La critica legata al regime accusò il regista di eccessivo sperimentalismo ed estetismo, inoltre il regista fu costretto ad eliminare dalla versione definitiva dell'opera i protagonisti della cosiddetta opposizione di sinistra, Trotsky e Zinov'ev, in quei mesi caduti in disgrazia per essersi opposti a Stalin 

Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2012/10/i-dieci-giorni-che-sconvolsero-il-mondo.html 

giovedì 27 ottobre 2016

La migrazione come rivolta contro il capitale*- Prabhat Patnaik**

*Da:   https://traduzionimarxiste.wordpress.com/       Link all’articolo originale in inglese MRZine, originariamente pubblicato in People’s Democracy
**Prabhat Patnaik è un economista marxista indiano.

 
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione,  ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.

L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera. Nei tempi moderni si possono distinguere tre grandi ondate migratorie, ognuna delle quali dettata dalle necessità del capitale. La prima è stata il trasporto di milioni di persone ridotte in schiavitù dall’Africa alle Americhe, per lavorare nelle miniere e nelle piantagioni al fine di produrre le materie prime da esportare così da far fronte alle richieste del capitale metropolitano. Dal momento che le vicende riguardanti la tratta degli schiavi sono presumibilmente ben note, non discuterò ulteriormente questa particolare ondata migratoria.

Una volta terminato il periodo di fioritura del commercio degli schiavi, ci fu un nuovo tipo di migrazione. Nel corso di tutto il XIX secolo e dell’inizio del XX, il capitale metropolitano aveva imposto un processo di “deindustrializzazione” al terzo mondo, non solo alle colonie tropicali come l’India ma anche alle semi-colonie e dipendenze come la Cina. Allo stesso tempo aveva “drenato” una parte del surplus economico di queste società attraverso svariati mezzi, dalla pura e semplice appropriazione di merci  senza alcun quid pro quo, ricorrendo alle entrate fiscali delle colonie amministrate direttamente, all’imposizione dello scambio ineguale nella valutazione dei prodotti del terzo mondo, sino all’estrazione di profitti monopolistici nel commercio. Le popolazioni delle economie del terzo mondo impoverite tramite tali meccanismi erano state forzate, viceversa, a restare dove si trovavano, intrappolate all’interno dei propri universi.

Lavoratori vincolati indiani al loro arrivo a Trinidad 

mercoledì 26 ottobre 2016

Studio su Hegel: Estetica - Stefano Garroni


[8] - Lo Hegel giovane “approfondisce il progetto schilleriano dell’educazione estetica attribuendo all’arte ed alla poesia intesa come <maestra dell’umanità> la funzione storica di trasmissione attraverso la bella apparenza di una razionalità divenuta sentire comune di un popolo libero. L’azione etica è in tal senso un’azione bella, colui che la compie è una <bella figura> ed al tempo stesso la sua esistenza è un ideale, cioè un’idea concretamente calata nella realtà storica.” (AAVV, 7376: 201s).

Interessante Cassirer, 6508: 156-8 - «In seguito i filosofi hanno cercato di evitare questa conclusione [la condanna platonica dell’ arte]  assegnando all’ arte una meta più elevata. Ci hanno spiegato che l’ arte riproduce non già il mondo fenomenico, ma il mondo sovrasensibile. Questa idea prevale in tutti i sistemi dell’ estetica idealistica: da Plotino giù giù fino a Schelling e Hegel. La bellezza, si afferma, non è una mera qualità empirica o fisica delle cose; è un predicato intelligibile, sovrasensibile. Nella letteratura inglese troviamo questa concezione, per es., nelle opere di Coleridge e di Carlyle. In ogni opera d’ arte, afferma Carlyle, noi discerniamo l’ etermità che traspare nel tempo, il divino reso visibile» (Cassirer, 6508: 158).

«... Baumgarten, sappiamo,  propose con notevole successo postumo il nome intenzionalmente filosofico di “estetica”, per molti decenni accettato però solo in area tedesca. Kant non lo adoperò mai come nome disciplinare, non sentendo affatto il bisogno di dare un nome quale che sia a una riflessione che non era un sapere. Schelling tenne poi lezioni non di “estetica”, ma di “filosofia dell’ arte”, e anche Hegel avrebbe preferito questo nome a quello, impostosi in sostanza per ragioni di routine accademica.» (Garroni, 6631: 37). Platonismo estico di Hegel versus Kant. (AAVV, 7376: 203).

martedì 25 ottobre 2016

Brzezinski e la futurologia. (America in the Technetronic Age)* - Alessandra Ciattini


L’anziano ex consigliere alla sicurezza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, è sempre sulla cresta dell’onda e continua ad elaborare analisi politiche, che da un lato riflettono le intenzioni dei vertici statunitensi, dall’altro indicano i percorsi da seguire per difendere il ruolo egemonico della superpotenza. In particolare, in un articolo di qualche mese fa, egli riconosce che il dominio globale degli Stati Uniti è in crisi a causa del riemergere della Russia quale attore politico nella scena mondiale e dell’espansione economica e commerciale della Cina. A suo parere, pertanto, bisogna prendere misure adeguate a contrastare tale declino e a impedire un avvicinamento dell’Europa alle potenze emergenti (leggi).

Come è noto, Brzezinski si è sempre dilettato di analisi politiche volte a delineare gli scenari internazionali futuri. In questo breve intervento, mi limiterò ad analizzare brevemente un articolo dell’ex-consigliere, pubblicato nel 1968, dal significativo titolo America in the Technetronic Age(leggi), nel quale egli indica i caratteri della società cosiddetta postindustriale o, se volete, postmoderna. E ciò perché in effetti egli coglie nel segno, anche perché                                                                                                              descrive le linee politiche adottate dalla classe dirigente mondiale, a cui era ed è strettamente vincolato.

Questo aspetto è ben colto da un autore sovietico, Edward Arab-Ogly, il cui libro intitolato Nel labirinto dei vaticini è stato pubblicato in italiano dalle Edizioni Progress (Mosca) nel 1977 e che ho avuto già modo di menzionare in un precedente articolo per La Città futura. Egli sottolinea, in questo d’accordo con Brzezinski [1], che la rivoluzione tecnico-scientifica del Novecento ha determinato “mutamenti profondi e irreversibili con una conseguente accelerazione dell’evoluzione sociale”. A suo parere “tali trasformazioni sociali, politiche, economiche che in passato si sarebbero dipanate per decenni e forse per secoli”, si stanno realizzando vorticosamente nello spazio di una generazione. Egli aggiunge che nell’epoca contemporanea il potere che l’uomo ha sulla natura e sul proprio destino è straordinario e che noi e i nostri posteri potremo godere i frutti di questo avanzamento, ma ci troveremo anche a “pagare il fio delle nostre attività” (op. cit. 1977: 3).

lunedì 24 ottobre 2016

Il lavoro tra operai digitali e cottimisti del voucher*- Bruno Casati



Solo negli ultimi 5 anni l’Italia ha perso un milione di occupati, di cui 300mila nel settore metalmeccanico. La piccola risalita fatta registrare l’anno scorso, pur così enfatizzata (l’Italia della retorica Renziana che riparte), è stata del tutto assorbita in quanto drogata dagli sgravi che il Governo regalava agli imprenditori che assumevano. Finita la droga si è tornati a licenziare in scioltezza e si sono gettati al vento chi dice 10 chi dice 20 miliardi di Euro. Va così in tutta Europa? Solo in Spagna si sono verificate perdite di occupati pari a quelle intervenute in Italia. In Germania invece si è tornati al livello degli anni precedenti la crisi e, quindi, mentre l’Italia ha perso, come si è detto, 1 milione di occupati, la Germania ha aumentato i suoi di 1 milione e mezzo. 

Pare proprio si sia configurata un’Europa del Lavoro e dell’Economia a due velocità. Ed allora la Gran Bretagna ha pensato bene di salutare questa Europa con il referendum di giugno. E la Gran Bretagna non è la Grecia, che è stata calpestata un anno fa, e va ascoltata. Perché la Brexit ci costringe per davvero a ragionare sull’esistenza o meno di un’alternativa “allo stato di cose presenti” che l’assetto economico assunto dall’UE ci impone, a partire dal lontano trattato di Maastrich. E quel trattato, impedendo la compressione della disoccupazione, da allora considerata “elemento funzionale al mantenimento degli equilibri interni al sistema economico capitalistico”, negava anche l’intervento pubblico in Economia (bloccati gli aiuti di Stato, eccezion fatta per le Banche ben s’intende) e imponeva le privatizzazioni. E un furia privatizzatrice spazzò l’Italia che, con Bersani in testa, enfatizzava privatizzazioni a “lenzuolate”. Se oggi noi ci apprestiamo a dire no nel referendum costituzionale, è bene rammentare che fu proprio la UE, imponendo la “coesistenza pacifica” con la disoccupazione e la cancellazione della mano pubblica in Economia, ad assestare il primo doloroso colpo di piccone alla nostra Carta Costituzionale che sostiene esattamente l’opposto. Il secondo, mortale, fu l’imposizione più recente del vincolo di Bilancio (il pareggio dell’art.81). Da tutto ciò ne discende che il concetto di “piena occupazione” in Italia è stato riposto nello scantinato del Novecento, a fianco della Programmazione Economica, l’IRI e le Partecipazioni Statali. In quello scantinato sono quindi finite le lezioni di John Keynes che, all’interno dell’Economia di Mercato, sollecitava interventi di Stato, attraverso i quali il sistema capitalistico avrebbe retto alla sfida, si era nel trentennio 1945-1975, portata dall’economia di piano dell’Unione Sovietica. Oggi, che non esiste più l’Unione Sovietica e la sfida se si vuole è con il “Socialismo di Mercato” della Cina, quelle antiche lezioni tornerebbero comunque utili perché la crisi economica mondiale, iniziata negli USA nel 2007, ha, tra le sue cause, lo ricorda l’economista Thomas Piketty, proprio il fallimento delle politiche neoliberiste spinte dell’ultimo quarto di secolo, da quando ossia l’Unione Sovietica è uscita di scena e il capitale non aveva più il nemico. 

domenica 23 ottobre 2016

La questione curda, ieri ed oggi*- Samir Amin**

*Da:     samiramin1931.blogspot.it     Traduzione di Lorenzo Battisti per http://www.marx21.it/

Il caos politico che domina la scena in Medio Oriente si esprime tra l'altro, nell'emergere violento della questione curda. Come possiamo analizzare, in queste nuove condizioni, la portata della rivendicazione dei Curdi (autonomia? Indipendenza? Unità?)? E possiamo dedurre dall'analisi che questa rivendicazione debba essere sostenuta da tutte le forze democratiche e progressiste della regione e del mondo?

Una grande confusione domina il dibattito su questo tema. La ragione è, a mio avviso, l'allineamento della maggior parte degli attori e degli osservatori dietro ad una visione non storica di questa questione, così come di altre. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione è stato innalzato a diritto assoluto, che vorremmo fosse mantenuto valido per tutti e in tutti i tempi (presenti e futuri), così come per il passato. Questo diritto è considerato come uno dei diritti collettivi tra i più fondamentali, al quale si dà di solito più importanza che agli altri diritti collettivi di portata sociale (diritto al lavoro, all'educazione, alla sanità, alla partecipazione politica ecc..).

D'altra parte i soggetti di questo diritto assoluto non sono definiti in maniera precisa; il soggetto di questo diritto può essere “una comunità” qualunque, maggioritaria o minoritaria all'interno delle frontiere di uno stato o di una delle sue province; questa comunità che si definisce essa stessa come “particolare” per lingua o religione per esempio; e si proclama, a torto o a ragione, vittima di una discriminazione, se non di un'oppressione. Le mie analisi e le mie prese di posizione si iscrivono all'opposto di questa visione transtorica dei problemi della società e dei “diritti” attraverso i quali si esprimono le rivendicazioni dei movimenti sociali del passato e del presente. In particolare attribuisco un'importanza capitale alla frattura che separa lo sviluppo del moderno mondo capitalista dai mondi precedenti.

Socrate - Giannantoni, Gigon, Hösle

  Vedi anche:     https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/07/socrate-antonio-gargano.html

sabato 22 ottobre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, dalla Rivoluzione di ottobre alla seconda guerra mondiale - Renato Caputo

 2 LEZIONE. LA PRIMA GUERRA MONDIALE - 
interventismo e neutralismo in Italia; cenni sui fronti di guerra; la conclusione della prima guerra mondiale; i trattati di pace e il nuovo assetto mondiale:


1 LEZIONE. LE CAUSE E LA PRIMA FASE DELLA GRANDE GUERRA - Le cause della prima guerra mondiale; gli schieramenti contrapposti; le fasi iniziali della guerra; dalla guerra di movimento alla guerra di trincea:              https://www.youtube.com/watch?v=29nEf34Fc5M 

venerdì 21 ottobre 2016

Le pipeline in Siria e Iraq: il vero motivo strategico della guerra* - Alberto Negri

*(Sintesi di una relazione per il convegno "Cooperazione Regionale e Sviluppo delle Risorse Energetiche nel Mediterraneo")                    https://www.facebook.com/alberto.negri.9469?fref=nf  
Vedi anche:          https://www.youtube.com/watch?v=k7LPILjBAmo 
                               https://www.youtube.com/watch?v=plmoK22uMn4 


 Gas e petrolio sono da sempre al cuore della questione mediorientale: nelle vene di questa regione strategica per gli equilibri mondiali scorrono tutte le peggiori ragioni per fare una guerra e anche le migliori per fare la pace. Si tratta, in fondo, soltanto di scegliere e di conoscere la storia.

 Nel 1947 l’americana Bechtel e la Saudi Aramco decisero di realizzare un pipeline dai pozzi sauditi alle sponde del Mediterraneo. Si trattava della famosa Tapline: nel primo progetto doveva arrivare ad Haifa in Israele ma il piano fu accantonato dopo la dichiarazione di indipendenza dello stato ebraico. Si scelse così un percorso alternativo che passava dalle colline siriane del Golan e dal Libano, fino a Sidone. Il Parlamento siriano però chiese più tempo per esaminare la questione e la risposta fu un colpo di stato condotto dal colonnello Zaim con l’aiuto dell’agente della Cia Stephen Meade che rovesciò un governo democraticamente eletto.

 Soltanto quattro anni dopo, nel 1953, un altro colpo di stato anglo-americano detronizzava in Iran il leader Mossadeq che aveva nazionalizzato il petrolio. Il vero autore del golpe in Iran fu Kermit Roosevelt jr, nipote del presidente Theodore Roosevelt. La sua foto negli anni ’50 mostra un quarantenne sorridente, con occhiali dalla montatura nera pesante e l’aria mite di un professore: è il capo del della Cia in Medio Oriente, un insospettabile uomo d’azione, coraggioso, capace come pochi di volgere gli eventi a suo favore, anche nelle peggiori condizioni. Fu lui a dirigere sul campo il colpo di stato contro Mossadeq.
 I golpe americani a sfondo energetico e i loro segreti sono una questione di famiglia: i Roosevelt, i Kennedy e ora i Clinton. C’è qualche dubbio che coloro che oggi si proclamano “amici della Siria” come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna lo siano veramente: gli ultimi due sono stati quelli che si sono spartiti il Medio Oriente un secolo fa con gli accordi di Sykes-Picot del 1916.

 Gli accordi tracciavano i confini del futuro Medio Oriente dopo la dissoluzione dell’impero ottomano. Ma Georges Clémenceau accettò di “offrire” Mosul agli inglesi in cambio del controllo francese sulla Siria e sul Libano.

martedì 18 ottobre 2016

Ventotene, l’Europa e il postmoderno*- Giovanna Cracco

*Da:    http://www.rivistapaginauno.it/

“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista,” scrive Spinelli, “cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita” 


Nell’epoca postmoderna le grandi narrazioni universali finalistiche e collettive che avevano legittimato il legame sociale non sono più credibili perché hanno tradito le promesse

Imprescindibile Lyotard, quando si parla di postmodernismo. Ne sono state date definizioni plurime, ma al filosofo francese si risale per la prima: “Semplificando al massimo, possiamo considerare ‘postmoderna’ l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, scrive nel 1979 ne La condizione postmoderna. Un’epoca che per Lyotard coincide con il capitalismo avanzato e l’“informatizzazione della società”, cambiamenti tecnologici che incidendo fortemente sul processo di ricerca e di trasmissione delle conoscenze, generano la trasformazione del Sapere in merce; già l’èra industriale ne aveva fatto forza produttiva, questo è un passaggio ulteriore. “Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per esse-re scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio ‘valore d’uso’.” (1)

In questa fase storica, le grandi narrazioni universali, finalistiche e collettive che nella precedente epoca moderna avevano legittimato il legame sociale – illuminismo, idealismo e marxismo, ma anche il positivismo scientifico che si è accompagnato al capitalismo, esaltando la tecnologia come motore dello sviluppo economico e del benessere delle società – non sono più credibili, perché hanno tradito le promesse, e l’agire dell’Uomo non appare più quel processo di emancipazione verso una civiltà globale sempre più avanzata, libera ed egualitaria. La Storia stessa ha delegittimato le metanarrazioni:

domenica 16 ottobre 2016

Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 - Friedrich Engels, Introduzione (1895)

[...]
Dopo la sconfitta del 1849 non condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare raccolta attorno ai governi provvisori futuri in partibus. Questa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta per tutte, del "popolo" sugli "oppressori"; noi su una lotta lunga, dopo l'eliminazione degli "oppressori", tra gli elementi contraddittori che si celavano precisamente in questo "popolo". La democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall'oggi al domani; noi dichiaravamo già nell'autunno 1850 che almeno il primo capitolo del periodo rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando come traditori della rivoluzione da quegli stessi che in seguito fecero tutti, quasi senza eccezione, la pace con Bismarck, nella misura in cui Bismarck trovò che ne valeva la pena.

Ma la storia ha dato torto anche a noi; ha rivelato che la nostra concezione d'allora era una illusione. La storia è andata anche più lontano; essa non ha soltanto demolito il nostro errore di quel tempo; essa ha pure sconvolto le condizioni in cui il proletariato ha da lottare. Il modo di combattere del 1848 è oggi sotto tutti gli aspetti antiquato, e questo è un punto che in questa occasione merita di essere esaminato più da vicino.

Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla sostituzione del dominio di una classe con quello di un'altra; ma sinora tutte le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del popolo dominata. Così una minoranza dominante veniva rovesciata, un'altra minoranza prendeva il suo posto al timone dello Stato, e rimodellava le istituzioni politiche secondo i propri interessi. E ogni volta si trattava di quel gruppo di minoranza che le condizioni dello sviluppo economico rendevano atto e chiamavano al potere, e appunto per questo e soltanto per questo avveniva che la maggioranza dominata partecipava al rivolgimento schierandosi a favore di quella minoranza, oppure si adattava tranquillamente al rivolgimento stesso. Ma se prescindiamo dal contenuto concreto di ogni caso, la forma comune di tutte quelle rivoluzioni consisteva nel fatto che esse erano tutte rivoluzioni di minoranze. Anche quando la maggioranza prendeva in esse una parte attiva, lo faceva soltanto, coscientemente o no, al servizio di una minoranza; questo fatto però, o anche solo il fatto dell'atteggiamento passivo e della mancanza di resistenza della maggioranza, dava alla minoranza l'apparenza di essere rappresentante di tutto il popolo. 

sabato 15 ottobre 2016

Riflessioni su Foucault*- Paolo Di Remigio


Foucault e il liberalismo.

La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France1 è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l'espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitivadell’Unione Europea2; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione inoccupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un'impresa3.

Non è il caso di riassumere il lavoro di Foucault: meglio leggerlo, anzi studiarlo, per trarne il quadro dell'ideologia neoliberale nella sua ossessiva pervasività; è invece il caso di chiedersi perché mai il libro non sia diventato né un segnale d'allarme né un'arma di lotta politica. La risposta può essere anticipata subito: Foucault condivide con il neoliberalismo e con il marxismo il suo presupposto più interno: l'identità di libertà e natura, ossia la concezione che la libertà sia una proprietà originaria dell'individuo fuori dal contesto politico, determinato cioè come naturale. Perché la sua indagine avesse risonanza politica, Foucault avrebbe dovuto esporre il neoliberalismo confrontandosi a fondo con la natura dello Stato, mettendo in questione non solo il liberalismo, ma lo stesso Marx, risalendo quindi a Hegel.

venerdì 14 ottobre 2016

OTTAVA BOLGIA INFERNALE*- Gianfranco Pala

 Ottavo cerchio dell’inferno dantesco in fondo a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino. Poi la strada non la trovi da te, sprofonda all’inferno, che però non c’è.

Solo un <buzzurro> {*} come Salvini che nella sua ignoranza non sa nemmeno l’italiano, giacché “traditore” è chi consegna libri e pensieri ai loro avversarî e il fellone che ha commesso tradimento nei confronti della patria; della causa,o dei compari di una lotta merita una dura punizione, fino alla morte, o per dirla con la severità di Dante “se le mie parole esser dien seme, che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”. Ma i libri o i pensieri di Carlo Azeglio Ciampi per chi e di chi erano? Certamente non per proletari e comunisti, ma per banchieri e capitalisti internazionali, cui semmai gli italiani si fossero omologati. E parimenti ciò è vero altresì per il silente <convitato-di-pietra> Giorgio Napolitano, che qui non dovrebbe entrare direttamente in gioco (ma che, come si dirà, <tomo tomo, cacchio cacchio> si è dedicato e plasmato sugli stessi padroni e opposto ai medesimi nemici). Quindi è palese l’ipocrisia del legaiolo – con il suo <cesso di anima>, per dirla come il diavolo di Altàn – di manifestare “preghiera e cordoglio” per la non prematura morte di Ciampi; lo storico e politico analfabetismo del disumano guitto <ruspista> lombardo ne delinea le magnifiche sorti, e regressive. Ossia definire Ciampi “uno dei traditori dell’Italia e degli italiani, come Napolitano, Prodi e Monti” non sono “parole choc, a caldo”, di Matteo Salvini sulla morte del presidente emerito della repubblica, il quale a dire del legaiolo “si porta sulla coscienza il disastro di 50 milioni di italiani, e come per Napolitano è uno da processare come traditore”. E neppure sono “parole miserevoli” come esclamano le anime-beninten­zionate del Pd, anche dell’asinistra di coloro-che-lastricano-le-vie-dell’inferno. Poiché costoro fingono di non sapere mentre Salvini – è chiaro – non sa proprio chi siano realmente, da decenni, né Ciampi né Napolitano e via con coloro che sempre <osservano-gli-ordini-supe­riori>. 

{* per spiegare alcuni termini, per chi non lo sapesse, non è male apprendere che buzzurro viene dal tedesco antico Butzen (moderno Putzer), in linguaggio popolare riferito agli immigrati che decisero di fermarsi tra l’Esquilino e la zona ex Macao del rione Castro pretorio, come ancora oggi; allora erano circa il 10% della popolazione romana dell’epoca. Vennero perciò chiamati spazzacamini; caldarrostari, ambulanti castagnari, montanari alpini semianalfabeti che nella stagione autunnale delle castagne scendono in pianura, per venderle fresche o arrostite (per cui preliminarmente pulivano le canne fumarie) e pulitori in genere; in Italia centrale equivale, estensivamente in senso figurato, a termini dialettali quali <ciafrujoni>, confusionari, casinisti, pasticcioni, ingarbugliatori, che confondono le idee; a parti invertite, è il corrispettivo dell’epiteto terroni che i <nordici> affibbiano con violenza verbale analoga all’uso di <buzzurro>, ma provocatore di doppiosenso rivolto ai <sudici> [non si dimentichi che <tombini-di-ghisa> uscendo coperto di merda dalle fogne, nel 2009 a Pontida; cantò stonando "senti che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani"; e adesso, per catturare un pugno di voti ... <sudici>, dopo la felpa per <lampedusa> si è fatto sùbito stampare un’altra felpa con su scritto <amatrice>!!], La parola <terroni> (e varianti dialettali) proviene dallo spagnolo terrones (zolle di terra, zappate dai <contadini>), che in un più remoto passato in Toscana non era riferita ai <lavoratori agricoli> servi della gleba, ma invece riguardava originariamente una disputa tutta interna alla classe padronale tra i <proprietari terrieri>, <latifondisti>, che con la terra avevano solo un <rapporto di proprietà> non avendola mai lavorata, zappata, e i <bottegai> che si ritevano dominati e vessati da quegli altri, proprietari privati della natura}.

giovedì 13 ottobre 2016

Studio su Hegel: Filosofia, Storia, Etica - Stefano Garroni



[5] - La filosofia in Hegel e il Weltbild in Holz (AAVV, 7376: 266s) - nota che Biasutti sottolinea la necessità, per la filosofia dialettica, di mettere in questione l’evidenza.

[5.1] - L’oggetto della filosofia -giusta AAVV, 7376: 267a- sembra una generalizzazione del <progetto cartesiano>, di cui in des.doc.

[5.2] - Filosofia e storia -la filosofia, che vien sempre dopo. (AAVV, 7376: 284s) -fino a che punto questa posizione dello Hegel maturo si contrappone a quella del giovane Marx, che addirittura legifera sul futuro della filosofia, indicandole la necessità di svolgere il ruolo di eredità, che il proletariato dovrà assumersi? E’ proprio vero che, per Hegel, la filosofia non ha alcun ruolo da svolgere nel presente? Comunque, questo è in modo di presentarsi del paradosso di  Marx.

[5.3] - Hegel contro Reinhold, per la concezione del <progresso>; inoltre, chiarissima l’attenzione di Hegel alla <diversità> dei costrutti storici -qui, si tratta di filosofie. (AAVV, 7376: 287).

[5.4] - Secondo Hegel, “ogni autentica filosofia conserva un permanente nucleo di verità, anche quando è caduta in desuetudine la sua forma originaria...” (AAVV, 7376: 307).

mercoledì 12 ottobre 2016

Il tema del lavoro secondo Karl Marx*- Giulio Di Donato


Il lavoro dovrebbe essere, agli occhi di Marx, “manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”, “libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro ha però sempre avuto (quale lavoro schiavistico, servile, salariato) un carattere “repellente”, è stato sempre “lavoro coercitivo esterno”. In altre parole, non si sono mai create le condizioni soggettive ed oggettive che gli permettessero di diventare “attraente”, di costituire “l’autorealizzazione dell’individuo”. [1]

Perché si ritorni alla sua vera e profonda essenza, deve cessare di essere lavoro “antitetico” e divenire “libero”. Ciò non significa, ribadisce Marx, che esso possa diventare, come vorrebbe Fourier, un mero gioco; un “lavoro realmente libero, per es. comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia”. E tanto più serio e intensivo sarà il lavoro quando esso diventerà veramente “universale”, cioè processo di produzione consapevolmente istituito e controllato dagli uomini “come attività regolatrice di tutte le forze naturali”. [2]

Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. [3]

martedì 11 ottobre 2016

Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano*- Cristina Corradi

* Questo testo è già apparso in P. P. Poggio (a cura), L’ALTRONOVECENTO. COMUNISMO ERETICO E PENSIERO CRITICO, vol. II, IL SISTEMA E I MOVIMENTI- EUROPA 1945-1989, Fondazione L. Micheletti-Jaca Book, Milano 2011, pp. 223-247. Si ringrazia la Fondazione Micheletti e l’editore.       http://www.consecutio.org/
Vedi anche:    https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44 

Neomarxismo, pensiero operaio, insubordinazione sociale: tre distinti paradigmi dell’operaismo italiano

(Il saggio mira a distinguere i profili teorici presenti all’interno dell’operaismo, la corrente del marxismo italiano che, negli anni ’60, si propone quale alternativa rivoluzionaria alla strategia togliattiana della via italiana al socialismo e alla politica culturale del Pci che adotta una problematica democratica, antifascista e populista in luogo di una problematica socialista, marxista, operaia. La sociologia politica di Raniero Panzieri e del gruppo dei “Quaderni rossi”, che fa riferimento al Capitale e ai rapporti sociali di produzione per analizzare il capitalismo fordista-keynesiano, mette a fuoco l’intreccio perverso tra razionalità tecnocratica e illusioni democratiche, rifiuta la concezione progressista della storia e la visione acritica del progresso tecnologico, mantiene un saldo ancoraggio alla teoria marxiana del valore. La rivoluzione copernicana del gruppo di “Classe operaia” si propone come operazione di rottura più che di rivitalizzazione del marxismo: il pensiero operaio di Mario Tronti segna il passaggio da una prospettiva neomarxista ad una filosofia della classe operaia, la cui particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con la Nietzsche-Heidegger Renaissance e dall’uso di un dispositivo attivistico che trasforma il rapporto di produzione nel prodotto di un’attività soggettiva. Negli anni ’70, mentre il paradigma dell’autonomia del politico accompagna il processo di riconversione post-marxista del ceto politico del Pci, la teoria dell’operaio sociale di Negri, che incontra il movimento del ’77, esplicita la sua vocazione oltremarxiana aprendosi alla filosofia francese della differenza e anticipando le tesi del postmoderno e del postfordismo)

L’operaismo è una corrente del marxismo italiano che nasce in risposta alla crisi interna e internazionale del movimento operaio esplosa nel ’56. Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti della corrente che, formatasi negli anni Sessanta intorno alle riviste “Quaderni rossi” e “Classe operaia”, contribuisce in misura rilevante alla formazione di una nuova sinistra, protagonista della lunga stagione di lotte operaie e studentesche che si susseguono dal secondo biennio rosso ’68-’69 al movimento del ’77 1. L’analisi della composizione di classe, l’uso dell’inchiesta operaia e della conricerca come strumenti di lavoro politico, la lettura della critica dell’economia politica come scienza dell’antagonismo di classe, una storiografia innovativa delle lotte operaie sono considerati i suoi contributi più significativi 2

domenica 9 ottobre 2016

Ranking e lotta di classe*- Roberto Ciccarelli


  La Californian Ideology e il sogno dell'automazione totale nascondono un segreto. E cioè che il lavoro non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è talmente invisibile che a nessuno viene in mente che vada pagato.

  Un paio di settimane fa ho visto la puntata Il pianeta dei robot di Presa diretta,  una delle poche trasmissioni Tv che fanno inchiesta in Italia. Bella trasmissione, e se siete interessati potete rivederla qui. Peccato che abbia accreditato la solita versione apocalittica della cosiddetta “ideologia californiana”.

  Per Richard Barbrook e Andy Cameron, autori venti anni fa dell’omonimo libro, la cosiddetta Californian Ideology è quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley. Questo amalgama degli opposti si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la cancellazione di milioni di posti di lavoro (dai trasporti alla logistica, fino alla sanità e tutto il resto) non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione. A meno che non ci sia un reddito                                                                                                              di base universale.

  In questa miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria, frutto della bizzarra fusione tra la cultura bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech, in effetti il reddito di base è un tema di discussione; per Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, autori de La nuova rivoluzione delle macchine, Google, Facebook, Apple e gli altri giganti dovrebbero inoltre pagare più tasse, argomento attualissimo anche in Europa dopo lo scontro tra la Commissione Ue e il governo irlandese sui maxi-sconti fiscali garantiti per anni alla Apple. Ma nel dibattito reale della Silicon Valley, le cose non stanno proprio così.

  I “nuovi feudatari” della rete, accettano sì l’idea di un reddito base universale, ma a condizione che non sia la Silicon Valley a pagare il conto: è lo Stato che dovrebbe cancellare ogni forma di aiuto economico pubblico per convertire i fondi in assegni da dare direttamente ai privati. Nell’illusione di diventare un imprenditore tecnologico di successo, uno “startupperoe”, lo Stato diventa quindi l’erogatore di assegni guadagnati sulle piattaforme del capitalismo interconnesso: il welfare sarà il supporto sociale delle nuove agenzie di servizi online, e i diritti sociali verranno legati alla partecipazione del consumatore che produce informazione (prosumer) ai ritmi della macchina.