[...]
Dopo la sconfitta del 1849 non condividemmo in nessun modo
le illusioni della democrazia volgare raccolta attorno ai governi provvisori
futuri in partibus. Questa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta
per tutte, del "popolo" sugli "oppressori"; noi su una
lotta lunga, dopo l'eliminazione degli "oppressori", tra gli elementi
contraddittori che si celavano precisamente in questo "popolo". La
democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall'oggi al domani; noi
dichiaravamo già nell'autunno 1850 che almeno il primo capitolo del periodo
rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo
scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando
come traditori della rivoluzione da quegli stessi che in seguito fecero tutti,
quasi senza eccezione, la pace con Bismarck, nella misura in cui Bismarck trovò
che ne valeva la pena.
Ma la storia ha dato torto anche a noi; ha rivelato che la
nostra concezione d'allora era una illusione. La storia è andata anche più
lontano; essa non ha soltanto demolito il nostro errore di quel tempo; essa ha
pure sconvolto le condizioni in cui il proletariato ha da lottare. Il modo di
combattere del 1848 è oggi sotto tutti gli aspetti antiquato, e questo è un
punto che in questa occasione merita di essere esaminato più da vicino.
Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla
sostituzione del dominio di una classe con quello di un'altra; ma sinora tutte
le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del
popolo dominata. Così una minoranza dominante veniva rovesciata, un'altra
minoranza prendeva il suo posto al timone dello Stato, e rimodellava le
istituzioni politiche secondo i propri interessi. E ogni volta si trattava di
quel gruppo di minoranza che le condizioni dello sviluppo economico rendevano
atto e chiamavano al potere, e appunto per questo e soltanto per questo
avveniva che la maggioranza dominata partecipava al rivolgimento schierandosi a
favore di quella minoranza, oppure si adattava tranquillamente al rivolgimento
stesso. Ma se prescindiamo dal contenuto concreto di ogni caso, la forma comune
di tutte quelle rivoluzioni consisteva nel fatto che esse erano tutte
rivoluzioni di minoranze. Anche quando la maggioranza prendeva in esse una
parte attiva, lo faceva soltanto, coscientemente o no, al servizio di una
minoranza; questo fatto però, o anche solo il fatto dell'atteggiamento passivo
e della mancanza di resistenza della maggioranza, dava alla minoranza
l'apparenza di essere rappresentante di tutto il popolo.
Dopo il primo grande successo la minoranza vittoriosa in
generale si scindeva: una metà era soddisfatta dei risultati raggiunti, l'altra
voleva andare più avanti e presentava nuove rivendicazioni, che corrispondevano
almeno in parte all'interesse reale o apparente della grande massa popolare.
Queste rivendicazioni più radicali vennero in certi casi anche realizzate, ma
spesso solo per un momento, ché il partito più moderato prendeva di nuovo il
sopravvento e le ultime conquiste andavano in tutto o in parte perdute di
nuovo. Gli sconfitti gridavano allora al tradimento, o attribuivano la
sconfitta al caso. In realtà però le cose stavano per lo più a questo modo: le
conquiste della prima vittoria non erano state assicurate che dalla seconda
vittoria del partito più radicale; raggiunto questo punto, e quindi anche ciò
che era momentaneamente necessario, i radicali e i loro successi sparivano
nuovamente dalla scena.
Tutte le rivoluzioni dell'età moderna, incominciando dalla
grande rivoluzione inglese del secolo XVII, hanno presentato questi lineamenti,
che sembravano inseparabili da ogni lotta rivoluzionaria. E sembrava che essi
fossero da applicarsi anche alle lotte del proletariato per la sua
emancipazione; tanto più applicabili in quanto proprio nel 1848 si potevano
contare sulle dita coloro che comprendessero anche solo in una certa misura in
quale direzione si dovesse cercare questa emancipazione. Persino a Parigi,
anche dopo la vittoria, le stesse masse proletarie non avevano nessuna idea
chiara circa la via da battere. Eppure il movimento esisteva, istintivo,
spontaneo, insopprimibile. Non era proprio quella la situazione in cui doveva
vincere la rivoluzione, diretta bensì da una minoranza, ma questa volta non
nell'interesse della minoranza, bensì nel più genuino interesse della
maggioranza? Se in tutti i periodi rivoluzionari un po' lunghi si erano potute
guadagnare così facilmente le grandi masse popolari anche solo mediante
plausibili miraggi presentati loro dalle minoranze che le spingevano avanti,
come avrebbero potuto essere meno accessibili a idee che erano il riflesso più
esatto della loro situazione economica, che non erano altro che l'espressione
chiara, razionale, dei loro bisogni, da loro stesse ancora incompresi, sentiti
soltanto in modo ancora confuso? E vero che questo stato d'animo rivoluzionarlo
delle masse aveva lasciato il posto quasi sempre, e per lo più molto presto, a
uno spossamento, e si era persino trasformato nel suo contrario, non appena,
svanita l'illusione, era subentrato il disinganno. Ma questa volta non si
trattava di miraggi, bensì della soddisfazione degli interessi genuini della
grande maggioranza stessa, interessi che non erano certamente chiari a questa
grande maggioranza, ma che presto, nel corso della realizzazione pratica,
avrebbero dovuto apparirle abbastanza chiari, con convincente evidenza. E se
nella primavera del 1850, come è dimostrato nel terzo articolo di Marx, lo
sviluppo della repubblica borghese sorta dalla rivoluzione "sociale"
del 1848, aveva concentrato il vero potere nelle mani della grande borghesia -
monarchica per giunta - e per contro aveva raggruppato tutte le altre classi
sociali, i contadini come i piccoli borghesi, attorno al proletariato, in modo
che durante e dopo la vittoria comune non esse, ma il proletariato agguerrito
dall'esperienza doveva diventare il fattore decisivo, non esistevano forse in
questa situazione tutte le prospettive di trasformare la rivoluzione della
minoranza in rivoluzione della maggioranza?
La storia ha dato torto a noi e a quelli che pensavano in
modo analogo. Essa ha mostrato chiaramente che lo stato dell'evoluzione
economica sul continente era allora ancor lungi dall'esser maturo per
l'eliminazione della produzione capitalistica; essa lo ha provato con la
rivoluzione economica che dopo il 1848 ha guadagnato tutto il continente e ha
veramente installato la grande industria in Francia, in Austria, in Ungheria,
in Polonia e da ultimo anche in Russia; che ha veramente fatto della Germania
un paese industriale di prim'ordine - tutto ciò su una base capitalistica,
capace quindi ancora nel 1848 di ben grande espansione. Ma è stata precisamente
questa rivoluzione industriale che ha fatto dappertutto luce sul rapporti di
classe, che ha eliminato una massa di forme di transizione provenienti dal
periodo della manifattura e, nell'Europa orientale, persino dall'artigianato
corporativo, che ha creato una vera borghesia e un vero proletariato della
grande industria e li ha spinti sulla scena dell'evoluzione sociale. Ma in
conseguenza di ciò la lotta tra queste due grandi classi, che nel 1848, fuori
dell'Inghilterra, esisteva soltanto a Parigi e tutt'al più in alcuni grandi
centri industriali, si è estesa per la prima volta a tutta l'Europa e ha
raggiunto un'intensità che nel 1848 non si poteva ancora concepire. Allora, i
numerosi e oscuri evangeli delle sette con le loro panacee; oggi l'unica teoria
di Marx universalmente riconosciuta, d'una chiarezza trasparente, e che formula
con precisione gli obiettivi finali della lotta. Allora, le masse divise e
distinte per località e nazionalità, legate soltanto dal sentimento delle
sofferenze comuni, poco sviluppate, gettate confusamente dall'entusiasmo alla
disperazione; oggi, un sologrande esercito internazionale di
socialisti, che avanza senza soste, e di cui si accrescono ogni giorno il
numero, l'organizzazione, la disciplina, la comprensione, la certezza della
vittoria. E se anche questo potente esercito del proletariato non ha ancora
raggiunto la meta, anche se esso, lungi dal conseguire la vittoria con una
sola grande battaglia, deve progredire, lentamente, di posizione in
posizione, con una lotta dura e tenace, ciò dimostra una volta per sempre come
fosse impossibile conquistare la trasformazione sociale del 1848 con un
semplice colpo di sorpresa.
[...]
Si trovò che le istituzioni dello Stato, in cui si organizza
il dominio della borghesia, offrono ancora altri appigli a mezzo dei quali la
classe operaia può combattere queste stesse istituzioni statali. Si partecipò
alle elezioni delle differenti Diete, dei consigli comunali, dei probiviri; si
contese alla borghesia ogni posto alla conquista del quale potesse partecipare
una parte sufficiente del proletariato. E così accadde che la borghesia e il
governo arrivarono a temere molto più l'azione legale che l'azione illegale del
partito operaio, più le vittorie elettorali che quelle della ribellione.
Anche qui infatti le condizioni della lotta avevano subito
un mutamento sostanziale. La ribellione di vecchio stile, la lotta di strada
con le barricate, che sino al 1848 erano state l'elemento decisivo in ultima
istanza, erano considerevolmente invecchiate.
Non facciamoci illusioni: una vera vittoria della
insurrezione sull'esercito nella lotta di strada, una vittoria come tra due
eserciti, è una delle cose più rare. Gli insorti stessi del resto ben di rado
avevano contato su di essa. Si trattava per essi soltanto di paralizzare le
truppe con influenze morali, che nella lotta tra gli eserciti di due paesi
belligeranti non entrano affatto in gioco o vi entrano in misura molto piccola.
Se la cosa riesce, la truppa rifiuta di marciare, oppure il comando perde la
testa, e l'insurrezione è vittoriosa. Se la cosa non riesce, anche se
l'esercito è inferiore come numero, si impone la superiorità derivante dal
migliore armamento e dalla migliore istruzione militare, dalla unità di
comando, dall'impiego razionale delle forze combattenti e dalla disciplina. Il
massimo che l'insurrezione può dare in un azione veramente tattica, è la
costruzione e la difesa razionale di una barricata singola. L'appoggio
reciproco, la disposizione e l'impiego delle riserve, in una parola, la
cooperazione e il collegamento nell'azione dei distaccamenti singoli,
indispensabili anche solo per la difesa di un solo rione della città, nonché di
tutta una grande città, per lo più non possono essere ottenuti o possono essere
ottenuti soltanto in modo estremamente difettoso. Della concentrazione delle
forze combattenti in un punto decisivo non si può dunque nemmeno parlare.
Perciò la resistenza passiva è la forma di lotta che prevale: l'attacco si
scatena qua e là, ma solo in via d'eccezione, sotto forma di incursioni e
attacchi di fianco occasionali; di regola però si riduce all'occupazione delle
posizioni abbandonate dalle truppe in ritirata. A questo si aggiunge ancora che
l'esercito dispone di artiglieria e di truppe del genio perfettamente equipaggiate
e istruite, mezzi di lotta che mancano quasi sempre agli insorti. Nessuna
meraviglia dunque che anche le lotte sulle barricate combattute col più grande
eroismo - a Parigi nel giugno 1848, a Vienna nell'ottobre 1848, e a Dresda nel
maggio 1849 - terminassero con la sconfitta dell'insurrezione, non appena i
capi che dirigevano l'attacco, immuni da riguardi politici, agirono con criteri
puramente militari e i soldati rimasero loro fedeli.
I numerosi successi degli insorti fino al 1848 furono dovuti
a cause molto varie. Nel luglio 1830 e nel febbraio 1848 a Parigi, come nella
maggior parte delle battaglie di strada spagnole, tra gli insorti e l'esercito
vi era una guardia civica, la quale o prendeva direttamente le parti
dell'insurrezione, oppure col proprio contegno fiacco e irresoluto faceva
esitare anche l'esercito e per di più forniva armi all'insurrezione. Là dove
questa guardia civica si schierò sin dall'inizio contro l'insurrezione, come
nel giugno 1848 a Parigi, questa venne senz'altro sconfitta. A Berlino la
vittoria del popolo fu dovuta nel 1848 in parte al notevole afflusso di nuove
forze armate durante la notte e il mattino del 19 marzo, in parte
all'esaurimento e al cattivo vettovagliamento delle truppe, in parte infine
alla paralisi del comando. Ma in tutti i casi la vittoria fu riportata perché
la truppa si rifiutò di obbedire; o perché i capi militari mancarono di
decisione o perché ebbero le mani legate.
Persino nell'epoca classica dei combattimenti di strada la
barricata aveva dunque un effetto più morale che materiale. Essa era un mezzo
per scuotere la resistenza dell'esercito. Se essa resisteva sino a che questo
effetto era raggiunto, la vittoria era sicura. Se no, si era battuti.
[È questo l'elemento principale che bisogna tener presente
anche quando si esaminano le probabilità di successo di eventuali futuri
combattimenti di strada.]
Le probabilità di successo erano del resto abbastanza
cattive già nel 1849. La borghesia si era gettata dappertutto dalla parte dei
governi; "cultura e proprietà" salutavano e trattavano festosamente
l'esercito impiegato contro le insurrezioni. La barricata aveva perduto il suo
fascino; il soldato non vedeva più dietro ad essa "il popolo" ma
ribelli, mestatori, saccheggiatori, spartitori di bottino, la feccia della
società; l'ufficiale aveva col tempo acquistato esperienza delle forme tattiche
del combattimento di strada; non marciava più diritto e senza coprirsi contro
la trincea improvvisata, ma la aggirava attraversando giardini, cortili e case.
E con un po' di abilità, in nove casi su dieci la cosa riusciva.
Ma da quel tempo si sono verificati moltissimi altri
cambiamenti, e tutti a favore dell'esercito. Se le grandi città sono diventate
notevolmente più grandi, gli eserciti si sono accresciuti ancora di più. Parigi
e Berlino non si sono quadruplicate dal 1848 ad oggi, ma le loro guarnigioni si
sono più che quadruplicate. Per mezzo delle loro guarnigioni possono più che
raddoppiarsi in ventiquattr'ore, e in quarantott'ore possono diventare eserciti
giganteschi. L'armamento di questa massa di soldati enormemente accresciuta è
diventato incomparabilmente più efficace. Nel 1848 il fucile non rigato a
percussione; oggi il fucile a ripetizione di piccolo calibro, che tira quattro
volte più lontano ed è dieci volte più preciso e dieci volte più rapido. Allora
le palle massicce e gli obici dell'artiglieria scarsamente efficaci, oggi le
granate a percussione, di cui una basta per mandare in aria la miglior
barricata. Allora il piccone dei soldati del genio per far breccia nei muri
divisori, oggi le cartucce di dinamite.
Dal lato degli insorti, al contrario, tutte le condizioni
sono diventate peggiori. Una insurrezione che attiri le simpatie di tutti gli
strati popolari è difficile si riproduca; nella lotta di classe non avverrà
infatti mai che tutti i ceti medi si raggruppino in modo così esclusivo attorno
al proletariato da far quasi scomparire il partito della reazione raccolto
attorno alla borghesia. "Il popolo" apparirà quindi sempre diviso, e
verrà perciò a mancare una leva potente che fu tanto efficace nel 1848. Se è
vero che dalla parte degli insorti vi sarà un maggior numero di uomini che
hanno compiuto il servizio militare, tanto più difficile sarà però il loro
armamento. I fucili da caccia e di lusso degli armaiuoli - se pure la polizia
non li avrà resi precedentemente inservibili asportando un pezzo
dell'otturatore - anche in una lotta a piccola distanza non reggono
assolutamente in confronto coi fucili a ripetizione dell'esercito. Fino al 1848
ci si poteva fabbricar da sé con polvere e piombo le necessarie munizioni; oggi
la cartuccia è diversa per ogni fucile, e tutte si assomigliano soltanto per il
fatto di essere un complicato prodotto della grande industria, e quindi
impossibile a improvvisarsi, di modo che la maggior parte delle armi sono
inservibili se non si posseggono le munizioni adatte ad esse. E infine, i nuovi
quartieri delle grandi città, costruiti dopo il 1848, a vie lunghe, diritte e
larghe, sembrano fatti apposta per l'azione dei nuovi cannoni e dei nuovi
fucili. Sarebbe pazzo il rivoluzionario che scegliesse di sua volontà i nuovi
distretti operai del nord e dell'est di Berlino per una lotta di barricate.
[...]
Comprende ora il lettore perché i poteri dominanti ci
vogliono ad ogni costo condurre là dove i fucili sparano e le sciabole fendono?
Perché oggi ci si accusa di vigliaccheria per il fatto che non scendiamo
senz'altro nella strada, dove siamo in precedenza sicuri della sconfitta?
Perché si invoca da noi con tanta insistenza che ci prestiamo una buona volta a
far la parte della carne da cannone?
I signori sciupano invano tanto i loro inviti quanto le loro
provocazioni. Non siamo così stupidi. Con egual ragione potrebbero pretendere
dal loro nemico che nella prossima guerra scenda in campo contro di essi in
formazioni di linea come ai tempi del vecchio Fritz, o a colonne di intere
divisioni, come a Wagram e a Waterloo, e per giunta munito di fucili a pietra.
Se sono cambiate le condizioni per la guerra tra i popoli, non meno sono
cambiate per la lotta di classe. È passato il tempo dei colpi di sorpresa,
delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse
incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni
sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già
aver compreso di che si tratta, per che cosa danno il loro sangue e la loro
vita. Questo ci ha insegnato la storia degli ultimi cinquant'anni. Ma affinché
le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e
paziente, e questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso, e con un
successo che spinge gli avversari alla disperazione.
[...]
L'ironia della storia capovolge ogni cosa. Noi, i
"rivoluzionari", I "sovversivi", prosperiamo molto meglio
coi mezzi legali che coi mezzi illegali e con la sommossa. I partiti
dell'ordine, com'essi si chiamano, trovano la loro rovina nell'ordinamento
legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente con Odilon
Barrot: la légalité nous tue, la legalità è la nostra morte; mentre noi in
questa legalità ci facciamo i muscoli forti e le guance fiorenti, e prosperiamo
ch'è un piacere. E se non commetteremo noi la pazzia di
lasciarci trascinare alla lotta di strada per far loro piacere, alla fine non
rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così
fatale.
Pel momento essi fanno nuove leggi contro la sovversione.
Tutto è di nuovo capovolto. Questi fanatici dell'antisovversione non sono essi
stessi i fautori di ieri della sovversione? Siamo forse stati noi a
provocare la guerra civile nel 1866? Siamo forse stati noi a
cacciare il re dell'Hannover, il principe elettore d'Assia, il duca di Nassau,
dai loro domini ereditari e legittimi e ad annettere questi domini? E questi
sovvertitori della Confederazione tedesca e di tre corone per grazia di Dio si
lamentano del sovversivismo? Quis tulerit Graccos de seditione querentes? Chi
permetterà che gli adoratori di Bismarck scaglino insulti contro i sovversivi?
Ma facciano pure le loro leggi contro i sovversivi; le
rendano pure anche più gravi; rendano pure di gomma elastica tutto il codice
penale; non otterranno altro che una prova di più della loro impotenza. Per
mettere sul serio alle strette la socialdemocrazia dovranno prendere ancora ben
altre misure. Alla sovversione socialdemocratica, che per il momento vive
nell'osservanza delle leggi, essi possono opporre solo la sovversione propria
del partito dell'ordine, la quale non può vivere senza violare le leggi. Il signor
Rössler, il burocrate prussiano, e il signor von Boguslawski, il generale
prussiano, hanno indicato loro la sola via seguendo la quale forse possono
ancora aver ragione degli operai, che decisamente non si lasciano più
trascinare alla lotta di strada. Violazione della Costituzione, dittatura,
ritorno all'assolutismo, regis voluntas suprema lex! Orsù, coraggio, signori
miei, qui non bastano le chiacchiere, qui bisogna far sul serio!
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