martedì 11 ottobre 2016

Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano*- Cristina Corradi

* Questo testo è già apparso in P. P. Poggio (a cura), L’ALTRONOVECENTO. COMUNISMO ERETICO E PENSIERO CRITICO, vol. II, IL SISTEMA E I MOVIMENTI- EUROPA 1945-1989, Fondazione L. Micheletti-Jaca Book, Milano 2011, pp. 223-247. Si ringrazia la Fondazione Micheletti e l’editore.       http://www.consecutio.org/
Vedi anche:    https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44 

Neomarxismo, pensiero operaio, insubordinazione sociale: tre distinti paradigmi dell’operaismo italiano

(Il saggio mira a distinguere i profili teorici presenti all’interno dell’operaismo, la corrente del marxismo italiano che, negli anni ’60, si propone quale alternativa rivoluzionaria alla strategia togliattiana della via italiana al socialismo e alla politica culturale del Pci che adotta una problematica democratica, antifascista e populista in luogo di una problematica socialista, marxista, operaia. La sociologia politica di Raniero Panzieri e del gruppo dei “Quaderni rossi”, che fa riferimento al Capitale e ai rapporti sociali di produzione per analizzare il capitalismo fordista-keynesiano, mette a fuoco l’intreccio perverso tra razionalità tecnocratica e illusioni democratiche, rifiuta la concezione progressista della storia e la visione acritica del progresso tecnologico, mantiene un saldo ancoraggio alla teoria marxiana del valore. La rivoluzione copernicana del gruppo di “Classe operaia” si propone come operazione di rottura più che di rivitalizzazione del marxismo: il pensiero operaio di Mario Tronti segna il passaggio da una prospettiva neomarxista ad una filosofia della classe operaia, la cui particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con la Nietzsche-Heidegger Renaissance e dall’uso di un dispositivo attivistico che trasforma il rapporto di produzione nel prodotto di un’attività soggettiva. Negli anni ’70, mentre il paradigma dell’autonomia del politico accompagna il processo di riconversione post-marxista del ceto politico del Pci, la teoria dell’operaio sociale di Negri, che incontra il movimento del ’77, esplicita la sua vocazione oltremarxiana aprendosi alla filosofia francese della differenza e anticipando le tesi del postmoderno e del postfordismo)

L’operaismo è una corrente del marxismo italiano che nasce in risposta alla crisi interna e internazionale del movimento operaio esplosa nel ’56. Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti della corrente che, formatasi negli anni Sessanta intorno alle riviste “Quaderni rossi” e “Classe operaia”, contribuisce in misura rilevante alla formazione di una nuova sinistra, protagonista della lunga stagione di lotte operaie e studentesche che si susseguono dal secondo biennio rosso ’68-’69 al movimento del ’77 1. L’analisi della composizione di classe, l’uso dell’inchiesta operaia e della conricerca come strumenti di lavoro politico, la lettura della critica dell’economia politica come scienza dell’antagonismo di classe, una storiografia innovativa delle lotte operaie sono considerati i suoi contributi più significativi 2

Interpretato unitariamente come tentativo di riattivare una strategia rivoluzionaria nell’Europa occidentale, come ricerca di un’alternativa al socialismo di Stato sovietico e alla via italiana al socialismo, l’operaismo costituisce un capitolo della storia del marxismo europeo che, dopo la stagione creativa degli anni Venti, vive negli anni Sessanta una ripresa teorica al di fuori delle politiche culturali di partito 3 . Nel quadro della storia nazionale, l’operaismo è un episodio della ricerca di un rapporto diretto tra intellettuali e classe operaia e rappresenta il fenomeno di rottura più vistoso con la politica culturale del Partito Comunista Italiano che fa perno sul nazional-popolare e sulla linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci e adotta una problematica democratica, antifascista e populista in luogo di una problematica socialista, marxista e operaia. Lo storicismo umanistico e progressista del partito di Togliatti, estraneo alla critica marxiana dell’economia politica e diffidente nei confronti delle più vivaci correnti del marxismo europeo, è solidale con un orientamento politico moderato che si giustifica con la storica arretratezza italiana e la conseguente necessità di completare la rivoluzione democratica. Se l’anarcosindacalismo di Sorel e “L’Ordine nuovo” di Gramsci hanno dato espressione, nella prima metà del Novecento, all’orgoglio produttivo e alle rivendicazioni dell’operaio di mestiere e dell’operaio professionale, con le parole d’ordine del rifiuto del lavoro, del sabotaggio della produzione, del salario come variabile indipendente e della garanzia del salario sociale l’operaismo italiano ha interpretato la combattività dell’operaio-massa e di una forza-lavoro intellettuale precaria e disoccupata.

Destalinizzazione e razionalizzazione neocapitalistica, decollo e crisi del modello di accumulazione taylorista-fordista-keynesiano sono le coordinate entro le quali si sviluppa una storia che è segnata da due divisioni teoriche, politiche e organizzative: la frattura consumatasi negli anni ’60 tra una prospettiva neomarxista e una prospettiva più strettamente operaista; la scissione delineatasi nei primi anni ’70 tra la linea dell’autonomia del sociale e la linea dell’autonomia del politico.

L’esperienza operaista nasce ufficialmente nel ’61 con la pubblicazione del primo numero dei “Quaderni rossi”. Animatore della rivista è Raniero Panzieri, un esponente di spicco della sinistra socialista che, contrario alla prospettiva del centrosinistra sanzionata dal congresso del PSI nel ’59, abbandona gli incarichi direttivi nel partito e si trasferisce a Torino, dove lavora presso la casa editrice Einaudi come responsabile di una collana di scienze sociali. Nella città simbolo dello sviluppo industriale italiano Panzieri avvia un lavoro di ricerca autonomo dai partiti riunendo un gruppo di giovani dissidenti della sinistra socialista e comunista, provenienti da diverse realtà geografiche, intorno ad un progetto di studio delle condizioni della classe operaia.

Il gruppo dei “Quaderni rossi” ha il merito di riscoprire testi di Marx largamente trascurati dalla tradizione marxista – la quarta sezione del I Libro del Capitale, il Frammento sulle macchine deiGrundrisse, il Capitolo VI inedito – e di applicare all’analisi delle trasformazioni di fabbrica i concetti marxiani di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale, di lavoro astratto, divisione del lavoro e scissione delle potenze mentali della produzione. Dalle inchieste di Romano Alquati sulla forza lavoro alla Fiat di Torino e alla Olivetti di Ivrea si ricavano i concetti di composizione di classe e di operaio massa. Lo studio della composizione di classe consiste nell’analisi del nesso tra connotati oggettivi e connotati soggettivi della forza-lavoro, tra una specifica composizione tecnica della forza-lavoro, condizionata dalla configurazione del processo lavorativo, e una determinata composizione politica, che si esprime in un sistema tipico di comportamenti sociali e di riferimenti organizzativi. L’operaio massa, tecnicamente dequalificato e scarsamente disciplinato rispetto all’operaio di mestiere, incarna esemplarmente il concetto di lavoro astratto, puro dispendio di energia lavorativa, e sembra esprimere un forte potenziale conflittuale.

La nascita dei “Quaderni rossi”- punto d’approdo di diverse esperienze politiche e culturali, con radici nel “Politecnico” di Vittorini e nel laboratorio di Adriano Olivetti, nel socialismo di sinistra di Rodolfo Morandi e nel marxismo eterodosso di Galvano della Volpe – è uno degli esiti della mobilitazione di energie intellettuali e politiche provocata dalla crisi del ’56.  La denuncia dei crimini di Stalin al XX congresso del PCUS e le rivolte operaie in Polonia e in Ungheria delegittimano l’ortodossia marxista-leninista, favoriscono la ripresa di correnti comuniste libertarie, egualitarie, antiautoritarie, riaprono il dibattito sul socialismo e sullo statuto teorico del marxismo. Lo stalinismo non appare più in grado di unificare il fronte dell’opposizione di classe: il Partito Socialista Italiano rompe il patto di unità con il PCI, ma la rivendicazione dell’autonomia socialista si traduce, per la componente maggioritaria del partito, nella linea di sostegno all’ipotesi del centrosinistra piuttosto che nella linea, auspicata da Panzieri, della rigenerazione dal basso della politica unitaria di classe.

Nel PCI si precisa in senso moderato la strategia togliattiana della via italiana al socialismo e del partito nuovo, partito di massa radicato nella storia nazionale e nelle tradizioni popolari, che insegue l’alleanza con i ceti medi richiamandosi alla lotta antifascista e alla costruzione di una democrazia avanzata. Pur ribadendo il legame di fedeltà all’URSS, Togliatti conferma una linea improntata a realismo tattico, che elegge il terreno parlamentare ad ambito privilegiato di lotta, punta a consolidare il quadro costituzionale e a promuovere riforme di struttura. La strategia progressista, che postula una temporalità storica lineare e cumulativa, e la politica dei due tempi, che tende a riassorbire gli obiettivi socialisti in obiettivi democratici, si legittimano con il riferimento ai Quaderni del carcere di Gramsci, in particolare alle note sul Risorgimento.

Alla metà degli anni ’50 si chiude la fase della ricostruzione postbellica che, in nome dei prioritari interessi nazionali e della collaborazione tra movimento operaio e borghesia progressista, ha restaurato quel potere padronale in fabbrica che aveva vacillato durante la Resistenza. Si apre una fase di ristrutturazione e di intenso sviluppo capitalistico fondato su bassi salari, sfruttamento elevato della forza-lavoro, integrazione nel mercato europeo. Il miracolo economico sembra smentire sia la tesi terzinternazionalista del ristagno capitalistico nella fase monopolistica sia la tesi che pone l’accento sui ritardi, le strozzature, gli squilibri dell’economia italiana. Il deficit analitico delle sinistre ufficiali rispetto all’impetuoso sviluppo industriale si salda con un deficit politico nei luoghi di produzione: l’estraneità alla cultura del conflitto sociale contribuisce nel ’55 alla sconfitta della Fiom-Cgil alle elezioni per il rinnovo delle commissioni interne alla Fiat.

Negli anni del boom economico e della crisi della rappresentanza sindacale il gruppo dei “Quaderni rossi” declina il marxismo come sociologia politica della classe operaia, anziché come storicismo realistico, e cerca una strategia adeguata al nuovo volto del capitalismo italiano attraverso un lavoro con il sindacato che vuole abbandonare il ruolo di cinghia di trasmissione del partito o dello Stato. L’ipotesi di una frattura tra i partiti di sinistra e la società trova una conferma nelle lotte dei primi anni ’60. Dopo l’autorizzazione accordata dal governo Tambroni al MSI per tenere il congresso del partito a Genova, nel luglio ’60 scoppiano manifestazioni di rivolta con decine di morti e feriti. Tentata invano la svolta reazionaria, la DC avvia un dialogo con i socialisti che porterà nel ’63 alla formazione del primo governo di centrosinistra, mentre complesse manovre di stampo autoritario si intrecciano a tentativi golpisti per bloccare il processo di apertura a sinistra.

Nel ’62 le lotte dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto sfociano nella rivolta di Piazza Statuto. La diversa valutazione dei comportamenti operai è occasione di divisione per la redazione dei “Quaderni rossi” che viene abbandonata dal gruppo fondatore di “classe operaia”, la rivista di intervento nelle lotte diretta da Tronti. Panzieri, che è estraneo alla visione salarialista del conflitto di classe tipica dell’operaismo successivo, non condivide l’idealizzazione del rifiuto del lavoro e del blocco della produzione, non sopravvaluta la rottura con le organizzazioni storiche del movimento operaio e assegna al gruppo dei “Quaderni rossi” un lavoro prevalentemente teorico. Secondo Panzieri, infatti, la politica operaia non è iscritta nei comportamenti spontanei della forza-lavoro, ma è il prodotto dell’incontro del movimento della classe con il socialismo. Secondo Tronti, invece, il rifiuto del lavoro è immediata espressione di autonomia operaia, la strategia politica preesiste nei comportamenti spontanei degli operai e il compito del partito è quello di “rilevarla, esprimerla e organizzarla”4Le differenze politiche rinviano a divergenze teoriche: secondo Tronti la scienza operaia differisce dalla scienza del capitale perché riduce l’oggettività del rapporto capitalistico alla soggettività fondante del lavoro vivo. Secondo Panzieri la classe operaia e il capitale sono due realtà autonome e irriducibili l’una all’altra: la teoria rivoluzionaria si articola perciò nell’analisi del capitale e nello studio autonomo del comportamento della forza-lavoro, che può operare come elemento semplicemente conflittuale o come elemento antagonistico. Lo sviluppo tecnologico è trainato dalla legge del plusvalore, più che dalla lotta operaia, e la rivoluzione copernicana di Tronti, secondo la quale il capitale vivrebbe “solo per autosuggestione”5, tende a mistificare le sconfitte in successi.

Nel triennio di “classe operaia” (’64-’67) si definiscono alcuni dei tratti più caratterizzanti della corrente operaista: la concezione delle lotte come motore dello sviluppo capitalistico, la precedenza dei movimenti di classe rispetto ai movimenti del capitale, l’anteposizione della teoria della rivoluzione alla critica dell’economia, la celebrazione della soggettività e della parzialità della classe, l’atteggiamento cinico e spregiudicato nel rapporto con la tradizione storica, lo stile al contempo disincantato e visionario, realistico e profetico. Operai e capitale, il testo della rivoluzione copernicana di Tronti, è il manifesto unificante di una fisionomia teorica marcata, discontinua rispetto all’operaismo razionale o materialista dei “Quaderni rossi”, e rappresenta, secondo alcuni, il nucleo vero e proprio dell’operaismo6. Mentre il PCI, dall’ideologia della ricostruzione alla linea berlingueriana dei sacrifici, attribuisce alla classe operaia una funzione egemonica di direzione e di responsabilità nazionale, che produce però effetti di subalternità e di incorporazione, il gruppo di Tronti pone l’accento sugli interessi particolari piuttosto che sui valori universali della classe, sottolinea l’irriducibilità degli operai al concetto di volontà generale, contrappone la potenza della classe senza alleati alla rincorsa dei ceti medi, celebra l’irrazionalità, la separatezza, la differenza operaia come fondamenti di autonomia. In polemica con l’appello generico all’impegno civile dell’intellettuale e in polemica con il neoumanesimo socialista, che intende raccogliere le bandiere della razionalità e del progresso lasciate cadere da una borghesia decadente, il gruppo di “classe operaia” dichiara esaurita la battaglia culturale e chiama il movimento operaio a ereditare il pensiero negativo, distruttore delle mediazioni e delle sintesi dialettiche.

Dopo la breve esperienza della rivista “Contropiano”, negli anni ’70 la compagine operaista torna a dividersi in due linee di strategia politica e di ricerca teorica. Pur avendo atteggiamenti opposti rispetto alla proposta politica del PCI, l’operaismo di sinistra e l’operaismo di destra, la linea dell’autonomia del sociale e la linea dell’autonomia del politico, condividono tuttavia l’ipotesi che il valore si estingue perché il rapporto politico subentra al rapporto di produzione come luogo della decisione, del comando, dell’antitesi all’anarchia sociale: “ogni determinazione economica e sociale scompare, tutto è politica”7Gli operaisti di sinistra, di cui Negri è uno dei principali leader, rivisitano la teoria leninista per dare una testa politica al ciclo di lotte dell’operaio massa e nel ’69 fondano Potere operaio, un partito rivoluzionario che persegue la ricomposizione politica dei conflitti intorno alla parola d’ordine del salario sociale. Gli operaisti di destra, rappresentati da Tronti, Cacciari e Asor Rosa, ripiegano invece sull’entrismo nel PCI e teorizzano lo spostamento del conflitto sul terreno statuale per consolidare sul piano istituzionale i nuovi rapporti di forza: poiché il capitale usa la manovra della crisi per impedire che allo sviluppo economico, innescato dalle lotte operaie, corrisponda un adeguato esito politico, la classe operaia tramite un partito relativamente autonomo deve farsi promotrice di un processo di modernizzazione. L’ipotesi è quella di un’alleanza dei produttori e di una nuova Nep, una gestione dell’economia capitalistica sotto la guida politica operaia che utilizzi la macchina statale per sconfiggere le arretratezze della società italiana, per promuovere la riforma dello Stato e rimettere in moto lo sviluppo. Se negli anni ’60 la classe operaia è l’autentico soggetto che muove i fili del capitale e la sua lotta è l’unica attività capace di demistificare l’ideologia, negli anni ’70 il grande soggetto diventa la volontà di potere del partito e l’organizzazione politica diventa l’unico orizzonte anti-ideologico del marxismo.

Nei primi anni ’70 si riaccende la conflittualità intercapitalistica, entra in crisi il sistema di cambi fissi di Bretton Woods, scoppiano la guerra del Kippur e la crisi petrolifera. Il capitale, impegnato a recuperare margini di profitto erosi dall’autunno caldo, avvia una manovra di ristrutturazione che punta ad annientare la combattività operaia. Negri sviluppa fino all’estremo limite la rivoluzione copernicana di Tronti e teorizza l’avvento dell’operaio sociale, che abbandona il terreno della produzione diretta per estendere la conflittualità alla sfera della riproduzione sociale.

Nel ’73 il segretario del PCI Berlinguer lancia la proposta del compromesso storico e, di fronte alla recessione economica, sposa la linea dell’austerità che peserà sulla sconfitta operaia alla fine del decennio. I successi elettorali del ’75 e del ’76 sembrano indicare nel più forte partito comunista occidentale il destinatario privilegiato della domanda di cambiamento che sale dal ciclo di lotte operaie e studentesche. In competizione con il neogramscismo, che ricava dai Quaderni i fondamenti dell’eurocomunismo e immagina il compromesso storico come un processo di crescita della partecipazione democratica, l’operaismo di destra riformula in termini più spregiudicati, decisionisti ed elitari il primato togliattiano della politica. Tronti progetta la costruzione di una teoria operaia della politica adeguata ad una fase di crisi dello sviluppo e di protagonismo dello Stato. Cacciari rivisita la cultura della crisi per liquidare progetti di neosintesi dialettica e per ricavare dalla distruzione di ogni ordine logico-ontologico il primato di una decisione politica sempre più sganciata dai rapporti sociali di produzione. Asor Rosa riscopre le virtù della politica rappresentativa, rivaluta le divisioni tradizionali del lavoro e del sapere, riabilita la figura dell’intellettuale specialista8 Nella seconda metà degli anni ’70 diviene evidente che l’autonomia del politico è un processo di riconversione culturale del ceto politico del PCI che aspira a liberarsi dai vincoli della dialettica, del marxismo, della prospettiva strategica. Se la politica è borghese, come la cultura, non può essere pensata come critica dell’ideologia delle classi dominanti e costruzione di una concezione del mondo più congruente con le condizioni di vita delle classi subalterne, ma va  concepita come competizione fra élite, gioco di potere nella sfera delle istituzioni rappresentative.

La teoria dell’insubordinazione sociale di Negri, che legge la strategia del compromesso storico come tentativo di restaurazione autoritaria della legge del valore, incrocia il movimento del ’77, che fa emergere nuovi bisogni e una diversa composizione di classe9  Una parte consistente dell’operaismo di sinistra rompe con il precedente neoleninismo, insegue nuovi soggetti sociali – studenti, donne, proletariato urbano, emarginati, lavoratori precari dei servizi – e proclama l’attualità del comunismo inteso come fine della scarsità, orizzonte del consumo di beni e servizi privi di valore-lavoro, riappropriazione della ricchezza sociale. Stretta tra la lotta armata delle Brigate Rosse e la criminalizzazione del dissenso, l’area dell’Autonomia subisce un pesante attacco repressivo: nel ’79 i suoi dirigenti sono arrestati, processati, condannati per sovversione contro lo Stato.

L’esperienza operaista si esaurisce nei primi anni ’80, parallelamente alla deriva del PCI e al riflusso dei movimenti di lotta: la provocatoria cultura della crisi, che finisce per legittimare una mera presa del potere per via amministrativa, contribuisce ad archiviare la critica del capitalismo e a distruggere un autonomo profilo teorico della sinistra. L’adesione alle utopie tecnologiche del postindustriale, della fine del lavoro, del piccolo è bello, depotenzia la valenza critica dell’operaismo negriano che smarrisce i nessi sociali profondi e diventa sempre più visionario. Negli anni ’90 sopravvivono un linguaggio, uno stile di pensiero post-operaista, riconoscibile nei concetti di “imprenditorialità comune”, “intellettuale massa”, “moltitudine”, “cognitariato”. Il dibattito sulla globalizzazione, il movimento altermondialista e il successo internazionale del libro Impero, di cui Negri è coautore, hanno contribuito più recentemente ad una rinascita di interesse per l’operaismo italiano e non sono mancate iniziative editoriali per sottolineare l’attualità della cultura politica risalente a Operai e capitale, ritenuta idonea a fugare il senso di sconfitta e il vittimismo passivizzante che deprimono il mondo del lavoro10 La rivisitazione del filone operaista non può, quindi, eludere interrogativi e prese di posizione sull’attualità di un lascito che va articolato in tre differenti eredità: il contributo di Panzieri, che interpreta un’esigenza di rivitalizzazione del marxismo; il pensiero operaio di Tronti, che segna una rottura con la tradizione marxista; la teoria dell’operaio sociale di Negri, che esplicita una vocazione oltremarxista e oltremarxiana.

Per il riferimento privilegiato al Marx del Capitale, per la capacità di analizzare il capitalismo monopolistico e il socialismo sovietico in base ai rapporti sociali di produzione, l’elaborazione di Panzieri è considerata uno dei punti alti del marxismo europeo e un’occasione mancata per la sinistra italiana11. Panzieri, infatti, non si limita a riformulare posizioni consiliaristiche, autogestionali, sovietiste, tipiche delle dissidenze storiche del movimento operaio, ma si adopera per rinnovare e rilanciare un’identità culturale e politica marxista12. La ripresa della critica dell’economia politica all’interno del gruppo dei “Quaderni rossi” produce conoscenze sul neocapitalismo e sulla transizione socialista e orienta una triplice rottura: con il riformismo socialista subalterno alle esigenze di modernizzazione capitalistica, con il primato togliattiano della politica indipendente dal rapporto di produzione, con la filosofia della storia, alternativamente progressista o crollista, della Seconda e della Terza Internazionale. E’ una posizione che, con le dovute differenze storiche, mantiene ancora oggi referenti sociali e politici.

Il pensiero operaio di Tronti segna il passaggio da una prospettiva neomarxista ad una filosofia della classe operaia, la cui particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con la Nietzsche-Heidegger Renaissance e dall’uso di un dispositivo teorico monistico e attivistico che giunge a configurare il rapporto di produzione come il prodotto di un’attività soggettiva. La teoria dell’insubordinazione sociale di Negri, che sostituisce la centralità rivoluzionaria dell’operaio massa con quella di un proletariato giovanile diffuso, perfeziona lo svuotamento delle categorie del Capitale e propizia l’incontro dell’operaismo con la filosofia francese del desiderio e della differenza. La riflessione che gravita sul proletariato sociale anticipa, per diversi aspetti, le più recenti teorie del postmoderno e del postfordismo, della produzione immateriale e del capitalismo cognitivo.

Il neomarxismo di Panzieri nasce dal bisogno di superare la cattiva unità tra teoria marxista e prassi politica, l’operaismo successivo nega fin dall’inizio la possibilità di costruire una cultura d’opposizione, liquida la battaglia teorica per riqualificare la cultura di sinistra e avalla indirettamente la scissione tra attivismo cieco e formalismo teorico13. La riduzione del marxismo a volontà organizzata della classe o del partito e l’annichilimento della dimensione teorica favoriscono, infine, il divorzio della sinistra dalla teoria marxista e la distruzione di un’identità sociale e politica anticapitalistica.

Panzieri non rinuncia alla teoria marxiana del valore e mantiene un ancoraggio alle categorie dialettiche, evidente nell’interpretazione della critica dell’economia politica come disvelamento delle apparenze capitalistiche, nell’uso della categoria di totalità, nel rifiuto dell’empirismo, nella visione logico-sistematica del modo di produzione. Politicamente opposte, l’autonomia del sociale e l’autonomia del politico convergono tuttavia nel liquidare dialettica e analisi economica, nell’abbandonare la centralità del conflitto sul terreno della produzione immediata, nel restaurare una filosofia della storia che precipita in punti di crisi finale e nel riabilitare le mitologie tecnologiche e tecnocratiche criticate da Panzieri. Franco Fortini, Aurelio Macchioro e Costanzo Preve hanno scritto pagine lucidissime sui limiti di una cultura politica che alla fine degli anni ’70, dopo aver reciso ogni legame con la critica dell’economia politica e aver reso indeterminato il concetto di marxismo14 , diventa veicolo di subalternità ad una nuova cultura di destra che si legittima in base alla centralità dell’impresa capitalistica15 In particolare l’operaismo di destra, che giunge a liquidare l’intera cultura marxista come un ostacolo all’uso disincantato delle tecniche del politico, si rivela privo di originalità e di prospettive: l’autonomia del politico, teorizzata in anni in cui sta maturando la riscossa dell’economia neoliberista, è destinata a rovesciarsi, nell’arco di un decennio, in elogio dell’impolitico o presa d’atto del tramonto della politica.

Se le esigenze oggi più avvertite sono quelle di decifrare la dialettica di continuità e discontinuità del capitalismo contemporaneo e di ricostruire una prospettiva comunista, la lezione di Panzieri, che ripete il gesto marxiano di abbandonare la sfera rumorosa della circolazione per addentrarsi nel laboratorio segreto della produzione, sembra più feconda del gesto, ieri trontiano e oggi negriano, di anteporre le lotte operaie al rapporto di capitale16 La cultura politica risalente all’operaismo post-panzieriano, basata sull’apologia dello sradicamento e della perdita di confini, sull’antidialettica e sulla negazione assoluta di istanze sintetiche, sembra costitutivamente incapace di offrire vie d’uscita alla crisi che perdura dall’89.

Il neomarxismo di Panzieri
Insieme a Franco Fortini, Gianni Bosio e Danilo Montaldi, Raniero Panzieri fa parte di una straordinaria generazione di intellettuali militanti che rifiutano la risposta moderata e riformista alla crisi dello stalinismo e declinano in modo alternativo alla linea ufficiale i temi del partito e della classe, dell’internazionalismo e del socialismo, del rapporto tra teoria marxista e politica. E’ l’“altra linea”17  del movimento operaio, che concepisce il partito come uno strumento al servizio della formazione politica del movimento di classe e contrasta il divorzio tra tattica e strategia, insito nella politica della democrazia progressiva, valorizzando le esperienze di democrazia di base che prefigurano la costruzione di istituzioni socialiste. In alternativa alla lunga marcia socialista nelle istituzioni, Panzieri ipotizza un processo di rinnovamento dal basso del movimento operaio attraverso la costruzione, nel conflitto, di nuove istituzioni socialiste, radicate nella sfera economico-produttiva prima che nella sfera politico-istituzionale. All’obiettivo della programmazione economica democratica contrappone la linea del controllo operaio in fabbrica, che ridefinisce il potere operaio in rapporto alle condizioni di produzione piuttosto che al grado di penetrazione del partito nello Stato.

Di fronte ad un imponente sviluppo tecnologico che comporta forme più raffinate di mistificazione, Panzieri riconquista il potenziale critico del marxismo articolando un’analisi strutturale del neocapitalismo tesa a valorizzare un’autonoma iniziativa di classe, svilita dal provvidenzialismo storicista, dal progressismo riformista e da ideologie catastrofiste. Il ritorno al Marx maturo delCapitale e la revisione di Lenin sono le coordinate per elaborare una strategia che contrasti la stabilizzazione del dominio capitalistico basata sull’intreccio tra razionalità tecnocratica e illusioni democratiche. Il principale obiettivo polemico di Panzieri è la teoria della società opulenta, che predica l’integrazione sociale, la fine delle ideologie, la morte della politica, la terziarizzazione della società grazie alle politiche di diffusione del benessere. Il paradigma di Panzieri è però alternativo alle posizioni marxiste ortodosse e revisioniste che, in nome della socializzazione crescente delle forze produttive, non mettono in questione la razionalità dello sviluppo capitalistico e ricorrono, con diversi intenti ideologici, alla mitologia dello stadio ultimo dello sviluppo capitalistico.

I saggi più importanti pubblicati nel periodo dei “Quaderni rossi” ruotano intorno ai seguenti temi: la demistificazione della razionalità tecnologica, principale forma di dissimulazione del dispotismo capitalistico; lo smascheramento del piano capitalistico operante nella produzione diretta – espressione della natura autoritaria del coordinamento capitalistico della forza-lavoro – e la sua estensione alla produzione sociale complessiva come chiave per decifrare il passaggio dal capitalismo concorrenziale al neocapitalismo pianificatore; la rivendicazione del valore logico, non solo storico, delle categorie marxiane che consente di ridefinire gli aspetti essenziali del capitalismo e del socialismo; la lettura politica delle lotte operaie degli anni ’60; l’interpretazione del marxismo come scienza critica legata agli sviluppi della sociologia e all’uso dell’inchiesta18.

Dal laboratorio dei “Quaderni rossi” emergono alcune ipotesi che tenderanno ad essere dimenticate dall’operaismo successivo: non può essere teorizzato alcun limite intrinseco allo sviluppo delle forze produttive, che non è mai scorporato dall’articolazione e dall’approfondimento del dominio capitalistico; l’unico limite del capitale è l’insubordinazione operaia, che non si esprime in termini di progresso bensì di rottura, non rivela l’occulta razionalità insita nel moderno processo produttivo, ma costruisce una razionalità radicalmente nuova e contrapposta alla razionalità del capitalismo; il passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico non implica il superamento del valore, la crisi definitiva del capitalismo o la dominanza degli apparati politico-ideologici, ma segna piuttosto l’estensione della pianificazione dalla sfera della produzione alla sfera della realizzazione del plusvalore; il capitalismo è individuato principalmente da un’organizzazione del lavoro finalizzata all’estrazione di plusvalore: lo sfruttamento capitalistico non risiede quindi nelle distorsioni caratteristiche dei rapporti di distribuzione, dei rapporti mercantili o dei rapporti politici, ma è connesso al comando nel processo di produzione; il socialismo non si identifica né con la pianificazione dello sviluppo delle forze produttive né con l’automazione, né con la riduzione del tempo di lavoro né con la diffusione dei consumi, ma consiste in una diversa regolazione sociale del processo di produzione.

Per criticare la concezione neutrale dello sviluppo delle forze produttive, fondamento di una visione acritica del progresso e di un’ideologia produttivistica complice dell’intensificazione dello sfruttamento, Panzieri recupera il concetto marxiano di appropriazione capitalistica della scienza e della tecnica quale base per lo sviluppo di un piano dispotico del capitale. L’analisi marxiana del passaggio dalla cooperazione semplice alla manifattura e alla grande industria mostra chiaramente che “la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale19 : lo sviluppo della cooperazione nel processo lavorativo, lungi dal socializzare virtuosamente le forze produttive e dal ricomporre le mansioni lavorative, è piuttosto l’espressione basilare della legge del plusvalore. La spinta alla parcellizzazione del lavoro e i processi di automazione comportano la crescita del capitale costante che succhia lavoro vivo, il crescente controllo del capitale sulla forza-lavoro, la separazione del lavoro dalle potenze mentali della produzione. Nell’analisi di Lenin la tecnologia e il piano capitalistico rimangono estranei al rapporto sociale che li domina e li plasma e l’anarchia è la caratteristica specifica del capitalismo, l’espressione essenziale della legge del plusvalore. Dall’analisi marxiana del processo di produzione si ricavano invece la tendenza del capitale a pianificare la produzione del plusvalore e la natura dispotica della cooperazione della forza-lavoro, aspetti che svuotano la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione e privano di fondamento una concezione del socialismo come pianificazione dello sviluppo compatibile con metodi dell’organizzazione aziendale capitalistica.

Svelando l’intreccio capitalistico tra scienza, tecnologia e potere, Panzieri mette a tema un feticismo che non è legato al denaro e alla sfera della circolazione ma nasce direttamente dalla sfera della produzione. Allorché la scienza entra al servizio del capitale e diminuisce l’autonomia della forza-lavoro, il rapporto sociale capitalistico si nasconde dietro le esigenze tecniche del macchinario: la divisione del lavoro sembra indipendente dall’arbitrio del capitalista e appare risultato necessario della natura del mezzo di lavoro. Quando l’uso delle macchine è generalizzato, il dispotismo del capitale è esercitato in nome di una razionalità che cela sfruttamento e sottomissione:

“Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come un involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere semplicemente perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale”20.
Ad un marxismo fondato sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione Panzieri sostituisce un marxismo dello smascheramento della falsa razionalità e del falso universalismo dello sviluppo capitalistico, il cui dispotismo non si esprime necessariamente in forme di governo autoritarie e in forme di violenza brutali, ma si dissimula meglio in sistemi di regolazione flessibili e in forme statuali democratiche21.

L’analisi marxiana del Capitale, secondo il fondatore dei “Quaderni rossi”, definisce un modello dinamico, in cui ciascuna tendenza può diventare una controtendenza, sono ipotizzabili salti verso diverse fasi di accumulazione, passaggi interni a differenti forme di espressione del plusvalore. Non esiste alcuna tendenza immanente al superamento della divisione del lavoro, l’unica costante del modo di produzione capitalistico è “la crescita (tendenziale) del potere del capitale sulla forza-lavoro”22 e l’unico limite al capitale è “la resistenza della classe operaia”23. L’operaismo successivo, anche per la sua vocazione antisistematica, tenderà invece ad appiattire il concetto di modo di produzione capitalistico sul modello taylorista-fordista, a enucleare una successione di stadi che deflagra in un punto di crisi finale o a restaurare uno schema storico di progressione lineare.

Per analizzare il passaggio dal capitalismo concorrenziale al neocapitalismo pianificatore, Panzieri non liquida la forma valore, ma stabilisce un rapporto di successione logica e storica tra il I e il III libro del Capitale, tra la sfera della produzione immediata e quella della riproduzione sociale complessiva. Il I Libro analizzerebbe la fase del capitalismo ove la forma generale in cui si esprime il valore è l’opposizione tra l’anarchia, caratteristica della divisione del lavoro nella società, e il piano dispotico, che impronta la divisione tecnica del lavoro. Nel III libro, analizzando una forma di accumulazione basata su processi di concentrazione dei capitali e di centralizzazione dei rapporti tra produzione e circolazione, Marx porta alla luce i tratti di una fase monopolistica che è segnata dalla nascita delle società per azioni e dalla scomparsa di un saggio generale di profitto. Con la trasformazione del plusvalore in profitto e dei valori in prezzi di produzione, il piano del capitale si estende alla produzione complessiva e la pianificazione autoritaria diventa l’espressione fondamentale della legge del plusvalore. Nella fase del capitale finanziario, quando la funzione produttiva si separa dalla proprietà e il profitto diventa interesse, è insita la massima mistificazione: il capitale appare come denaro che produce denaro e sparisce ogni traccia del rapporto sociale capitalistico.

Polemizzando con una linea sindacale di difesa delle professionalità operaie, che tende a frammentare i lavoratori in base alle qualifiche dell’organizzazione capitalistica, e criticando la pretesa di disciplinare il conflitto con la concertazione e la politica dei redditi, il gruppo dei “Quaderni rossi” attribuisce un significato politico alle lotte di fabbrica degli anni ’60 che portano in primo piano la condizione operaia. Dal lavoro di inchiesta emerge, infatti, che politica e non tecnica è la ragione della divisione delle mansioni, delle differenze salariali, della separazione tra operai specializzati e operai generici, così come politica è la richiesta operaia di controllo sulla produzione che è, tuttavia, disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio. La politica dei due tempi, che insegue l’alleanza con la borghesia progressista e scommette su un’evoluzione lineare della società, poggia su basi fragili perché separa l’azione politica dalla struttura economica, oscura il carattere capitalistico dello sviluppo industriale e ignora la vocazione parassitaria e corporativa della borghesia italiana. In una fase in cui le grandi concentrazioni industriali e finanziarie estendono e rafforzano il potere sullo Stato, la continua ricerca di convergenze di vertice e il piccolo cabotaggio parlamentare finiscono per contribuire allo svuotamento delle istituzioni democratiche: per contrastare l’involuzione integralista della società e la spinta totalitaria sulle istituzioni, che traggono origine nella sfera della produzione, occorre portare il conflitto politico nei luoghi di lavoro.

Panzieri respinge fermamente le accuse di operaismo e di anarcosindacalismo: non si tratta di assegnare all’azione sindacale compiti politici di rottura rivoluzionaria, fermandosi all’immagine empirica della singola fabbrica e negando la necessità di ricomporre rivendicazioni frammentarie in un disegno strategico unitario. Si tratta al contrario di capire che né il livello sindacale né una politica redistributiva possono soddisfare le istanze politiche emerse nelle lotte perché la rivendicazione di un controllo sull’erogazione della forza-lavoro è una richiesta di potere antagonista, che pone le basi per un dualismo di poteri. Le lotte che ricompongono la forza-lavoro acquistano un significato politico perché il sistema economico richiede un’assoluta integrazione del capitale variabile nel capitale costante e ottiene la totale subordinazione del lavoro vivo al lavoro morto attraverso politiche che impediscono alle singole forze lavoro di riconoscersi globalmente come classe operaia. L’atomizzazione dei lavoratori è uno degli aspetti meno esplorati dello sfruttamento capitalistico che, dall’alienazione del prodotto del lavoro, si estende all’espropriazione del senso del processo produttivo, fino ad alienare il lavoratore dal suo corpo e dal rapporto con l’altro lavoratore, separandolo dalla relazione verticale con sé e dalla relazione orizzontale con l’altro.

In uno dei suoi ultimi saggi Panzieri richiama gli scritti giovanili di Lenin, che considerano l’opera di Marx come opera di sociologia scientifica, e l’analisi della modernità di Weber, che ha tenuto in serio conto il pensiero marxiano, per affermare che il marxismo è una sociologia del movimento operaio, “una sociologia concepita come scienza politica, cioè come scienza della rivoluzione”24. L’analisi marxiana nasce come critica dell’economia politica, come scienza che coglie nella sua interezza la società capitalistica svelandone la natura dicotomica: il limite dell’economia classica consiste, infatti, nella considerazione della forza-lavoro come mero capitale variabile, come componente solo interna al capitale. Panzieri ipotizza tuttavia che, in ragione della crisi della teoria economica, il capitalismo abbia perduto il suo riferimento classico all’economia politica e abbia ritrovato la sua scienza non volgare nella sociologia. L’importanza crescente della sociologia è il sintomo, secondo Panzieri, di un mutamento profondo nel modo di funzionare del sistema capitalistico: con l’autonomizzazione del capitale finanziario il problema fondamentale della riproduzione non è la tutela dei rapporti di proprietà privata ma il razionale procedere dell’accumulazione, che non è minacciato da un meccanismo economico bensì da una crisi di organizzazione del consenso25 .

La rivoluzione copernicana di Operai e capitale

La premessa del pensiero operaio di Mario Tronti è la lettura di Marx come scienziato, come Galilei del mondo sociale, proposta nel dopoguerra da Galvano Della Volpe, una lettura che, seppure eterodossa rispetto allo storicismo crociogramsciano, dopo il ’56 acquista rilievo anche nell’ambito di “Società”, la rivista teorica del PCI. Il centro dell’interesse di Tronti non è però il corretto metodo marxista di analisi scientifica, bensì un pensiero operaio concepito come arma strategica di potenziamento della prassi. La lettura dellavolpiana, che per il suo antihegelismo è salutata come un nuovo inizio per il marxismo italiano, costituisce solo un passaggio utile per liquidare lo spirito sistematico del materialismo dialettico e per ridurre il marxismo ad un insieme di aforismi e di criteri pratici per un’azione politica di parte operaia. La priorità è superare un’impostazione confinata nella battaglia teorica per “fare di nuovo il salto da Marx a Lenin”26 , dall’analisi del capitalismo contemporaneo alla teoria della rivoluzione operaia.

I saggi raccolti in Operai e capitale propongono una lettura creativa di Marx, orientata a rivalutare l’elemento soggettivo, il lato attivo del rapporto storico-sociale: l’idea ispiratrice è portare Lenin in Inghilterra, rileggere cioè la critica dell’economia marxiana alla luce dell’avvenuta rivoluzione contro ilCapitale per immaginare la rottura nei punti alti dello sviluppo, dove si suppone che la classe operaia sia più forte. Il marxismo è declinato come scienza dell’antagonismo e dell’insubordinazione operaia, anziché come teoria dello sviluppo oggettivo del capitale, e viene enucleato un nuovo concetto di crisi capitalistica che ha natura politica anziché economica, essendo imposta dai movimenti soggettivi degli operai organizzati.

Il pensiero operaio di Tronti si caratterizza essenzialmente per quattro scelte teoriche: la  concezione attivistica della scienza e negativa della critica dell’ideologia; la configurazione oppositiva del rapporto tra la fabbrica e la società; il rovesciamento del rapporto tra capitale e forza-lavoro; la rivalutazione delle correnti di pensiero antidialettiche e irrazionalistiche.

La scienza attiva rivendicata dall’operaismo non è la scienza classica galileiana, ma è la scienza novecentesca della crisi dei fondamenti e del principio di indeterminazione. Non è una metodologia generale per fare previsioni esatte e per produrre un sapere oggettivo e universale, ma è una scienza parziale, soggettiva, unilaterale. Diversamente da Colletti, Tronti non assume a modello la teoria realista del rispecchiamento, ma si ricollega al costruttivismo emergente dal dibattito novecentesco: l’indagine marxiana è accostata alle geometrie non euclidee e alla meccanica quantistica, la Rivoluzione d’Ottobre è paragonata alla teoria einsteiniana della relatività.

La scienza operaista acquista significato in opposizione all’ideologia, che ha il significato puramente negativo di mistificazione, di vocazione a tenere unito ciò che è separato, di prefigurazione sistematica del reale volta ad imbrigliare la prassi. La critica dell’ideologia è concepita essenzialmente come attività di negazione assoluta: lo smascheramento delle mistificazioni capitalistiche non ha alcuna specificità, non produce un’altra cultura, non alimenta la battaglia ideologica, ma rinvia immediatamente al conflitto di classe. In sintonia con Asor Rosa, che nega la possibilità di conciliare arte e rivoluzione, Tronti pensa che la cultura sia per definizione borghese e che la classe operaia non abbia bisogno di un’ideologia: se la semplice esistenza come realtà antagonistica rende la classe indipendente dal meccanismo di sviluppo capitalistico, l’organizzazione autonoma degli operai è “il processo reale della demistificazione”27 .

Nel saggio del ’62 La fabbrica e la società, Tronti sostituisce la sequenza marxiana processo di produzione, processo di circolazione, processo complessivo, con la sequenza fabbrica, società, Stato, e riformula la contraddizione classica tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione nei termini di un antagonismo irriducibile tra la forza-lavoro come valore d’uso e la forza-lavoro come valore di scambio, tra il processo produttivo che si svolge nella fabbrica e il processo di valorizzazione che si svolge nella società. Oggetto di critica sono le ideologie neocapitalistiche che presentano il fenomeno dell’integrazione tra fabbrica, società civile e Stato in chiave di affermazione di uno Stato interclassista e di scomparsa dello stesso capitalismo, che si trasforma nella ricchezza della società da amministrare per il benessere collettivo. Secondo Tronti, quando il dispotismo capitalistico si estende dalla fabbrica alla società, lo Stato non si limita più a mediare i conflitti intercapitalistici ma tende a porsi come il rappresentante diretto del capitalista collettivo, mentre la terziarizzazione generalizza la condizione operaia a nuovi strati sociali: i tecnici e gli intellettuali.

L’identificazione del processo produttivo in fabbrica con la sfera della produzione e del processo di valorizzazione con la sfera della circolazione tende ad appiattire la dimensione del valore sul valore di scambio e a fare smarrire i tre livelli di indagine marxiana, che muove dalla manifestazione fenomenica del valore per addentrarsi nella sfera produzione e risalire poi alla sfera della distribuzione. Anche la distinzione logica tra produzione come momento particolare e produzione come momento generale del processo economico viene meno: quando si conchiude il circolo produzione-distribuzione-scambio-consumo “il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un’articolazione della produzione”28 . L’analisi del piano capitalistico, che identifica lo Stato con il capitale sociale, tende a resuscitare la filosofia della storia avversata da Panzieri: estendendo progressivamente la logica della fabbrica alla società, generalizzando il rapporto di lavoro salariato, lo sviluppo capitalistico si incarica di far crescere linearmente la classe operaia. Se la principale forza produttiva sviluppata dal capitale è la classe operaia, che impone con la propria conflittualità lo sviluppo delle altre forze produttive, lo sviluppo del capitale è il potere degli operai.

La rivoluzione copernicana, che conferisce un carattere inconfondibile all’operaismo italiano, è annunciata nell’articolo del ’64 Lenin in Inghilterra ed è completata nel saggio del ’66 Marx, forza-lavoro, classe operaia. L’intento di Tronti è di rovesciare l’immagine della forza-lavoro incorporata nel dominio capitalistico attraverso l’adozione di un metodo d’analisi che muova dalla precedenza storica, logica e politica dei movimenti della classe operaia rispetto ai movimenti del capitale. Dall’idea di rovesciare il rapporto tra sviluppo capitalistico e lotte operaie per promuovere ricerche su una storia autonoma della classe, ricostruita come successione di figure egemoni, si passa ad una lettura attivistica e interamente politica della teoria marxiana del valore, che conduce all’ipotesi esplicita di un parricidio di Marx da parte del movimento operaio. L’inversione del rapporto tra capitale e classe operaia è concepita come una correzione leninista di Marx: essa fa precedere la politica alla scienza, la teoria della rivoluzione alla critica dell’economia politica, gli operai come classe alla categoria economica del capitale. La volatilizzazione della teoria del valore è funzionale all’inversione: sganciando il lavoro produttivo dai concetti di valore e plusvalore, la teoria marxiana dello sfruttamento è trasformata in una forza d’attacco, il concetto di alienazione viene ad esprimere il potenziale di estraneità piuttosto che la passività e la subordinazione della classe operaia, la forza-lavoro è tramutata in lavoro vivo, lavoro in atto, di cui il capitale è un semplice riflesso. Secondo Tronti la duplice natura del lavoro scoperta da Marx non significa lavoro contenuto nella merce, bensì classe operaia dentro e contro il capitale: la classe, elemento dinamico del capitale, causa prima dello sviluppo, produce il capitale come potenza economica, ma può rifiutarsi di produrlo separandosi da sé come categoria economica, negandosi come forza produttiva e affermandosi come potenza politica. La teoria del valore è dunque una tesi politica, una parola d’ordine rivoluzionaria, un rapporto politico della produzione capitalistica:

“Valore-lavoro vuol dire allora prima la forza-lavoro poi il capitale; vuol dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla forza-lavoro, in questo senso valore misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è condizione del capitale29 .

La natura capitalistica della cooperazione della forza-lavoro e i processi di atomizzazione evidenziati da Panzieri sono oscurati: per Tronti il rapporto di classe esiste già nella sfera della circolazione e “non si può parlare, in nessun momento storico di operaio singolo: la figura materiale, socialmente determinata, dell’operaio nasce già collettivamente organizzata”30 . Il rapporto antagonista di classe, il rapporto di lavoro salariato, “precede dunque, provoca, produce il rapporto capitalistico”31 . Mentre la forza politica operaia è legata alla forza produttiva del lavoro salariato, il capitale è concepito come interesse economico che, sotto la minaccia operaia, è costretto a diventare forza politica, a sussumere la società, a farsi apparato di repressione statale. Mentre la classe operaia esiste indipendentemente dai livelli istituzionali, la classe dei capitalisti, secondo Tronti, ha bisogno della mediazione di un livello politico formale che faccia vivere soggettivamente un morto meccanismo oggettivo.

Motore negativo del capitale, capace di produrlo come potenza economica e di provocarne la crisi politica, la classe operaia non è l’erede della filosofia classica tedesca, dell’economia politica inglese e del socialismo politico francese, ma è il soggetto destinatario del pensiero grande-borghese distruttivo e reazionario, lucidamente consapevole del conflitto sociale moderno. Contro la teoria del rapporto dialettico tra capitale e lavoro la classe operaia, secondo Tronti, deve organizzarsi come “elementoirrazionale”, come “unica anarchia che il capitalismo non riesce socialmente a organizzare32 . L’antiumanesimo, l’irrazionalismo e l’antistoricismo devono perciò diventare armi pratiche di lotta, strumenti del movimento negativo che abolisce lo stato di cose presenti. Il pensiero operaio mobile e asistematico, distruttore di tutti i valori, innesta il nichilismo nietzscheano su un impianto idealistico-soggettivo di sapore attualistico: il risultato è un dispositivo teorico che consente di attribuire alla “rude razza pagana” una soggettività originariamente collettiva e una volontà di potere maestosamente espansiva33 .

La prima ricerca sul pensiero negativo di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche matura nell’ambito del progetto trontiano di fare incontrare il nichilismo operaio con il pensiero della crisi34 . Contro l’ideologia che chiama il movimento operaio a resuscitare dalle ceneri gli indirizzi democratico-progressisti della cultura borghese, Massimo Cacciari si incarica di rovesciare La distruzione della ragione di Lukàcs. Se il conflitto di classe è la concreta base storica del processo di dissoluzione del sistema hegeliano, sintesi espressiva della società cristiano-borghese, il pensiero negativo non esprime una reazione irrazionalistica alla dialettica, ma è l’ideologia dei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.

L’operaismo di destra: dall’autonomia del politico al tramonto della politica

Nel Poscritto del ’71 alla seconda edizione di Operai e capitale inizia a delinearsi il progetto di carpire il segreto del politico moderno per consegnarlo come arma offensiva al partito della classe operaia. Tronti avanza l’ipotesi che dalle lotte operaie statunitensi degli anni Trenta, più efficaci di quelle europee perché non affette da incrostazioni ideologiche, siano scaturite una new politics operaia e unanew economics del capitale, che contrassegnano l’ingresso in un’epoca post-classica. Gli studi sul movimento consiliare tedesco, sulla crisi della Repubblica di Weimar, sulla Nep e sulla crisi del ’29 si inquadrano in un nuovo ambito di ricerca: il rapporto tra la rottura rivoluzionaria di Lenin, la teoria economica di Keynes, la sociologia del potere di Weber, la teoria della rivoluzione conservatrice35 .

Intervenendo nel ’72 ad un seminario di scienze politiche presso l’Università di Torino, Tronti precisa che, dopo l’esperienza del New Deal e la nascita del partito di massa, i rapporti di produzione si politicizzano, viene meno l’autonomia della civil society e lo schema di sviluppo dall’economico al politico, dalla fabbrica allo Stato, non funziona più36 . Denuncia quindi l’assenza di una teoria marxista della politica, confina il pensiero di Marx in un’epoca di capitalismo liberale ormai concluso, propone un rinnovamento del movimento operaio attraverso l’indagine di un nuovo oggetto specifico: l’autonomia del potere nei confronti della società. Alla scoperta che nel ’29 c’è un’unica crisi per il capitale e per la classe operaia segue la scoperta che anche il politico e lo Stato moderno sono un terreno comune per operai e capitale. Quando allo sviluppo succede la crisi, lo Stato e il partito sostituiscono la fabbrica come terreno espressivo della potenza politica operaia e il dualismo di potere riguarda il rapporto tra la società e lo Stato piuttosto che il rapporto tra la fabbrica e la società.

Per costruire una teoria operaia della politica, Tronti interroga la storia del realismo politico e dello Stato moderno. La concretezza e la volontà di potenza operaia sono intraviste nel pensiero politico weberiano, nella dottrina hobbesiana della sovranità, nella teoria del principe di Machiavelli, nel conflitto amico-nemico di Carl Schmitt. L’indagine della politica moderna è pensata come un passaggio dall’anatomia della società a quella del potere: mentre tra Hobbes e Hegel cresce la realtà dello Stato, nell’epoca di Marx la società si prende una temporanea rivincita, ma negli anni Trenta il New Dealroosveltiano, il decisionismo totalitario, la costruzione staliniana del socialismo segnano un ritorno in grande stile della politica. Nell’epoca della grande crisi lo Stato salva il capitalismo, lo Stato costruisce il socialismo. Ciò che sembra un risultato – l’intervento dello Stato nel capitalismo maturo – va ripensato come l’inizio del processo: l’accumulazione di potere precede l’accumulazione capitalistica.

Nel corso degli anni ’70 Cacciari propone una nuova lettura del pensiero negativo che, da Nietzsche a Heidegger, da Mach a Wittgenstein, esprime la crisi di ogni rifondazione sintetica nel passaggio alla ragione post-classica, segnala l’apertura di nuovi spazi alle tecniche del politico nel passaggio al capitalismo organizzato37 . Se l’età della ragione classica trova espressione nella scienza galileiana e nella dialettica hegeliana, il pensiero negativo riflette la crisi dei fondamenti del sapere scientifico e la perdita di una concezione stabile dell’Essere: il tramonto della sintesi dialettica e l’affermazione di una molteplicità di giochi linguistici indicano, secondo Cacciari, che il politico guadagna una dimensione autonoma come tecnica di governo dei conflitti.

Il principale obiettivo polemico dell’operaismo di destra diventa la concezione del marxismo come sistema teorico, come dialettica che lega organicamente filosofia, politica, economia. Il marxismo, secondo Cacciari, non è una critica dell’economia, della società e della politica né un discorso sul metodo scientifico: privato di articolazione sistematica e di spessore teorico, ridotto a forza storico-politica, il marxismo è soltanto volontà di potenza organizzata capace “di esercitarsi concretamente sulla diversamolteplicità dei linguaggi della Tecnica”38 . Mentre l’operaismo di sinistra fa riferimento ad una lettura dionisiaca e anarchica del pensiero negativo, l’operaismo di destra propone una lettura neorazionalistica del nichilismo: la fine della metafisica e l’oblio dell’essere legittimano un progetto di intervento nel mondo consapevole del rapporto indissolubile tra necessità e volontà di potenza, tra burocrazia e politica. Secondo Cacciari il pensiero di Nietzsche non deve essere letto né come pensiero della liberazione delle forme simboliche né come apologia della differenza, valorizzazione di ciò che è interdetto dalla ragione, celebrazione di autonomia come alterità irriducibile al processo della razionalizzazione capitalistica. L’identificazione storica tra ragione e razionalizzazione capitalistica, tra primato del soggetto e dominio della tecnica, rende regressive la critica dei processi di burocratizzazione e di specializzazione e la rivendicazione di una ragione o di una soggettività non integrata nel sistema.

L’annichilimento dell’essere, la sua riduzione a valore soggettivo, acquista un significato costruttivo: il dialogo tra heideggerismo e marxismo non deve ruotare intorno all’emancipazione dall’alienazione, ma va iscritto nell’orizzonte della perdita di patria e del rapporto inestricabile tra soggettività e tecnica. La risoluzione della filosofia in prassi politica, la liquidazione dei valori tradizionali da parte dell’oltreuomo e il compimento della tradizione metafisica nell’organizzazione tecnico-scientifica indicano che il tramonto della filosofia dispiega nuovi ordini, nuove forme di razionalità e di volontà di potere.

Nella seconda metà degli anni ’70 il progetto di riforma dello Stato cede il passo ad un progetto di governo della crisi capitalistica che fa perno su una lettura interamente politica della centralità operaia39 . Dopo aver rovesciato la crisi del marxismo nella cultura della crisi e aver sostituito la totalità dialettica con i saperi parcellizzati, l’autonomia del politico si trasforma negli anni ’80 in una teoria del limite: la politica non è chiamata a dispensare felicità e piacere, a produrre liberazione e a rappresentare l’intero, ma è anzitutto decisione di rinuncia a rappresentare una soggettività sociale e a produrre nuove forme di potere. Dopo l’89, quando oggetto di riflessione diventa la crisi della politica, Tronti riconosce con coraggio che il passaggio dell’autonomia del politico “è servito all’impianto di un decisionismo finalizzato alla modernizzazione conservatrice”40 .

Operaismo di sinistra e post-operaismo: dall’operaio sociale al cognitariato post-fordista

La premessa della teoria dell’operaio sociale è la ricostruzione della storia interna della classe operaia – auspicata in Operai e capitale – come una successione di figure egemoni: ad ogni manovra di ristrutturazione capitalistica, indotta dalle lotte operaie, corrisponde la nascita di una nuova composizione tecnica della forza-lavoro che determina una nuova composizione politica. Dopo la rivoluzione sovietica, la composizione di classe dell’operaio professionale, base del partito leninista, è stata distrutta dalla ristrutturazione taylorista-fordista che ha massificato la forza-lavoro. Dopo la crisi del ’29 la regolazione politica del ciclo economico ha sostituito il funzionamento spontaneo della legge del valore di scambio: lo Stato, espressione del capitale collettivo, è diventato garante della pace sociale grazie all’integrazione socialdemocratica dei lavoratori e al contenimento della crescita dei salari entro proporzioni tali da non alterare gli equilibri della produzione capitalistica.

La teoria dell’operaio sociale nasce dall’esigenza di approfondire l’inversione trontiana del rapporto tra capitale e classe operaia a partire dal blocco dello sviluppo determinato dalla conflittualità dell’operaio-massa41 . Nelle lotte degli anni ’60 la classe operaia ha manifestato la propria estraneità alle leggi dell’economia politica e al rispetto delle compatibilità istituzionali: le rivendicazioni salariali hanno fatto saltare il circolo virtuoso tra crescita dei redditi e produzione di massa. Negri interpreta l’insorgenza dell’autonomia operaia, la capacità di imporre un salario indipendente dall’accumulazione capitalistica, come un processo che mette in crisi la legge del valore, provocando una sproporzione tra lavoro necessario e pluslavoro.[Riccardo Bellofiore ha sottolineato che l’impostazione operaista, secondo cui il valore è esito variabile del conflitto tra salario e profitto, è sraffiana più che marxiana (cfr. R. Bellofiore, L’operaismo degli anni ’60 e la critica dell’economia politica, in “Unità proletaria”, n. 1-2, 1982]. La rottura del rapporto di subordinazione del salario al profitto determina la crisi dello Stato keynesiano e il passaggio dallo Stato-piano allo Stato-crisi: lo Stato, anziché promuovere sviluppo, produce crisi tramite una manovra deflazionistica volta a frenare l’espansione delle forze produttive che intaccano la proporzione dei rapporti di forza tra le classi42 .

L’analisi del passaggio allo Stato-crisi, cogliendo l’imminenza di una ristrutturazione capitalista in concomitanza con la crisi petrolifera e la tempesta valutaria provocata dalla inconvertibilità del dollaro, anticipa alcuni tratti del neoliberismo. La manovra di ristrutturazione punta sul decentramento produttivo e sulla disgregazione della figura dell’operaio-massa:

“Il capitale mette la fabbrica, come punto di valorizzazione del circuito sociale della produzione, contro la società come ambito di devalorizzazione, come sede della massificazione, e contemporaneamente la società come immagine della macchina sociale di produzione contro la fabbrica in quanto sede privilegiata del rifiuto del lavoro e dell’attacco selvaggio al profitto”43.

Negri prevede che, con il venir meno del ruolo dello Stato quale promotore dello sviluppo nella invarianza dei rapporti di forza tra le classi, si profili un rovesciamento della sequenza Stato, piano, impresa: lo Stato si subordina al comando d’impresa, l’autonomia relativa delle istituzioni politiche scompare, la sovranità nazionale si indebolisce a beneficio di imprese multinazionali o di corpi amministrativi separati.

Le capacità di analisi si affievoliscono nel tentativo di interpretare la manovra di ristrutturazione come un processo dinamico destinato a promuovere la ricomposizione di classe e a suscitare un nuovo soggetto già unificato e compatto, capace di estendere a tutta la società la potenza antagonista dell’operaio massa. Facendo riferimento al Capitolo VI inedito del I libro del Capitale, Negri interpreta il nesso tra la fabbrica e la società in chiave di estensione della cooperazione produttiva, di formazione di un lavoratore collettivo che fa venire meno la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Quando il comando d’impresa si estende alla società e il lavoro produttivo si identifica con il lavoro salariato, sorge la fabbrica diffusa ed emerge la figura dell’operaio sociale: in reazione alla caduta del saggio di profitto, il capitale è costretto a diffondere il processo di valorizzazione alla società, ma la ristrutturazione non può ristabilire margini di profitto perché la diffusione del comando di impresa è anticipata dall’estensione dei comportamenti antagonisti dell’operaio-massa44 . Con l’estensione della relazione salariale a tutta la società, la produzione in generale non coincide più, come in Operai e capitale, con il processo di produzione immediato e viene meno la contrapposizione tra la fabbrica e la società: la società non è più il luogo della passività e della disgregazione, ma diventa il terreno privilegiato del conflitto.

La diffusione della cooperazione produttiva e l’emergenza dell’operaio sociale realizzano, secondo Negri, la tendenza verso la caduta storica della barriera del valore, anticipata da Marx nel Frammento sulle macchine. Nel testo dei Grundrisse Marx metterebbe in crisi la legge classica del valore e svolgerebbe fino in fondo la critica dell’economia politica: l’integrale socializzazione del lavoro provoca la crisi dei rapporti di scambio perché il lavoro singolo non esiste più e il denaro, che non può misurare la forza sociale del lavoro combinato, diventa funzione della riproduzione del rapporto di lavoro salariato.

Nell’ambito dell’estinzione storica della legge del valore e della sua affermazione forzosa mediante il comando politico, la compenetrazione tra struttura e sovrastruttura diviene totale, la sfera della circolazione e quella della produzione si unificano nella dimensione della riproduzione. Lo Stato diviene immediatamente sintesi della società civile, il capitale sociale diviene categoria effettuale mentre, al polo opposto, si costituisce il lavoro sociale complessivo: lo scontro prefigurato in Operai e capitale tra fabbrica e società capitalistica si ridisegna come scontro tra il lavoro sociale e lo Stato rappresentante del capitalista collettivo. Il valore di scambio, estinto economicamente, sopravvive come pura coercizione politica; il comando d’impresa, sganciato dal valore, diventa mero rapporto di forza, disegno soggettivo e arbitrario di dominio; il capitale non è più valore che si valorizza ma volontà di potere, autonomia del politico e “la critica dell’economia politica è immediatamente critica dell’amministrazione, della Costituzione, dello Stato”45 . Contro l’attendismo storicistico e contro il tentativo socialista di restaurare la legge del valore tramite la riforma dello Stato, Negri proclama l’attualità del comunismo: il rifiuto del lavoro, inversione della legge del valore, apre spazi reali per l’indipendenza operaia e innesca la transizione come processo costitutivo sul terreno dell’alternativa46 .

La caduta della barriera del valore porta in primo piano i temi dell’autovalorizzazione e della forza-invenzione. L’autovalorizzazione è la riappropriazione di ricchezza e di potere contro i meccanismi capitalistici di accumulazione e sviluppo. Se in Operai e capitale la forza-lavoro è classe già nella sfera della circolazione, Negri scopre la riproduzione della forza-lavoro come terreno di antagonismo, ambito di lotta alternativo a quello del rapporto di produzione diretto. L’estraneità alla valorizzazione capitalistica della piccola circolazione – la parte di capitale anticipato con cui l’operaio acquista i mezzi di sussistenza – fonda la possibilità di un’autonomia operaia che presuppone l’indipendenza dei bisogni e dei consumi dallo sviluppo capitalistico. Il tema della forza-invenzione è legato all’emergenza del sapere quale principale forza produttiva: nel passaggio dal Welfare al Warfare (Stato della rendita politica o Stato nucleare) tutta la forza produttiva del lavoro diventa forza-invenzione che divorzia dal capitale:

“il concetto unitario sviluppo capitalistico si rompe: da un lato lo sviluppo del capitale costante diviene uno sviluppo distruttivo, dall’altro le forze produttive debbono emanciparsi radicalmente dal rapporto di capitale”47 .

Il tema della forza-invenzione prospetta la dissoluzione del concetto di plusvalore relativo: secondo Negri, allorché il rifiuto del lavoro provoca l’affermazione del lavoro tecnico-scientifico, la produttività si separa dal plusvalore, il lavoro non si fonda più sul rapporto con il capitale ma sulla propria essenza cooperativa. Per sottolineare che l’autovalorizzazione operaia è esplosione dell’antagonismo, rottura radicale con la totalità dello sviluppo capitalistico, Negri scardina l’impianto dialettico delle categorie marxiane. In sintonia con il post-strutturalismo, che celebra il pensiero di Nietzsche come alba della contro-cultura, critica del logocentrismo, negazione di tutti i codici, l’operaismo di sinistra enfatizza la differenza contro la dialettica, considerata sinonimo di logica del dominio, integrazione forzosa delle differenze, primato dello Stato sull’irriducibile pluralità della società.

All’inizio degli anni ’80 Negri manifesta un interesse crescente per la filosofia di Deleuze,  dalla quale trae ispirazione per una rilettura di Spinoza e per la messa a punto di una concezione positiva – non più dialettica, dualistica e animata da un motore negativo – dell’autonomia operaia. In anni dominati dai temi della crisi della razionalità, della fine della modernità e del trionfo del nichilismo, la filosofia di Deleuze è interessante perché il rifiuto della logica negativa e dell’ontologia hegeliana non approda né all’ontologia heideggeriana dell’essere per la morte né ad una prospettiva deontologica. Il filosofo francese sviluppa, infatti, una logica affermativa dell’essere nel tempo; costruisce un movimento positivo della differenza, alternativo alla determinazione tramite differenza negativa; propone una concezione assoluta, non dialettica, della negazione quale distruzione che sgombra il terreno per una nuova costruzione; coniuga il concetto spinoziano di potenza, con il concetto marxiano di forza produttiva e con il concetto nietzscheano di volontà di potenza per gettare un ponte tra l’ontologia e la politica.

Nei testi di Spinoza Negri cerca un’ontologia materialista rigorosamente immanente, ove lo spessore della costruzione dell’essere non è annullato dalla temporanea rivincita di forze reattive; un’ontologia della superficie, che rifiuta fondamenti nascosti e profondi e non contempla strutture precostituite; una filosofia ontologica della prassi, che propizia la liberazione delle forze produttive dai rapporti di produzione; un antidoto alle concezioni deboli e ciniche dell’essere, che separano sostanza e potenza e prospettano un pragmatismo progettuale indifferente ad ogni contenuto48 . In Spinosa il tempo è potenza, anziché destino di deiezione; l’essere è forza produttiva ed egemonia della pienezza, anziché impossibilità e vuoto di presenza; l’etica è articolazione dei bisogni produttivi, sviluppo della vita desiderante; la ragione è organizzazione dei bisogni da parte dell’immaginazione produttiva; la società politica è risultante non dialettica di potenze singolari che, non avendo un’origine privata, non devono essere mediate ma si compongono spontaneamente in una potenza collettiva. Negando dualismi tra anima e corpo, gerarchie dell’essere e ordini presupposti all’agire, il filosofo olandese consente, secondo Negri, di individuare una moderna tradizione materialista, alternativa a quella dialettica, incentrata sui processi costitutivi del desiderio. La modernità può essere pensata come una rivoluzione incompiuta, nell’ambito della quale è sempre vissuta un’alternativa tra lo sviluppo delle forze produttive e il dominio dei rapporti capitalistici, tra la potentia della moltitudine e la potestas dello Stato, tra la vis viva e le forze dell’espropriazione. Il repubblicanesimo di Machiavelli, la democrazia assoluta della moltitudine di Spinoza e l’autogoverno dei produttori di Marx rappresentano la filosofia della potenza contro il potere, la sovversione contro la sovranità, il potere costituente che non si lascia riassorbire nel potere costituito49 .

Il confronto con l’ontologia prospettivista e costruttivista di Deleuze e la rilettura di Spinoza sono preliminari ad una rielaborazione, negli anni ’90, della teoria dell’operaio sociale che si fonda sul concetto di lavoro vivo come produzione di soggettività, potere costituente della società, autonomia produttiva dalla sfera pubblica statuale e dal comando d’impresa50 . Il lavoro vivo non ha i tratti del popolo, dell’unità coesa, bensì i tratti della moltitudine, che rifugge l’unità politica, non stringe patti, non trasferisce diritti, recalcitra all’obbedienza, non converge in una unità sintetica – la volontà generale – ma condivide il general intellect. La moltitudine è pensata come comunità non sostanziale e non rappresentabile di coloro che non si sentono a casa propria, condividono le facoltà del genere umano e fanno esodo dalle costrizioni statali. Le possibilità della defezione dipendono dall’ipotesi che l’avvento della produzione di comunicazione a mezzo di comunicazione segni l’abolizione del lavoro salariato e l’estinzione dello Stato quale monopolio della decisione politica e dell’uso legittimo della forza.

La nuova versione dell’operaio sociale presuppone le indagini sul lavoro autonomo di seconda generazione – dotato di capacità cooperative, innovative e imprenditoriali – e gli studi sul postfordismo e sulla rivoluzione informatica, che ipotizzano il passaggio ad un nuovo modello di accumulazione caratterizzato dalla flessibilità e smaterializzazione dei processi produttivi, dalla deterritorializzazione delle imprese, dall’introduzione di sistemi modulari o a rete51 . I processi di finanziarizzazione del capitale, non più governabili dalle istanze politiche nazionali, segnerebbero la crisi della forma Stato e delle istituzioni classiche della democrazia rappresentativa. Applicando lo schema del rovesciamento diOperai e capitale, Negri afferma che l’avvento della produzione postfordista è stato anticipato dalle lotte di massa che hanno rifiutato il lavoro salariato e disciplinato. Il capitalismo ha trovato la via della ristrutturazione grazie alla capacità di trasformare in risorsa produttiva comportamenti conflittuali, quali l’esodo dalla fabbrica, il disamore per il posto fisso, la familiarità con le reti comunicative. La nuova epoca del rapporto tra capitale e lavoro è caratterizzata da una mutata composizione della forza-lavoro, per cui la sostanza del lavoro è sempre più astratta, immateriale, intellettuale e la forma di lavoro più mobile e polivalente. Insieme a modelli di regolazione estesi su linee multinazionali emerge una nuova forma di sovranità, non nazionale ma imperiale, che segnerebbe la fine del colonialismo e dell’imperialismo e sarebbe stata anticipata dall’internazionalismo operaio e dal desiderio nomade dell’operaio sociale52 . Negri ripropone l’impianto monistico di Operai e capitale: il governo imperiale è una macchina vampiresca e parassitaria, dotata di un’efficacia puramente regolativa, che dispiega il potere in modo negativo. Il processo di produzione si costituisce ormai fuori dal rapporto di capitale che interviene solo ex post per esercitare funzioni di controllo. Il tempo pieno della cooperazione si oppone al tempo vuoto del comando, la produttività sociale si confronta con un deficit ontologico. Il rapporto capitalistico è sempre più simbolico e irreale, “un vuoto apparato di costrizione, un fantasma, un feticcio”53 . Il potere costituente della soggettività antagonistica, connotata dalla capacità di agire oltre la misura, non si sedimenta mai in potere costituito; la sua razionalità è definita dall’illimitatezza del suo porsi, il suo movimento è insofferente alla dialettica e alla memoria54 .

Per molti autori di formazione operaista il postfordismo è un modello che esprime la compiuta coordinazione del lavoratore collettivo e la definitiva separazione tra il lavoro produttivo e il comando d’impresa. Il lavoro parcellizzato e ripetitivo sarebbe relegato in posizione residuale e il sapere astratto, divenuto principale risorsa produttiva, corrisponderebbe alla realizzazione empirica del concetto digeneral intellect. Mentre per Marx, però, il general intellect è capitale fisso, capacità scientifica oggettivata nel sistema delle macchine, per i post-operaisti la distinzione tra capitale costante e capitale variabile è venuta meno: il lavoro vivo, depositario di competenze cognitive non oggettivabili nel sistema delle macchine, non è forza-lavoro attivata dal capitale, ma imprenditorialità comune, intellettualità di massa. Mentre per Marx la cooperazione capitalistica è manifestazione della legge del plusvalore, i post-operaisti ritengono che il capitale abbia perduto ogni capacità innovativa e organizzativa, il potere di cooperazione sia totalmente immanente alla forza-lavoro, la diffusione del sapere sociale e la ricomposizione degli strumenti di produzione in una soggettività collettiva abbiano reso anacronistica la proprietà privata dei mezzi di produzione.

La cooperazione sociale postfordista, abolendo il confine tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra qualità professionali e attitudini politiche, segnerebbe la crisi delle categorie classiche della politica moderna. Quando il sapere sociale complessivo e la comune competenza linguistica divengono lo spartito del lavoro contemporaneo, il lavoro assume le attitudini proprie dell’agire politico e lo spazio della politica non è più la polis ma la vita.  A livello di realizzazione del general intellect, si verifica dunque il passaggio dalla società disciplinare alla società governamentale, dal sabotaggio alla diserzione, dal biopotere alla biopolitica.

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1.   Cfr. A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Verona, ombre corte 2007 (1a edizione 1979); S. Mezzadra, Operaismo voce in Enciclopedia del pensiero politico, diretta da R. Esposito e G. Galli, Roma-Bari, Laterza 2000, pp. 497-498; M. Turchetto, De “l’ouvrier masse” à l’“entrepreneurialité comune”: la trajectoire déconcertante de l’operaïsme italien, in Dictionnaire Marx contemporain, Paris, Presses Universitaires de France 2001, pp. 297-317;  G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero (a cura di),Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri, Roma, DeriveApprodi 2005. 
2.   Cfr. S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Roma, Edizioni Alegre 2008. 
3.   Cfr. C. Preve, La classe operaia non va in paradiso: dal marxismo occidentale all’operaismo italiano, in AA. VV.,Alla ricerca della produzione perduta, Bari, Dedalo 1982, pp. 63-121. 
4.   M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi 1966, p. 113. 
5.   R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi” 1959-1964. Scritti scelti a cura di S. Merli, Pisa, BFS 1994, p. 117. 
6.   Cfr. G. Trotta e F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da “Quaderni rossi” a “classe operaia”, Roma, DeriveApprodi 2008 
7.   V. Dini, A proposito di Toni Negri. Note sull’operaio sociale, sul dominio e sul sabotaggio, in “Ombre rosse”, n. 24, 1978, p. 5. 
8.   Cfr. A. Asor Rosa, Introduzione come quadro di problemi, in Intellettuali e classe operaia, Firenze, La Nuova Italia 1973, pp. 1-36. 
9.   Cfr. S. Bologna (a cura di), La tribù delle talpe, Milano, Feltrinelli 1978. 
10.   Cfr. G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero, Futuro anteriore. Dai “Quaderni rossi” ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Roma, DeriveApprodi 2002. 
11.   Cfr. M. Turchetto, Ripensamento della nozione“rapporti di produzione” in Panzieri, in AA. VV., Ripensando Panzieri trent’anni dopo, Atti del convegno di Pisa del 28/29 gennaio 1994, Pisa, BFS 1995, pp. 19-26. 
12.   Sulla rilevanza del contributo di Panzieri per la ridefinizione dell’identità comunista si veda l’introduzione di Paolo Ferrero a Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Milano, Edizioni Punto Rosso 2005, pp. 15-40. 
13.   Cfr. R. Luperini, Marxismo e intellettuali, Venezia-Padova, Marsilio 1974, pp. 85-146. 
14.   Cfr. A. Macchioro, Il momento attuale. Saggi etico-politici, Padova, Il poligrafo 1991, pp. 47 sgg. 
15.   Cfr. F. Fortini, Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti 1985, pp. 24-67; C. Preve, La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (1976-1983), Bari, Dedalo 1984. 
16.   Cfr. M. Tomba, Tronti e le contraddizioni dell’operaismo, in “Erre”, n. 22, 2007, pp. 93-100. 
17.   Cfr. A. Mangano, L’altra linea. Fortini Bosio Montaldi Panzieri e la nuova sinistra, Catanzaro, Pullani Editrice 1992.
18.   Alcuni saggi di Lucio Colletti, che declinano il marxismo come sociologia scientifica e si inscrivono nella ricerca di un’uscita da sinistra dalla crisi del ’56 attraverso un ritorno a Marx e Lenin, appaiono vicini alle posizioni di Panzieri (cfr. L. Colletti, Il marxismo come sociologia, apparso in “Società” nel 1959 e ripubblicato nella raccolta di saggi intitolata Ideologia e società, Bari, Laterza 1969). La distanza è però abissale sulla critica del feticismo tecnologico e del piano del capitale: Colletti è fedele ad un marxismo della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che identifica il socialismo con la pianificazione e colloca nella sfera mercantile la genesi del valore e del lavoro alienato. 
19.   R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi” 1959-1964, op. cit., p. 25. 
20.   R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, ivi, pp. 54-55. 
21.   Sulla distinzione tra marxismo della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione e marxismo della dissimulazione si veda R. Finelli, Alcune tesi su capitalismo, marxismo e “postmodernità”, in AA.VV., Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’età telematica, Roma, manifestolibri 1998. 
22.   R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, in Spontaneità e organizzazione, op. cit., p. 69. 
23.   Ivi, p. 54. 
24.   R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, ivi, p. 122. 
25.   Gianfranco Pala individua il limite principale di Panzieri proprio nel passaggio dalla centralità della critica dell’economia politica alla centralità della critica della sociologia, la qual cosa implica un mutamento del quadro categoriale. La sociologia, infatti, si costituisce in disciplina autonoma sostituendo il concetto di proprietà con quello di gestione, il concetto di modo sociale di produzione con quello di sistema, il concetto di classe con quello di gruppo o ceto. Dalla scelta della sociologia weberiana quale oggetto privilegiato di critica discendono, secondo Pala, una torsione soggettivistica del concetto di classe e l’accoglimento del concetto di piano del capitale che trascura l’analisi marxiana della conflittualità intercapitalistica. Dalla repulsione reciproca tra i capitali, infatti, si evince “l’incapacità assoluta del capitale, per l’inadeguatezza cioè del suo concetto stesso, di estendere alla società il dispotismo di fabbrica” (G. Pala, Panzieri, Marx e la critica dell’economia politica, in AA. VV., Ripensando Panzieri trent’anni dopo, op. cit., p. 71). 
26.   M. Tronti, Operai e capitale, op. cit., p. 38. 
27.   Ivi, p. 37. 
28.   Ivi, p. 51. 
29.   Ivi, pp. 224-5. 
30.   Ivi, p. 233. 
31.   Ivi, p. 149. 
32.   Ivi, p. 82. 
33.   Cfr. V. Sbardella, Le maschere della politica: gentilismo e tradizione idealistica negli scritti di Mario Tronti, in “Unità proletaria”, n. 1-3, 1982, pp. 117-140. 
34.   Cfr. M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, n. 1, 1969. 
35.   Cfr. AA. VV., Operai e Stato, Milano, Feltrinelli 1972. 
36.   Cfr. M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Milano, Feltrinelli 1977. 
37.   Cfr. M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Milano, Feltrinelli 1976. 
38.   M. Cacciari, Heidegger, noi, i Soggetti, ripubblicato in versione ampliata, con il titolo Confronto con Heidegger, in Id., Pensiero negativo e razionalizzazione, Padova, Marsilio 1977, p. 81. 
39.   Cfr. M. Tronti, Operaismo e centralità operaia, in AA. VV., Operaismo e centralità operaia, a cura di F. D’Agostini, Roma Editori Riuniti 1978. 
40.   M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, p. 79. 
41.   La categoria di operaio sociale indica un nuovo soggetto politico, altamente scolarizzato, prodotto della massificazione del lavoro intellettuale (cfr. R. Alquati, Università, formazione della forza-lavoro e terziarizzazione, in “aut aut”, n. 154, 1976).  
42.   Cfr. A. Negri, Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria (1974), in Id., I libri del rogo, Roma, Castelvecchi 1997. 
43.   A. Negri, Partito operaio contro il lavoro (1974), ivi, p. 100. 
44.   Cfr. A. Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico (1976), ivi, p. 148 sgg. 
45.   A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Feltrinelli 1977, p. 18. 
46.   Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, Roma, manifestolibri 1998 (1a edizione 1979). 
47.   A. Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale (1977), in I libri del rogo,op. cit., p. 288. 
48.   Cfr. A. Negri, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano, Feltrinelli 1981; Id.,Spinoza sovversivo, Roma, Pellicani 1992. Entrambi i saggi, insieme a “Democrazia ed eternità in Spinoza” e ad una postfazione, sono stati ripubblicati in A. Negri, Spinoza, Roma, DeriveApprodi 1998. 
49.   Cfr. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Roma, manifestolibri 2002 (1a edizione 1992). 
50.   Cfr. M. Hardt e A. Negri, Il lavoro di Dioniso, Roma, manifestolibri 1995. 
51.   Cfr. S. Bologna e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Milano, Feltrinelli 1997; M. Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in AA. VV., Appuntamenti di fine secolo, Roma, manifestolibri 1995; C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Torino, Bollati-Boringhieri 1999. 
52.   Cfr. M. Hardt e A. Negri, Impero, Milano, Rizzoli 2002. 
53.   M. Hardt e A. Negri, Il lavoro di Dioniso, op. cit., p. 106. 

54.   Cfr. D. Melegari, Il problema scongiurato. Note su Antonio Negri e il “partito” del general intellect, Pistoia, CRT 1998.  

3 commenti:

  1. Roba vecchia ormai.
    Mi pare che l'operaismo più conseguente, attuale e realmente marxiano lo esprima in qualche modo l'argentino Raveli (vedi: https://www.sinistrainrete.info/analisi-di-classe/18209-karlo-raveli-dimensione-operaia-degli-stati-popolari-sardine-ecologismo-antirazzismo-antipatriarcato.html )
    pur con tutti i limiti del suo italiano migrante. E qualcuno sembra che se ne sia finalmente accorto, in un dibattito di Contropiano sugli Stati Popolari. Ma c'è ormai realmente qualche speranza?

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  2. Si, tanto più ora con le polemiche sull'articolo di Luciana Castellina (Su ecologia e lotta di classe, Bertinotti sbaglia, il manifesto). Insomma, come concepire la lotta ecologista come asse anticapitalista?
    Con che rapproti con i settori lavoratori, precari, migranti, ecc.?
    Sono valide ste proposte di Raveli a cui ti riferisci, ed è realmente possibile uno sviluppo di collegamenti - dicevamo: ORGANIZZAZIONE - come lo stesso compagno propone in un altro articolo polemico, 'Apriamo connessioni operaie globali. Verso prossime esperienze e ribellioni per un ancora possibile riscatto dell’umanità'?
    In ogni caso Luciana Castellina, Fabio Vander, e un purtroppo lungo eccetera, mi pare che il vostro "comunismo" sia sempre più volatile. Come del resto dimostra la sacrosanta Luciana quando giunge al punto di scrivere dopo tutti i dibattiti in corso che "quello su cui non ha purtroppo scritto ancora nessuno, ed è quanto ha reso così difficile la vita della sinistra oggi, è come si possa aggregare il soggetto antagonista, vale a dire usare positivamente la ricchezza delle nuove contraddizioni, impedendo che esse diventino invece divisive"!

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  3. Già, nonostante l'italiano migrante, sto Raveli sta centrando anche la crisi di civilizzazione che stiamo sopportando sempre peggio, per esempio in 'Affrontiamo un autentico cambio di paradigma' pubblicato in Sinistrainrete.

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