* Questo testo è già apparso in P. P. Poggio (a cura), L’ALTRONOVECENTO.
COMUNISMO ERETICO E PENSIERO CRITICO, vol. II, IL SISTEMA E I
MOVIMENTI- EUROPA 1945-1989, Fondazione L. Micheletti-Jaca Book, Milano
2011, pp. 223-247. Si ringrazia la Fondazione Micheletti e l’editore. http://www.consecutio.org/
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44
Vedi anche: https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44
Neomarxismo, pensiero operaio, insubordinazione
sociale: tre distinti paradigmi dell’operaismo italiano
(Il saggio mira a distinguere
i profili teorici presenti all’interno dell’operaismo, la corrente del marxismo
italiano che, negli anni ’60, si propone quale alternativa rivoluzionaria alla
strategia togliattiana della via italiana al socialismo e alla politica
culturale del Pci che adotta una problematica democratica, antifascista e
populista in luogo di una problematica socialista, marxista, operaia. La
sociologia politica di Raniero Panzieri e del gruppo dei “Quaderni rossi”, che
fa riferimento al Capitale e ai rapporti sociali di produzione per analizzare
il capitalismo fordista-keynesiano, mette a fuoco l’intreccio perverso tra
razionalità tecnocratica e illusioni democratiche, rifiuta la concezione
progressista della storia e la visione acritica del progresso tecnologico,
mantiene un saldo ancoraggio alla teoria marxiana del valore. La rivoluzione
copernicana del gruppo di “Classe operaia” si propone come operazione di
rottura più che di rivitalizzazione del marxismo: il pensiero operaio di Mario
Tronti segna il passaggio da una prospettiva neomarxista ad una filosofia della
classe operaia, la cui particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con
la Nietzsche-Heidegger Renaissance e dall’uso di un dispositivo
attivistico che trasforma il rapporto di produzione nel prodotto di un’attività
soggettiva. Negli anni ’70, mentre il paradigma dell’autonomia del politico
accompagna il processo di riconversione post-marxista del ceto politico del
Pci, la teoria dell’operaio sociale di Negri, che incontra il movimento del
’77, esplicita la sua vocazione oltremarxiana aprendosi alla filosofia francese
della differenza e anticipando le tesi del postmoderno e del postfordismo)
L’operaismo è una corrente del marxismo italiano che nasce
in risposta alla crisi interna e internazionale del movimento operaio esplosa
nel ’56. Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti
della corrente che, formatasi negli anni Sessanta intorno alle riviste
“Quaderni rossi” e “Classe operaia”, contribuisce in misura rilevante alla
formazione di una nuova sinistra, protagonista della lunga stagione di lotte
operaie e studentesche che si susseguono dal secondo biennio rosso ’68-’69 al
movimento del ’77 1. L’analisi della
composizione di classe, l’uso dell’inchiesta operaia e della conricerca come
strumenti di lavoro politico, la lettura della critica dell’economia politica
come scienza dell’antagonismo di classe, una storiografia innovativa delle
lotte operaie sono considerati i suoi contributi più significativi 2
Interpretato unitariamente come tentativo di riattivare una
strategia rivoluzionaria nell’Europa occidentale, come ricerca di
un’alternativa al socialismo di Stato sovietico e alla via italiana al
socialismo, l’operaismo costituisce un capitolo della storia del marxismo
europeo che, dopo la stagione creativa degli anni Venti, vive negli anni
Sessanta una ripresa teorica al di fuori delle politiche culturali di partito 3 .
Nel quadro della storia nazionale, l’operaismo è un episodio della ricerca di
un rapporto diretto tra intellettuali e classe operaia e rappresenta il
fenomeno di rottura più vistoso con la politica culturale del Partito Comunista
Italiano che fa perno sul nazional-popolare e sulla linea De
Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci e adotta una problematica democratica,
antifascista e populista in luogo di una problematica socialista, marxista e
operaia. Lo storicismo umanistico e progressista del partito di Togliatti,
estraneo alla critica marxiana dell’economia politica e diffidente nei
confronti delle più vivaci correnti del marxismo europeo, è solidale con un
orientamento politico moderato che si giustifica con la storica arretratezza
italiana e la conseguente necessità di completare la rivoluzione democratica.
Se l’anarcosindacalismo di Sorel e “L’Ordine nuovo” di Gramsci hanno dato
espressione, nella prima metà del Novecento, all’orgoglio produttivo e alle
rivendicazioni dell’operaio di mestiere e dell’operaio professionale, con le
parole d’ordine del rifiuto del lavoro, del sabotaggio della produzione, del
salario come variabile indipendente e della garanzia del salario sociale
l’operaismo italiano ha interpretato la combattività dell’operaio-massa e di
una forza-lavoro intellettuale precaria e disoccupata.
Destalinizzazione e razionalizzazione neocapitalistica,
decollo e crisi del modello di accumulazione taylorista-fordista-keynesiano
sono le coordinate entro le quali si sviluppa una storia che è segnata da due
divisioni teoriche, politiche e organizzative: la frattura consumatasi negli
anni ’60 tra una prospettiva neomarxista e una prospettiva più strettamente
operaista; la scissione delineatasi nei primi anni ’70 tra la linea
dell’autonomia del sociale e la linea dell’autonomia del politico.
L’esperienza operaista nasce ufficialmente nel ’61 con la
pubblicazione del primo numero dei “Quaderni rossi”. Animatore della rivista è
Raniero Panzieri, un esponente di spicco della sinistra socialista che,
contrario alla prospettiva del centrosinistra sanzionata dal congresso del PSI
nel ’59, abbandona gli incarichi direttivi nel partito e si trasferisce a
Torino, dove lavora presso la casa editrice Einaudi come responsabile di una
collana di scienze sociali. Nella città simbolo dello sviluppo industriale
italiano Panzieri avvia un lavoro di ricerca autonomo dai partiti riunendo un
gruppo di giovani dissidenti della sinistra socialista e comunista, provenienti
da diverse realtà geografiche, intorno ad un progetto di studio delle
condizioni della classe operaia.
Il gruppo dei “Quaderni rossi” ha il merito di riscoprire
testi di Marx largamente trascurati dalla tradizione marxista – la quarta
sezione del I Libro del Capitale, il Frammento sulle macchine deiGrundrisse,
il Capitolo VI inedito – e di applicare all’analisi delle
trasformazioni di fabbrica i concetti marxiani di sussunzione formale e
sussunzione reale del lavoro al capitale, di lavoro astratto, divisione del
lavoro e scissione delle potenze mentali della produzione. Dalle inchieste di
Romano Alquati sulla forza lavoro alla Fiat di Torino e alla Olivetti di Ivrea
si ricavano i concetti di composizione di classe e di operaio massa. Lo studio
della composizione di classe consiste nell’analisi del nesso tra connotati
oggettivi e connotati soggettivi della forza-lavoro, tra una specifica
composizione tecnica della forza-lavoro, condizionata dalla configurazione del
processo lavorativo, e una determinata composizione politica, che si esprime in
un sistema tipico di comportamenti sociali e di riferimenti organizzativi.
L’operaio massa, tecnicamente dequalificato e scarsamente disciplinato rispetto
all’operaio di mestiere, incarna esemplarmente il concetto di lavoro astratto,
puro dispendio di energia lavorativa, e sembra esprimere un forte potenziale
conflittuale.
La nascita dei “Quaderni rossi”- punto d’approdo di diverse
esperienze politiche e culturali, con radici nel “Politecnico” di Vittorini e
nel laboratorio di Adriano Olivetti, nel socialismo di sinistra di Rodolfo
Morandi e nel marxismo eterodosso di Galvano della Volpe – è uno degli esiti
della mobilitazione di energie intellettuali e politiche provocata dalla crisi
del ’56. La denuncia dei crimini di Stalin al XX congresso del PCUS e le
rivolte operaie in Polonia e in Ungheria delegittimano l’ortodossia
marxista-leninista, favoriscono la ripresa di correnti comuniste libertarie,
egualitarie, antiautoritarie, riaprono il dibattito sul socialismo e sullo
statuto teorico del marxismo. Lo stalinismo non appare più in grado di
unificare il fronte dell’opposizione di classe: il Partito Socialista Italiano
rompe il patto di unità con il PCI, ma la rivendicazione dell’autonomia
socialista si traduce, per la componente maggioritaria del partito, nella linea
di sostegno all’ipotesi del centrosinistra piuttosto che nella linea, auspicata
da Panzieri, della rigenerazione dal basso della politica unitaria di classe.
Nel PCI si precisa in senso moderato la strategia
togliattiana della via italiana al socialismo e del partito nuovo, partito di
massa radicato nella storia nazionale e nelle tradizioni popolari, che insegue
l’alleanza con i ceti medi richiamandosi alla lotta antifascista e alla
costruzione di una democrazia avanzata. Pur ribadendo il legame di fedeltà all’URSS,
Togliatti conferma una linea improntata a realismo tattico, che elegge il
terreno parlamentare ad ambito privilegiato di lotta, punta a consolidare il
quadro costituzionale e a promuovere riforme di struttura. La strategia
progressista, che postula una temporalità storica lineare e cumulativa, e la
politica dei due tempi, che tende a riassorbire gli obiettivi socialisti in
obiettivi democratici, si legittimano con il riferimento ai Quaderni
del carcere di Gramsci, in particolare alle note sul Risorgimento.
Alla metà degli anni ’50 si chiude la fase della
ricostruzione postbellica che, in nome dei prioritari interessi nazionali e
della collaborazione tra movimento operaio e borghesia progressista, ha
restaurato quel potere padronale in fabbrica che aveva vacillato durante la
Resistenza. Si apre una fase di ristrutturazione e di intenso sviluppo
capitalistico fondato su bassi salari, sfruttamento elevato della forza-lavoro,
integrazione nel mercato europeo. Il miracolo economico sembra smentire sia la
tesi terzinternazionalista del ristagno capitalistico nella fase monopolistica
sia la tesi che pone l’accento sui ritardi, le strozzature, gli squilibri
dell’economia italiana. Il deficit analitico delle sinistre
ufficiali rispetto all’impetuoso sviluppo industriale si salda con un deficit politico
nei luoghi di produzione: l’estraneità alla cultura del conflitto sociale
contribuisce nel ’55 alla sconfitta della Fiom-Cgil alle elezioni per il
rinnovo delle commissioni interne alla Fiat.
Negli anni del boom economico e della crisi
della rappresentanza sindacale il gruppo dei “Quaderni rossi” declina il
marxismo come sociologia politica della classe operaia, anziché come storicismo
realistico, e cerca una strategia adeguata al nuovo volto del capitalismo italiano
attraverso un lavoro con il sindacato che vuole abbandonare il ruolo di cinghia
di trasmissione del partito o dello Stato. L’ipotesi di una frattura tra i
partiti di sinistra e la società trova una conferma nelle lotte dei primi anni
’60. Dopo l’autorizzazione accordata dal governo Tambroni al MSI per tenere il
congresso del partito a Genova, nel luglio ’60 scoppiano manifestazioni di
rivolta con decine di morti e feriti. Tentata invano la svolta reazionaria, la
DC avvia un dialogo con i socialisti che porterà nel ’63 alla formazione del
primo governo di centrosinistra, mentre complesse manovre di stampo autoritario
si intrecciano a tentativi golpisti per bloccare il processo di apertura a
sinistra.
Nel ’62 le lotte dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto
sfociano nella rivolta di Piazza Statuto. La diversa valutazione dei
comportamenti operai è occasione di divisione per la redazione dei “Quaderni
rossi” che viene abbandonata dal gruppo fondatore di “classe operaia”, la
rivista di intervento nelle lotte diretta da Tronti. Panzieri, che è estraneo
alla visione salarialista del conflitto di classe tipica dell’operaismo
successivo, non condivide l’idealizzazione del rifiuto del lavoro e del blocco
della produzione, non sopravvaluta la rottura con le organizzazioni storiche
del movimento operaio e assegna al gruppo dei “Quaderni rossi” un lavoro
prevalentemente teorico. Secondo Panzieri, infatti, la politica operaia non è
iscritta nei comportamenti spontanei della forza-lavoro, ma è il prodotto dell’incontro
del movimento della classe con il socialismo. Secondo Tronti, invece, il
rifiuto del lavoro è immediata espressione di autonomia operaia, la strategia
politica preesiste nei comportamenti spontanei degli operai e il compito del
partito è quello di “rilevarla, esprimerla e organizzarla”4Le differenze politiche
rinviano a divergenze teoriche: secondo Tronti la scienza operaia differisce
dalla scienza del capitale perché riduce l’oggettività del rapporto
capitalistico alla soggettività fondante del lavoro vivo. Secondo Panzieri la
classe operaia e il capitale sono due realtà autonome e irriducibili l’una
all’altra: la teoria rivoluzionaria si articola perciò nell’analisi del
capitale e nello studio autonomo del comportamento della forza-lavoro, che può
operare come elemento semplicemente conflittuale o come elemento antagonistico.
Lo sviluppo tecnologico è trainato dalla legge del plusvalore, più che dalla
lotta operaia, e la rivoluzione copernicana di Tronti, secondo la quale il
capitale vivrebbe “solo per autosuggestione”5, tende a mistificare le
sconfitte in successi.
Nel triennio di “classe operaia” (’64-’67) si definiscono
alcuni dei tratti più caratterizzanti della corrente operaista: la concezione
delle lotte come motore dello sviluppo capitalistico, la precedenza dei
movimenti di classe rispetto ai movimenti del capitale, l’anteposizione della
teoria della rivoluzione alla critica dell’economia, la celebrazione della
soggettività e della parzialità della classe, l’atteggiamento cinico e
spregiudicato nel rapporto con la tradizione storica, lo stile al contempo
disincantato e visionario, realistico e profetico. Operai e capitale,
il testo della rivoluzione copernicana di Tronti, è il manifesto unificante di
una fisionomia teorica marcata, discontinua rispetto all’operaismo razionale o
materialista dei “Quaderni rossi”, e rappresenta, secondo alcuni, il nucleo
vero e proprio dell’operaismo6. Mentre il PCI,
dall’ideologia della ricostruzione alla linea berlingueriana dei sacrifici,
attribuisce alla classe operaia una funzione egemonica di direzione e di
responsabilità nazionale, che produce però effetti di subalternità e di
incorporazione, il gruppo di Tronti pone l’accento sugli interessi particolari
piuttosto che sui valori universali della classe, sottolinea l’irriducibilità
degli operai al concetto di volontà generale, contrappone la potenza della
classe senza alleati alla rincorsa dei ceti medi, celebra l’irrazionalità, la
separatezza, la differenza operaia come fondamenti di autonomia. In polemica
con l’appello generico all’impegno civile dell’intellettuale e in polemica con
il neoumanesimo socialista, che intende raccogliere le bandiere della
razionalità e del progresso lasciate cadere da una borghesia decadente, il
gruppo di “classe operaia” dichiara esaurita la battaglia culturale e chiama il
movimento operaio a ereditare il pensiero negativo, distruttore delle
mediazioni e delle sintesi dialettiche.
Dopo la breve esperienza della rivista “Contropiano”, negli
anni ’70 la compagine operaista torna a dividersi in due linee di strategia
politica e di ricerca teorica. Pur avendo atteggiamenti opposti rispetto alla
proposta politica del PCI, l’operaismo di sinistra e l’operaismo di destra, la
linea dell’autonomia del sociale e la linea dell’autonomia del politico,
condividono tuttavia l’ipotesi che il valore si estingue perché il rapporto
politico subentra al rapporto di produzione come luogo della decisione, del
comando, dell’antitesi all’anarchia sociale: “ogni determinazione economica e
sociale scompare, tutto è politica”7Gli operaisti di sinistra, di
cui Negri è uno dei principali leader, rivisitano la teoria
leninista per dare una testa politica al ciclo di lotte dell’operaio massa e
nel ’69 fondano Potere operaio, un partito rivoluzionario che persegue la
ricomposizione politica dei conflitti intorno alla parola d’ordine del salario
sociale. Gli operaisti di destra, rappresentati da Tronti, Cacciari e Asor
Rosa, ripiegano invece sull’entrismo nel PCI e teorizzano lo spostamento del
conflitto sul terreno statuale per consolidare sul piano istituzionale i nuovi
rapporti di forza: poiché il capitale usa la manovra della crisi per impedire
che allo sviluppo economico, innescato dalle lotte operaie, corrisponda un adeguato
esito politico, la classe operaia tramite un partito relativamente autonomo
deve farsi promotrice di un processo di modernizzazione. L’ipotesi è quella di
un’alleanza dei produttori e di una nuova Nep, una gestione dell’economia
capitalistica sotto la guida politica operaia che utilizzi la macchina statale
per sconfiggere le arretratezze della società italiana, per promuovere la
riforma dello Stato e rimettere in moto lo sviluppo. Se negli anni ’60 la
classe operaia è l’autentico soggetto che muove i fili del capitale e la sua
lotta è l’unica attività capace di demistificare l’ideologia, negli anni ’70 il
grande soggetto diventa la volontà di potere del partito e l’organizzazione
politica diventa l’unico orizzonte anti-ideologico del marxismo.
Nei primi anni ’70 si riaccende la conflittualità
intercapitalistica, entra in crisi il sistema di cambi fissi di Bretton Woods,
scoppiano la guerra del Kippur e la crisi petrolifera. Il capitale, impegnato a
recuperare margini di profitto erosi dall’autunno caldo, avvia una manovra di
ristrutturazione che punta ad annientare la combattività operaia. Negri
sviluppa fino all’estremo limite la rivoluzione copernicana di Tronti e
teorizza l’avvento dell’operaio sociale, che abbandona il terreno della
produzione diretta per estendere la conflittualità alla sfera della
riproduzione sociale.
Nel ’73 il segretario del PCI Berlinguer lancia la proposta
del compromesso storico e, di fronte alla recessione economica, sposa la linea
dell’austerità che peserà sulla sconfitta operaia alla fine del decennio. I
successi elettorali del ’75 e del ’76 sembrano indicare nel più forte partito
comunista occidentale il destinatario privilegiato della domanda di cambiamento
che sale dal ciclo di lotte operaie e studentesche. In competizione con il
neogramscismo, che ricava dai Quaderni i fondamenti
dell’eurocomunismo e immagina il compromesso storico come un processo di
crescita della partecipazione democratica, l’operaismo di destra riformula in
termini più spregiudicati, decisionisti ed elitari il primato togliattiano
della politica. Tronti progetta la costruzione di una teoria operaia della
politica adeguata ad una fase di crisi dello sviluppo e di protagonismo dello
Stato. Cacciari rivisita la cultura della crisi per liquidare progetti di
neosintesi dialettica e per ricavare dalla distruzione di ogni ordine
logico-ontologico il primato di una decisione politica sempre più sganciata dai
rapporti sociali di produzione. Asor Rosa riscopre le virtù della politica
rappresentativa, rivaluta le divisioni tradizionali del lavoro e del sapere,
riabilita la figura dell’intellettuale specialista8 Nella seconda metà
degli anni ’70 diviene evidente che l’autonomia del politico è un processo di
riconversione culturale del ceto politico del PCI che aspira a liberarsi dai
vincoli della dialettica, del marxismo, della prospettiva strategica. Se la
politica è borghese, come la cultura, non può essere pensata come critica
dell’ideologia delle classi dominanti e costruzione di una concezione del mondo
più congruente con le condizioni di vita delle classi subalterne, ma va
concepita come competizione fra élite, gioco di potere nella sfera delle
istituzioni rappresentative.
La teoria dell’insubordinazione sociale di Negri, che legge
la strategia del compromesso storico come tentativo di restaurazione
autoritaria della legge del valore, incrocia il movimento del ’77, che fa
emergere nuovi bisogni e una diversa composizione di classe9 Una parte consistente
dell’operaismo di sinistra rompe con il precedente neoleninismo, insegue nuovi
soggetti sociali – studenti, donne, proletariato urbano, emarginati, lavoratori
precari dei servizi – e proclama l’attualità del comunismo inteso come fine
della scarsità, orizzonte del consumo di beni e servizi privi di valore-lavoro,
riappropriazione della ricchezza sociale. Stretta tra la lotta armata delle
Brigate Rosse e la criminalizzazione del dissenso, l’area dell’Autonomia
subisce un pesante attacco repressivo: nel ’79 i suoi dirigenti sono arrestati,
processati, condannati per sovversione contro lo Stato.
L’esperienza operaista si esaurisce nei primi anni ’80,
parallelamente alla deriva del PCI e al riflusso dei movimenti di lotta: la
provocatoria cultura della crisi, che finisce per legittimare una mera presa
del potere per via amministrativa, contribuisce ad archiviare la critica del
capitalismo e a distruggere un autonomo profilo teorico della sinistra.
L’adesione alle utopie tecnologiche del postindustriale, della fine del lavoro,
del piccolo è bello, depotenzia la valenza critica dell’operaismo negriano che
smarrisce i nessi sociali profondi e diventa sempre più visionario. Negli anni
’90 sopravvivono un linguaggio, uno stile di pensiero post-operaista,
riconoscibile nei concetti di “imprenditorialità comune”, “intellettuale
massa”, “moltitudine”, “cognitariato”. Il dibattito sulla globalizzazione, il
movimento altermondialista e il successo internazionale del libro Impero,
di cui Negri è coautore, hanno contribuito più recentemente ad una rinascita di
interesse per l’operaismo italiano e non sono mancate iniziative editoriali per
sottolineare l’attualità della cultura politica risalente a Operai e
capitale, ritenuta idonea a fugare il senso di sconfitta e il vittimismo
passivizzante che deprimono il mondo del lavoro10 La rivisitazione del
filone operaista non può, quindi, eludere interrogativi e prese di posizione
sull’attualità di un lascito che va articolato in tre differenti eredità: il
contributo di Panzieri, che interpreta un’esigenza di rivitalizzazione del
marxismo; il pensiero operaio di Tronti, che segna una rottura con la
tradizione marxista; la teoria dell’operaio sociale di Negri, che esplicita una
vocazione oltremarxista e oltremarxiana.
Per il riferimento privilegiato al Marx del Capitale,
per la capacità di analizzare il capitalismo monopolistico e il socialismo
sovietico in base ai rapporti sociali di produzione, l’elaborazione di Panzieri
è considerata uno dei punti alti del marxismo europeo e un’occasione mancata
per la sinistra italiana11. Panzieri, infatti, non si
limita a riformulare posizioni consiliaristiche, autogestionali, sovietiste,
tipiche delle dissidenze storiche del movimento operaio, ma si adopera per
rinnovare e rilanciare un’identità culturale e politica marxista12. La ripresa della critica
dell’economia politica all’interno del gruppo dei “Quaderni rossi” produce
conoscenze sul neocapitalismo e sulla transizione socialista e orienta una
triplice rottura: con il riformismo socialista subalterno alle esigenze di
modernizzazione capitalistica, con il primato togliattiano della politica
indipendente dal rapporto di produzione, con la filosofia della storia,
alternativamente progressista o crollista, della Seconda e della Terza
Internazionale. E’ una posizione che, con le dovute differenze storiche,
mantiene ancora oggi referenti sociali e politici.
Il pensiero operaio di Tronti segna il passaggio da una
prospettiva neomarxista ad una filosofia della classe operaia, la cui
particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con la Nietzsche-Heidegger
Renaissance e dall’uso di un dispositivo teorico monistico e
attivistico che giunge a configurare il rapporto di produzione come il prodotto
di un’attività soggettiva. La teoria dell’insubordinazione sociale di Negri,
che sostituisce la centralità rivoluzionaria dell’operaio massa con quella di
un proletariato giovanile diffuso, perfeziona lo svuotamento delle categorie
del Capitale e propizia l’incontro dell’operaismo con la
filosofia francese del desiderio e della differenza. La riflessione che gravita
sul proletariato sociale anticipa, per diversi aspetti, le più recenti teorie
del postmoderno e del postfordismo, della produzione immateriale e del
capitalismo cognitivo.
Il neomarxismo di Panzieri nasce dal bisogno di superare la
cattiva unità tra teoria marxista e prassi politica, l’operaismo successivo
nega fin dall’inizio la possibilità di costruire una cultura d’opposizione,
liquida la battaglia teorica per riqualificare la cultura di sinistra e avalla
indirettamente la scissione tra attivismo cieco e formalismo teorico13. La riduzione del marxismo
a volontà organizzata della classe o del partito e l’annichilimento della
dimensione teorica favoriscono, infine, il divorzio della sinistra dalla teoria
marxista e la distruzione di un’identità sociale e politica anticapitalistica.
Panzieri non rinuncia alla teoria marxiana del valore e
mantiene un ancoraggio alle categorie dialettiche, evidente
nell’interpretazione della critica dell’economia politica come disvelamento
delle apparenze capitalistiche, nell’uso della categoria di totalità, nel
rifiuto dell’empirismo, nella visione logico-sistematica del modo di
produzione. Politicamente opposte, l’autonomia del sociale e l’autonomia del
politico convergono tuttavia nel liquidare dialettica e analisi economica,
nell’abbandonare la centralità del conflitto sul terreno della produzione
immediata, nel restaurare una filosofia della storia che precipita in punti di
crisi finale e nel riabilitare le mitologie tecnologiche e tecnocratiche
criticate da Panzieri. Franco Fortini, Aurelio Macchioro e Costanzo Preve hanno
scritto pagine lucidissime sui limiti di una cultura politica che alla fine
degli anni ’70, dopo aver reciso ogni legame con la critica dell’economia
politica e aver reso indeterminato il concetto di marxismo14 , diventa veicolo di
subalternità ad una nuova cultura di destra che si legittima in base alla
centralità dell’impresa capitalistica15 In particolare
l’operaismo di destra, che giunge a liquidare l’intera cultura marxista come un
ostacolo all’uso disincantato delle tecniche del politico, si rivela privo di
originalità e di prospettive: l’autonomia del politico, teorizzata in anni in
cui sta maturando la riscossa dell’economia neoliberista, è destinata a
rovesciarsi, nell’arco di un decennio, in elogio dell’impolitico o presa d’atto
del tramonto della politica.
Se le esigenze oggi più avvertite sono quelle di decifrare
la dialettica di continuità e discontinuità del capitalismo contemporaneo e di
ricostruire una prospettiva comunista, la lezione di Panzieri, che ripete il
gesto marxiano di abbandonare la sfera rumorosa della circolazione per
addentrarsi nel laboratorio segreto della produzione, sembra più feconda del
gesto, ieri trontiano e oggi negriano, di anteporre le lotte operaie al
rapporto di capitale16 La cultura politica
risalente all’operaismo post-panzieriano, basata sull’apologia dello
sradicamento e della perdita di confini, sull’antidialettica e sulla negazione
assoluta di istanze sintetiche, sembra costitutivamente incapace di offrire vie
d’uscita alla crisi che perdura dall’89.
Il neomarxismo di Panzieri
Insieme a Franco Fortini, Gianni Bosio e Danilo Montaldi,
Raniero Panzieri fa parte di una straordinaria generazione di intellettuali
militanti che rifiutano la risposta moderata e riformista alla crisi dello
stalinismo e declinano in modo alternativo alla linea ufficiale i temi del
partito e della classe, dell’internazionalismo e del socialismo, del rapporto
tra teoria marxista e politica. E’ l’“altra linea”17 del movimento
operaio, che concepisce il partito come uno strumento al servizio della
formazione politica del movimento di classe e contrasta il divorzio tra tattica
e strategia, insito nella politica della democrazia progressiva, valorizzando
le esperienze di democrazia di base che prefigurano la costruzione di istituzioni
socialiste. In alternativa alla lunga marcia socialista nelle istituzioni,
Panzieri ipotizza un processo di rinnovamento dal basso del movimento operaio
attraverso la costruzione, nel conflitto, di nuove istituzioni socialiste,
radicate nella sfera economico-produttiva prima che nella sfera
politico-istituzionale. All’obiettivo della programmazione economica
democratica contrappone la linea del controllo operaio in fabbrica, che
ridefinisce il potere operaio in rapporto alle condizioni di produzione piuttosto
che al grado di penetrazione del partito nello Stato.
Di fronte ad un imponente sviluppo tecnologico che comporta
forme più raffinate di mistificazione, Panzieri riconquista il potenziale
critico del marxismo articolando un’analisi strutturale del neocapitalismo tesa
a valorizzare un’autonoma iniziativa di classe, svilita dal provvidenzialismo
storicista, dal progressismo riformista e da ideologie catastrofiste. Il
ritorno al Marx maturo delCapitale e la revisione di Lenin sono le
coordinate per elaborare una strategia che contrasti la stabilizzazione del
dominio capitalistico basata sull’intreccio tra razionalità tecnocratica e
illusioni democratiche. Il principale obiettivo polemico di Panzieri è la
teoria della società opulenta, che predica l’integrazione sociale, la fine
delle ideologie, la morte della politica, la terziarizzazione della società
grazie alle politiche di diffusione del benessere. Il paradigma di Panzieri è
però alternativo alle posizioni marxiste ortodosse e revisioniste che, in nome della
socializzazione crescente delle forze produttive, non mettono in questione la
razionalità dello sviluppo capitalistico e ricorrono, con diversi intenti
ideologici, alla mitologia dello stadio ultimo dello sviluppo capitalistico.
I saggi più importanti pubblicati nel periodo dei “Quaderni
rossi” ruotano intorno ai seguenti temi: la demistificazione della razionalità
tecnologica, principale forma di dissimulazione del dispotismo capitalistico;
lo smascheramento del piano capitalistico operante nella produzione diretta –
espressione della natura autoritaria del coordinamento capitalistico della
forza-lavoro – e la sua estensione alla produzione sociale complessiva come
chiave per decifrare il passaggio dal capitalismo concorrenziale al
neocapitalismo pianificatore; la rivendicazione del valore logico, non solo
storico, delle categorie marxiane che consente di ridefinire gli aspetti
essenziali del capitalismo e del socialismo; la lettura politica delle lotte
operaie degli anni ’60; l’interpretazione del marxismo come scienza critica
legata agli sviluppi della sociologia e all’uso dell’inchiesta18.
Dal laboratorio dei “Quaderni rossi” emergono alcune ipotesi
che tenderanno ad essere dimenticate dall’operaismo successivo: non può essere
teorizzato alcun limite intrinseco allo sviluppo delle forze produttive, che
non è mai scorporato dall’articolazione e dall’approfondimento del dominio
capitalistico; l’unico limite del capitale è l’insubordinazione operaia, che
non si esprime in termini di progresso bensì di rottura, non rivela l’occulta
razionalità insita nel moderno processo produttivo, ma costruisce una
razionalità radicalmente nuova e contrapposta alla razionalità del capitalismo;
il passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico non
implica il superamento del valore, la crisi definitiva del capitalismo o la
dominanza degli apparati politico-ideologici, ma segna piuttosto l’estensione
della pianificazione dalla sfera della produzione alla sfera della
realizzazione del plusvalore; il capitalismo è individuato principalmente da
un’organizzazione del lavoro finalizzata all’estrazione di plusvalore: lo
sfruttamento capitalistico non risiede quindi nelle distorsioni caratteristiche
dei rapporti di distribuzione, dei rapporti mercantili o dei rapporti politici,
ma è connesso al comando nel processo di produzione; il socialismo non si identifica
né con la pianificazione dello sviluppo delle forze produttive né con
l’automazione, né con la riduzione del tempo di lavoro né con la diffusione dei
consumi, ma consiste in una diversa regolazione sociale del processo di
produzione.
Per criticare la concezione neutrale dello sviluppo delle
forze produttive, fondamento di una visione acritica del progresso e di
un’ideologia produttivistica complice dell’intensificazione dello sfruttamento,
Panzieri recupera il concetto marxiano di appropriazione capitalistica della
scienza e della tecnica quale base per lo sviluppo di un piano dispotico del
capitale. L’analisi marxiana del passaggio dalla cooperazione semplice alla
manifattura e alla grande industria mostra chiaramente che “la forza produttiva
sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza
produttiva del capitale”19 : lo sviluppo della
cooperazione nel processo lavorativo, lungi dal socializzare virtuosamente le
forze produttive e dal ricomporre le mansioni lavorative, è piuttosto
l’espressione basilare della legge del plusvalore. La spinta alla
parcellizzazione del lavoro e i processi di automazione comportano la crescita
del capitale costante che succhia lavoro vivo, il crescente controllo del
capitale sulla forza-lavoro, la separazione del lavoro dalle potenze mentali
della produzione. Nell’analisi di Lenin la tecnologia e il piano capitalistico
rimangono estranei al rapporto sociale che li domina e li plasma e l’anarchia è
la caratteristica specifica del capitalismo, l’espressione essenziale della
legge del plusvalore. Dall’analisi marxiana del processo di produzione si
ricavano invece la tendenza del capitale a pianificare la produzione del
plusvalore e la natura dispotica della cooperazione della forza-lavoro, aspetti
che svuotano la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione e
privano di fondamento una concezione del socialismo come pianificazione dello
sviluppo compatibile con metodi dell’organizzazione aziendale capitalistica.
Svelando l’intreccio capitalistico tra scienza, tecnologia e
potere, Panzieri mette a tema un feticismo che non è legato al denaro e alla
sfera della circolazione ma nasce direttamente dalla sfera della produzione.
Allorché la scienza entra al servizio del capitale e diminuisce l’autonomia
della forza-lavoro, il rapporto sociale capitalistico si nasconde dietro le
esigenze tecniche del macchinario: la divisione del lavoro sembra indipendente
dall’arbitrio del capitalista e appare risultato necessario della natura del
mezzo di lavoro. Quando l’uso delle macchine è generalizzato, il dispotismo del
capitale è esercitato in nome di una razionalità che cela sfruttamento e
sottomissione:
“Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere,
la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può,
evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di
produzione (di proprietà), concepiti come un involucro che a un certo grado
dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere semplicemente
perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le
forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale”20.
Ad un marxismo fondato sulla contraddizione tra forze
produttive e rapporti di produzione Panzieri sostituisce un marxismo dello
smascheramento della falsa razionalità e del falso universalismo dello sviluppo
capitalistico, il cui dispotismo non si esprime necessariamente in forme di
governo autoritarie e in forme di violenza brutali, ma si dissimula meglio in
sistemi di regolazione flessibili e in forme statuali democratiche21.
L’analisi marxiana del Capitale, secondo il
fondatore dei “Quaderni rossi”, definisce un modello dinamico, in cui ciascuna
tendenza può diventare una controtendenza, sono ipotizzabili salti verso
diverse fasi di accumulazione, passaggi interni a differenti forme di
espressione del plusvalore. Non esiste alcuna tendenza immanente al superamento
della divisione del lavoro, l’unica costante del modo di produzione
capitalistico è “la crescita (tendenziale) del potere del capitale sulla
forza-lavoro”22 e l’unico limite al
capitale è “la resistenza della classe operaia”23. L’operaismo successivo,
anche per la sua vocazione antisistematica, tenderà invece ad appiattire il
concetto di modo di produzione capitalistico sul modello taylorista-fordista, a
enucleare una successione di stadi che deflagra in un punto di crisi finale o a
restaurare uno schema storico di progressione lineare.
Per analizzare il passaggio dal capitalismo concorrenziale
al neocapitalismo pianificatore, Panzieri non liquida la forma valore, ma
stabilisce un rapporto di successione logica e storica tra il I e il III libro
del Capitale, tra la sfera della produzione immediata e quella
della riproduzione sociale complessiva. Il I Libro analizzerebbe la fase del
capitalismo ove la forma generale in cui si esprime il valore è l’opposizione
tra l’anarchia, caratteristica della divisione del lavoro nella società, e il
piano dispotico, che impronta la divisione tecnica del lavoro. Nel III libro,
analizzando una forma di accumulazione basata su processi di concentrazione dei
capitali e di centralizzazione dei rapporti tra produzione e circolazione, Marx
porta alla luce i tratti di una fase monopolistica che è segnata dalla nascita
delle società per azioni e dalla scomparsa di un saggio generale di profitto.
Con la trasformazione del plusvalore in profitto e dei valori in prezzi di
produzione, il piano del capitale si estende alla produzione complessiva e la
pianificazione autoritaria diventa l’espressione fondamentale della legge del
plusvalore. Nella fase del capitale finanziario, quando la funzione produttiva
si separa dalla proprietà e il profitto diventa interesse, è insita la massima
mistificazione: il capitale appare come denaro che produce denaro e sparisce
ogni traccia del rapporto sociale capitalistico.
Polemizzando con una linea sindacale di difesa delle
professionalità operaie, che tende a frammentare i lavoratori in base alle
qualifiche dell’organizzazione capitalistica, e criticando la pretesa di
disciplinare il conflitto con la concertazione e la politica dei redditi, il
gruppo dei “Quaderni rossi” attribuisce un significato politico alle lotte di
fabbrica degli anni ’60 che portano in primo piano la condizione operaia. Dal
lavoro di inchiesta emerge, infatti, che politica e non tecnica è la ragione
della divisione delle mansioni, delle differenze salariali, della separazione
tra operai specializzati e operai generici, così come politica è la richiesta
operaia di controllo sulla produzione che è, tuttavia, disconosciuta dalle
organizzazioni ufficiali del movimento operaio. La politica dei due tempi, che
insegue l’alleanza con la borghesia progressista e scommette su un’evoluzione
lineare della società, poggia su basi fragili perché separa l’azione politica
dalla struttura economica, oscura il carattere capitalistico dello sviluppo
industriale e ignora la vocazione parassitaria e corporativa della borghesia
italiana. In una fase in cui le grandi concentrazioni industriali e finanziarie
estendono e rafforzano il potere sullo Stato, la continua ricerca di
convergenze di vertice e il piccolo cabotaggio parlamentare finiscono per
contribuire allo svuotamento delle istituzioni democratiche: per contrastare
l’involuzione integralista della società e la spinta totalitaria sulle
istituzioni, che traggono origine nella sfera della produzione, occorre portare
il conflitto politico nei luoghi di lavoro.
Panzieri respinge fermamente le accuse di operaismo e di
anarcosindacalismo: non si tratta di assegnare all’azione sindacale compiti
politici di rottura rivoluzionaria, fermandosi all’immagine empirica della
singola fabbrica e negando la necessità di ricomporre rivendicazioni
frammentarie in un disegno strategico unitario. Si tratta al contrario di
capire che né il livello sindacale né una politica redistributiva possono
soddisfare le istanze politiche emerse nelle lotte perché la rivendicazione di
un controllo sull’erogazione della forza-lavoro è una richiesta di potere
antagonista, che pone le basi per un dualismo di poteri. Le lotte che
ricompongono la forza-lavoro acquistano un significato politico perché il
sistema economico richiede un’assoluta integrazione del capitale variabile nel
capitale costante e ottiene la totale subordinazione del lavoro vivo al lavoro
morto attraverso politiche che impediscono alle singole forze lavoro di
riconoscersi globalmente come classe operaia. L’atomizzazione dei lavoratori è
uno degli aspetti meno esplorati dello sfruttamento capitalistico che, dall’alienazione
del prodotto del lavoro, si estende all’espropriazione del senso del processo
produttivo, fino ad alienare il lavoratore dal suo corpo e dal rapporto con
l’altro lavoratore, separandolo dalla relazione verticale con sé e dalla
relazione orizzontale con l’altro.
In uno dei suoi ultimi saggi Panzieri richiama gli scritti
giovanili di Lenin, che considerano l’opera di Marx come opera di sociologia
scientifica, e l’analisi della modernità di Weber, che ha tenuto in serio conto
il pensiero marxiano, per affermare che il marxismo è una sociologia del
movimento operaio, “una sociologia concepita come scienza politica, cioè come
scienza della rivoluzione”24. L’analisi marxiana nasce
come critica dell’economia politica, come scienza che coglie nella sua
interezza la società capitalistica svelandone la natura dicotomica: il limite
dell’economia classica consiste, infatti, nella considerazione della
forza-lavoro come mero capitale variabile, come componente solo interna al
capitale. Panzieri ipotizza tuttavia che, in ragione della crisi della teoria
economica, il capitalismo abbia perduto il suo riferimento classico all’economia
politica e abbia ritrovato la sua scienza non volgare nella sociologia.
L’importanza crescente della sociologia è il sintomo, secondo Panzieri, di un
mutamento profondo nel modo di funzionare del sistema capitalistico: con
l’autonomizzazione del capitale finanziario il problema fondamentale della
riproduzione non è la tutela dei rapporti di proprietà privata ma il razionale
procedere dell’accumulazione, che non è minacciato da un meccanismo economico
bensì da una crisi di organizzazione del consenso25 .
La rivoluzione copernicana di Operai e capitale
La premessa del pensiero operaio di Mario Tronti è la
lettura di Marx come scienziato, come Galilei del mondo sociale, proposta nel
dopoguerra da Galvano Della Volpe, una lettura che, seppure eterodossa rispetto
allo storicismo crociogramsciano, dopo il ’56 acquista rilievo anche
nell’ambito di “Società”, la rivista teorica del PCI. Il centro dell’interesse
di Tronti non è però il corretto metodo marxista di analisi scientifica, bensì
un pensiero operaio concepito come arma strategica di potenziamento della
prassi. La lettura dellavolpiana, che per il suo antihegelismo è salutata come
un nuovo inizio per il marxismo italiano, costituisce solo un passaggio utile
per liquidare lo spirito sistematico del materialismo dialettico e per ridurre
il marxismo ad un insieme di aforismi e di criteri pratici per un’azione
politica di parte operaia. La priorità è superare un’impostazione confinata
nella battaglia teorica per “fare di nuovo il salto da Marx a Lenin”26 , dall’analisi del
capitalismo contemporaneo alla teoria della rivoluzione operaia.
I saggi raccolti in Operai e capitale propongono
una lettura creativa di Marx, orientata a rivalutare l’elemento soggettivo, il
lato attivo del rapporto storico-sociale: l’idea ispiratrice è portare Lenin in
Inghilterra, rileggere cioè la critica dell’economia marxiana alla luce
dell’avvenuta rivoluzione contro ilCapitale per immaginare la
rottura nei punti alti dello sviluppo, dove si suppone che la classe operaia
sia più forte. Il marxismo è declinato come scienza dell’antagonismo e
dell’insubordinazione operaia, anziché come teoria dello sviluppo oggettivo del
capitale, e viene enucleato un nuovo concetto di crisi capitalistica che ha
natura politica anziché economica, essendo imposta dai movimenti soggettivi
degli operai organizzati.
Il pensiero operaio di Tronti si caratterizza essenzialmente
per quattro scelte teoriche: la concezione attivistica della scienza e
negativa della critica dell’ideologia; la configurazione oppositiva del
rapporto tra la fabbrica e la società; il rovesciamento del rapporto tra
capitale e forza-lavoro; la rivalutazione delle correnti di pensiero
antidialettiche e irrazionalistiche.
La scienza attiva rivendicata dall’operaismo non è la
scienza classica galileiana, ma è la scienza novecentesca della crisi dei
fondamenti e del principio di indeterminazione. Non è una metodologia generale
per fare previsioni esatte e per produrre un sapere oggettivo e universale, ma
è una scienza parziale, soggettiva, unilaterale. Diversamente da Colletti,
Tronti non assume a modello la teoria realista del rispecchiamento, ma si
ricollega al costruttivismo emergente dal dibattito novecentesco: l’indagine
marxiana è accostata alle geometrie non euclidee e alla meccanica quantistica,
la Rivoluzione d’Ottobre è paragonata alla teoria einsteiniana della
relatività.
La scienza operaista acquista significato in opposizione
all’ideologia, che ha il significato puramente negativo di mistificazione, di
vocazione a tenere unito ciò che è separato, di prefigurazione sistematica del
reale volta ad imbrigliare la prassi. La critica dell’ideologia è concepita
essenzialmente come attività di negazione assoluta: lo smascheramento delle
mistificazioni capitalistiche non ha alcuna specificità, non produce un’altra
cultura, non alimenta la battaglia ideologica, ma rinvia immediatamente al
conflitto di classe. In sintonia con Asor Rosa, che nega la possibilità di
conciliare arte e rivoluzione, Tronti pensa che la cultura sia per definizione
borghese e che la classe operaia non abbia bisogno di un’ideologia: se la
semplice esistenza come realtà antagonistica rende la classe indipendente dal
meccanismo di sviluppo capitalistico, l’organizzazione autonoma degli operai è
“il processo reale della demistificazione”27 .
Nel saggio del ’62 La fabbrica e la società,
Tronti sostituisce la sequenza marxiana processo di produzione, processo di
circolazione, processo complessivo, con la sequenza fabbrica, società, Stato, e
riformula la contraddizione classica tra sviluppo delle forze produttive e
rapporti sociali di produzione nei termini di un antagonismo irriducibile tra
la forza-lavoro come valore d’uso e la forza-lavoro come valore di scambio, tra
il processo produttivo che si svolge nella fabbrica e il processo di
valorizzazione che si svolge nella società. Oggetto di critica sono le
ideologie neocapitalistiche che presentano il fenomeno dell’integrazione tra
fabbrica, società civile e Stato in chiave di affermazione di uno Stato
interclassista e di scomparsa dello stesso capitalismo, che si trasforma nella
ricchezza della società da amministrare per il benessere collettivo. Secondo
Tronti, quando il dispotismo capitalistico si estende dalla fabbrica alla
società, lo Stato non si limita più a mediare i conflitti intercapitalistici ma
tende a porsi come il rappresentante diretto del capitalista collettivo, mentre
la terziarizzazione generalizza la condizione operaia a nuovi strati sociali: i
tecnici e gli intellettuali.
L’identificazione del processo produttivo in fabbrica con la
sfera della produzione e del processo di valorizzazione con la sfera della
circolazione tende ad appiattire la dimensione del valore sul valore di scambio
e a fare smarrire i tre livelli di indagine marxiana, che muove dalla
manifestazione fenomenica del valore per addentrarsi nella sfera produzione e
risalire poi alla sfera della distribuzione. Anche la distinzione logica tra
produzione come momento particolare e produzione come momento generale del
processo economico viene meno: quando si conchiude il circolo
produzione-distribuzione-scambio-consumo “il rapporto sociale diventa un momento del
rapporto di produzione, la società intera diventa un’articolazione della
produzione”28 . L’analisi del piano
capitalistico, che identifica lo Stato con il capitale sociale, tende a
resuscitare la filosofia della storia avversata da Panzieri: estendendo
progressivamente la logica della fabbrica alla società, generalizzando il
rapporto di lavoro salariato, lo sviluppo capitalistico si incarica di far
crescere linearmente la classe operaia. Se la principale forza produttiva
sviluppata dal capitale è la classe operaia, che impone con la propria
conflittualità lo sviluppo delle altre forze produttive, lo sviluppo del
capitale è il potere degli operai.
La rivoluzione copernicana, che conferisce un carattere
inconfondibile all’operaismo italiano, è annunciata nell’articolo del ’64 Lenin
in Inghilterra ed è completata nel saggio del ’66 Marx,
forza-lavoro, classe operaia. L’intento di Tronti è di rovesciare
l’immagine della forza-lavoro incorporata nel dominio capitalistico attraverso
l’adozione di un metodo d’analisi che muova dalla precedenza storica, logica e
politica dei movimenti della classe operaia rispetto ai movimenti del capitale.
Dall’idea di rovesciare il rapporto tra sviluppo capitalistico e lotte operaie
per promuovere ricerche su una storia autonoma della classe, ricostruita come
successione di figure egemoni, si passa ad una lettura attivistica e
interamente politica della teoria marxiana del valore, che conduce all’ipotesi
esplicita di un parricidio di Marx da parte del movimento operaio. L’inversione
del rapporto tra capitale e classe operaia è concepita come una correzione
leninista di Marx: essa fa precedere la politica alla scienza, la teoria della
rivoluzione alla critica dell’economia politica, gli operai come classe alla
categoria economica del capitale. La volatilizzazione della teoria del valore è
funzionale all’inversione: sganciando il lavoro produttivo dai concetti di
valore e plusvalore, la teoria marxiana dello sfruttamento è trasformata in una
forza d’attacco, il concetto di alienazione viene ad esprimere il potenziale di
estraneità piuttosto che la passività e la subordinazione della classe operaia,
la forza-lavoro è tramutata in lavoro vivo, lavoro in atto, di cui il capitale
è un semplice riflesso. Secondo Tronti la duplice natura del lavoro scoperta da
Marx non significa lavoro contenuto nella merce, bensì classe operaia dentro e
contro il capitale: la classe, elemento dinamico del capitale, causa prima
dello sviluppo, produce il capitale come potenza economica, ma può rifiutarsi
di produrlo separandosi da sé come categoria economica, negandosi come forza
produttiva e affermandosi come potenza politica. La teoria del valore è dunque
una tesi politica, una parola d’ordine rivoluzionaria, un rapporto politico
della produzione capitalistica:
“Valore-lavoro vuol dire allora prima la
forza-lavoro poi il capitale; vuol dire il capitale
condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla forza-lavoro, in questo senso
valore misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del
valore perché la classe operaia è condizione del capitale”29 .
La natura capitalistica della cooperazione della
forza-lavoro e i processi di atomizzazione evidenziati da Panzieri sono
oscurati: per Tronti il rapporto di classe esiste già nella sfera della
circolazione e “non si può parlare, in nessun momento storico di operaio
singolo: la figura materiale, socialmente determinata, dell’operaio nasce
già collettivamente organizzata”30 . Il rapporto
antagonista di classe, il rapporto di lavoro salariato, “precede dunque,
provoca, produce il rapporto capitalistico”31 . Mentre la forza
politica operaia è legata alla forza produttiva del lavoro salariato, il
capitale è concepito come interesse economico che, sotto la minaccia operaia, è
costretto a diventare forza politica, a sussumere la società, a farsi apparato
di repressione statale. Mentre la classe operaia esiste indipendentemente dai
livelli istituzionali, la classe dei capitalisti, secondo Tronti, ha bisogno
della mediazione di un livello politico formale che faccia vivere
soggettivamente un morto meccanismo oggettivo.
Motore negativo del capitale, capace di produrlo come
potenza economica e di provocarne la crisi politica, la classe operaia non è
l’erede della filosofia classica tedesca, dell’economia politica inglese e del
socialismo politico francese, ma è il soggetto destinatario del pensiero
grande-borghese distruttivo e reazionario, lucidamente consapevole del
conflitto sociale moderno. Contro la teoria del rapporto dialettico tra
capitale e lavoro la classe operaia, secondo Tronti, deve organizzarsi come
“elementoirrazionale”, come “unica anarchia che il
capitalismo non riesce socialmente a organizzare”32 . L’antiumanesimo,
l’irrazionalismo e l’antistoricismo devono perciò diventare armi pratiche di
lotta, strumenti del movimento negativo che abolisce lo stato di cose presenti.
Il pensiero operaio mobile e asistematico, distruttore di tutti i valori, innesta
il nichilismo nietzscheano su un impianto idealistico-soggettivo di sapore
attualistico: il risultato è un dispositivo teorico che consente di attribuire
alla “rude razza pagana” una soggettività originariamente collettiva e una
volontà di potere maestosamente espansiva33 .
La prima ricerca sul pensiero negativo di Schopenhauer,
Kierkegaard e Nietzsche matura nell’ambito del progetto trontiano di fare
incontrare il nichilismo operaio con il pensiero della crisi34 . Contro l’ideologia
che chiama il movimento operaio a resuscitare dalle ceneri gli indirizzi
democratico-progressisti della cultura borghese, Massimo Cacciari si incarica
di rovesciare La distruzione della ragione di Lukàcs. Se il
conflitto di classe è la concreta base storica del processo di dissoluzione del
sistema hegeliano, sintesi espressiva della società cristiano-borghese, il
pensiero negativo non esprime una reazione irrazionalistica alla dialettica, ma
è l’ideologia dei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.
L’operaismo di destra: dall’autonomia del politico al
tramonto della politica
Nel Poscritto del ’71 alla seconda edizione
di Operai e capitale inizia a delinearsi il progetto di
carpire il segreto del politico moderno per consegnarlo come arma offensiva al
partito della classe operaia. Tronti avanza l’ipotesi che dalle lotte operaie
statunitensi degli anni Trenta, più efficaci di quelle europee perché non
affette da incrostazioni ideologiche, siano scaturite una new politics operaia
e unanew economics del capitale, che contrassegnano l’ingresso in
un’epoca post-classica. Gli studi sul movimento consiliare tedesco, sulla crisi
della Repubblica di Weimar, sulla Nep e sulla crisi del ’29 si inquadrano in un
nuovo ambito di ricerca: il rapporto tra la rottura rivoluzionaria di Lenin, la
teoria economica di Keynes, la sociologia del potere di Weber, la teoria della
rivoluzione conservatrice35 .
Intervenendo nel ’72 ad un seminario di scienze politiche
presso l’Università di Torino, Tronti precisa che, dopo l’esperienza del New
Deal e la nascita del partito di massa, i rapporti di produzione si
politicizzano, viene meno l’autonomia della civil society e lo
schema di sviluppo dall’economico al politico, dalla fabbrica allo Stato, non
funziona più36 . Denuncia quindi
l’assenza di una teoria marxista della politica, confina il pensiero di Marx in
un’epoca di capitalismo liberale ormai concluso, propone un rinnovamento del
movimento operaio attraverso l’indagine di un nuovo oggetto specifico:
l’autonomia del potere nei confronti della società. Alla scoperta che nel ’29
c’è un’unica crisi per il capitale e per la classe operaia segue la scoperta
che anche il politico e lo Stato moderno sono un terreno comune per operai e
capitale. Quando allo sviluppo succede la crisi, lo Stato e il partito
sostituiscono la fabbrica come terreno espressivo della potenza politica
operaia e il dualismo di potere riguarda il rapporto tra la società e lo Stato
piuttosto che il rapporto tra la fabbrica e la società.
Per costruire una teoria operaia della politica, Tronti
interroga la storia del realismo politico e dello Stato moderno. La concretezza
e la volontà di potenza operaia sono intraviste nel pensiero politico
weberiano, nella dottrina hobbesiana della sovranità, nella teoria del principe
di Machiavelli, nel conflitto amico-nemico di Carl Schmitt. L’indagine della
politica moderna è pensata come un passaggio dall’anatomia della società a
quella del potere: mentre tra Hobbes e Hegel cresce la realtà dello Stato,
nell’epoca di Marx la società si prende una temporanea rivincita, ma negli anni
Trenta il New Dealroosveltiano, il decisionismo totalitario, la
costruzione staliniana del socialismo segnano un ritorno in grande stile della
politica. Nell’epoca della grande crisi lo Stato salva il capitalismo, lo Stato
costruisce il socialismo. Ciò che sembra un risultato – l’intervento dello
Stato nel capitalismo maturo – va ripensato come l’inizio del processo:
l’accumulazione di potere precede l’accumulazione capitalistica.
Nel corso degli anni ’70 Cacciari propone una nuova lettura
del pensiero negativo che, da Nietzsche a Heidegger, da Mach a Wittgenstein,
esprime la crisi di ogni rifondazione sintetica nel passaggio alla ragione
post-classica, segnala l’apertura di nuovi spazi alle tecniche del politico nel
passaggio al capitalismo organizzato37 . Se l’età della
ragione classica trova espressione nella scienza galileiana e nella dialettica
hegeliana, il pensiero negativo riflette la crisi dei fondamenti del sapere
scientifico e la perdita di una concezione stabile dell’Essere: il tramonto
della sintesi dialettica e l’affermazione di una molteplicità di giochi
linguistici indicano, secondo Cacciari, che il politico guadagna una dimensione
autonoma come tecnica di governo dei conflitti.
Il principale obiettivo polemico dell’operaismo di destra
diventa la concezione del marxismo come sistema teorico, come dialettica che
lega organicamente filosofia, politica, economia. Il marxismo, secondo
Cacciari, non è una critica dell’economia, della società e della politica né un
discorso sul metodo scientifico: privato di articolazione sistematica e di
spessore teorico, ridotto a forza storico-politica, il marxismo è soltanto
volontà di potenza organizzata capace “di esercitarsi concretamente sulla diversamolteplicità
dei linguaggi della Tecnica”38 . Mentre l’operaismo
di sinistra fa riferimento ad una lettura dionisiaca e anarchica del pensiero
negativo, l’operaismo di destra propone una lettura neorazionalistica del
nichilismo: la fine della metafisica e l’oblio dell’essere legittimano un
progetto di intervento nel mondo consapevole del rapporto indissolubile tra
necessità e volontà di potenza, tra burocrazia e politica. Secondo Cacciari il
pensiero di Nietzsche non deve essere letto né come pensiero della liberazione
delle forme simboliche né come apologia della differenza, valorizzazione di ciò
che è interdetto dalla ragione, celebrazione di autonomia come alterità
irriducibile al processo della razionalizzazione capitalistica.
L’identificazione storica tra ragione e razionalizzazione capitalistica, tra
primato del soggetto e dominio della tecnica, rende regressive la critica dei
processi di burocratizzazione e di specializzazione e la rivendicazione di una
ragione o di una soggettività non integrata nel sistema.
L’annichilimento dell’essere, la sua riduzione a valore
soggettivo, acquista un significato costruttivo: il dialogo tra heideggerismo e
marxismo non deve ruotare intorno all’emancipazione dall’alienazione, ma va
iscritto nell’orizzonte della perdita di patria e del rapporto inestricabile
tra soggettività e tecnica. La risoluzione della filosofia in prassi politica,
la liquidazione dei valori tradizionali da parte dell’oltreuomo e il compimento
della tradizione metafisica nell’organizzazione tecnico-scientifica indicano
che il tramonto della filosofia dispiega nuovi ordini, nuove forme di
razionalità e di volontà di potere.
Nella seconda metà degli anni ’70 il progetto di riforma
dello Stato cede il passo ad un progetto di governo della crisi capitalistica
che fa perno su una lettura interamente politica della centralità operaia39 . Dopo aver rovesciato
la crisi del marxismo nella cultura della crisi e aver sostituito la totalità
dialettica con i saperi parcellizzati, l’autonomia del politico si trasforma
negli anni ’80 in una teoria del limite: la politica non è chiamata a
dispensare felicità e piacere, a produrre liberazione e a rappresentare
l’intero, ma è anzitutto decisione di rinuncia a rappresentare una soggettività
sociale e a produrre nuove forme di potere. Dopo l’89, quando oggetto di
riflessione diventa la crisi della politica, Tronti riconosce con coraggio che
il passaggio dell’autonomia del politico “è servito all’impianto di un
decisionismo finalizzato alla modernizzazione conservatrice”40 .
Operaismo di sinistra e post-operaismo: dall’operaio
sociale al cognitariato post-fordista
La premessa della teoria dell’operaio sociale è la
ricostruzione della storia interna della classe operaia – auspicata in Operai
e capitale – come una successione di figure egemoni: ad ogni manovra
di ristrutturazione capitalistica, indotta dalle lotte operaie, corrisponde la
nascita di una nuova composizione tecnica della forza-lavoro che determina una
nuova composizione politica. Dopo la rivoluzione sovietica, la composizione di
classe dell’operaio professionale, base del partito leninista, è stata
distrutta dalla ristrutturazione taylorista-fordista che ha massificato la
forza-lavoro. Dopo la crisi del ’29 la regolazione politica del ciclo economico
ha sostituito il funzionamento spontaneo della legge del valore di scambio: lo
Stato, espressione del capitale collettivo, è diventato garante della pace
sociale grazie all’integrazione socialdemocratica dei lavoratori e al
contenimento della crescita dei salari entro proporzioni tali da non alterare
gli equilibri della produzione capitalistica.
La teoria dell’operaio sociale nasce dall’esigenza di
approfondire l’inversione trontiana del rapporto tra capitale e classe operaia
a partire dal blocco dello sviluppo determinato dalla conflittualità
dell’operaio-massa41 . Nelle lotte degli
anni ’60 la classe operaia ha manifestato la propria estraneità alle leggi
dell’economia politica e al rispetto delle compatibilità istituzionali: le
rivendicazioni salariali hanno fatto saltare il circolo virtuoso tra crescita
dei redditi e produzione di massa. Negri interpreta l’insorgenza dell’autonomia
operaia, la capacità di imporre un salario indipendente dall’accumulazione
capitalistica, come un processo che mette in crisi la legge del valore,
provocando una sproporzione tra lavoro necessario e pluslavoro.[Riccardo
Bellofiore ha sottolineato che l’impostazione operaista, secondo cui il valore
è esito variabile del conflitto tra salario e profitto, è sraffiana più che
marxiana (cfr. R. Bellofiore, L’operaismo degli anni ’60 e la critica
dell’economia politica, in “Unità proletaria”, n. 1-2, 1982]. La
rottura del rapporto di subordinazione del salario al profitto determina la
crisi dello Stato keynesiano e il passaggio dallo Stato-piano allo Stato-crisi:
lo Stato, anziché promuovere sviluppo, produce crisi tramite una manovra
deflazionistica volta a frenare l’espansione delle forze produttive che
intaccano la proporzione dei rapporti di forza tra le classi42 .
L’analisi del passaggio allo Stato-crisi, cogliendo
l’imminenza di una ristrutturazione capitalista in concomitanza con la crisi
petrolifera e la tempesta valutaria provocata dalla inconvertibilità del
dollaro, anticipa alcuni tratti del neoliberismo. La manovra di
ristrutturazione punta sul decentramento produttivo e sulla disgregazione della
figura dell’operaio-massa:
“Il capitale mette la fabbrica, come punto di valorizzazione
del circuito sociale della produzione, contro la società come ambito di
devalorizzazione, come sede della massificazione, e contemporaneamente la
società come immagine della macchina sociale di produzione contro la fabbrica
in quanto sede privilegiata del rifiuto del lavoro e dell’attacco selvaggio al
profitto”43.
Negri prevede che, con il venir meno del ruolo dello Stato
quale promotore dello sviluppo nella invarianza dei rapporti di forza tra le
classi, si profili un rovesciamento della sequenza Stato, piano, impresa: lo
Stato si subordina al comando d’impresa, l’autonomia relativa delle istituzioni
politiche scompare, la sovranità nazionale si indebolisce a beneficio di
imprese multinazionali o di corpi amministrativi separati.
Le capacità di analisi si affievoliscono nel tentativo di
interpretare la manovra di ristrutturazione come un processo dinamico destinato
a promuovere la ricomposizione di classe e a suscitare un nuovo soggetto già
unificato e compatto, capace di estendere a tutta la società la potenza
antagonista dell’operaio massa. Facendo riferimento al Capitolo VI
inedito del I libro del Capitale, Negri interpreta il
nesso tra la fabbrica e la società in chiave di estensione della cooperazione
produttiva, di formazione di un lavoratore collettivo che fa venire meno la
distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Quando il comando
d’impresa si estende alla società e il lavoro produttivo si identifica con il
lavoro salariato, sorge la fabbrica diffusa ed emerge la figura dell’operaio
sociale: in reazione alla caduta del saggio di profitto, il capitale è
costretto a diffondere il processo di valorizzazione alla società, ma la
ristrutturazione non può ristabilire margini di profitto perché la diffusione
del comando di impresa è anticipata dall’estensione dei comportamenti
antagonisti dell’operaio-massa44 . Con l’estensione
della relazione salariale a tutta la società, la produzione in generale non
coincide più, come in Operai e capitale, con il processo di
produzione immediato e viene meno la contrapposizione tra la fabbrica e la
società: la società non è più il luogo della passività e della disgregazione,
ma diventa il terreno privilegiato del conflitto.
La diffusione della cooperazione produttiva e l’emergenza
dell’operaio sociale realizzano, secondo Negri, la tendenza verso la caduta
storica della barriera del valore, anticipata da Marx nel Frammento
sulle macchine. Nel testo dei Grundrisse Marx metterebbe
in crisi la legge classica del valore e svolgerebbe fino in fondo la critica
dell’economia politica: l’integrale socializzazione del lavoro provoca la crisi
dei rapporti di scambio perché il lavoro singolo non esiste più e il denaro,
che non può misurare la forza sociale del lavoro combinato, diventa funzione
della riproduzione del rapporto di lavoro salariato.
Nell’ambito dell’estinzione storica della legge del valore e
della sua affermazione forzosa mediante il comando politico, la compenetrazione
tra struttura e sovrastruttura diviene totale, la sfera della circolazione e
quella della produzione si unificano nella dimensione della riproduzione. Lo
Stato diviene immediatamente sintesi della società civile, il capitale sociale
diviene categoria effettuale mentre, al polo opposto, si costituisce il lavoro
sociale complessivo: lo scontro prefigurato in Operai e capitale tra
fabbrica e società capitalistica si ridisegna come scontro tra il lavoro
sociale e lo Stato rappresentante del capitalista collettivo. Il valore di
scambio, estinto economicamente, sopravvive come pura coercizione politica; il
comando d’impresa, sganciato dal valore, diventa mero rapporto di forza,
disegno soggettivo e arbitrario di dominio; il capitale non è più valore che si
valorizza ma volontà di potere, autonomia del politico e “la critica
dell’economia politica è immediatamente critica dell’amministrazione, della
Costituzione, dello Stato”45 . Contro l’attendismo
storicistico e contro il tentativo socialista di restaurare la legge del valore
tramite la riforma dello Stato, Negri proclama l’attualità del comunismo: il
rifiuto del lavoro, inversione della legge del valore, apre spazi reali per
l’indipendenza operaia e innesca la transizione come processo costitutivo sul
terreno dell’alternativa46 .
La caduta della barriera del valore porta in primo piano i
temi dell’autovalorizzazione e della forza-invenzione. L’autovalorizzazione è
la riappropriazione di ricchezza e di potere contro i meccanismi capitalistici
di accumulazione e sviluppo. Se in Operai e capitale la
forza-lavoro è classe già nella sfera della circolazione, Negri scopre la
riproduzione della forza-lavoro come terreno di antagonismo, ambito di lotta
alternativo a quello del rapporto di produzione diretto. L’estraneità alla
valorizzazione capitalistica della piccola circolazione – la parte di capitale
anticipato con cui l’operaio acquista i mezzi di sussistenza – fonda la
possibilità di un’autonomia operaia che presuppone l’indipendenza dei bisogni e
dei consumi dallo sviluppo capitalistico. Il tema della forza-invenzione è
legato all’emergenza del sapere quale principale forza produttiva: nel
passaggio dal Welfare al Warfare (Stato della
rendita politica o Stato nucleare) tutta la forza produttiva del lavoro diventa
forza-invenzione che divorzia dal capitale:
“il concetto unitario sviluppo capitalistico si rompe: da un
lato lo sviluppo del capitale costante diviene uno sviluppo distruttivo,
dall’altro le forze produttive debbono emanciparsi radicalmente dal rapporto di
capitale”47 .
Il tema della forza-invenzione prospetta la dissoluzione del
concetto di plusvalore relativo: secondo Negri, allorché il rifiuto del lavoro
provoca l’affermazione del lavoro tecnico-scientifico, la produttività si
separa dal plusvalore, il lavoro non si fonda più sul rapporto con il capitale
ma sulla propria essenza cooperativa. Per sottolineare che l’autovalorizzazione
operaia è esplosione dell’antagonismo, rottura radicale con la totalità dello
sviluppo capitalistico, Negri scardina l’impianto dialettico delle categorie
marxiane. In sintonia con il post-strutturalismo, che celebra il pensiero di
Nietzsche come alba della contro-cultura, critica del logocentrismo, negazione
di tutti i codici, l’operaismo di sinistra enfatizza la differenza contro la
dialettica, considerata sinonimo di logica del dominio, integrazione forzosa
delle differenze, primato dello Stato sull’irriducibile pluralità della
società.
All’inizio degli anni ’80 Negri manifesta un interesse
crescente per la filosofia di Deleuze, dalla quale trae ispirazione per
una rilettura di Spinoza e per la messa a punto di una concezione positiva –
non più dialettica, dualistica e animata da un motore negativo – dell’autonomia
operaia. In anni dominati dai temi della crisi della razionalità, della fine
della modernità e del trionfo del nichilismo, la filosofia di Deleuze è interessante
perché il rifiuto della logica negativa e dell’ontologia hegeliana non approda
né all’ontologia heideggeriana dell’essere per la morte né ad una prospettiva
deontologica. Il filosofo francese sviluppa, infatti, una logica affermativa
dell’essere nel tempo; costruisce un movimento positivo della differenza,
alternativo alla determinazione tramite differenza negativa; propone una
concezione assoluta, non dialettica, della negazione quale distruzione che
sgombra il terreno per una nuova costruzione; coniuga il concetto spinoziano di
potenza, con il concetto marxiano di forza produttiva e con il concetto
nietzscheano di volontà di potenza per gettare un ponte tra l’ontologia e la
politica.
Nei testi di Spinoza Negri cerca un’ontologia materialista
rigorosamente immanente, ove lo spessore della costruzione dell’essere non è
annullato dalla temporanea rivincita di forze reattive; un’ontologia della
superficie, che rifiuta fondamenti nascosti e profondi e non contempla
strutture precostituite; una filosofia ontologica della prassi, che propizia la
liberazione delle forze produttive dai rapporti di produzione; un antidoto alle
concezioni deboli e ciniche dell’essere, che separano sostanza e potenza e
prospettano un pragmatismo progettuale indifferente ad ogni contenuto48 . In Spinosa il tempo
è potenza, anziché destino di deiezione; l’essere è forza produttiva ed
egemonia della pienezza, anziché impossibilità e vuoto di presenza; l’etica è
articolazione dei bisogni produttivi, sviluppo della vita desiderante; la
ragione è organizzazione dei bisogni da parte dell’immaginazione produttiva; la
società politica è risultante non dialettica di potenze singolari che, non
avendo un’origine privata, non devono essere mediate ma si compongono
spontaneamente in una potenza collettiva. Negando dualismi tra anima e corpo,
gerarchie dell’essere e ordini presupposti all’agire, il filosofo olandese
consente, secondo Negri, di individuare una moderna tradizione materialista,
alternativa a quella dialettica, incentrata sui processi costitutivi del
desiderio. La modernità può essere pensata come una rivoluzione incompiuta,
nell’ambito della quale è sempre vissuta un’alternativa tra lo sviluppo delle
forze produttive e il dominio dei rapporti capitalistici, tra la potentia della
moltitudine e la potestas dello Stato, tra la vis viva e
le forze dell’espropriazione. Il repubblicanesimo di Machiavelli, la democrazia
assoluta della moltitudine di Spinoza e l’autogoverno dei produttori di Marx
rappresentano la filosofia della potenza contro il potere, la sovversione
contro la sovranità, il potere costituente che non si lascia riassorbire nel
potere costituito49 .
Il confronto con l’ontologia prospettivista e costruttivista
di Deleuze e la rilettura di Spinoza sono preliminari ad una rielaborazione,
negli anni ’90, della teoria dell’operaio sociale che si fonda sul concetto di
lavoro vivo come produzione di soggettività, potere costituente della società,
autonomia produttiva dalla sfera pubblica statuale e dal comando d’impresa50 . Il lavoro vivo non
ha i tratti del popolo, dell’unità coesa, bensì i tratti della moltitudine, che
rifugge l’unità politica, non stringe patti, non trasferisce diritti,
recalcitra all’obbedienza, non converge in una unità sintetica – la volontà
generale – ma condivide il general intellect. La moltitudine è
pensata come comunità non sostanziale e non rappresentabile di coloro che non
si sentono a casa propria, condividono le facoltà del genere umano e fanno
esodo dalle costrizioni statali. Le possibilità della defezione dipendono
dall’ipotesi che l’avvento della produzione di comunicazione a mezzo di
comunicazione segni l’abolizione del lavoro salariato e l’estinzione dello
Stato quale monopolio della decisione politica e dell’uso legittimo della
forza.
La nuova versione dell’operaio sociale presuppone le
indagini sul lavoro autonomo di seconda generazione – dotato di capacità
cooperative, innovative e imprenditoriali – e gli studi sul postfordismo e
sulla rivoluzione informatica, che ipotizzano il passaggio ad un nuovo modello
di accumulazione caratterizzato dalla flessibilità e smaterializzazione dei
processi produttivi, dalla deterritorializzazione delle imprese,
dall’introduzione di sistemi modulari o a rete51 . I processi di
finanziarizzazione del capitale, non più governabili dalle istanze politiche
nazionali, segnerebbero la crisi della forma Stato e delle istituzioni classiche
della democrazia rappresentativa. Applicando lo schema del rovesciamento diOperai
e capitale, Negri afferma che l’avvento della produzione postfordista è
stato anticipato dalle lotte di massa che hanno rifiutato il lavoro salariato e
disciplinato. Il capitalismo ha trovato la via della ristrutturazione grazie
alla capacità di trasformare in risorsa produttiva comportamenti conflittuali,
quali l’esodo dalla fabbrica, il disamore per il posto fisso, la familiarità
con le reti comunicative. La nuova epoca del rapporto tra capitale e lavoro è
caratterizzata da una mutata composizione della forza-lavoro, per cui la
sostanza del lavoro è sempre più astratta, immateriale, intellettuale e la
forma di lavoro più mobile e polivalente. Insieme a modelli di regolazione
estesi su linee multinazionali emerge una nuova forma di sovranità, non
nazionale ma imperiale, che segnerebbe la fine del colonialismo e
dell’imperialismo e sarebbe stata anticipata dall’internazionalismo operaio e
dal desiderio nomade dell’operaio sociale52 . Negri
ripropone l’impianto monistico di Operai e capitale: il governo
imperiale è una macchina vampiresca e parassitaria, dotata di un’efficacia
puramente regolativa, che dispiega il potere in modo negativo. Il processo di
produzione si costituisce ormai fuori dal rapporto di capitale che interviene
solo ex post per esercitare funzioni di controllo. Il tempo
pieno della cooperazione si oppone al tempo vuoto del comando, la produttività
sociale si confronta con un deficit ontologico. Il rapporto
capitalistico è sempre più simbolico e irreale, “un vuoto apparato di
costrizione, un fantasma, un feticcio”53 . Il potere
costituente della soggettività antagonistica, connotata dalla capacità di agire
oltre la misura, non si sedimenta mai in potere costituito; la sua razionalità
è definita dall’illimitatezza del suo porsi, il suo movimento è insofferente
alla dialettica e alla memoria54 .
Per molti autori di formazione operaista il postfordismo è
un modello che esprime la compiuta coordinazione del lavoratore collettivo e la
definitiva separazione tra il lavoro produttivo e il comando d’impresa. Il
lavoro parcellizzato e ripetitivo sarebbe relegato in posizione residuale e il
sapere astratto, divenuto principale risorsa produttiva, corrisponderebbe alla
realizzazione empirica del concetto digeneral intellect. Mentre per
Marx, però, il general intellect è capitale fisso, capacità
scientifica oggettivata nel sistema delle macchine, per i post-operaisti la
distinzione tra capitale costante e capitale variabile è venuta meno: il lavoro
vivo, depositario di competenze cognitive non oggettivabili nel sistema delle
macchine, non è forza-lavoro attivata dal capitale, ma imprenditorialità
comune, intellettualità di massa. Mentre per Marx la cooperazione capitalistica
è manifestazione della legge del plusvalore, i post-operaisti ritengono che il
capitale abbia perduto ogni capacità innovativa e organizzativa, il potere di
cooperazione sia totalmente immanente alla forza-lavoro, la diffusione del
sapere sociale e la ricomposizione degli strumenti di produzione in una
soggettività collettiva abbiano reso anacronistica la proprietà privata dei
mezzi di produzione.
La cooperazione sociale postfordista, abolendo il confine
tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra qualità professionali e attitudini
politiche, segnerebbe la crisi delle categorie classiche della politica
moderna. Quando il sapere sociale complessivo e la comune competenza
linguistica divengono lo spartito del lavoro contemporaneo, il lavoro assume le
attitudini proprie dell’agire politico e lo spazio della politica non è più la polis ma
la vita. A livello di realizzazione del general intellect, si
verifica dunque il passaggio dalla società disciplinare alla società
governamentale, dal sabotaggio alla diserzione, dal biopotere alla biopolitica.
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1. Cfr. A. Negri,
Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P.
Pozzi e R. Tomassini, Verona, ombre corte 2007 (1a edizione 1979); S. Mezzadra,
Operaismo voce in Enciclopedia del pensiero politico, diretta da R. Esposito e
G. Galli, Roma-Bari, Laterza 2000, pp. 497-498; M. Turchetto, De “l’ouvrier
masse” à l’“entrepreneurialité comune”: la trajectoire déconcertante de
l’operaïsme italien, in Dictionnaire Marx contemporain, Paris, Presses
Universitaires de France 2001, pp. 297-317;
G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero (a cura di),Gli operaisti. Autobiografie
di cattivi maestri, Roma, DeriveApprodi 2005.
2. Cfr. S. Wright, L’assalto
al cielo. Per una storia dell’operaismo, Roma, Edizioni Alegre 2008.
3. Cfr. C. Preve, La
classe operaia non va in paradiso: dal marxismo occidentale all’operaismo
italiano, in AA. VV.,Alla ricerca della produzione perduta, Bari, Dedalo 1982,
pp. 63-121.
4. M. Tronti, Operai
e capitale, Torino, Einaudi 1966, p. 113.
5. R. Panzieri,
Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi” 1959-1964. Scritti
scelti a cura di S. Merli, Pisa, BFS 1994, p. 117.
6. Cfr. G. Trotta e
F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da “Quaderni rossi” a
“classe operaia”, Roma, DeriveApprodi 2008
7. V. Dini, A
proposito di Toni Negri. Note sull’operaio sociale, sul dominio e sul
sabotaggio, in “Ombre rosse”, n. 24, 1978, p. 5.
8. Cfr. A. Asor
Rosa, Introduzione come quadro di problemi, in Intellettuali e classe operaia,
Firenze, La Nuova Italia 1973, pp. 1-36.
9. Cfr. S. Bologna
(a cura di), La tribù delle talpe, Milano, Feltrinelli 1978.
10. Cfr. G. Borio,
F. Pozzi e G. Roggero, Futuro anteriore. Dai “Quaderni rossi” ai movimenti
globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Roma, DeriveApprodi
2002.
11. Cfr. M.
Turchetto, Ripensamento della nozione“rapporti di produzione” in Panzieri, in
AA. VV., Ripensando Panzieri trent’anni dopo, Atti del convegno di Pisa del
28/29 gennaio 1994, Pisa, BFS 1995, pp. 19-26.
12. Sulla rilevanza
del contributo di Panzieri per la ridefinizione dell’identità comunista si veda
l’introduzione di Paolo Ferrero a Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera,
Milano, Edizioni Punto Rosso 2005, pp. 15-40.
13. Cfr. R.
Luperini, Marxismo e intellettuali, Venezia-Padova, Marsilio 1974, pp.
85-146.
14. Cfr. A.
Macchioro, Il momento attuale. Saggi etico-politici, Padova, Il poligrafo 1991,
pp. 47 sgg.
15. Cfr. F. Fortini,
Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti 1985, pp. 24-67; C.
Preve, La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in
Italia (1976-1983), Bari, Dedalo 1984.
16. Cfr. M. Tomba,
Tronti e le contraddizioni dell’operaismo, in “Erre”, n. 22, 2007, pp.
93-100.
17. Cfr. A. Mangano,
L’altra linea. Fortini Bosio Montaldi Panzieri e la nuova sinistra, Catanzaro,
Pullani Editrice 1992.
18. Alcuni saggi di
Lucio Colletti, che declinano il marxismo come sociologia scientifica e si
inscrivono nella ricerca di un’uscita da sinistra dalla crisi del ’56
attraverso un ritorno a Marx e Lenin, appaiono vicini alle posizioni di
Panzieri (cfr. L. Colletti, Il marxismo come sociologia, apparso in “Società”
nel 1959 e ripubblicato nella raccolta di saggi intitolata Ideologia e società,
Bari, Laterza 1969). La distanza è però abissale sulla critica del feticismo
tecnologico e del piano del capitale: Colletti è fedele ad un marxismo della
contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che identifica il
socialismo con la pianificazione e colloca nella sfera mercantile la genesi del
valore e del lavoro alienato.
19. R. Panzieri,
Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in Spontaneità e
organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi” 1959-1964, op. cit., p. 25.
20. R. Panzieri,
Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, ivi, pp.
54-55.
21. Sulla
distinzione tra marxismo della contraddizione tra forze produttive e rapporti
di produzione e marxismo della dissimulazione si veda R. Finelli, Alcune tesi
su capitalismo, marxismo e “postmodernità”, in AA.VV., Capitalismo e
conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’età telematica, Roma, manifestolibri
1998.
22. R. Panzieri,
Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, in Spontaneità e
organizzazione, op. cit., p. 69.
23. Ivi, p. 54.
24. R. Panzieri, Uso
socialista dell’inchiesta operaia, ivi, p. 122.
25. Gianfranco Pala
individua il limite principale di Panzieri proprio nel passaggio dalla
centralità della critica dell’economia politica alla centralità della critica
della sociologia, la qual cosa implica un mutamento del quadro categoriale. La
sociologia, infatti, si costituisce in disciplina autonoma sostituendo il
concetto di proprietà con quello di gestione, il concetto di modo sociale di
produzione con quello di sistema, il concetto di classe con quello di gruppo o
ceto. Dalla scelta della sociologia weberiana quale oggetto privilegiato di
critica discendono, secondo Pala, una torsione soggettivistica del concetto di
classe e l’accoglimento del concetto di piano del capitale che trascura
l’analisi marxiana della conflittualità intercapitalistica. Dalla repulsione
reciproca tra i capitali, infatti, si evince “l’incapacità assoluta del
capitale, per l’inadeguatezza cioè del suo concetto stesso, di estendere alla
società il dispotismo di fabbrica” (G. Pala, Panzieri, Marx e la critica
dell’economia politica, in AA. VV., Ripensando Panzieri trent’anni dopo, op.
cit., p. 71).
26. M. Tronti,
Operai e capitale, op. cit., p. 38.
27. Ivi, p. 37.
28. Ivi, p. 51.
29. Ivi, pp.
224-5.
30. Ivi, p.
233.
31. Ivi, p.
149.
32. Ivi, p. 82.
33. Cfr. V.
Sbardella, Le maschere della politica: gentilismo e tradizione idealistica
negli scritti di Mario Tronti, in “Unità proletaria”, n. 1-3, 1982, pp.
117-140.
34. Cfr. M.
Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, n. 1,
1969.
35. Cfr. AA. VV.,
Operai e Stato, Milano, Feltrinelli 1972.
36. Cfr. M. Tronti,
Sull’autonomia del politico, Milano, Feltrinelli 1977.
37. Cfr. M.
Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a
Wittgenstein, Milano, Feltrinelli 1976.
38. M. Cacciari,
Heidegger, noi, i Soggetti, ripubblicato in versione ampliata, con il titolo
Confronto con Heidegger, in Id., Pensiero negativo e razionalizzazione, Padova,
Marsilio 1977, p. 81.
39. Cfr. M. Tronti,
Operaismo e centralità operaia, in AA. VV., Operaismo e centralità operaia, a
cura di F. D’Agostini, Roma Editori Riuniti 1978.
40. M. Tronti, La
politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, p. 79.
41. La categoria di
operaio sociale indica un nuovo soggetto politico, altamente scolarizzato,
prodotto della massificazione del lavoro intellettuale (cfr. R. Alquati,
Università, formazione della forza-lavoro e terziarizzazione, in “aut aut”, n.
154, 1976).
42. Cfr. A. Negri,
Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria (1974), in
Id., I libri del rogo, Roma, Castelvecchi 1997.
43. A. Negri,
Partito operaio contro il lavoro (1974), ivi, p. 100.
44. Cfr. A. Negri,
Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso
storico (1976), ivi, p. 148 sgg.
45. A. Negri, La
forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano,
Feltrinelli 1977, p. 18.
46. Cfr. A. Negri,
Marx oltre Marx, Roma, manifestolibri 1998 (1a edizione 1979).
47. A. Negri, Il
dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale
(1977), in I libri del rogo,op. cit., p. 288.
48. Cfr. A. Negri,
L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano,
Feltrinelli 1981; Id.,Spinoza sovversivo, Roma, Pellicani 1992. Entrambi i
saggi, insieme a “Democrazia ed eternità in Spinoza” e ad una postfazione, sono
stati ripubblicati in A. Negri, Spinoza, Roma, DeriveApprodi 1998.
49. Cfr. A. Negri,
Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Roma,
manifestolibri 2002 (1a edizione 1992).
50. Cfr. M. Hardt e
A. Negri, Il lavoro di Dioniso, Roma, manifestolibri 1995.
51. Cfr. S. Bologna
e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari
del postfordismo in Italia, Milano, Feltrinelli 1997; M. Revelli, Economia e
modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in AA. VV.,
Appuntamenti di fine secolo, Roma, manifestolibri 1995; C. Marazzi, Il posto
dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla
politica, Torino, Bollati-Boringhieri 1999.
52. Cfr. M. Hardt e
A. Negri, Impero, Milano, Rizzoli 2002.
53. M. Hardt e A.
Negri, Il lavoro di Dioniso, op. cit., p. 106.
54. Cfr. D.
Melegari, Il problema scongiurato. Note su Antonio Negri e il “partito” del
general intellect, Pistoia, CRT 1998.
Roba vecchia ormai.
RispondiEliminaMi pare che l'operaismo più conseguente, attuale e realmente marxiano lo esprima in qualche modo l'argentino Raveli (vedi: https://www.sinistrainrete.info/analisi-di-classe/18209-karlo-raveli-dimensione-operaia-degli-stati-popolari-sardine-ecologismo-antirazzismo-antipatriarcato.html )
pur con tutti i limiti del suo italiano migrante. E qualcuno sembra che se ne sia finalmente accorto, in un dibattito di Contropiano sugli Stati Popolari. Ma c'è ormai realmente qualche speranza?
Si, tanto più ora con le polemiche sull'articolo di Luciana Castellina (Su ecologia e lotta di classe, Bertinotti sbaglia, il manifesto). Insomma, come concepire la lotta ecologista come asse anticapitalista?
RispondiEliminaCon che rapproti con i settori lavoratori, precari, migranti, ecc.?
Sono valide ste proposte di Raveli a cui ti riferisci, ed è realmente possibile uno sviluppo di collegamenti - dicevamo: ORGANIZZAZIONE - come lo stesso compagno propone in un altro articolo polemico, 'Apriamo connessioni operaie globali. Verso prossime esperienze e ribellioni per un ancora possibile riscatto dell’umanità'?
In ogni caso Luciana Castellina, Fabio Vander, e un purtroppo lungo eccetera, mi pare che il vostro "comunismo" sia sempre più volatile. Come del resto dimostra la sacrosanta Luciana quando giunge al punto di scrivere dopo tutti i dibattiti in corso che "quello su cui non ha purtroppo scritto ancora nessuno, ed è quanto ha reso così difficile la vita della sinistra oggi, è come si possa aggregare il soggetto antagonista, vale a dire usare positivamente la ricchezza delle nuove contraddizioni, impedendo che esse diventino invece divisive"!
Già, nonostante l'italiano migrante, sto Raveli sta centrando anche la crisi di civilizzazione che stiamo sopportando sempre peggio, per esempio in 'Affrontiamo un autentico cambio di paradigma' pubblicato in Sinistrainrete.
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