*Prolusione al III Congresso del PdCI - Rimini, febbraio
2004 http://www.sitocomunista.it/
Leggi anche: http://temi.repubblica.it/micromega-online/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/"Il regime fascista, che porta semplicemente all'estremo limite il declino e la reazione impliciti in ogni capitalismo imperialista, divenne indispensabile, quando la degenerazione del capitalismo annullò ogni possibilità d'illusioni su un miglioramento del tenore di vita del proletariato. La dittatura fascista significa l'aperto riconoscimento della tendenza all'impoverimento che le più ricche democrazie imperialiste cercano ancora di nascondere. Mussolini e Hitler perseguitano il marxismo con tanto odio proprio perché il loro regime è la più orrenda conferma dell'analisi marxista."
Lev Trockij, Il pensiero vivo di Karl Marx (Il collettivo)
Vorrei esordire ricordando una verità elementare: che cioè
la storia la scrivono i vincitori. E poiché la lunga guerra europea e poi
mondiale incominciata nel 1914 e sviluppatasi in più fasi è finita, dopo vari
rivolgimenti, paci apparenti, cambi di fronte, con la sconfitta dell'Unione
Ssovietica nel 1991, è evidente che per ora, e per lungo tempo ancora, la
storia che prevarrà sarà quella scritta dai nemici dell'Unione Sovietica e
quindi dell'antifascismo.
Non stupisca quel "quindi": l'antifascismo, anche non comunista, ebbe
sempre una considerazione rispettosa della storia e del ruolo dell'URSS.
Non è casuale che un capofila del revisionismo storiografico come François
Furet, nel suo troppo vezzeggiato pamphlet Il passato di un'illusione,
abbia presentato reiteratamente l'antifascismo europeo come "l'utile
idiota" di Stalin. E la sua opera non è rimasta senza seguito, ora che
saldamente la grande stampa e salvo rare eccezioni la grande editoria stanno
passando nelle mani di coloro che riscrivono la storia appunto nell'ottica degli
ultimi vincitori.
Per l'Europa borghese, corresponsabile dell'agosto '14 e levatrice perciò della
rivoluzione, fu appunto, sin da allora, il comunismo il principale problema. La
nascita del fascismo, e poi dei fascismi, fu la risposta estrema e pienamente
avallata dalle classi dominanti nei confronti di tale "grande
pericolo".
Due scene tornano alla mente, emblematiche in questo senso:
- la sfilata delle camicie nere a Napoli pochi giorni prima della marcia su
Roma e tra loro, in camicia bianca, Enrico De Nicola con il braccio levato nel
saluto romano;
- e circa due anni dopo, Benedetto Croce, che vota la fiducia al governo
Mussolini, pur dopo il delitto Matteotti.
Questo non è moralismo storiografico. Nei due casi che ho ricordato non c'era
costrizione, quella costrizione o necessità che si invoca per giustificare la
debolezza di tanti lapsi per salvare magari una cattedra universitaria. Era
invece il segno chiaro dell'iniziale consenso della borghesia anche colta,
anche illuminata, verso il fascismo visto come argine contro l'unico pericolo:
la rivoluzione comunista.
Ecco perché è cruciale continuare a studiare l'esperienza del fascismo nella
sua interezza e non limitandosi - come sarebbe più comodo - al suo infame
crepuscolo. Perché solo studiandolo per intero sin dai suoi esordi si comprende
che esso fu figlio legittimo delle classi dominanti. Le quali hanno fatto buon
viso a tale mezzo estremo pur di mantenere l'ordine sociale costituito. Certo,
col tempo, una parte si è tirata indietro, ma era ormai troppo tardi ed il
fascismo, forte di un largo consenso, stava già portando il mondo intero alla
guerra e alla rovina.
La domanda da porsi è dunque: Quali erano le fattezze del nemico contro cui si
faceva ricorso ad un rimedio così estremo? Cos'era quel "comunismo"
contro cui tutti, dal giovane De Gaulle al ministro di Sua Maestà britannica
Winston Churchill, dalle armate polacche ad Ovest ai generali giapponesi ad est
si scatenarono sin dal primo momento, in un attacco concentrico che rischiò di
essere mortale?
Oggi che l'URSS è finita da un pezzo, lo sforzo dei vincitori è di dimostrare
che quello fu il regno del male, della soprafazione, della smisurata e
ininterrotta ecatombe. Il cosiddetto "Libro nero" è la Bibbia
di questo sforzo senza soste. L'implicazione che va di pari passo con tali
diagnosi è molto chiara: recuperare in larga parte un giudizio positivo sul
fascismo che - si dice ormai apertamente - poneva rimedio (ipocritamente alcuni
dicono doloroso rimedio) ad un male di gran lunga peggiore.
Questo è oggi il terreno di scontro in quell’ambito necessariamente,
strutturalmente, "impuro" che è la storiografia. Dati i nuovi
rapporti di forza, la partita è già largamente vinta dai grandi strumenti di
informazione (grande stampa, tv, saggistica): ogni giorno viene ripetuto in
modo martellante e ossessivo che quello, il comunismo, era il grande male,
mentre si suggerisce talora scopertamente che il fascismo fu comunque un male
minore o, a piacer vostro, una dolorosa necessità. Restano fuori dell'opera di
salvataggio le leggi razziali, ma si tenta poi di far credere - ed è menzogna -
che esse fossero effettivamente operative e micidiali solo con Salò.
La partita è dunque ardua. Si tratta di recuperare la memoria di
una fase storica - l'URSS e il socialismo: una memoria che resta positiva
soprattutto nella mente di chi ne trasse vantaggio, per esempio i ceti ormai
ridotti alla fame nella nuova Russia mafio-capitalistica. I quali però non
hanno voce, men che meno voce storiografica. La loro voce è coperta dal fragore
di una pubblicistica storiografica che dà con ogni disinvolta lettura
l'immagine più fosca dell'impero del male.
Né vale opporre le testimonianze d'epoca, anche le più diverse, anche quelle
che quantunque ostili, davano tuttavia ampio riconoscimento a quel mondo nuovo
che faticosamente nell'entusiasmo di intere generazioni si cercò allora di
costruire.
Certo, noi sappiamo di essere di fronte a una mistificazione, né ignoriamo che
già con la rivoluzione francese si assistette alla medesima parabola
storiografica. Dopo la sua fine, con la vittoria della Restaurazione, la sua
immagine dominante fu solo quella di un cumulo insensato di crimini. Solo molto
dopo la lettura di quel grande avvenimento cambiò: ma passò molto tempo e
l'orientamento della storiografia mutò quando un nuovo movimento democratico
risospinse indietro la lettura demonizzante divenuta dominante. Né manca ancora
oggi chi della Rivoluzione francese parla con il tono e l'orrore del conte De
Maistre. Pochi faziosi si ostinano oggi a credere che la Rivoluzione francese
fosse soltanto Vandea e repressione, tribunale rivoluzionario e
"ghigliottina a vapore", per dirla con un ironico poeta. Certo, la
rivoluzione fu anche questo, ma fu soprattutto altro e durevole.
Analogamente ci
vorrà tempo perché sia dissipata la attuale forma mentis da libro nero. Io
credo che lo storico del futuro, se onesto, non potrà non prendere atto del
fatto che comunismo e rivoluzione coloniale su scala planetaria sono un unico
gigantesco e positivo fenomeno che ha man mano messo in crisi nel corso del
secolo ventesimo " il mondo di ieri". E già questo basterebbe, per
ribaltare gli schemi oggi dominanti.
Per il momento la questione che ci sta di fronte può essere così espressa:
pensiamo noi che un nuovo andamento della vicenda politica e sociale possa
avviare - come già avvenne per la rivoluzione francese - quel riassestamento
storiografico che permetta di leggere l'esperienza del socialismo nelle sue
giuste dimensioni e in un'ottica non più demonizzante? Non è facile dare una
risposta certa, anche se molti segnali fanno intendere che l'ondata di piena
della mistificazione è ben lunge dall'essere passata.
L'importante è che sia chiara la posta in gioco. Il recupero storiografico di
una parte più o meno grande dell'esperienza fascista e la contestuale
demonizzazione martellante dell'esperienza comunista non sono un'operazione
erudita: sono un'operazione politica con voluti effetti politici. Si tratta di
travolgere la nozione positiva di antifascismo (concetto che assume il fascismo
come male principale) e di fondare un ordine costituzionale conforme alle
aspirazioni di quei ceti che a suo tempo non esitarono ad avvallare appunto il
fascismo come rimedio.
Non ci lasceremo abbagliare dalla varietà degli argomenti e dei tentativi. Uno
è il punto di partenza, uno l'obiettivo: ribaltare il giudizio che era
consolidato nella coscienza degli italiani intorno all'esperienza fascista.
Qualche professore in cerca di gloria o qualche supergiornalista dirà che non è
vero: che c'è un ambito vastissimo in cui il revisionismo storiografico si è da
sempre esercitato e continua ad esercitarsi. Ma questa ovvietà, che nessuno
contesta, serve a mascherare il problema specifico. Esso riguarda il fascismo
italiano e la sua sdramatizzazione in funzione della politica italiana.
Il ragionamento parte dalla cosiddetta scoperta del consenso.
Apparente scoperta. Apparente per un duplice motivo: perché l'intuizione di
come il fascismo si fosse via via radicato, ferme restando le sue origini
violente e soprafattorie in un consenso di massa, era il cardine delle
fondamentali "Lezioni sul fascismo" di Palmiro Togliatti,
incentrate appunto sulla nozione del fascismo come "regime reazionario di
massa"; e inoltre perché quel consenso - che non fu né costante né
indiscusso - è stato per lo più documentato con il dubbio strumento delle ingannevoli
perché corrive carte di polizia. E andrebbe dunque studiato in modo ben
altrimenti critico.
L'implicazione di questa apparente scoperta è ben nota: trasformare il fascismo
in regime normale, magari un po' paternalistico ma non repressivo. L'ulteriore
corollario è la denuncia dell'età staliniana come unica vera esperienza
totalitaria. Essendosi peraltro il fascismo proposto come antitesi frontale del
bolscevismo, il corollario ulteriore è che qualcosa di molto buono vi doveva
essere in tale "primo della classe" dell'anticomunismo. Coronamento
del ragionamento è l'attacco alla nostra costituzione repubblicana ed ai suoi
principi fondanti, per essere essa stata scritta anche dai comunisti e comunque
da uomini che comunisti non erano ma che alcune delle istanze fondamentali del
comunismo accoglievano e apprezzavano: a cominciare dall'esordiale indicazione
(articolo 1) del lavoro come fondamento della Repubblica e dalla implicita
identificazione tra cittadino e lavoratore, a seguitare con l'articolo 3, ed il
suo impegno a "rimuovere gli ostacoli" di ordine sociale che
impedivano e tuttora impediscono l'effettiva uguaglianza tra i cittadini.
Orbene qui non si intende sottrarsi alla sfida. Il "velen
dell'argomento" ci è ben chiaro. Noi sappiamo che la principale battaglia
che tutti i democratici hanno da affrontare è proprio la difesa della
costituzione e in primo luogo dei suoi principi esemplarmente delineati nel
capitolo primo. E sappiamo anche che il vulnus più profondo finora inferto alla
costituzione è stata la modifica della legge elettorale, l'abbandono del
principio proporzionale, unico istituto che rispetti davvero l'istanza del
suffragio universale.
Tutto questo ci è chiaro, e la battaglia è ardua.
Ma il punto di partenza non ci sfugge, né intenderemo sfuggirvi, anzi lo
dobbiamo affrontare di petto. È la questione del consenso. L'Italia sta
scivolando verso un regime reazionario fondato sul consenso. Ed è
sui modi in cui oggi, diversamente che nel 1922-1926, il consenso si consegue
che le idee non sono sempre chiare.
Ma il processo è ormai molto avanzato. Le forme di creazione del consenso sono
molto più capillari e sofisticate e irresistibilmente pervasive che non in
passato: concomitanti con la radicale trasformazione del reclutamento stesso
del personale politico-parlamentare - ormai prevalentemente abbiente e
centrista - dovuto appunto al meccanismo elettorale maggioritario.
Orbene lo studio del modo in cui davvero il fascismo pervenne - in capo a
cinque lunghissimi anni dal 1921 (sua prima apparizione in parlamento) al 1926
(leggi eccezionali e messa fuori legge del PCI) - a dar vita ad un regime è
forse oggi il più istruttivo dei compiti intellettuali.
Forse la sinistra (il centro-sinistra) si fa qualche illusione sulle prossime
elezioni del 2006. A mio avviso, invece, la destra oggi al potere non cederà
facilmente il timone, non attenderà passivamente il responso delle urne. Farà
di tutto, ma proprio di tutto, per conservare il potere. Essi pensano di avere
ormai in pugno l'Italia per un lungo tempo. Pensano di averla riplasmata sotto
ogni riguardo. Noi non possiamo chiudere gli occhi su questa evidente verità.
Dal 1922 al 1926 il fascismo creò le premesse per restare al timone. Per prima
cosa abrogò il sistema elettorale proporzionale poi creò un blocco, un listone
unico nel quale imbarcò pezzi di tutte le formazioni politiche liberali e
cattoliche delle più varie sfumature. Quindi ricorse alla provocazione. E mi
riferisco non solo al rapimento di Matteotti. Ma alla provocazione imbastita
contro il partito comunista (l'arresto dei "corrieri" sorpresi alla
stazione di Pisa con volantini "eversivi" come prova della imminente
"eversione comunista"): donde l'arresto di Gramsci e degli altri
dirigenti; donde la creazione del tribunale speciale, donde il mostruoso
"processone"; e alla fine l'attentato oscuro di Bologna e la
sospensione degli altri partiti.
Questo crescendo è uno scenario che sembra arcaico ma è un modello ancora
utilizzabile.
Ben venga l'invito a studiare come davvero il fascismo giunse al potere e si
affermò. Non ne caveremo, come si vorrebbe, la tranquillizzante immagine di un
regime tutto sommato "normale" (tenendo conto anche dei tempi
perigliosi in cui nacque), ma l'allarmante scenario ancora ripetibile, mutati
lo stile e gli strumenti, di come si demolisce una democrazia.
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